SECONDA GUERRA MONDIALE - Uni3 Ivrea

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20.05.2013 Views

ministro degli Esteri Guariglia, il ministro della Real Casa Acquarone. Il re presenzia al convegno. Preparativi per la fuga È una riunione agitata, di cui sono state date diverse interpretazioni. Ch annota e riferisce lo stato d’animo prostrato di Badoglio, chi invece dipinge il re come ostinatamente muto. Ci sono comunque due partiti ben precisi; quello di chi, come Carboni, ritiene indifendibile la situazione da parte italiana senza l’arrivo di cospicue forze alleate, e quindi insiste perché si cerchi ancora di convincere gli Alleati a rinviare l’annuncio e quello di chi, come Guariglia, non s’illude che si possa far cambiare idea a Eisenhower e preme per adottare subito misure d’emergenza e annunciare alla nazione l’armistizio. Quando la riunione si scioglie, nella stanza restano per pochi minuti ancora il re e Badoglio. Poi il maresciallo esce e dice che avrebbe annunciato l’armistizio alla radio. E anche questo atto avviene sotto il segno dell’improvvisazione. Non c’è alcuna predisposizione (e ormai non c’è più tempo per attuarla) per collegare il Quirinale con l’EIAR. Badoglio deve trasferirsi alla sede dell’ente radiofonico e di là, in via Sabotino, trasmette il suo messaggio. Al Quirinale si vivono subito momenti di grande trepidazione. Svanita ormai l’ipotesi di uno sbarco di truppe aviotrasportate americane, si pone il problema di difendere la famiglia reale dalla rappresaglia tedesca. I servizi d’informazione sostengono che alla spicciolata sono entrati nella capitale migliaia di elementi, probabilmente delle SS, in borghese, e la loro presenza è messa in relazione con un eventuale colpo di mano contro i rappresentanti della dinastia. Roma inoltre è di fatto circondata dalle truppe corazzate tedesche, con un unico corridoio d’uscita verso nord-est. E nessuno dei comandanti militari si fa illusioni sulla capacità delle forze di Carboni di contrastare efficacemente una eventuale puntata dei tedeschi, da qualsiasi parte provenga. Il problema, per gli uomini che vogliono salvare i rappresentanti della Corona, è quindi quello di come fare uscire dalla città il re e la sua famiglia. Viene intanto deciso che i reali lascino subito il Quirinale, considerato troppo vulnerabile, e si trasferiscano provvisoriamente al ministero della Guerra in via XX Settembre. Alle otto di sera la famiglia reale arriva al ministero e viene alloggiata alla meno peggio nell’appartamento di rappresentanza del ministro, che puzza di stantio perché da tempo non viene usato. Il re (in divisa militare) e la regina (con un lungo abito e un cappellino estivo) vengono lasciati per qualche tempo in una stanza al buio, con due corazzieri davanti alla porta. Nella precipitazione del momento un aiutante di campo ha pensato ai corazzieri, ma si è dimenticato di accendere la luce! Così il sovrano e la regina Elena stanno silenziosi in quell’oscura camera del ministero mentre nel palazzo si discute disordinatamente e in preda all’agitazione sul da farsi. Fino a quel momento i capi militari non sanno che le truppe tedesche già si muovono per convergere su Roma e che le truppe italiane, in vari punti strategici intorno alla capitale, ripiegano, ancora conservando un certo ordine, ma senza un’idea precisa di quale sia, o possa essere, la linea di difesa utile. Che in via XX Settembre non ci si renda conto della gravità della situazione è dimostrato dal fatto che alle 9 e mezzo di sera Badoglio, com’è sua abitudine, decide di andare a dormire e lo annuncia agli altri. Viene svegliato alle 4 del mattino, quando finalmente al ministero arrivano le allarmanti notizie dell’avanzata tedesca su Roma.

«Dio mio che figura… » A questo punto la situazione precipita. Nessuno si cura di dare ordini alle truppe italiane che stanno ripiegando, l’imperativo diventa quello di salvare la famiglia reale. Si decide di puntare su Tivoli e di far confluire sulla località forze sufficienti per proteggere il «varco» per la fuga. Così, poco dopo le 4 del mattino del 9 settembre, un lungo corteo di automezzi esce dal ministero della Guerra. Vittorio Emanuele in un primo tempo resiste alla decisione di partire, non vuole lasciare Roma perché la fuga gli appare come un’abdicazione di fronte al paese. Badoglio gli oppone che i tedeschi tra poche ore possono occupare la città e catturare il re con la sua famiglia. Vittorio Emanuele obietta: «Sono vecchio, cosa volete che mi facciano?». E allora il maresciallo fa leva sul fatto che catturare il re vuole dire avere mano libera sul paese, sulle sue istituzioni, mentre con il sovrano sia pure in un lembo di territorio nazionale occupato dagli anglo-americani e lontano dalla capitale, ma libero e riconosciuto, è garantita la continuità delle istituzioni. Insomma, soltanto con la fuga da Roma e il salvataggio della dinastia dai tedeschi, sostiene Badoglio, il re può ancora servire la nazione, evitare il suo sfacelo. Alla fine Vittorio Emanuele si convince, anche perché la regina Elena sostiene in pieno la tesi di Badoglio: a lei importa soprattutto salvare le vite della sua famiglia e il suo ascendente sul sovrano è sempre molto alto. Il re convoca il Capo di Stato Maggiore Ambrosio e gli dice: «Il governo ha deciso di allontanarsi. È necessario, per prendere contatto con gli anglo-americani. Io vado con il mio governo. Le ordino di seguirmi con il suo Stato Maggiore e di dare ordini ai capi di Stato Maggiore delle forze armate e ai ministri militari di seguirei anch’essi. L’appuntamento è in giornata a Pescara, al campo d’aviazione». Dopo queste disposizioni ad Ambrosio, Vittorio Emanuele con la regina Elena e il suo aiutante di campo, generale Puntoni, salgono su una limousine e il corteo attraversa Roma deserta. Badoglio indugia con Ambrosio sul cancello del ministero. C’è tra i due qualche scambio di battute. Ambrosio ricorda al maresciallo che ci sono molte cose urgenti da fare (si riferisce evidentemente agli ordini da impartire alle unità dell’esercito, alla necessità di predisporre subito un dispositivo di difesa di fronte alla minaccia tedesca). Badoglio annuisce e si dirige verso l’interno del ministero. Ma poi cambia idea, torna indietro e annuncia: «Parto anch’io, subito», e sale sulla macchina del ministro della Real Casa Acquarone. Seguirà su una terza macchina il principe Umberto; poi, tra le 5 e le 7 del mattino, il ministero della Guerra si vuota di tutti i suoi ospiti. In quelle ore pare che uno dei pochi a rendersi conto del grave errore che la monarchia sta facendo a suo danno, ma soprattutto a danno del paese, sia il principe Umberto. Ha saputo della riunione convocata da Badoglio al Quirinale alle 18 dell’8 settembre al suo rientro, più o meno a quell’ora, da Sessa Aurunca, dove si trovava il suo comando e subito ha espresso ampie riserve sulle decisioni della riunione. Ma il principe ereditario non ha l’energia sufficiente per opporsi a Badoglio, né per contrastare la volontà del padre, di fronte alla quale si è sempre dimostrato assolutamente subordinato. Le testimonianze raccontano della sua «disperazione», del suo lamentarsi, già in macchina nel corteo che esce da Roma («Dio mio, che figura, Dio mio, che figura… »), fino a quando, ad una sosta, Badoglio gli si siede accanto, cercando di convincerlo sulle buone ragioni della «fuga».

«Dio mio che figura… »<br />

A questo punto la situazione precipita. Nessuno si cura di dare ordini alle truppe italiane<br />

che stanno ripiegando, l’imperativo diventa quello di salvare la famiglia reale. Si decide di<br />

puntare su Tivoli e di far confluire sulla località forze sufficienti per proteggere il «varco»<br />

per la fuga. Così, poco dopo le 4 del mattino del 9 settembre, un lungo corteo di<br />

automezzi esce dal ministero della Guerra. Vittorio Emanuele in un primo tempo resiste<br />

alla decisione di partire, non vuole lasciare Roma perché la fuga gli appare come<br />

un’abdicazione di fronte al paese. Badoglio gli oppone che i tedeschi tra poche ore<br />

possono occupare la città e catturare il re con la sua famiglia. Vittorio Emanuele obietta:<br />

«Sono vecchio, cosa volete che mi facciano?».<br />

E allora il maresciallo fa leva sul fatto che catturare il re vuole dire avere mano libera sul<br />

paese, sulle sue istituzioni, mentre con il sovrano sia pure in un lembo di territorio<br />

nazionale occupato dagli anglo-americani e lontano dalla capitale, ma libero e riconosciuto,<br />

è garantita la continuità delle istituzioni. Insomma, soltanto con la fuga da Roma e il<br />

salvataggio della dinastia dai tedeschi, sostiene Badoglio, il re può ancora servire la<br />

nazione, evitare il suo sfacelo.<br />

Alla fine Vittorio Emanuele si convince, anche perché la regina Elena sostiene in pieno la<br />

tesi di Badoglio: a lei importa soprattutto salvare le vite della sua famiglia e il suo<br />

ascendente sul sovrano è sempre molto alto.<br />

Il re convoca il Capo di Stato Maggiore Ambrosio e gli dice: «Il governo ha deciso di<br />

allontanarsi. È necessario, per prendere contatto con gli anglo-americani. Io vado con il<br />

mio governo. Le ordino di seguirmi con il suo Stato Maggiore e di dare ordini ai capi di<br />

Stato Maggiore delle forze armate e ai ministri militari di seguirei anch’essi.<br />

L’appuntamento è in giornata a Pescara, al campo d’aviazione».<br />

Dopo queste disposizioni ad Ambrosio, Vittorio Emanuele con la regina Elena e il suo<br />

aiutante di campo, generale Puntoni, salgono su una limousine e il corteo attraversa Roma<br />

deserta. Badoglio indugia con Ambrosio sul cancello del ministero. C’è tra i due qualche<br />

scambio di battute. Ambrosio ricorda al maresciallo che ci sono molte cose urgenti da fare<br />

(si riferisce evidentemente agli ordini da impartire alle unità dell’esercito, alla necessità di<br />

predisporre subito un dispositivo di difesa di fronte alla minaccia tedesca). Badoglio<br />

annuisce e si dirige verso l’interno del ministero. Ma poi cambia idea, torna indietro e<br />

annuncia: «Parto anch’io, subito», e sale sulla macchina del ministro della Real Casa<br />

Acquarone. Seguirà su una terza macchina il principe Umberto; poi, tra le 5 e le 7 del<br />

mattino, il ministero della Guerra si vuota di tutti i suoi ospiti.<br />

In quelle ore pare che uno dei pochi a rendersi conto del grave errore che la monarchia<br />

sta facendo a suo danno, ma soprattutto a danno del paese, sia il principe Umberto. Ha<br />

saputo della riunione convocata da Badoglio al Quirinale alle 18 dell’8 settembre al suo<br />

rientro, più o meno a quell’ora, da Sessa Aurunca, dove si trovava il suo comando e subito<br />

ha espresso ampie riserve sulle decisioni della riunione.<br />

Ma il principe ereditario non ha l’energia sufficiente per opporsi a Badoglio, né per<br />

contrastare la volontà del padre, di fronte alla quale si è sempre dimostrato assolutamente<br />

subordinato. Le testimonianze raccontano della sua «disperazione», del suo lamentarsi, già<br />

in macchina nel corteo che esce da Roma («Dio mio, che figura, Dio mio, che figura… »),<br />

fino a quando, ad una sosta, Badoglio gli si siede accanto, cercando di convincerlo sulle<br />

buone ragioni della «fuga».

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