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SECONDA GUERRA MONDIALE - Uni3 Ivrea

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endono difficile la vita e l’attività alle nostre forze. Il generale Infante rimpatria; i<br />

reparti italiani, dispersi, finiscono in campi di concentramento.<br />

Più irto di difficoltà, per tanti aspetti, il panorama dell’Albania dove i tedeschi –<br />

costituito fulmineamente un controllo sugli aeroporti del paese fin dalla sera del 9<br />

settembre – occupano nelle ore seguenti Valona, Santi Quaranta, Elbassan, Dibra.<br />

L’indomani il comando italiano del Gruppo Armate Est raggiunge un singolare accordo<br />

con i tedeschi: accetta un parziale disarmo consegnando artiglierie e mortai ma non si<br />

accorge che si tratta soltanto di una manovra per guadagnare tempo. L’11 settembre,<br />

infatti, i tedeschi – riusciti ad avere in pugno i gangli del paese – impongono la<br />

deportazione dei soldati italiani in Germania. L’alto comando accetta per «salvare il<br />

possibile». Nelle ore seguenti parte della divisione «Brennero» si imbarca per l’Italia, si<br />

sbandano la «Parma» e la «Puglie» mentre la «Perugia» attirata con un tranello sulla<br />

costa fra Porto Palermo e Santi Quaranta, è massacrata dai tedeschi: tutti i suoi ufficiali,<br />

oltre 150, vengono fucilati assieme al comandante, generale Chiminiello, e al suo capo<br />

di Stato Maggiore, Bernardelli.<br />

Il 21 settembre gli ufficiali della Divisione «Firenze» sono chiamati a rapporto dal<br />

generale Arnaldo Azzi il quale dichiara di «rifiutarsi di obbedire all’ordine di resa» e<br />

lascia liberi tutti di scegliere «fra la prigionia e la lotta». Sono 10.000 i soldati e 300 gli<br />

ufficiali che decidono di combattere contro i tedeschi e gli scontri divampano per tre<br />

giorni finché la divisione è costretta a ripiegare. Ma alcuni reparti (come il Reggimento<br />

Cavalleggeri del Monferrato e il battaglione Zignani) resistono a lungo attorno a Pezzo e<br />

ad Albona e finiscono per unirsi a reparti di partigiani albanesi, con due batterie della<br />

«Firenze» e della «Arezzo», costituendo vere e proprie nuove unità combattenti (il<br />

Battaglione Antonio Gramsci, ad esempio) che lotteranno sino alla fine della guerra.<br />

Migliore, invece, è la situazione nel Montenegro e in Dalmazia. Gli ordini di disarmo e di<br />

resa, che arrivano il giorno 11 settembre, hanno un’influenza assai minore e circoscritta<br />

perché proprio in queste regioni la lotta è stata più aspra, prima dell’8 settembre, e i<br />

reparti – constatando l’inefficienza o l’inettitudine degli Alti Comandi – hanno assunto<br />

maggiore autonomia. Alla data dell’armistizio in Montenegro sono dislocate quattro<br />

divisioni italiane: la «Taurinense» (comandante generale Lorenzo Vivalda) in<br />

trasferimento verso la costa con il 4° Alpini nella zona di Niksic e il 3° Alpini in<br />

movimento da Viluse a Castelnuovo; l’«Emilia» (comandante generale Ugo Buttà) a<br />

presidio delle Bocche di Cattaro; la «Venezia» (comandante generale Giovanni Battista<br />

Oxilia) nelle montagne fra Berane-Andrejevika-Kolascin e la «Ferrara» (comandante<br />

generale Antonio Franceschini) a presidio di Cettigne-Podgoriča e dintorni.<br />

Tutti i generali – Oxilia in testa – rifiutano l’ordine di resa e dovunque si accendono i<br />

combattimenti con i tedeschi. Oxilia riesce, attraverso una stazione radio<br />

particolarmente potente recuperata dai reparti del genio della «Venezia» a mettersi in<br />

contatto col comando supremo di Brindisi. Si tratta di un breve colloquio, altamente<br />

drammatico pur nella sua semplicità:<br />

Oxilia: « – SOS – SOS – SOS – Stazione italiana nei Balcani. Comando Divisione<br />

Venezia».<br />

Italia: «Ripetete più volte il vostro nominativo».<br />

Oxilia: «SOS – SOS – SOS – Divisione Venezia».<br />

Italia: «Chi siete?».<br />

Oxilia: «Divisione Venezia qui Montenegro».<br />

Italia: «Ripetete, ripetete».<br />

Oxilia: «Divisione Venezia in Montenegro».<br />

Italia: «Siamo a vostra disposizione. Che cosa volete?».

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