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SECONDA GUERRA MONDIALE - Uni3 Ivrea

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Ho incontrato il colonnello Stevens in casa della signora Vivenot, che al Foreign Office si<br />

occupa di questioni italiane. Al suo club, la «United Service», non mi era stato possibile<br />

trovarlo: il colonnello abita alla periferia di Londra e sta spesso in campagna. Dal 1945<br />

non è più impegnato con la radio.<br />

Harold Stevens ha sessantasei anni, alto, i capelli bianchi, magro, non ha il rigido<br />

portamento dell’ex ufficiale, ma piuttosto i modi di un signore. Parla benissimo la nostra<br />

lingua, ha vissuto per molto tempo in Italia, dove ha parenti ed amici. È stato, infatti,<br />

addetto militare all’ambasciata di Roma.<br />

Quattro mesi fa gli è morta la moglie, e solo da poco tempo ha ripreso le antiche<br />

relazioni. La signora Vivenot non aveva personale di servizio, e ci arrangiammo da soli,<br />

passandoci i piatti, aiutando a sgomberare la tavola.<br />

«Quando mia moglie era viva», disse il colonnello, «io facevo ogni giorno la spesa e<br />

l’aiutavo a cucinare. Soffriva di disturbi cardiaci. Noi del resto siamo abituati a dare una<br />

mano alle nostre donne. Ora vivo con un mio figliolo che ha sei bambini. Questa<br />

mattina ho sbucciato le patate».<br />

Le patate portarono il discorso sulle restrizioni che regolano – forse anche troppo – la<br />

vita inglese, e confessò che era preoccupato per i sei nipotini, perché l’inverno si<br />

annunciava difficile.<br />

Mi raccontò poi che la scarsità di lavoratori per i servizi domestici e anche pubblici<br />

costringeva a sacrifici: aveva incontrato qualche sera prima Lord Graham, già<br />

ambasciatore a Roma, che uscendo da una stazione camminava piano piano portandosi<br />

la valigia.<br />

Gli domandai se, dopo la fine della guerra, era venuto in Italia. «Mi sarebbe piaciuto<br />

molto fare un viaggio, venire tra voi, così, da cittadino qualunque», rispose. «Ma come<br />

sa ci sono molte difficoltà. Non si può portare più di cinque sterline. Oppure bisogna<br />

emigrare per almeno quattro anni, e io non posso, e quattro anni sono lunghi». Gli<br />

chiesi se era a conoscenza della nostra situazione. «Abbastanza, credo». Proprio quel<br />

giorno la stampa locale aveva pubblicato, con evidenza, notizie di disordini in Italia. «Ma<br />

non bisogna formalizzarsi», disse il colonnello. «Si sa che i giornali prestano sempre<br />

molta attenzione agli aspetti più chiassosi. Si parla più facilmente di morti che di<br />

ferrovie ricostruite».<br />

Gli chiesi allora com’era nato il «buonasera», come gli era venuta l’idea, non consueta<br />

neppure nel suo paese, di iniziare le trasmissioni con quel cordiale saluto. «In Italia,<br />

quando si attacca discorso con qualcuno si dice, per prima cosa, buongiorno o<br />

buonasera. Poi ho usato quella forma “di attacco” perché mi pareva di creare una<br />

condizione di calore, di intimità, con chi stava ascoltandomi. Era un modo per sentirci<br />

vicini».<br />

Gli domandai il numero delle conversazioni tenute, ma avevo l’impressione che non<br />

amasse parlare di quell’argomento, che cercasse di evitarlo. Dopo un attimo di sosta,<br />

che mi mise in disagio, rispose: «Millecentottanta, ma io avrei voluto arrivare a<br />

duemila». Poi pronunciò una frase che me lo indicò chiaramente come un deluso, una<br />

persona avvilita, stanca: «E ora tutti se la prendono col colonnello Stevens, tutti<br />

addosso al povero colonnello Stevens».<br />

Non ho mai promesso nulla<br />

Colsi l’occasione per dirgli chiaramente il mio pensiero, per fargli presente che in Italia<br />

non mi pareva ci fosse una corrente determinata ostile a lui come individuo, che<br />

certamente vi era qualcuno che gli rimproverava le promesse di allora. «Io», disse con<br />

vivacità Stevens, «non ho mai promesso nulla, né a nome mio, né di altri» (Qualcuno mi

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