SECONDA GUERRA MONDIALE - Uni3 Ivrea

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20.05.2013 Views

nei 45 giorni di Badoglio e da questi duramente respinta – si trasforma in strumento di lotta e si cala nella clandestinità. Non c’è dubbio – tuttavia che la formazione di nuclei partigiani è contemporanea, se non addirittura – in qualche caso – precedente alle decisioni dei partiti politici. Il che conferma quanto ormai tutti gli storici unanimemente riconoscono, e cioè essere stato il fenomeno della Resistenza italiana un fatto del tutto spontaneo. Dovranno passare molte settimane prima che si realizzino alcuni modesti collegamenti iniziali fra organizzazione politica e movimento ribellistito. Le ragioni di ciò sono chiare: 1) il rapido passaggio dalla dittatura fascista al governo militare di Badoglio e il comportamento di quest’ultimo nei famosi 45 giorni non avevano permesso al popolo italiano di prendere contatto con i resuscitati partiti democratici; 2) nel caos generale seguito alla proclamazione dell’armistizio le difficoltà di comunicazione erano divenute di colpo enormi, in certi casi insuperabili; 3) fino all’ultimo, gli alti comandi territoriali avevano creato un diaframma tra forze armate e popolo; 4) i tedeschi avevano assunto un controllo abbastanza efficiente del paese. Eppure, nonostante tutto questo, la Resistenza nasce prontamente e – come si dirà vent’anni dopo per il Vietnam – si realizza «a pelle di leopardo». Due sono le zone in cui il fenomeno si sviluppa, prendendo di sorpresa i comandanti tedeschi Rommel (armate del Nord) e Kesselring (armate del Sud): la prima va dalle Alpi al Cecina e alle Marche; la seconda, nel Centro e nel Meridione, comprende la Maremma toscana, Roma e l’Abruzzo. La ricerca delle basi operative si accentra sulle Prealpi e sul pre-Appennino; così le formazioni sono più vicine ai centri di rifornimento della pianura e, nello stesso tempo, dispongono di linee di arretramento verso zone più impervie, dove la superiorità in armi, mezzi e uomini del nemico può essere bilanciata dalla difficoltà del terreno, amica del partigiano. Secondo Giorgio Bocca, storico della Resistenza, la consistenza del movimento ribellistico al 20 settembre 1943 è di non più di 1500 uomini, di cui mille al Nord. Può sembrare una stima per difetto, ma non lo è: le bande che si formano all’indomani dell’armistizio sono composte – veramente – da poche decine di uomini. Non siamo ancora alla grande rivolta, al grande furore del 1944, quando tanti giovani si getteranno nella lotta fino a raggiungere la cifra (indicata da uno storico imparziale come Max Salvadori) di 200.000. In quei giorni di confusione e di stordimento, mentre la calda estate 1943 si va dissolvendo, è una élite quella che sceglie la via della montagna. Migliaia di italiani scelgono la montagna In un primo tempo, gli organizzatori naturali di queste bande sono gli ex-ufficiali del Regio Esercito, che fascisti e tedeschi chiameranno poi con scherno «i badogliani». Non è tanto il gallone sulla manica che conferisce l’autorità di capo, quanto la riconosciuta capacità organizzativa, la grinta, il coraggio, la volontà di combattere. È così che soldati sbandati di tutte le regioni d’Italia, operai, contadini, studenti seguiranno magari piuttosto un sottotenente di vent’anni che un colonnello di quaranta. Il fatto è che colonnelli e generali – salvo alcune rimarchevoli eccezioni – hanno dato pessima prova di fronte all’uragano dell’8 settembre. In seguito, la direzione anche militare della lotta passerà ai «politici»: prima di tutto agli azionisti, che agitano il glorioso vessillo dei fratelli Rosselli – «Giustizia e Libertà» – poi ai socialisti e infine, con qualche ritardo, ai comunisti che peraltro riguadagneranno il tempo perduto gettandosi a capofitto nel movimento resistenziale,

utilizzando l’esperienza di vent’anni di cospirazione e quella bellica fatta nella guerra civile spagnola. Quali motivi spinsero quei primi millecinquecento sui sentieri delle montagne? Non va dimenticato che – contemporaneamente – centinaia di migliaia di militari, sfasciatosi l’esercito, non avevano altra meta che il rientro a casa. Il paese era in guerra da tre anni e la prospettiva di liberarsi finalmente dalla «naja» aveva un fascino irresistibile. Era la pace. Pochi si chiedevano se sarebbe stata davvero pace e, comunque, «quale» pace: l’importante era sbarazzarsi con la fuga di un passato di sofferenze nell’illusione che il sipario fosse calato, almeno per quanto riguardava l’Italia, sull’orrore della guerra. Naturalmente l’illusione durò poco. Per alcuni, non vi fu alcuna illusione, e furono appunto quelli che scelsero di ribellarsi. Un partigiano della Vai Pellice scrisse nelle sue memorie: «Sul marciapiede c’era qualcosa che luccicava. Si chinò a raccoglierla, era una stelletta militare. Se la mise in tasca e disse: “Ora che i soldati le buttano dobbiamo metterle noi”». È ovvio che dietro ogni partigiano c’è una storia individualissima; può essere anche – semplicemente – la storia di un militare che, deposta la divisa, rimane vicino alla ragazza con la quale ha intrecciato una relazione; può essere la storia di un giovane dell’estremo Sud che non riesce a raggiungere il paese perché l’armistizio lo ha colto in un reggimento stanziato nell’estremo Nord. Ma, più ragionatamente, si possono identificare otto motivazioni per la scelta della montagna: 1) Molti, soprattutto fra gli ufficiali, hanno correttamente interpretato il pur ambiguo messaggio di Badoglio e si sentono impegnati ad obbedire al governo legittimo e al capo legittimo dello Stato, Vittorio Emanuele III, per quanto complice fino a ieri del fascismo; per questi uomini si tratta di tenere fede al giuramento prestato quando indossarono l’uniforme e per loro la politica non c’entra; 2) L’odio verso i tedeschi. Presente negli italiani come un virus da generazioni, per note e ottime ragioni storiche, questo odio riemerge con la caduta di Mussolini ed esplode incontenibile di fronte al comportamento arrogante e feroce delle truppe naziste dopo l’armistizio; senza contare le recenti amare esperienze dei nostri soldati sul fronte orientale e in Nord Africa a proposito della prepotenza e dell’egoismo dei tedeschi; 3) L’odio verso il fascismo. Il 25 luglio ha dato la misura dell’impopolarità del regime, che le privazioni e i lutti della guerra – guerra indiscutibilmente fascista – ha esasperato; ci si accorge presto che nell’Italia occupata dai tedeschi risorge lo squadrismo, e che è della peggiore specie; 4) La protesta contro lo sfascio e la perdita di dignità del paese. È un sentimento primordiale che su molti agisce come una frustata all’orgoglio individuale e nazionale; 5) La volontà di sottrarsi alla cattura da parte dei tedeschi. Non c’è città né borgo d’Italia che non abbia visto passare tradotte di giovani chiusi nei carri bestiame o colonne di autocarri carichi di internati. Se la prospettiva della prigionia mai è allettante, tanto meno lo è quando si sa che il custode è più boia che carceriere; 6) Lo spirito d’avventura. Certo, anche questo può avere contato; ma non c’è forse in tutti i grandi eventi della storia una buona dose di spirito d’avventura? Ci fu nelle Crociate, nel viaggio di Colombo, nelle imprese un po’ matte di Garibaldi, persino nell’emigrazione del «passaporto rosso». La montagna è, per molti giovani ribelli. l’avventura per la causa giusta; 7) Il timore della vendetta per il ritorno del fascismo. Naturalmente questa spinta agisce solo su coloro che fascisti furono e per i quali è prevedibile un «redde rationem» che gli inferociti neosquadristi promettono senza mezzi termini; 8) L’impegno politico. Esso riguarda – è ovvio – solo la crema del movimento partigiano: pochi giovani, perché il fascismo non ha permesso che si formasse una cultura e una

nei 45 giorni di Badoglio e da questi duramente respinta – si trasforma in strumento di<br />

lotta e si cala nella clandestinità.<br />

Non c’è dubbio – tuttavia che la formazione di nuclei partigiani è contemporanea, se non<br />

addirittura – in qualche caso – precedente alle decisioni dei partiti politici. Il che conferma<br />

quanto ormai tutti gli storici unanimemente riconoscono, e cioè essere stato il fenomeno<br />

della Resistenza italiana un fatto del tutto spontaneo. Dovranno passare molte settimane<br />

prima che si realizzino alcuni modesti collegamenti iniziali fra organizzazione politica e<br />

movimento ribellistito. Le ragioni di ciò sono chiare: 1) il rapido passaggio dalla dittatura<br />

fascista al governo militare di Badoglio e il comportamento di quest’ultimo nei famosi 45<br />

giorni non avevano permesso al popolo italiano di prendere contatto con i resuscitati partiti<br />

democratici; 2) nel caos generale seguito alla proclamazione dell’armistizio le difficoltà di<br />

comunicazione erano divenute di colpo enormi, in certi casi insuperabili; 3) fino all’ultimo,<br />

gli alti comandi territoriali avevano creato un diaframma tra forze armate e popolo; 4) i<br />

tedeschi avevano assunto un controllo abbastanza efficiente del paese.<br />

Eppure, nonostante tutto questo, la Resistenza nasce prontamente e – come si dirà<br />

vent’anni dopo per il Vietnam – si realizza «a pelle di leopardo». Due sono le zone in cui il<br />

fenomeno si sviluppa, prendendo di sorpresa i comandanti tedeschi Rommel (armate del<br />

Nord) e Kesselring (armate del Sud): la prima va dalle Alpi al Cecina e alle Marche; la<br />

seconda, nel Centro e nel Meridione, comprende la Maremma toscana, Roma e l’Abruzzo.<br />

La ricerca delle basi operative si accentra sulle Prealpi e sul pre-Appennino; così le<br />

formazioni sono più vicine ai centri di rifornimento della pianura e, nello stesso tempo,<br />

dispongono di linee di arretramento verso zone più impervie, dove la superiorità in armi,<br />

mezzi e uomini del nemico può essere bilanciata dalla difficoltà del terreno, amica del<br />

partigiano.<br />

Secondo Giorgio Bocca, storico della Resistenza, la consistenza del movimento ribellistico<br />

al 20 settembre 1943 è di non più di 1500 uomini, di cui mille al Nord. Può sembrare una<br />

stima per difetto, ma non lo è: le bande che si formano all’indomani dell’armistizio sono<br />

composte – veramente – da poche decine di uomini. Non siamo ancora alla grande rivolta,<br />

al grande furore del 1944, quando tanti giovani si getteranno nella lotta fino a raggiungere<br />

la cifra (indicata da uno storico imparziale come Max Salvadori) di 200.000. In quei giorni<br />

di confusione e di stordimento, mentre la calda estate 1943 si va dissolvendo, è una élite<br />

quella che sceglie la via della montagna.<br />

Migliaia di italiani scelgono la montagna<br />

In un primo tempo, gli organizzatori naturali di queste bande sono gli ex-ufficiali del Regio<br />

Esercito, che fascisti e tedeschi chiameranno poi con scherno «i badogliani». Non è tanto il<br />

gallone sulla manica che conferisce l’autorità di capo, quanto la riconosciuta capacità<br />

organizzativa, la grinta, il coraggio, la volontà di combattere. È così che soldati sbandati di<br />

tutte le regioni d’Italia, operai, contadini, studenti seguiranno magari piuttosto un<br />

sottotenente di vent’anni che un colonnello di quaranta. Il fatto è che colonnelli e generali<br />

– salvo alcune rimarchevoli eccezioni – hanno dato pessima prova di fronte all’uragano<br />

dell’8 settembre. In seguito, la direzione anche militare della lotta passerà ai «politici»:<br />

prima di tutto agli azionisti, che agitano il glorioso vessillo dei fratelli Rosselli – «Giustizia e<br />

Libertà» – poi ai socialisti e infine, con qualche ritardo, ai comunisti che peraltro<br />

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