SECONDA GUERRA MONDIALE - Uni3 Ivrea

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20.05.2013 Views

aveva temuto per molti anni Mussolini. Qualcuno, allora giovane ufficiale nella piccola corte del 1944, ci ha descritto il re mentre racconta ad un generale il momento in cui poco tempo prima era stato quasi costretto a cedere i poteri ad Umberto nominandolo «luogotenente». Destinatario delle confidenze è il generale Messe. Il racconto del sovrano si chiude con una battuta quasi gridata: «E questa mano, Badoglio ha cercato di baciarla… che schifo!”. Si dice che Vittorio Emanuele fosse stato represso e inaridito nell’adolescenza da un’educazione troppo severa. Veramente la cordialità di rapporti conservata col suo capoprecettore colonnello Osio non confermerebbe questa ipotesi. Del resto non si conoscono gravi insuccessi nella sua vita privata: non il matrimonio; meno ancora certe prime dolcezze giovanili di Napoli negli anni in cui vi aveva risieduto all’inizio della carriera militare. Dei suoi cinque nomi (Vittorio Emanuele Ferdinando Maria Gennaro) i primi quattro, d’antica tradizione sabauda, rispecchiano quelli di due grandi avi, il primo re d’Italia e il popolarissimo prozio duca di Genova. Ma Gennaro è il patrono di quella Napoli di cui fu principe e alla quale ci piace immaginare sia tornato col pensiero anche negli anni tristi dell’esilio ad Alessandria d’Egitto dove si spense il 28 dicembre 1947 a 78 anni d’età. Lucio Ceva Il commiato di Casa Savoia Sono quasi le otto di sera. Si fa buio. I lampioni diffondono una pallida luce azzurra. Il re e la regina hanno appena lasciato Villa Savoia. Si teme un colpo di mano. Radio Londra ha trasmesso un breve annuncio: l’Italia ha firmato l’armistizio. Per le strade qualche soldato butta all’aria la bustina, gridando: «È finita! È finita!»; delle donne piangono. Badoglio è andato negli studi dell’EIAR e ha inciso un disco. Il suo proclama avverte: «Ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane, in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza». Un’automobile varca il portone del ministero della Guerra, in via XX Settembre. Ne scendono Vittorio Emanuele III, che indossa la divisa grigioverde, ed Elena che porta un abito molto lungo e ha in testa un curioso cappellino tondo. Il re le dà il braccio; salgono le scale, attraversano stanze e saloni. Si rifugiano nell’appartamento destinato al ministro. Vittorio Emanuele critica i mobili che non sono di suo gusto. Siedono in un salotto, vicini. Elena passa un braccio attorno al collo di questo piccolo uomo stanco, dagli occhi freddi. Restano così, in silenzio, al buio. È l’ultima notte che trascorrono a Roma. Domattina, 9 settembre 1943, si metteranno in viaggio per Pescara. Sono passati sette mesi. Il sovrano ha deciso. Umberto diventerà luogotenente; quando la capitale sarà liberata, i poteri passeranno al principe. Non è stato facile convincerlo. «La Corona», afferma, «non ha responsabilità politiche». È vero che aveva accettato Mussolini (diceva del duce: «Ha una testa grande così, però è un ignorante») ma interpretando la volontà popolare. E quando si era reso conto che le camicie nere avevano fatto il loro tempo, non lo aveva forse congedato? Non tutti sono disposti ad accogliere le sue ragioni. «Sta di fatto», risponde Croce, «che finché rimane a capo dello Stato noi sentiamo che il fascismo non è finito, che esso ci rimane attaccato addosso, che continua a corroderci e a infiacchirci, che risorgerà più o meno camuffato».

Poi, Vittorio Emanuele non ha molta fiducia nelle doti del figlio; pensa che, per fare il re in questo momento, occorre una maggiore esperienza. A due diplomatici alleati, che cercano di sollecitare una decisione, risponde bruscamente: «La loro presenza mi infastidisce». È De Nicola che gli suggerisce una forma accettabile, così il 12 aprile 1944 chiama Umberto e gli comunica il suo proposito «definitivo e irrevocabile». «Vai a divertirti tu adesso», conclude. Badoglio ha gli occhi lucidi. «Maestà», esclama «servo Casa Savoia da quando ero ragazzo: non mi attendevo di arrivare a questo, lasciatemi piangere». Ha regnato quarantaquattro anni ma senza vocazione. Confida un giorno al suo aiutante, il generale Puntoni: «Non si può dire che da quando si è fondata l’Italia le cose siano andate favorevolmente per la mia casa. Solo mio nonno ne è uscito bene. Carlo Alberto dovette abdicare, mio padre fu assassinato. Non avevo nessuna intenzione di succedergli, ed era quasi convinto ad accogliere il mio proposito di rinunciare alla corona. Ma fu ucciso, e io, in quell’ora tragica, non potei rifiutare di salire al trono. Se lo avessi fatto, avrebbero detto che ero un vile». Si trasferisce a Villa Rosebery, a Napoli. «Non vuole sentire parlare di cose politiche», dice il ministro Acquarone. Può finalmente vivere come gli sarebbe sempre piaciuto, con le sue monete e i suoi libri, e pochi contatti umani. Esce in barca, e lo accompagna Gennaro, un vecchio pescatore, col quale scambia appena poche parole. Passeggia nel parco con Elena, prepara le sue memorie. Il 9 maggio 1946 scrive di suo pugno, su un foglio di carta da bollo da dodici lire, l’atto di rinuncia. Sbaglia data (6 maggio), poi corregge. Al suo notaio di fiducia, Angrisani, che con due testimoni lo assiste, dice: «Il testo dell’abdicazione è lo stesso che fu adottato da Carlo Alberto. Lo ricordo perfettamente». La regina è vestita a lutto. Il re si ritira nello studio con Umberto, e parlano a lungo. Gli consegna anche una lettera, che è una specie di testamento: «Tu sai che ho avuto un duro lavoro, mirando sempre, anche se posso avere errato, al bene della nazione». Quando la porta si apre il volto del re non tradisce alcun sentimento. Avverte il notaio che ha deciso di fare dono della sua collezione numismatica allo Stato italiano. Dall’estero gli avevano offerto un miliardo. Le cameriere e gli impiegati della piccola Corte stanno già preparando i bagagli: cinquantatré fra valigie e bauli. È ora di partire. Al molo San Vincenzo l’incrociatore Duca degli Abruzzi ha le macchine sotto pressione. Quando i sovrani escono il pescatore Gennaro si butta in ginocchio e cerca di baciare la mano al Re. Umberto accompagna i genitori. Sembra impassibile. Il comandante della nave non punta diritto verso l’alto mare, ma percorre lentamente tutto il golfo. Pensa che ai due vecchi faccia piacere vedere ancora quei luoghi cari. Vittorio Emanuele III si fermna a guardare una volta, due volte, poi si ritira sottocoperta. […] Il 10 maggio il nuovo re, con la consorte e i bambini, si affaccia al balcone del Quirinale. Una grande folla inneggia al sovrano, a quest’uomo che ha poco più di quarant’anni, ma che è già completamente calvo e ha il volto segnato. «Ma se ci applaudono così», commenta il piccolo Vittorio Emanuele, «vuol dire che ci vogliono bene». Non c’è da illudersi. «Se prenderemo un milione e mezzo di voti», dice la regina Maria José, che ha poche speranze, «chi sa che vergogna». «Non c’è da preoccuparsi», dice Benedetto Croce a Corrado Alvaro, «la Corona è rappresentata da tali cretini che crollerà da sé». Umberto sembra fatalista. Ha iniziato il suo regno ascoltando nella cappella, la mattina alle sette, una messa in compagnia della moglie. «C’è in lui», scrive Domenico Bartoli, «qualcosa di torbido: un alternarsi di misticismo e di ambigua sensualità».

Poi, Vittorio Emanuele non ha molta fiducia nelle doti del figlio; pensa che, per fare il re in<br />

questo momento, occorre una maggiore esperienza. A due diplomatici alleati, che cercano<br />

di sollecitare una decisione, risponde bruscamente: «La loro presenza mi infastidisce».<br />

È De Nicola che gli suggerisce una forma accettabile, così il 12 aprile 1944 chiama<br />

Umberto e gli comunica il suo proposito «definitivo e irrevocabile». «Vai a divertirti tu<br />

adesso», conclude.<br />

Badoglio ha gli occhi lucidi. «Maestà», esclama «servo Casa Savoia da quando ero<br />

ragazzo: non mi attendevo di arrivare a questo, lasciatemi piangere».<br />

Ha regnato quarantaquattro anni ma senza vocazione. Confida un giorno al suo aiutante, il<br />

generale Puntoni: «Non si può dire che da quando si è fondata l’Italia le cose siano andate<br />

favorevolmente per la mia casa. Solo mio nonno ne è uscito bene. Carlo Alberto dovette<br />

abdicare, mio padre fu assassinato. Non avevo nessuna intenzione di succedergli, ed era<br />

quasi convinto ad accogliere il mio proposito di rinunciare alla corona. Ma fu ucciso, e io,<br />

in quell’ora tragica, non potei rifiutare di salire al trono. Se lo avessi fatto, avrebbero detto<br />

che ero un vile».<br />

Si trasferisce a Villa Rosebery, a Napoli. «Non vuole sentire parlare di cose politiche», dice<br />

il ministro Acquarone. Può finalmente vivere come gli sarebbe sempre piaciuto, con le sue<br />

monete e i suoi libri, e pochi contatti umani. Esce in barca, e lo accompagna Gennaro, un<br />

vecchio pescatore, col quale scambia appena poche parole. Passeggia nel parco con Elena,<br />

prepara le sue memorie.<br />

Il 9 maggio 1946 scrive di suo pugno, su un foglio di carta da bollo da dodici lire, l’atto di<br />

rinuncia. Sbaglia data (6 maggio), poi corregge. Al suo notaio di fiducia, Angrisani, che con<br />

due testimoni lo assiste, dice: «Il testo dell’abdicazione è lo stesso che fu adottato da<br />

Carlo Alberto. Lo ricordo perfettamente». La regina è vestita a lutto. Il re si ritira nello<br />

studio con Umberto, e parlano a lungo. Gli consegna anche una lettera, che è una specie<br />

di testamento: «Tu sai che ho avuto un duro lavoro, mirando sempre, anche se posso<br />

avere errato, al bene della nazione».<br />

Quando la porta si apre il volto del re non tradisce alcun sentimento. Avverte il notaio che<br />

ha deciso di fare dono della sua collezione numismatica allo Stato italiano. Dall’estero gli<br />

avevano offerto un miliardo.<br />

Le cameriere e gli impiegati della piccola Corte stanno già preparando i bagagli:<br />

cinquantatré fra valigie e bauli. È ora di partire. Al molo San Vincenzo l’incrociatore Duca<br />

degli Abruzzi ha le macchine sotto pressione. Quando i sovrani escono il pescatore<br />

Gennaro si butta in ginocchio e cerca di baciare la mano al Re. Umberto accompagna i<br />

genitori. Sembra impassibile. Il comandante della nave non punta diritto verso l’alto mare,<br />

ma percorre lentamente tutto il golfo. Pensa che ai due vecchi faccia piacere vedere<br />

ancora quei luoghi cari. Vittorio Emanuele III si fermna a guardare una volta, due volte,<br />

poi si ritira sottocoperta. […]<br />

Il 10 maggio il nuovo re, con la consorte e i bambini, si affaccia al balcone del Quirinale.<br />

Una grande folla inneggia al sovrano, a quest’uomo che ha poco più di quarant’anni, ma<br />

che è già completamente calvo e ha il volto segnato. «Ma se ci applaudono così»,<br />

commenta il piccolo Vittorio Emanuele, «vuol dire che ci vogliono bene».<br />

Non c’è da illudersi. «Se prenderemo un milione e mezzo di voti», dice la regina Maria<br />

José, che ha poche speranze, «chi sa che vergogna».<br />

«Non c’è da preoccuparsi», dice Benedetto Croce a Corrado Alvaro, «la Corona è<br />

rappresentata da tali cretini che crollerà da sé».<br />

Umberto sembra fatalista. Ha iniziato il suo regno ascoltando nella cappella, la mattina alle<br />

sette, una messa in compagnia della moglie. «C’è in lui», scrive Domenico Bartoli,<br />

«qualcosa di torbido: un alternarsi di misticismo e di ambigua sensualità».

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