SECONDA GUERRA MONDIALE - Uni3 Ivrea
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Vittorio Emanuele III di Savoia Di lui una sola cosa nessuno ha mai detto che fosse stupido. E, possiamo aggiungere, non ebbe il difetto della retorica. A parte ciò, vi è solo l’imbarazzo della scelta: cinico, pavido, ingrato, meschino, formalista, gretto, avaro, complessato dalla sua pochezza fisica, numismatico pedante ed erudito ma privo di vera cultura, diffidente al punto di bruciare di persona i documenti che contraddicono la sua versione della storia e della politica, maligno e permaloso. Ma altre campane lo dipingono colto, timido e riservato ma a tempo debito coraggioso, delicato di sentimenti (ancora vecchio non torna da una caccia o da una passeggiata senza avere colto un mazzolino di fiori di campo per la regina). In questo mare di opposti si riconoscono i tratti fondamentali dei suoi 46 anni di regno. Gli manca l’amore del rischio del suo grande nonno Vittorio Emanuele II. Ma ha ben più da perdere dell’avo e ben di più finirà col perdere. Per il nonno la guerra del 1859 fu come un gigantesco Va banque! O ridursi a Monsù Savoia o diventare re d’Italia. Poi la guerra, meno grave del previsto, l’aveva lasciato per strada ma più vicino alla corona d’Italia che al Monsù. Il nipote invece, solo guerre «facili»: quella del 1915 che l’intervento italiano dovrebbe risolvere immediatamente e che in realtà stronca il paese lasciandolo vincitore ma con problemi ben più gravi di prima; quella del 1940, «già vinta» dai tedeschi e che spazzerà via tutto quanto avevano edificato quattro generazioni d’italiani, monarchia e colonie comprese. Vittorio Emanuele III non è uomo da coraggio a cavallo. Tuttavia la fermezza dimostrata nel 1917 a Peschiera, quando, di fronte ad alleati diffidenti, dichiara che si resisterà al Piave, è una pagina onorevole. Anche negli anni dell’emarginazione conserva pur sempre la fredda impassibilità della sua stirpe. «Spara ben male quel ragazzo!» si limita a dire il 17 maggio 1941 quando a Tirana un albanese gli scarica a bruciapelo cinque revolverate senza colpirlo. Né manca di un suo spiritaccio, quando, sbarcato a Brindisi nel 1943 col regno ridotto alla spazio occupato dai suoi piedi, ad un alto ufficiale alleato che gli chiede di che cosa abbia bisogno, risponde prontamente: «Una dozzina d’uova fresche per la regina». Accoglie Mussolini, rinnega Giolitti L’ingratitudine pare sia di prammatica nelle teste coronate. Clamorosa quella di re Vittorio versa Giolitti, lo statista che, dopo le burrasche di fine secolo, gli aveva procurato un decennio di tranquillo sviluppo culminato in una guerra coloniale mal condotta dai militari ma preparata e conclusa bene dalla diplomazia. La fiducia in Giolitti è probabilmente incrinata dall’attentato dell’anarchico D’Alba che pare riprendere una serie che si sperava chiusa per sempre con l’assassinio di Umberto I nel 1900. Forse il laissez faire sociale del ministro di Dronero non funziona più. Sarà bene tornare, con Salandra, alla mano forte, quella prediletta da Umberto e da Margherita? Non sembra, a giudicare dai risultati: la settimana rossa del 1914, un generale disarmato dai sovversivi di Mussolini e di Nenni, gli stemmi reali abbattuti, la repubblica proclamata in quel d’Ancona. Ma di Giolitti il re non ne vuole più sapere e, quando la sorte gliene offre il destro, opta per la guerra come medicina dei mali sociali e dei rischi della corona oltre che come irripetibile occasione d’ingrandimenti storici. Nel complotto di vertice per arrivare alla guerra, ingannando Giolitti e cercando copertura nelle chiassate di piazza, Vittorio Emanuele scende un gradino e comincia ad offuscare quella figura di re costituzionale che gli aveva conciliato molte simpatie anche tra socialisti moderati e repubblicani. Ma la scorrettezza costituzionale del 1915 si ripete mille volte più grave nel 1922 allorché, di fronte alla marcia su Roma, rifiuta di firmare il decreto di stato d’assedio e preferisce patteggiare con il capo della canaglia
fascista. La violenza dell’ex estremista Mussolini gli appare più convincente dei tentativi di raddrizzamento, opera degli ultimi esponenti liberali, fra cui come sempre più audace di tutti quella di Giolitti. Può darsi che a quel punto Giolitti sia superato, ma è avvilente ricordare che nel 1928, in piena fascismo, il re non andrà neppure ai suoi funerali e anzi non vi si farà nemmeno degnamente rappresentare. Quel funerale è seguito anche da uomini che rischiano qualcosa con la loro partecipazione. Lui, il re, non avrebbe rischiato nulla e avrebbe reso omaggio all’Italia liberale che aveva fatto la fortuna della sua Casa. Né molto di regale può vedersi, anni più tardi, nelle prese in giro postume dello statista che il re si permetterà di definire «callido» e «ignorante» e, per di più, chiacchierando con un Ciano qualsiasi. Ma Vittorio Emanuele è, come tutti, un impasto di umori e qualità contraddittorie difficile da classificare. Si è scritto che il coraggio che gli mancava era quella morale, il superare i timori e i disagi momentanei per seguire una coerenza profonda. Forse si può dire che l’ultimo re d’Italia quel coraggio lo perse per strada e lo ritrovò solo saltuariamente. Non gli era mancato all’inizio del regno quando aveva dimostrato di avere nello Statuto e nel sistema liberale quella fiducia che ormai mancava a troppi uomini politici. Non lo ritrova nel 1922 alla marcia su Roma e tanto meno nel 1924-25 durante la crisi Matteotti quando la situazione è più chiara e quando solidarietà e incoraggiamenti non gli mancano davvero. Non lo ritrova nel 1938-39 quando il consenso borghese intorno al fascismo comincia a venarsi di preoccupazioni che inducono molti a guardare al re. Ma il re firma le leggi razziali e, al pari di tanti italiani, si lascia vivere, va avanti giorno per giorno finché, nell’estate 1940, al momento delle vittorie tedesche, ritorna anche lui mussoliniano con riserva. Così ha lasciato gettare il paese nella tragedia con la sola prospettiva di qualche nuova «foglia di carciofo» territoriale da poter aggiungere al bottino di famiglia. Un coraggio tardivo Per queste sue colpe non pagherà neppure molto: la perdita della corona e un esilio senza strettezze materiali sono castighi di lusso paragonati alle tragedie di tanti poveracci. Però dall’inverno 1940-41 il re ha imboccato la via del ritorno, pur con le incertezze dovute agli alti e bassi della guerra. E il coraggio gli rinasce al 25 luglio che è sola opera sua. Si trova – è vero – stretto da una situazione inesorabile ma non ancora alle corde tanto che ha aspettato silenzioso e cocciuto l’avverarsi di certe sue fisime politiche e costituzionali, mentre da mesi tutti gli facevano fretta, a parole. Non è certo pavido il re che il suo aiutante Puntoni ci ha descritto mentre «passeggia su e giù per la sala» preparandosi al non facile colloquio fin quando alle 16.55 compare in fondo al viale di villa Savoia l’auto di Mussolini. La capacità di dire sulla faccia a Mussolini che dopo vent’anni deve andarsene, anzi che lo ha già sostituito, è sua. È lui che, pur nella concitazione, trova parole appropriate come «L’Italia è in tocchi» o come la qualifica di «straccioni» applicata ai gerarchi Buffarini e Farinacci. Purtroppo è un coraggio tardivo che, aggravato dal fardello dell’8 settembre, non lo salverà agli occhi degli italiani. Il re di Brindisi e di Napoli ha qualcosa di patetico: forse ha giocato il futuro della dinastia con la sua ostinazione nel non voler abdicare nonostante le pressioni degli Alleati, i consigli di Badoglio, di Croce e di altri monarchici esperti. Eccessivo attaccamento al trono ancorché vacillante? Convinzione di non avere mai avuto alcun torto? Forse. Noi crediamo soprattutto all’illusione senile nella sua capacità di sgravare da solo la corona dal fascismo e dalla sconfitta per poterla riconsegnare pulita al figlio Umberto. Con nessun capo del governo Vittorio Emanuele ha rapporti tesi come con Badoglio. Lo aveva sempre, e forse non a torto, sospettato di ambizioni personali e non lo temeva come
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Di lui una sola cosa nessuno ha mai detto che fosse stupido. E, possiamo aggiungere, non<br />
ebbe il difetto della retorica. A parte ciò, vi è solo l’imbarazzo della scelta: cinico, pavido,<br />
ingrato, meschino, formalista, gretto, avaro, complessato dalla sua pochezza fisica,<br />
numismatico pedante ed erudito ma privo di vera cultura, diffidente al punto di bruciare di<br />
persona i documenti che contraddicono la sua versione della storia e della politica, maligno<br />
e permaloso. Ma altre campane lo dipingono colto, timido e riservato ma a tempo debito<br />
coraggioso, delicato di sentimenti (ancora vecchio non torna da una caccia o da una<br />
passeggiata senza avere colto un mazzolino di fiori di campo per la regina).<br />
In questo mare di opposti si riconoscono i tratti fondamentali dei suoi 46 anni di regno. Gli<br />
manca l’amore del rischio del suo grande nonno Vittorio Emanuele II. Ma ha ben più da<br />
perdere dell’avo e ben di più finirà col perdere. Per il nonno la guerra del 1859 fu come un<br />
gigantesco Va banque! O ridursi a Monsù Savoia o diventare re d’Italia. Poi la guerra,<br />
meno grave del previsto, l’aveva lasciato per strada ma più vicino alla corona d’Italia che al<br />
Monsù. Il nipote invece, solo guerre «facili»: quella del 1915 che l’intervento italiano<br />
dovrebbe risolvere immediatamente e che in realtà stronca il paese lasciandolo vincitore<br />
ma con problemi ben più gravi di prima; quella del 1940, «già vinta» dai tedeschi e che<br />
spazzerà via tutto quanto avevano edificato quattro generazioni d’italiani, monarchia e<br />
colonie comprese.<br />
Vittorio Emanuele III non è uomo da coraggio a cavallo. Tuttavia la fermezza dimostrata<br />
nel 1917 a Peschiera, quando, di fronte ad alleati diffidenti, dichiara che si resisterà al<br />
Piave, è una pagina onorevole. Anche negli anni dell’emarginazione conserva pur sempre<br />
la fredda impassibilità della sua stirpe. «Spara ben male quel ragazzo!» si limita a dire il 17<br />
maggio 1941 quando a Tirana un albanese gli scarica a bruciapelo cinque revolverate<br />
senza colpirlo. Né manca di un suo spiritaccio, quando, sbarcato a Brindisi nel 1943 col<br />
regno ridotto alla spazio occupato dai suoi piedi, ad un alto ufficiale alleato che gli chiede<br />
di che cosa abbia bisogno, risponde prontamente: «Una dozzina d’uova fresche per la<br />
regina».<br />
Accoglie Mussolini, rinnega Giolitti<br />
L’ingratitudine pare sia di prammatica nelle teste coronate. Clamorosa quella di re Vittorio<br />
versa Giolitti, lo statista che, dopo le burrasche di fine secolo, gli aveva procurato un<br />
decennio di tranquillo sviluppo culminato in una guerra coloniale mal condotta dai militari<br />
ma preparata e conclusa bene dalla diplomazia. La fiducia in Giolitti è probabilmente<br />
incrinata dall’attentato dell’anarchico D’Alba che pare riprendere una serie che si sperava<br />
chiusa per sempre con l’assassinio di Umberto I nel 1900. Forse il laissez faire sociale del<br />
ministro di Dronero non funziona più. Sarà bene tornare, con Salandra, alla mano forte,<br />
quella prediletta da Umberto e da Margherita? Non sembra, a giudicare dai risultati: la<br />
settimana rossa del 1914, un generale disarmato dai sovversivi di Mussolini e di Nenni, gli<br />
stemmi reali abbattuti, la repubblica proclamata in quel d’Ancona. Ma di Giolitti il re non ne<br />
vuole più sapere e, quando la sorte gliene offre il destro, opta per la guerra come<br />
medicina dei mali sociali e dei rischi della corona oltre che come irripetibile occasione<br />
d’ingrandimenti storici. Nel complotto di vertice per arrivare alla guerra, ingannando Giolitti<br />
e cercando copertura nelle chiassate di piazza, Vittorio Emanuele scende un gradino e<br />
comincia ad offuscare quella figura di re costituzionale che gli aveva conciliato molte<br />
simpatie anche tra socialisti moderati e repubblicani. Ma la scorrettezza costituzionale del<br />
1915 si ripete mille volte più grave nel 1922 allorché, di fronte alla marcia su Roma, rifiuta<br />
di firmare il decreto di stato d’assedio e preferisce patteggiare con il capo della canaglia