SECONDA GUERRA MONDIALE - Uni3 Ivrea

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20.05.2013 Views

esistere ai tedeschi che stanno passando all’offensiva, allora non si comprende neppure oggi come abbia fatto Badoglio a sostenere in seguito che l’ultima frase del suo proclama: «Esse [le forze armate italiane in ogni luogo] però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza» equivaleva ad un vero e proprio ordine di combattimento e come mai l’Alta Corte di Giustizia darà ragione a Badoglio, nel dicembre 1944, processando e condannando a pene severe due generali ai quali si contestava di non avere capito il senso di quella frase. Per contro, il tribunale che nel 1948 processerà i generali Mario Roatta e Umberto Utili in base all’articolo 119 del Codice penale militare di guerra, cioè abbandono di posto durante il combattimento, li assolverà perché, in effetti, come s’è detto, combattimenti non ce n’erano stati e affermerà che «una interpretazione autentica dell’ultima frase del suo messaggio» il maresciallo Badoglio la diede solo molto più tardi, 35 giorni dopo la resa, in occasione della dichiarazione di guerra alla Germania. L’O.P. 44 Secondo la tesi che Badoglio ha sempre sostenuto, gli alti e medi comandi dell’esercito italiano, in patria e fuori (Balcania, Grecia, Francia, Dodecanneso), non furono avvertiti esplicitamente di reagire agli attacchi tedeschi dal solo messaggio della resa ma da almeno altri tre documenti: la Memoria O.P. 44 e due promemoria del Comando Supremo consegnati sia ai Capi di Stato Maggiore che ai comandi all’estero. L’O.P. 44 (la sigla viene dalle iniziali delle parole «ordine pubblico» e dal numero di protocollo) ipotizza il caso di una possibile aggressione tedesca, pur senza fare il minimo cenno alle trattative di armistizio, e indica i seguenti «compiti generici»: evitare sorprese; vigilare e tenere le truppe alla mano; rinforzare la protezione delle comunicazioni e degli impianti; sorvegliare i movimenti tedeschi; predisporre colpi di mano per impossessarsi di depositi di munizioni, viveri, carburante, materiale vario e centri di collegamento dei tedeschi prevedendone l’occupazione o la distruzione; predisporre colpi di mano su obiettivi considerati vulnerabili per le forze tedesche; presidiare edifici pubblici, depositi, comandi, magazzini e centrali di collegamento italiani. Ma l’aspetto per lo meno singolare di questa «Memoria» è la clausola che raccomanda ai destinatari di rendere effettive le disposizioni impartite soltanto quando giungerà loro da Roma un fonogramma convenzionale (il quale dirà: «Attuare misure di ordine pubblico Memoria 44») o, altrimenti, «in caso di impedimento o interruzione delle comunicazioni» e questo a iniziativa dei singoli comandanti. Comunque la notte dell’8 settembre il fonogramma convenzionale che deve far scattare il piano previsto dalla «Memoria» non parte e non vengono neppure interrotte le comunicazioni. Tutti i comandanti che, dopo l’annuncio di Badoglio, telefonano a Roma per avere chiarimenti si sentono rispondere: «Riceverete ordini», «attendete disposizioni», «non sappiamo dirvi niente» e – anche purtroppo – «qui non c’è più nessuno». Comando supremo e Stato Maggiore non diramano alcun ordine; anzi, si può affermare che anche le altre disposizioni, come i due Promemoria – il primo destinato ai Capi di Stato Maggiore delle tre armi e l’altro al Gruppo Armate Est (Albania, Erzegovina, Montenegro, Grecia, Creta, Cefalonia, Rodi, Lero, Samo) – non hanno alcuna realizzazione pratica. Del resto il Promemoria n. 1 non fa cenno all’armistizio e impartisce solo nuove istruzioni «nel presupposto di iniziativa germanica di atti di ostilità contro organi di Governo e Forze Armate italiane, in misura e con modalità tali da rendere manifesto che non si tratta di episodi locali ma di azione collettiva» e il Promemoria n. 2, pur facendo esplicito

iferimento all’eventualità di un imminente armistizio, non dà alcune indicazioni di data, neppure approssimativa. Roma capitola In sostanza, la Memoria O.P. 44 non sarà mai operante anche perché, benché si sostenga che sia stata trasmessa fra il 2 e il 5 settembre 1943, in effetti essa giungerà ai Comandi superiori soltanto poche ore prima dell’armistizio e, comunque, l’Alto Comando italiano si guarderà sempre bene dal suggerire ai comandi periferici di prendere qualche iniziativa che «possa dispiacere agli alleati tedeschi». Per esempio, il 7 settembre 1943, il generale Bruno, che è Capo di Stato Maggiore del generale Basso in Sardegna, telefona a Roma perché ha avuto notizia di un convoglio anglo-americano in navigazione nel Mediterraneo e si sente dire: «In caso di tentato sbarco reagire d’intesa con le forze tedesche nell’isola»; l’ammiraglio De Courten testimonierà che solo alle 19.50 dell’8 settembre fu diramato ai sommergibili in agguato nel Mediterraneo l’ordine di «limitarsi a compiti di esplorazione» e solo alle 21.10 quello di soprassedere ad azioni offensive contro gli anglo-americani; il colonnello Nucci, comandante di un reggimento di fanteria tra Grosseto e Civitavecchia, il 6 settembre ebbe l’ordine dal generale Cesare De Vecchi di prendere accordi col comandante tedesco della zona di Orbetello per «la difesa comune della zona» in vista di uno sbarco alleato segnalato da Roma come imminente; ad armistizio già dichiarato il comandante del porto di Bari, ammiraglio Panunzio, riceve l’ordine da Roma di non opporsi alla richiesta tedesca di prendere in consegna le navi alla fonda (ma Panunzio disobbedirà); infine dai primi di settembre fino al giorno 8, successivi ordini del Comando Supremo ingiungono ai locali comandi delle unità italiane in Albania, Erzegovina, Montenegro di consegnare gli aeroporti ai tedeschi che hanno reclamato di «collaborare» alla difesa comune. Gli esempi potrebbero continuare a lungo, tutti chiaramente dimostrativi della confusione, della disorganizzazione e dei machiavellismi (inutili) di uomini come Badoglio, Ambrosio e Roatta, cioè di tutti i maggiori responsabili della macchina militare italiana. Al momento dell’annuncio dell’armistizio, infatti, i tedeschi hanno quattordici divisioni nell’Italia settentrionale, agli ordini del feldmaresciallo Rommel e altre undici al comando del generale Kesselring, nel resto del paese. Già il giorno 10, dopo avere avuto facilmente ragione a Porta San Paolo della resistenza dei granatieri, dei lancieri di Montebello e di gruppi isolati di civili armati, i paracadutisti e le truppe corazzate di Kesselring entrano a Roma. Altrove è lo sfacelo delle unità. Il Regio Esercito si dissolve; la parola d’ordine, per soldati e ufficiali (questi ultimi lasciati senza ordini precisi da parte degli alti comandi), è una sola: tornare a casa. E tutti cercano di sfuggire alla cattura da parte tedesca, mettendosi in panni borghesi rimediati alla meno peggio. È uno spettacolo desolante: i profughi-soldati si sparpagliano lungo le strade, nelle campagne, disordinatamente e moltissimi cadono prigionieri dei tedeschi; altri più fortunati riescono a raggiungere i paesi d’origine, spesso dopo giorni, settimane di marcia e si nascondono. Quello che era stato un sogno per molti italiani e fino agli ultimi giorni prima dell’8 settembre una speranza per Badoglio e altri capi militari – uno sbarco anglo-americano non lontano da Roma – in realtà si concretizza nell’infelice operazione di Salerno, il 9 settembre; sbarcano sette divisioni alleate che vengono subito impegnate da altrettante, agguerrite divisioni tedesche.

iferimento all’eventualità di un imminente armistizio, non dà alcune indicazioni di data,<br />

neppure approssimativa.<br />

Roma capitola<br />

In sostanza, la Memoria O.P. 44 non sarà mai operante anche perché, benché si sostenga<br />

che sia stata trasmessa fra il 2 e il 5 settembre 1943, in effetti essa giungerà ai Comandi<br />

superiori soltanto poche ore prima dell’armistizio e, comunque, l’Alto Comando italiano si<br />

guarderà sempre bene dal suggerire ai comandi periferici di prendere qualche iniziativa<br />

che «possa dispiacere agli alleati tedeschi». Per esempio, il 7 settembre 1943, il generale<br />

Bruno, che è Capo di Stato Maggiore del generale Basso in Sardegna, telefona a Roma<br />

perché ha avuto notizia di un convoglio anglo-americano in navigazione nel Mediterraneo e<br />

si sente dire: «In caso di tentato sbarco reagire d’intesa con le forze tedesche nell’isola»;<br />

l’ammiraglio De Courten testimonierà che solo alle 19.50 dell’8 settembre fu diramato ai<br />

sommergibili in agguato nel Mediterraneo l’ordine di «limitarsi a compiti di esplorazione» e<br />

solo alle 21.10 quello di soprassedere ad azioni offensive contro gli anglo-americani; il<br />

colonnello Nucci, comandante di un reggimento di fanteria tra Grosseto e Civitavecchia, il<br />

6 settembre ebbe l’ordine dal generale Cesare De Vecchi di prendere accordi col<br />

comandante tedesco della zona di Orbetello per «la difesa comune della zona» in vista di<br />

uno sbarco alleato segnalato da Roma come imminente; ad armistizio già dichiarato il<br />

comandante del porto di Bari, ammiraglio Panunzio, riceve l’ordine da Roma di non opporsi<br />

alla richiesta tedesca di prendere in consegna le navi alla fonda (ma Panunzio<br />

disobbedirà); infine dai primi di settembre fino al giorno 8, successivi ordini del Comando<br />

Supremo ingiungono ai locali comandi delle unità italiane in Albania, Erzegovina,<br />

Montenegro di consegnare gli aeroporti ai tedeschi che hanno reclamato di «collaborare»<br />

alla difesa comune.<br />

Gli esempi potrebbero continuare a lungo, tutti chiaramente dimostrativi della confusione,<br />

della disorganizzazione e dei machiavellismi (inutili) di uomini come Badoglio, Ambrosio e<br />

Roatta, cioè di tutti i maggiori responsabili della macchina militare italiana. Al momento<br />

dell’annuncio dell’armistizio, infatti, i tedeschi hanno quattordici divisioni nell’Italia<br />

settentrionale, agli ordini del feldmaresciallo Rommel e altre undici al comando del<br />

generale Kesselring, nel resto del paese. Già il giorno 10, dopo avere avuto facilmente<br />

ragione a Porta San Paolo della resistenza dei granatieri, dei lancieri di Montebello e di<br />

gruppi isolati di civili armati, i paracadutisti e le truppe corazzate di Kesselring entrano a<br />

Roma.<br />

Altrove è lo sfacelo delle unità. Il Regio Esercito si dissolve; la parola d’ordine, per soldati e<br />

ufficiali (questi ultimi lasciati senza ordini precisi da parte degli alti comandi), è una sola:<br />

tornare a casa. E tutti cercano di sfuggire alla cattura da parte tedesca, mettendosi in<br />

panni borghesi rimediati alla meno peggio. È uno spettacolo desolante: i profughi-soldati si<br />

sparpagliano lungo le strade, nelle campagne, disordinatamente e moltissimi cadono<br />

prigionieri dei tedeschi; altri più fortunati riescono a raggiungere i paesi d’origine, spesso<br />

dopo giorni, settimane di marcia e si nascondono.<br />

Quello che era stato un sogno per molti italiani e fino agli ultimi giorni prima dell’8<br />

settembre una speranza per Badoglio e altri capi militari – uno sbarco anglo-americano<br />

non lontano da Roma – in realtà si concretizza nell’infelice operazione di Salerno, il 9<br />

settembre; sbarcano sette divisioni alleate che vengono subito impegnate da altrettante,<br />

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