SECONDA GUERRA MONDIALE - Uni3 Ivrea

SECONDA GUERRA MONDIALE - Uni3 Ivrea SECONDA GUERRA MONDIALE - Uni3 Ivrea

20.05.2013 Views

Documenti e testimonianze Una «fuga ingloriosa verso terre sicure» Nella calda giornata del primo autunno romano il palazzo del Quirinale appare deserto e silenzioso. Solo il cortile interno è affollato di macchine parcheggiate dagli autisti militari davanti all’ingresso dove c’è l’ascensore: sono le vetture dei ministri Badoglio, Sorice, De Courten, Sandalli e Guariglia, dei generali Carboni e De Stefanis, del maggiore Marchesi e del conte Acquarone; tutto il governo è infatti riunito nello studio del re, al secondo piano, per un Consiglio della Corona. Vittorio Emanuele III – asciutto vecchio di 74 anni, baffi bianchi e occhi freddi, chiuso nell’uniforme militare con gambali e speroni – è a capo tavola e apre la seduta dicendo: «Come le loro signorie sanno, gli anglo-americani hanno deciso di anticipare di quattro giorni la data dell’armistizio… ». Bollettino di guerra n. 1201 Nel consesso c’è un moto di sorpresa. De Courten interrompe il re: «Veramente, io non ne sapevo nulla». In realtà, non soltanto il ministro della Marina ma anche altri ignorano che l’armistizio sia stato firmato. La storia dell’8 settembre, come vi si giunse e quello che ne seguì, è fin troppo nota. Col colpo di stato del 25 luglio 1943 re, corte e comandi supremi si erano dissociati, a guerra persa, dal fascismo: quel mese e mezzo corso fra le due fatali date è servito loro unicamente per preparare – all’oscuro di tutti, o quasi – il rovesciamento delle alleanze (per Casa Savoia c’erano molti precedenti di storici voltafaccia, da Vittorio Amedeo II che durante la guerra di successione era passato dal campo francese a quello austriaco, a suo figlio, Carlo Emanuele III, il quale, addirittura, stipulava trattati di alleanza in cui era previsto il passaggio al nemico). Giurando fedeltà ai tedeschi, che invece hanno già capito il gioco e attendono l’annuncio dell’armistizio solo per occupare l’Italia, re, Corte e comandi supremi intendono tenere il piede in almeno due scarpe. E lo spiega il fatto che Badoglio, la sera dell’8 settembre, abito grigio e cappello floscio, seguito dal figlio Mario e da due agenti in borghese, si reca alla sede dell’EIAR di via Asiago, all’auditorio «O», attende che alle 19.43 gli operatori interrompano un programma di canzoni (stavano trasmettendo Una strada nel bosco) perché lo speaker Giovan Battista Arista possa leggere il bollettino di guerra n. 1201, che sarà l’ultimo della serie. Poi, il maresciallo, nel suo pessimo italiano, recita il comunicato sull’armistizio con quell’ambigua frase relativa alle forze armate italiane che cesseranno qualsiasi ostilità contro gli anglo-americani ma «reagiranno ad eventuali attacchi di altra provenienza» (c’è chi dice, invece, che Badoglio all’EIAR non andò ma mandò un disco col discorsetto già registrato). Tutto questo perché si possa salvare chi sta attorno al sovrano e al suo gruppo di potere che crede, o finge di credere, che la sua salvezza coincida con quella del paese: «Non voglio correre il rischio di fare la fine del re del Belgio) aveva confidato Vittorio Emanuele III, il 28 luglio 1943, all’aiutante di campo Puntoni. «Desidero mettermi in condizioni di esercitare le funzioni di capo dello stato, arbitro della mia volontà e in assoluta libertà». E così l’8 settembre, nel capovo!gimento delle alleanze, non c’è più posto per i doveri del re verso i sudditi nella buona come nella cattiva fortuna; così l’8 settembre diventa quella

che, con popolare efficacia storica, ricorderà la Badoglieide: una «fuga ingloriosa verso terre sicure». Ed eccoci al primo e vergognoso mistero dell’8 settembre: chi ha deciso di fuggire a Brindisi nel consapevole e ben calcolato disegno di abbandonare l’esercito e il paese nelle mani dell’ex alleato tradito? È logico interrogare anzitutto il re ma Vittorio Emanuele III, nelle sue parche confidenze, lascia intendere una sola cosa e che cioè lui partì perché ritenne proprio dovere seguire il governo. Del resto il ministro della Real Casa, Acquarone, ascoltato nel marzo 1946 dall’Alta Corte di Giustizia», dirà che «la partenza di Sua Maestà non era affatto prevista» soggiungendo con sconcertante disinvoltura (eppure i giudici gli credettero) che «io stesso, data l’ora tarda, profittando di una cortese offerta, rinunciai a recarmi a casa e rimasi a dormire, al ministero della Guerra, in una camera messa a mia disposizione. Si immagini il mio stupore allorché, alle 4 e un quarto del giorno 9, fui chiamato per andare a raggiungere Sua Maestà il Re il quale, su pressante invito del capo del governo, stava per lasciare Roma!». Chi decise la fuga? Dunque sentiamo il capo del governo. Badoglio spiega che l’idea di abbandonare Roma in tutta fretta fu suggerita, alle 4 del mattino di giovedì 9, dal generale Roatta dato che la situazione militare nella capitale stava precipitando e si temeva un colpo di mano contro il sovrano e il governo da parte dei circa 10.000 tedeschi, soprattutto. Il quale generale Roatta, però, nel suo libro di memorie, Otto milioni di baionette, non conferma in nessun punto questa versione e dice sempre che il governo di qui, il governo di là, che «il governo decise di rinunciare alla ulteriore difesa della capitale» o «avendo il governo disposto che il comando supremo e gli Stati Maggiori lasciassero anche essi la capitale». E allora chi decise la fuga? Ambrosio? No. Il generale, e capo di S.M., voleva addirittura rimanere a Roma e il re dovette ordinargli di seguirlo a Pescara. Il principe Umberto? Neppure. Interrogato anni dopo dirà che, dell’armistizio, ne aveva avuta notizia alle 19.45 dell’8 settembre, l’ora in cui, cioè, tutta l’Italia lo apprendeva dalla radio. E bisogna anche escludere il ministro della Guerra, Sorice, perché lui, a Roma, come si sa, rimase e svolse delicati incarichi durante l’occupazione nazista. Sta di fatto però che, dopo otto ore trascorse asserragliati nel palazzo del Ministero della guerra in via XX Settembre, partono tutti, chi convinto che altri sarebbe rimasto, chi pensando che ci si sarebbe fermati appena fuori Roma. Perché questo vergognoso mistero della fuga avvolge un altro enigma: era davvero previsto che re e governo lasciassero Roma? Ufficialmente no. Il re sarebbe comunque rimasto, l’esercito avrebbe resistito durante le ore necessarie agli anglo-americani per intervenire. Infatti pur nella tensione di quei momenti drammatici, tutto era abbastanza tranquillo; la sera dell’8 settembre, Badoglio aveva cenato col figlio Mario in una saletta del Ministero della guerra e alle 22, come al solito, si era ritirato dicendo: «Mi i vadu a doeurmi», me ne vado a dormire. L’urgenza si presenta sei ore dopo, all’alba del 9; questo sono tutti concordi nel dirlo, i protagonisti della fuga: «Se il governo fosse rimasto a Roma», spiegherà in seguito Badoglio, «la sua cattura sarebbe stata inevitabile e i tedeschi si sarebbero affrettati a sostituirlo con un governo fascista che avrebbe subito provveduto ad annullare l’armistizio». Per sventare la possibilità di una simile iniziativa viene deciso su due piedi un prudenziale trasferimento del governo – trasferimento che però avrebbe dovuto essere temporaneo – onde evitare la cattura da parte dei tedeschi e, al tempo stesso, mantenere i contatti con gli anglo-americani. Invece si tratta di una fuga belle buona, ristretta a pochissime persone (perché finora tutti hanno parlato di «governo»; in realtà, quella notte in via XX settembre, del governo sono

che, con popolare efficacia storica, ricorderà la Badoglieide: una «fuga ingloriosa verso<br />

terre sicure».<br />

Ed eccoci al primo e vergognoso mistero dell’8 settembre: chi ha deciso di fuggire a<br />

Brindisi nel consapevole e ben calcolato disegno di abbandonare l’esercito e il paese nelle<br />

mani dell’ex alleato tradito? È logico interrogare anzitutto il re ma Vittorio Emanuele III,<br />

nelle sue parche confidenze, lascia intendere una sola cosa e che cioè lui partì perché<br />

ritenne proprio dovere seguire il governo. Del resto il ministro della Real Casa, Acquarone,<br />

ascoltato nel marzo 1946 dall’Alta Corte di Giustizia», dirà che «la partenza di Sua Maestà<br />

non era affatto prevista» soggiungendo con sconcertante disinvoltura (eppure i giudici gli<br />

credettero) che «io stesso, data l’ora tarda, profittando di una cortese offerta, rinunciai a<br />

recarmi a casa e rimasi a dormire, al ministero della Guerra, in una camera messa a mia<br />

disposizione. Si immagini il mio stupore allorché, alle 4 e un quarto del giorno 9, fui<br />

chiamato per andare a raggiungere Sua Maestà il Re il quale, su pressante invito del capo<br />

del governo, stava per lasciare Roma!».<br />

Chi decise la fuga?<br />

Dunque sentiamo il capo del governo. Badoglio spiega che l’idea di abbandonare Roma in<br />

tutta fretta fu suggerita, alle 4 del mattino di giovedì 9, dal generale Roatta dato che la<br />

situazione militare nella capitale stava precipitando e si temeva un colpo di mano contro il<br />

sovrano e il governo da parte dei circa 10.000 tedeschi, soprattutto. Il quale generale<br />

Roatta, però, nel suo libro di memorie, Otto milioni di baionette, non conferma in nessun<br />

punto questa versione e dice sempre che il governo di qui, il governo di là, che «il governo<br />

decise di rinunciare alla ulteriore difesa della capitale» o «avendo il governo disposto che il<br />

comando supremo e gli Stati Maggiori lasciassero anche essi la capitale». E allora chi<br />

decise la fuga? Ambrosio? No. Il generale, e capo di S.M., voleva addirittura rimanere a<br />

Roma e il re dovette ordinargli di seguirlo a Pescara. Il principe Umberto? Neppure.<br />

Interrogato anni dopo dirà che, dell’armistizio, ne aveva avuta notizia alle 19.45 dell’8<br />

settembre, l’ora in cui, cioè, tutta l’Italia lo apprendeva dalla radio. E bisogna anche<br />

escludere il ministro della Guerra, Sorice, perché lui, a Roma, come si sa, rimase e svolse<br />

delicati incarichi durante l’occupazione nazista.<br />

Sta di fatto però che, dopo otto ore trascorse asserragliati nel palazzo del Ministero della<br />

guerra in via XX Settembre, partono tutti, chi convinto che altri sarebbe rimasto, chi<br />

pensando che ci si sarebbe fermati appena fuori Roma. Perché questo vergognoso mistero<br />

della fuga avvolge un altro enigma: era davvero previsto che re e governo lasciassero<br />

Roma? Ufficialmente no. Il re sarebbe comunque rimasto, l’esercito avrebbe resistito<br />

durante le ore necessarie agli anglo-americani per intervenire. Infatti pur nella tensione di<br />

quei momenti drammatici, tutto era abbastanza tranquillo; la sera dell’8 settembre,<br />

Badoglio aveva cenato col figlio Mario in una saletta del Ministero della guerra e alle 22,<br />

come al solito, si era ritirato dicendo: «Mi i vadu a doeurmi», me ne vado a dormire.<br />

L’urgenza si presenta sei ore dopo, all’alba del 9; questo sono tutti concordi nel dirlo, i<br />

protagonisti della fuga: «Se il governo fosse rimasto a Roma», spiegherà in seguito<br />

Badoglio, «la sua cattura sarebbe stata inevitabile e i tedeschi si sarebbero affrettati a<br />

sostituirlo con un governo fascista che avrebbe subito provveduto ad annullare<br />

l’armistizio». Per sventare la possibilità di una simile iniziativa viene deciso su due piedi un<br />

prudenziale trasferimento del governo – trasferimento che però avrebbe dovuto essere<br />

temporaneo – onde evitare la cattura da parte dei tedeschi e, al tempo stesso, mantenere<br />

i contatti con gli anglo-americani.<br />

Invece si tratta di una fuga belle buona, ristretta a pochissime persone (perché finora tutti<br />

hanno parlato di «governo»; in realtà, quella notte in via XX settembre, del governo sono

Hooray! Your file is uploaded and ready to be published.

Saved successfully!

Ooh no, something went wrong!