SECONDA GUERRA MONDIALE - Uni3 Ivrea
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prende contatti con le correnti politiche democratiche, con la monarchia, attraverso la persona della principessa ereditaria Maria José (definita «l’unico uomo di Casa Savoia») e infine con gli ambienti militari, in particolare con il generale Giacomo Carboni e il generale Raffaele Cadorna. Sempre in quei mesi, i fermenti contro il fascismo – nelle varie forme: azione politica clandestina, cospirazione, congiura – possono essere identificati in alcuni filoni fondamentali: 1) quello dei partiti politici, con ancora scarse connessioni e collegamenti; 2) quello della monarchia; 3) quello della dissidenza fascista (che porterà ai pronunciamento dei Gran Consiglio); 4) quello dei militari. Sull’azione di questi ultimi è stato scritto finora molto poco, soprattutto per la ritrosia propria del loro abito mentale a parlare di un episodio che pure non fu privo di interesse. Fatto sta che, nei primi mesi del 1943, un certo numero di alti gradi – generali e colonnelli con comando di truppe – e qualche giovane ufficiale inferiore, partecipano ad una cospirazione il cui scopo è di preparare una forza d’intervento con cui rovesciare Mussolini, neutralizzando la milizia e la struttura paramilitare dei PNF. Per quanto i cospiratori siano estremamente critici verso la monarchia, è previsto che il piano d’azione scatti con il «placet» del re. Vi partecipano, fra gli altri, il generale Luigi Masini e il colonnello Carlo Basile, entrambi degli alpini, e il colonnello Sforza, comandante del reggimento autieri di stanza a Milano. L’azione è prevista per l’estate: gli eventi del 25 luglio vanificano il piano. Verso la «svolta di Salerno» Frattanto l’idea che la monarchia debba giocare un ruolo nel rovesciamento di Mussolini si è fatta strada anche fra coloro che fino a non molto tempo prima rifiutavano categoricamente l’ipotesi. Nei maggio del 1943 infatti, due comunisti, il professor Concetto Marchesi e Ludovico Geymonat, scendono a Roma e informano Alessandro Casati e Alberto Bergamini, già senatori liberali, che il PCI vedrebbe di buon grado la partecipazione del re al grande complotto antifascista. La stessa cosa viene ripetuta in abboccamenti clandestini agli esponenti di altri partiti a Milano e, a Ferrara, dove comanda la divisione di cavalleria corazzata «Ariete», ai generale Cadorna. Poiché non è pensabile che si sia trattato di un’iniziativa privata di Marchesi e Geymonat, si deve concludere che la linea politica che porterà i comunisti alla «svolta di Salerno» è praticamente in atto. Che la situazione precipitasse rapidamente era chiarissimo: c’erano stati, nel marzo, gli scioperi di Torino e di Milano, sapientemente orchestrati dai PCI, ai quali il regime aveva reagito con una mollezza impensabile due o tre anni prima. Un mese dopo, il 27 aprile, si costituiva a Roma il «Comitato nazionale antifascista» presieduto da Bonomi; curiosamente, la capitale aveva preceduto Milano, dove il primo «Comitato delle opposizioni» si forma a metà giugno e comprende comunisti, socialisti, MUP (Movimento di Unità Proletaria), Democrazia Cristiana (nuovo nome dei vecchio Partito popolare), Partito d’Azione (nato dalle radici di «Giustizia e Libertà») e Ricostruzione Liberale. Non compare a Milano un nuovo partito che è invece rappresentato nei Comitato romano; la Democrazia del lavoro, i cui principali esponenti – per lo più di estrazione liberale – sono Meuccio Ruini, lo stesso Ivanoe Bonomi, Marcello Soleri e Alessandro Casati. Nel gran fermento di quei giorni, ancora sotterraneo e piuttosto confuso, c’e un particolare che – oggi – appare quasi comico: il Comitato di Milano, che naturalmente non sa nulla della congiura di cui sta tirando i fili il diabolico conte Acquarone e tanto meno può prevedere il futuro coup de théatre al Gran Consiglio del fascismo, fissa addirittura il giorno dell’insurrezione antifascista. E qual è il giorno? Proprio il 25 luglio. Si profila frattanto la doppia fisionomia dei movimento democratico: al Nord c’è una prevalenza netta di partecipazione operaia, a Roma il movimento è pressoché
egemonizzato dalle forze borghesi. Il che appare logica conseguenza della geografia economica del paese, caratterizzata dalla forte concentrazione industriale nel Settentrione e dalla polverizzazione contadina apoliticizzata nel Centro-Sud. Gli avvenimenti precipitano, ma le forze politiche antifasciste non ne sono protagoniste. Né potevano esserlo, agendo esse ancora nella clandestinità, senza un dichiarato appoggio da parte del sovrano, con le strutture dei PNF ancora apparentemente intatte e funzionali nei paese. La bomba è pronta, ma la miccia non è nelle mani dei democratici; l’hanno accesa, qualche settimana prima, i diadochi di Mussolini. Il gran botto, quando avviene, coglie di sorpresa gli esponenti dell’antifascismo non meno di tutti gli altri italiani. Alle 17 di domenica 25 luglio Vittorio Emanuele approfitta del voto della notte precedente contro Mussolini, fa arrestare il duce e abbassa il sipario su venti anni di fascismo, nel tentativo di salvare la monarchia. Lo fa goffamente, senza stile, sì da provocare persino il rimprovero della moglie, la regina Elena, che gli dice: «Non puoi farlo arrestare in casa nostra!». La mattina del 26 luglio, a Milano, si riuniscono nello studio dell’avvocato Adolfo Tino, in via Monte di Pietà, i componenti del Comitato antifascista. Oltre a Tino, che rappresenta il Partito d’Azione, ci sono Stefano Jacini (DC), Giustino Arpesani e Tommaso Gallarati-Scotti (liberali), Lelio Basso e Lucio Luzzatto (Movimento di Unità Operaia) e, per i comunisti, G. Grilli. Tragici eventi sono alle porte, sta per cominciare una lunga stagione di sofferenze e di sangue. Franco Fucci Dino Grandi Romagnolo come Mussolini e interventista nella Grande Guerra, prima sindacalista cristiano, poi uomo degli agrari padani e infine fascista-liberal-monarchico, Dino Grandi diviene, dopo la marcia su Roma, ministro degli Esteri, ambasciatore a Londra, Guardasigilli e, per via del collare dell’Annunziata, cugino di re Vittorio. Mutando i tempi muta il suo ruolo. Al declino del fascismo abbandona tempestivamente la vacillante navicella del regime ed è l’artefice del colpo di stato del luglio 1943. Riesce a sopravvivere sia alle vendette degli ex camerati che alla resa dei conti con la democrazia: la sorte lo premia assegnandogli un comodo posto nell’oblio nazionale. Il suo rapporto col fascismo è ambiguo. Entrato in politica, diciottenne, combattuto fra un nazionalismo alla D’Annunzio, un socialismo alla Murri e un sindacalismo alla Corridoni, porta a Mussolini – personalmente e dalle colonne della rivista Assalto – le perentorie istanze dei grandi proprietari terrieri emiliani al punto di condannare il duce per il «patto di pacificazione» con i socialisti accusandolo di opportunismo, viltà e, somma ingiuria, di essersi «parlamentarizzato». È proprio per mantenere Mussolini in un ruolo di second’ordine che, all’epoca della marcia su Roma, assieme a De Vecchi e a Federzoni, tratta segretamente col re il varo di un governo Salandra-Mussoiini (ma quando dal Viminale, gentilmente concesso, telefona queste proposte al duce, l’altro irritatissimo, gli risponde: «Tu vorresti una vittoria mutilata? Giammai!» e buttò giù il microfono). Ma il suo antagonismo è più apparente che di sostanza anche se gli serve a saldare i primi legami col suo uomo del destino, Vittorio Emanuele III. È il numero due del fascismo Ministro degli Esteri, nel 1929 e poi ambasciatore a Londra nel 1931, la politica di Grandi (intesa con la Francia, «ponti» all’Inghilterra e adesione alla Società delle Nazioni, il tutto
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(liberali), Lelio Basso e Lucio Luzzatto (Movimento di Unità Operaia) e, per i comunisti, G.<br />
Grilli. Tragici eventi sono alle porte, sta per cominciare una lunga stagione di sofferenze e<br />
di sangue.<br />
Franco Fucci<br />
Dino Grandi<br />
Romagnolo come Mussolini e interventista nella Grande Guerra, prima sindacalista<br />
cristiano, poi uomo degli agrari padani e infine fascista-liberal-monarchico, Dino Grandi<br />
diviene, dopo la marcia su Roma, ministro degli Esteri, ambasciatore a Londra,<br />
Guardasigilli e, per via del collare dell’Annunziata, cugino di re Vittorio. Mutando i tempi<br />
muta il suo ruolo. Al declino del fascismo abbandona tempestivamente la vacillante<br />
navicella del regime ed è l’artefice del colpo di stato del luglio 1943. Riesce a sopravvivere<br />
sia alle vendette degli ex camerati che alla resa dei conti con la democrazia: la sorte lo<br />
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nazionalismo alla D’Annunzio, un socialismo alla Murri e un sindacalismo alla Corridoni,<br />
porta a Mussolini – personalmente e dalle colonne della rivista Assalto – le perentorie<br />
istanze dei grandi proprietari terrieri emiliani al punto di condannare il duce per il «patto di<br />
pacificazione» con i socialisti accusandolo di opportunismo, viltà e, somma ingiuria, di<br />
essersi «parlamentarizzato».<br />
È proprio per mantenere Mussolini in un ruolo di second’ordine che, all’epoca della marcia<br />
su Roma, assieme a De Vecchi e a Federzoni, tratta segretamente col re il varo di un<br />
governo Salandra-Mussoiini (ma quando dal Viminale, gentilmente concesso, telefona<br />
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mutilata? Giammai!» e buttò giù il microfono). Ma il suo antagonismo è più apparente che<br />
di sostanza anche se gli serve a saldare i primi legami col suo uomo del destino, Vittorio<br />
Emanuele III.<br />
È il numero due del fascismo<br />
Ministro degli Esteri, nel 1929 e poi ambasciatore a Londra nel 1931, la politica di Grandi<br />
(intesa con la Francia, «ponti» all’Inghilterra e adesione alla Società delle Nazioni, il tutto