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SECONDA GUERRA MONDIALE - Uni3 Ivrea

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dare una svolta al conflitto in Italia, non si farà più e potremo ringraziarne il generale<br />

Carboni.<br />

Il quale, all’alba dell’8 settembre, scompare abbandonando le sue truppe. Si rifà vivo<br />

parecchie ore dopo ad Arsoli, piccola località sulla strada che da Roma porta a Pescara: è<br />

in borghese e con lui c’è il figlio capitano, anche lui in borghese. Mentre a Roma soldati e<br />

civili già si fanno massacrare dai tedeschi, il generale Carboni fa colazione con un’attrice<br />

del cast che, ad Arsoli, sta girando un filmetto, La freccia nel fianco.<br />

Nei giorni successivi Carboni, ritornato a Roma, sembra riscattarsi: partecipa col<br />

maresciallo Caviglia ai disordinati tentativi di tenere a bada i tedeschi, è anche uno dei<br />

pochi alti ufficiali a capire che la guerra sta trasformandosi in guerriglia partigiana e dà<br />

ordine di distribuire armi al popolo. Ma ormai è tardi, Roma è caduta. Il 13 settembre tutto<br />

è finito.<br />

Il tribunale lo assolve<br />

Nell’agosto del 1944 una commissione d’inchiesta stabilisce che Carboni è tra i maggiori<br />

responsabili della mancata difesa di Roma. C’è un mandato di cattura, al quale il generale<br />

si sottrae – si dice – con l’aiuto americana (ma è difficile credere che gli americani, dopo il<br />

catastrofico incontro Taylor-Carboni, si siano dati da fare per lui). Nel febbraio del 1949 il<br />

tribunale militare lo assolve. Nel 1951, strascico dell’inchiesta militare e decisione di<br />

mettere il generale Carboni in congedo assoluto. Ma poi il governo, in extremis, ne salva la<br />

reputazione passandolo alla riserva. Anche questa doccia scozzese di sentenze e di<br />

provvedimenti dimostra come sia difficile pronunciare un giudizio sulla controversa figura<br />

del generale che doveva salvare Roma dall’occupazione nazista e non la fece (o non poté<br />

farlo?).<br />

Giacomo Carboni è morto a Roma, il 1° dicembre 1973. Aveva trascorso gli ultimi anni in<br />

grande solitudine: il figlio Guido, capitano di cavalleria, era caduto in combattimento<br />

contro i tedeschi, nel 1945, sul fronte di Ravenna.<br />

Lucio Ceva<br />

Un esercito disgregato<br />

La disgregazione delle forze armate italiane all’8 settembre è totale. Qualche focolaio di<br />

resistenza, ma senza nessuna direttiva militare<br />

Il segreto sull’armistizio conservato fino all’ultimo da Badoglio condannò in anticipo<br />

l’esercito italiano alla dissoluzione e alla rotta completa. Tuttavia, in molti casi, pur<br />

abbandonati dai comandi supremi, ufficiali e reparti seppero opporsi ai tedeschi e dare<br />

prova di valore e di coraggio mentre va rilevato – come fa Roberto Battaglia nella sua<br />

Storia della Resistenza italiana, Einaudi, Torino 1964 – che nelle grandi città industriali del<br />

Nord, Milano e Torino, mancò qualsiasi direttiva militare e, commenta lo storico, «questo<br />

non avvenne a caso».<br />

Nelle grandi città industriali, più che in ogni altro luogo, i generali responsabili della difesa<br />

conservarono fino all’ultimo momento quella egoistica visione di classe che forma come il<br />

filo che ricuce tutti gli avvenimenti del periodo badogliano, elusero con ogni sorta d’inganni<br />

le pressanti richieste di partecipare alla lotta e decisero in ultimo che era preferibile<br />

consegnare le armi ai tedeschi piuttosto che agli operai. Così accadde a Milano, dove il<br />

generale Ruggero, malgrado che la sera del 9 fosse stato respinto da un gruppo di civili il<br />

tentativo tedesco d’impadronirsi della stazione, stipulò un accordo con i tedeschi in base al

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