SECONDA GUERRA MONDIALE - Uni3 Ivrea
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intelligente di lui, fiuta il pericolo: imboccata la via dell’epurazione, dove ci si fermerà? La corona stessa sarà discussa e si finirà col perdere tutto. Il re vorrebbe una mano tesa alla «massa onesta» dei fascisti tra i quali, in un certo senso, può includere se stesso. Ma rimuovere Badoglio in quella situazione e coi tedeschi in casa è pericoloso. Il contrasto tra Badoglio e il sovrano continuerà anche dopo l’armistizio e la cosiddetta «fuga di Pescara» nel «regno del Sud». La forza di Badoglio riposa sull’appoggio britannico: egli ha firmato senza esitazioni l’«armistizio lungo» a Malta il 29 settembre ed è perciò il garante della sua esecuzione. Churchill vorrebbe conservare anche la monarchia. La persona di Vittorio Emanuele gli è però indifferente. Come garanzia, Badoglio basta, mentre l’abdicazione di Vittorio Emanuele e anche di Umberto a favore dell’erede minorenne con la reggenza affidata magari allo stesso Badoglio, salverebbe probabilmente la dinastia. E qui l’urto tra il re e Badoglio si fa violentissimo. Il sovrano questa volta però ha torto: l’esatta percezione delle mire personali di Badoglio lo acceca sul valore forse risolutivo che la mossa avrebbe per l’avvenire della sua Casa. Nelle varie edizioni del suo governo, succedutesi tino al 6 giugno 1944, Badoglio ha modo di esercitare ampi poteri, collaborando, fra l’altro, assai bene con Togliatti, autore nel marzo 1944 di quella «svolta di Salerno» che ha accantonato il problema istituzionale. Con la liberazione di Roma, Badoglio però esce definitivamente di scena. Il lungo periodo di governo lo ha messo ai riparo quanto meno dall’onda epuratrice, che del resto si calmerà assai presto e finirà per non colpire quasi nessuno. Nelle polemiche del dopoguerra sull’8 settembre, Badoglio manterrà la regola del silenzio già osservata a proposito delle dispute su Caporetto. Così il 1° novembre 1956 quest’uomo singolare, che ha molto operato sempre badando ad eliminare ogni traccia per lui imbarazzante, si spegne circondato quasi da una vaga aura di «padre della patria». Lucio Ceva Gli uomini dello staff 25 luglio 1943, è domenica. A Roma – guerra o non guerra – l’atmosfera è torpida, tipicamente festiva, aggravata da una calura umida e soffocante. In tutta Italia, solamente qualche decina di persone sa quello che è successo nella notte precedente, al Gran Consiglio del fascismo, dove Mussolini ha conosciuto l’amaro sale della sconfitta. Alle 17.20 di quella domenica, nel parco di Villa Savoia, il duce viene arrestato dai carabinieri, dopo il colloquio con Vittorio Emanuele nel corso del quale il re lo ha informato che deve andarsene e che lo sostituirà Badoglio. Il comandante dei carabinieri, generale Cerica, telefonicamente avverte il duca Acquarone – il vero «deus ex machina» degli avvenimenti di luglio – che «tutto è fatto». Acquarone va da Badoglio e, a nome del re, gli conferisce l’incarico ufficiale di formare il governo. Il vecchio maresciallo è stato interpellato da Vittorio Emanuele fin dal 16 luglio e ha accettato, senza molto entusiasmo, pare; ha 72 anni, è stanco, e anche il tipo di governo che il sovrano vuole che egli presieda – un ministero di militari e di tecnici – non gli piace tanto: preferirebbe un governo di politici. Ma Acquarone insiste: «È un ministero che non deve darle fastidi». Poi il ministro della Real Casa torna al Quirinale e, in attesa che il maresciallo prenda le redini, esercita di fatto i poteri di presidente dei Consiglio, per esempio convocando il generale Sorice per comunicargli che continuerà ad essere ministro della Guerra, e mandando a chiamare l’ex capo della polizia Senise per invitarlo a prendere nuovamente il suo posto.
Alle 22.45 l’infaticabile duca Acquarone corre alla sede dell’EIAR e consegna il comunicato che rappresenta la fine di un’epoca durata due decenni: «Sua Maestà il Re e Imperatore ha accettato le dimissioni… di Sua Eccellenza il Cavaliere Benito Mussolini… ». Il breve testo viene letto dalla «voce littoria», Giambattista Arista, con lo stesso tono usato centinaia di volte per annunciare i fasti del regime. Poi lo speaker legge il proclama di Vittorio Emanuele agli italiani e quello di Badoglio, con la sciagurata frase «la guerra continua». Va detto purtroppo che, oltre al primo, anche il secondo messaggio – le cui conseguenze saranno catastrofiche – è stato compilato da un autorevole esponente dell’Italia democratica prefascista, Vittorio Emanuele Orlando. Acquarone e Badoglio trascorrono la notte fra il 25 e il 26 luglio correggendo e ricorreggendo la lista dei ministri. L’aspetto assolutamente anomalo della crisi, anche dal punto di vista costituzionale, è che per 24 ore il paese ha un capo del governo ma non ha un governo. I rimaneggiamenti continuano fino a mezzogiorno di lunedì 26; nel frattempo, non esiste nemmeno un gabinetto per la normale amministrazione perché i ministri fascisti sono scomparsi, in fuga o addirittura braccati dai carabinieri. Martedì 27 luglio viene pubblicata la lista dei ministri e nella stessa giornata il governo tiene la sua prima riunione al Viminale, sotto la presidenza di Pietro Badoglio. Questo governo vivrà fino ai 9 settembre; all’alba di quell’infausto giorno, un giovedì, il re e il suo primo ministro fuggiranno verso il sud e la compagine governativa del dopo- Mussolini si disperderà travolta dall’uragano dell’armistizio, almeno in gran parte. Questi sono gli «uomini dei 45 giorni». Raffaele Guariglia (Esteri). Nato a Napoli il 19-2-1889. Nel 1943 ha già raggiunto i massimi gradi della diplomazia, essendo stato ambasciatore a Madrid, a Buenos Aires, a Parigi e presso la Santa Sede. Al momento del colpo di Stato, rappresenta il nostro paese ad Ankara. Su lui si era già appuntata l’attenzione di Ciano, quando questi era ministro degli Esteri; gli aveva detto infatti, alla partenza per la Turchia: «Vi aspettiamo presto a Roma per salvare l’Italia». Il giudizio di Ciano è molto positivo: «Di Guarigiia ho stima, come ingegno e come carattere». Il generale Carboni lo definisce «uomo prudentissimo». Ma prudenza non vuole dire viltà, e infatti nell’incontro con i tedeschi a Tarvisio, il 6 agosto, polemizzerà con von Ribbentrop e col generale Keitel usando parole molto dure. Bruno Fornaciari (Interni). Nato a Sondrio il 17-10-1881. Il neo-ministro durante la formulazione del governo non si trova e viene cercato per tutto il 25 luglio e nella mattinata del 26. Arriva trafelato nel pomeriggio, senza avere la più pallida idea di ciò che lo attende: la scottante poltrona dei Viminale. Era stato prefetto a Trieste e a Milano, poi direttore generale al ministero dell’interno; di lui il dizionario biografico La Nazione operante, edizione 1934, dice che è «fascista di vecchia data», definizione solitamente affibbiata a quei funzionari ai quali non è possibile attribuire meriti di regime più precisi. Però è vero che, come riferisce Monelli in Roma 1943, «quando si parlò di mandare via i prefetti troppo compromessi col fascismo, non seppe proporre che tre o quattro nomi». Verrà sostituito dopo 15 giorni da un altro senatore ex prefetto, Umberto Ricci. Melchiade Gabba (Africa italiana). Nato a Milano il 20-8-1874, colonnello durante la Prima Guerra Mondiale, capo di S.M. del 29° Corpo d’Armata, aveva poi svolto una delicata missione postbellica nel Caucaso, dove gli inglesi avevano proposto all’Italia di occupare e sfruttare i pozzi petroliferi di Baku. Saggiamente, nella sua relazione aveva dato parere negativo. Capo di S.M. di De Bono in Etiopia, poi promosso generale designato d’Armata, nel 1939 era stato nominato senatore. Il 26 luglio viene chiamato a gestire un ministero ovviamente agonizzante, visto che di Africa Italiana non ce n’è più nemmeno un metro quadrato.
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La corona stessa sarà discussa e si finirà col perdere tutto. Il re vorrebbe una mano<br />
tesa alla «massa onesta» dei fascisti tra i quali, in un certo senso, può includere se<br />
stesso. Ma rimuovere Badoglio in quella situazione e coi tedeschi in casa è pericoloso. Il<br />
contrasto tra Badoglio e il sovrano continuerà anche dopo l’armistizio e la cosiddetta<br />
«fuga di Pescara» nel «regno del Sud».<br />
La forza di Badoglio riposa sull’appoggio britannico: egli ha firmato senza esitazioni<br />
l’«armistizio lungo» a Malta il 29 settembre ed è perciò il garante della sua esecuzione.<br />
Churchill vorrebbe conservare anche la monarchia. La persona di Vittorio Emanuele gli è<br />
però indifferente. Come garanzia, Badoglio basta, mentre l’abdicazione di Vittorio<br />
Emanuele e anche di Umberto a favore dell’erede minorenne con la reggenza affidata<br />
magari allo stesso Badoglio, salverebbe probabilmente la dinastia. E qui l’urto tra il re e<br />
Badoglio si fa violentissimo. Il sovrano questa volta però ha torto: l’esatta percezione<br />
delle mire personali di Badoglio lo acceca sul valore forse risolutivo che la mossa<br />
avrebbe per l’avvenire della sua Casa.<br />
Nelle varie edizioni del suo governo, succedutesi tino al 6 giugno 1944, Badoglio ha<br />
modo di esercitare ampi poteri, collaborando, fra l’altro, assai bene con Togliatti, autore<br />
nel marzo 1944 di quella «svolta di Salerno» che ha accantonato il problema<br />
istituzionale. Con la liberazione di Roma, Badoglio però esce definitivamente di scena. Il<br />
lungo periodo di governo lo ha messo ai riparo quanto meno dall’onda epuratrice, che<br />
del resto si calmerà assai presto e finirà per non colpire quasi nessuno. Nelle polemiche<br />
del dopoguerra sull’8 settembre, Badoglio manterrà la regola del silenzio già osservata a<br />
proposito delle dispute su Caporetto. Così il 1° novembre 1956 quest’uomo singolare,<br />
che ha molto operato sempre badando ad eliminare ogni traccia per lui imbarazzante, si<br />
spegne circondato quasi da una vaga aura di «padre della patria».<br />
Lucio Ceva<br />
Gli uomini dello staff<br />
25 luglio 1943, è domenica. A Roma – guerra o non guerra – l’atmosfera è torpida,<br />
tipicamente festiva, aggravata da una calura umida e soffocante. In tutta Italia,<br />
solamente qualche decina di persone sa quello che è successo nella notte precedente,<br />
al Gran Consiglio del fascismo, dove Mussolini ha conosciuto l’amaro sale della sconfitta.<br />
Alle 17.20 di quella domenica, nel parco di Villa Savoia, il duce viene arrestato dai<br />
carabinieri, dopo il colloquio con Vittorio Emanuele nel corso del quale il re lo ha<br />
informato che deve andarsene e che lo sostituirà Badoglio. Il comandante dei<br />
carabinieri, generale Cerica, telefonicamente avverte il duca Acquarone – il vero «deus<br />
ex machina» degli avvenimenti di luglio – che «tutto è fatto». Acquarone va da Badoglio<br />
e, a nome del re, gli conferisce l’incarico ufficiale di formare il governo. Il vecchio<br />
maresciallo è stato interpellato da Vittorio Emanuele fin dal 16 luglio e ha accettato,<br />
senza molto entusiasmo, pare; ha 72 anni, è stanco, e anche il tipo di governo che il<br />
sovrano vuole che egli presieda – un ministero di militari e di tecnici – non gli piace<br />
tanto: preferirebbe un governo di politici. Ma Acquarone insiste: «È un ministero che<br />
non deve darle fastidi». Poi il ministro della Real Casa torna al Quirinale e, in attesa che<br />
il maresciallo prenda le redini, esercita di fatto i poteri di presidente dei Consiglio, per<br />
esempio convocando il generale Sorice per comunicargli che continuerà ad essere<br />
ministro della Guerra, e mandando a chiamare l’ex capo della polizia Senise per invitarlo<br />
a prendere nuovamente il suo posto.