SECONDA GUERRA MONDIALE - Uni3 Ivrea
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infatti che mantiene contatti con gli ex battaglioni «M» della milizia (dopo il 25 luglio inquadrati in una divisione corazzata regolare, la «Centauro») e con Kesselring. Il «pericolosissimo», invece, ha ottenuto di farsi arruolare in un servizio informazioni dipendente dal generale Roatta, buttando là una minaccia: «Se mi fate arrestare, mi ammazzo». Contemporaneamente, il superdecorato ex segretario del PNF (una medaglia d’oro, 10 d’argento) svolge un lavoro grossolano di intimidazione verso Carboni e verso lo stesso Badoglio; da quest’ultimo sollecita frequenti colloqui (sempre concessi) nel corso dei quali fa allusioni alla sua amicizia coi tedeschi e al fatto che questi stanno certamente per scatenare un’offensiva contro gli italiani. Così, invece di tentare di farsi dimenticare, alimenta la paura del vecchio maresciallo. Il 22 agosto Badoglio si decide e ordina a Carboni di fare arrestare Muti «per spionaggio e complotto contro lo stato». In seguito si parlerà di un biglietto di Badoglio al capo della polizia Senise: «Muti è una minaccia… Vostra Eccellenza mi ha perfettamente compreso». Ma il biglietto non esiste, è un’invenzione successiva dei repubblichini di Salò. Vero invece, senza dubbio, l’ordine a Carboni. Dell’esecuzione è incaricato il capitano dei carabinieri Vigneri; poi questi – occupatissimo nella caccia ad altri gerarchi – passa l’incarico al tenente Ezio Taddei. L’operazione è stata studiata nei minimi particolari da Carboni con il comandante dell’Arma, generale Conca. Il dramma ha un finale non risolto La notte dal 23 al 24 agosto 1943, il tenente Taddei con il maresciallo Ricci e 12 militi, più un misterioso individuo in tuta blu, circondano silenziosamente la villa di Fregene dove Muti alloggia insieme con l’amante, la ballerina cecoslovacca Dana Harlowa. L’operazione è delicata perché a poche centinaia di metri c’è accampato un reparto di paracadutisti del generale Student. Taddei bussa e, in tedesco, chiede di entrare, Muti cade nella trappola e apre senza sospetto. Secondo la versione di Carboni, compare sulla soglia completamente nudo; secondo un’altra fonte, in pigiama. Vede i carabinieri e capisce. E a questo punto i racconti divergono molto. Prima versione. Muti sembra rassegnato, indossa abiti borghesi e segue in silenzio l’ufficiale dei carabinieri. Ad un certo punto del tragitto dalla villa alle automobili, da un punto dove la boscaglia è più fitta, partono colpi di fucile e si sentono anche scoppi di bombe e grida. Muti con un balzo da acrobata si lancia in quella direzione. Qualcuno gli spara addosso. Poco dopo, al chiarore delle torce elettriche, lo trovano riverso, morto: è stato colpito al capo e al torace. Da chi? Carboni non lo dice; il giorno dopo, il comunicato ufficiale diffuso per radio ammette che gli hanno sparato i carabinieri. Seconda versione. I carabinieri circondano Muti, accompagnandolo verso le macchine in attesa. È buio pesto. Un po’ in disparte, cammina l’uomo in tuta blu. Nel silenzio della notte si sente un leggero sibilo, come un fischio di richiamo, al quale risponde un altro fischio. A questo punto Muti capisce e grida: «Che fate? Sono un italiano anch’io!». Ma un colpo alla nuca (sparato dall’uomo in tuta?) lo fredda. Subito dopo, i carabinieri fanno fuoco a casaccio per qualche minuto, per simulare un attacco. L’indomani la versione ufficiale parla di «gravi irregolarità nella gestione di un ente» nelle quali sarebbe stato implicato Muti; donde l’ordine di arresto, la fuga, la morte. Curioso: nessuno si preoccupa di precisare di quale ente si tratti. Un mese dopo, a Milano, nasce una legione intitolata a Ettore Muti. Nel suo nome, i tardi epigoni dello squadrismo commetteranno soprusi, torture e massacri. Franco Fucci
La morte di re Boris di Bulgaria Un «giallo» sgomenta l’Europa nell’estate 1943, la misteriosa morte di re Boris III di Bulgaria, quarantanovenne, successore di Ferdinando I e marito di Giovanna di Savoia, figlia di Vittorio Emanuele III: colto da inesplicabile malessere lo zar dei bulgari spira dopo lunga agonia alle 16.22 di sabato 28 agosto. «Boris, mio marito, non è morto di morte naturale» dirà in seguito la regina, madre di due figli, Simeone e Maria Luisa. «La sua fine, in un modo o nell’altro, è stata criminosamente provocata». Sulla misteriosa morte di Boris c’è già nel 1943 – e continuerà nei due anni a venire – un intreccio di ipotesi, di accuse, di rivelazioni e la più strampalata sembra proprio quella dei tedeschi i quali, attraverso Goebbels, sostengono che a volere la morte del sovrano è stata la Casa reale italiana, e l’esecutrice del delitto è stata la principessa Mafalda, cognata di Boris. Boris, salito al trono nel 1918 alla morte del padre Ferdinando, s’era legato a Hitler dopo un tormentato periodo di assoluta neutralità quando, nella spartizione dei Balcani, la Germania aveva assegnato a Sofia la regione della Dobrugia meridionale, un territorio ch’era stato bulgaro fino al 1913. Nel gennaio 1941, però, Hitler aveva regolato il conto chiedendo e ottenendo da Boris il permesso per il passaggio attraverso la Bulgaria delle truppe tedesche che accorrevano in aiuto di quelle italiane sui monti della Grecia: inoltre il 1° marzo 1941 la Bulgaria aveva aderito al Patto Tripartito. Allo zar Boris non mancano accortezza e abilità politica (Mussolini l’ha definito «un Giolitti balcanico») ed egli sa cogliere il senso degli avvenimenti e prevederne, nel limite del possibile, le eventuali conseguenze. I successi della Wehrmacht tedesca non lo abbagliano: conosce la potenza degli Stati Uniti e dell’URSS, sa che quando questa potenza potrà dispiegarsi in pieno per la Germania nazista sarà la fine. E, infatti, di questa fine avverte i primissimi sintomi con la caduta di Mussolini in Italia. Di qui, anche, la ricerca di contatti con inglesi e americani, ricerca faticosa e della quale, comunque, Hitler sembra sia stato messo subito al corrente dall’efficiente servizio di spionaggio delle SS. Boris deve quindi muoversi con estrema prudenza; in Bulgaria operano infatti attivamente ben tre formazioni comuniste che ricevono aiuti sia dagli USA che dall’URSS ma il presidente del Consiglio è il professor Filov, di accesi sentimenti filotedeschi. Re Boris stesso descrive con una spigliata frase la situazione ideologica del suo paese: «I miei generali sono germanofili, i miei diplomatici anglofili, la regina è italiana e il mio popolo simpatizza per i russi. Io sono l’unica persona neutrale della Bulgaria». Il cattolicissimo Boris dice no a Hitler Il 13 agosto 1943 Boris è convocato da Hitler a Berchtesgaden dove arriva il giorno di Ferragosto, accompagnato dal ministro della Difesa, Mihov, e dal proprio aiutante di campo. Il Führer gli ha messo a disposizione un aereo con un suo pilota di fiducia, il tenente colonnello Hans Bauer. L’ordine del giorno delle conversazioni è: «Esame della situazione militare e politica generale. La funzione della Bulgaria durante la guerra». Non esistono testimonianze dirette dei colloqui fra Hitler e Boris ma è sottinteso che il Führer chieda allo zar dei Bulgari se il suo paese intende seguire l’esempio dell’Italia a sganciarsi dall’alleanza con la Germania: bisogna, conclude Hitler, che la Bulgaria entri subito in guerra contro l’Unione Sovietica (finora ha sempre rinviato questa mossa) e intensifichi le persecuzioni contro gli ebrei (cui il cattolicissimo Boris, fino a questo
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Il «pericolosissimo», invece, ha ottenuto di farsi arruolare in un servizio informazioni<br />
dipendente dal generale Roatta, buttando là una minaccia: «Se mi fate arrestare, mi<br />
ammazzo». Contemporaneamente, il superdecorato ex segretario del PNF (una<br />
medaglia d’oro, 10 d’argento) svolge un lavoro grossolano di intimidazione verso<br />
Carboni e verso lo stesso Badoglio; da quest’ultimo sollecita frequenti colloqui (sempre<br />
concessi) nel corso dei quali fa allusioni alla sua amicizia coi tedeschi e al fatto che<br />
questi stanno certamente per scatenare un’offensiva contro gli italiani. Così, invece di<br />
tentare di farsi dimenticare, alimenta la paura del vecchio maresciallo. Il 22 agosto<br />
Badoglio si decide e ordina a Carboni di fare arrestare Muti «per spionaggio e complotto<br />
contro lo stato». In seguito si parlerà di un biglietto di Badoglio al capo della polizia<br />
Senise: «Muti è una minaccia… Vostra Eccellenza mi ha perfettamente compreso». Ma il<br />
biglietto non esiste, è un’invenzione successiva dei repubblichini di Salò. Vero invece,<br />
senza dubbio, l’ordine a Carboni. Dell’esecuzione è incaricato il capitano dei carabinieri<br />
Vigneri; poi questi – occupatissimo nella caccia ad altri gerarchi – passa l’incarico al<br />
tenente Ezio Taddei. L’operazione è stata studiata nei minimi particolari da Carboni con<br />
il comandante dell’Arma, generale Conca.<br />
Il dramma ha un finale non risolto<br />
La notte dal 23 al 24 agosto 1943, il tenente Taddei con il maresciallo Ricci e 12 militi,<br />
più un misterioso individuo in tuta blu, circondano silenziosamente la villa di Fregene<br />
dove Muti alloggia insieme con l’amante, la ballerina cecoslovacca Dana Harlowa.<br />
L’operazione è delicata perché a poche centinaia di metri c’è accampato un reparto di<br />
paracadutisti del generale Student. Taddei bussa e, in tedesco, chiede di entrare, Muti<br />
cade nella trappola e apre senza sospetto. Secondo la versione di Carboni, compare<br />
sulla soglia completamente nudo; secondo un’altra fonte, in pigiama. Vede i carabinieri<br />
e capisce. E a questo punto i racconti divergono molto.<br />
Prima versione. Muti sembra rassegnato, indossa abiti borghesi e segue in silenzio<br />
l’ufficiale dei carabinieri. Ad un certo punto del tragitto dalla villa alle automobili, da un<br />
punto dove la boscaglia è più fitta, partono colpi di fucile e si sentono anche scoppi di<br />
bombe e grida. Muti con un balzo da acrobata si lancia in quella direzione. Qualcuno gli<br />
spara addosso. Poco dopo, al chiarore delle torce elettriche, lo trovano riverso, morto: è<br />
stato colpito al capo e al torace. Da chi? Carboni non lo dice; il giorno dopo, il<br />
comunicato ufficiale diffuso per radio ammette che gli hanno sparato i carabinieri.<br />
Seconda versione. I carabinieri circondano Muti, accompagnandolo verso le macchine in<br />
attesa. È buio pesto. Un po’ in disparte, cammina l’uomo in tuta blu. Nel silenzio della<br />
notte si sente un leggero sibilo, come un fischio di richiamo, al quale risponde un altro<br />
fischio. A questo punto Muti capisce e grida: «Che fate? Sono un italiano anch’io!». Ma<br />
un colpo alla nuca (sparato dall’uomo in tuta?) lo fredda. Subito dopo, i carabinieri<br />
fanno fuoco a casaccio per qualche minuto, per simulare un attacco. L’indomani la<br />
versione ufficiale parla di «gravi irregolarità nella gestione di un ente» nelle quali<br />
sarebbe stato implicato Muti; donde l’ordine di arresto, la fuga, la morte. Curioso:<br />
nessuno si preoccupa di precisare di quale ente si tratti.<br />
Un mese dopo, a Milano, nasce una legione intitolata a Ettore Muti. Nel suo nome, i<br />
tardi epigoni dello squadrismo commetteranno soprusi, torture e massacri.<br />
Franco Fucci