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SECONDA GUERRA MONDIALE - Uni3 Ivrea

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Nel 1943 il detenuto Giancarlo Pajetta aveva trentadue anni. Dodici passati in prigione.<br />

Secondo i calcoli, gli restavano ancora sei mesi, poi sarebbe stato libero. Un giorno lo<br />

chiamò il direttore: «Fra non molto ritornerete fuori. Avete cambiato idea?». «Non ne ho<br />

avuta l’occasione». «Che cosa farete poi?». «Se lei mi sa dire ciò che accadrà, le anticiperò<br />

i miei programmi».<br />

Si avvertiva che ormai il clima era cambiato, e che qualcosa stava per succedere. Bombe<br />

anche su Civitavecchia, così dal penitenziario avevano trasferito della gente a Sulmona.<br />

Pajetta ricorda il viaggio e la sosta a Regina Coeli. […]<br />

Quel luglio, quell’attesa. I condannati dal tribunale speciale si preparavano: fra le materie<br />

di studio figurava anche una serie di conversazioni sui vari sistemi elettorali e i problemi<br />

della amministrazione. Non credevano fosse arrivato il momento della rivolta, per far<br />

trionfare la dittatura del proletariato. Qualcuno aveva ripreso tra le mani i testi dell’arte<br />

militare: ci sarebbe stata presto la lotta partigiana. Le regole del carcere però valevano<br />

ancora. Il direttore Carretta era duro, cattivo. Una specie dì calvinista della legge. Finì<br />

male. buttato nel Tevere da una folla impazzita. […]<br />

Trovato con un giornale non consentito, il recluso Pajetta era stato punito con la cella<br />

sotterranea, Durante la breve passeggiata, uno gli urlò: «Sono sbarcati in Sicilia».<br />

A sera, cambiarono la guardia. Pajetta picchiò sulla porta e chiese al secondino: «Com’è<br />

andata?». «Hanno tentato, ma sono stati rigettati in mare, e tutto è finito». Soltanto<br />

quando risalì seppe che invece stavano combattendo.<br />

Dice: «La notte del 25 luglio era calda, si respirava con fatica, non si riusciva a dormire.<br />

Anche la mattina fu data, come sempre, la sveglia alle sei. In un’ora bisognava sistemare il<br />

letto, essere in ordine. C’era qualcosa d’insolito; nel corridoio i “comuni” facevano strani<br />

segni. Vennero, come sempre, a segnare la spesa, cominciammo a protestare, riuscimmo<br />

ad avere qualche notizia: “Hanno fatto un governo nuovo”. Nacque una discussione che fu<br />

interrotta da Arturo Colombi: “Smettiamola con le chiacchiere inutili, continuiamo a fare il<br />

nostro lavoro”. E riprese la lettura. C’era molta vigilanza, e non sapevamo niente di sicuro.<br />

Cacciapuoti era il nostro amministratore. Fece una proposta: “Per male che vada, prendi<br />

quattro pacchetti di sigarette, che almeno fumiamo”.<br />

Scendendo le scale, per prendere aria, mi avvicinai deciso ad un custode: “Superiore, che<br />

cosa c’è di nuovo?”. “Niente”. “E se grido abbasso Mussolini, che cosa mi fate?”. “Cosa<br />

dite?”, mi guardò sbigottito.<br />

Ci portavano a fare i soliti passi nel chiosco dell’Abbadia del Morone, salii su una panchina<br />

di pietra e feci il mio primo comizio: “Il duce è caduto, dobbiamo chiedere di uscire per<br />

andare a fare il nostro dovere”.<br />

Ci fu un po’ di smarrimento, una delegazione venne ricevuta dal direttore, il quale<br />

ammonì: “Prima di tutto state calmi, perché la guerra continua”. Gli feci osservare che noi<br />

eravamo là dentro per aver voluto fare tanto tempo prima quello che si era combinato<br />

adesso e che, di certo, in tutte le città stavano chiedendo la nostra scarcerazione.<br />

Domandammo carta e matita per scrivere a Badoglio; c’era sul tavolo un quotidiano, e me<br />

lo presi. Ottenemmo che i sorveglianti togliessero i fasci littori che avevano appuntati sulle<br />

giacche; dopo il silenzio cantavamo l’Internazionale. […]<br />

Verso la fine di agosto, mi avvertirono che, dato che nel mio foglio matricolare c’era scritto<br />

che ero stato condannato a ventun anni, dovevo essere trasferito in stato di detenzione,<br />

con le manette, insomma, al distretto militare di Torino. Arrivarono i carabinieri ma rifiutai<br />

di uscire. Il direttore disse sconsolato che gli avevamo fatto venire i capelli bianchi, e mi<br />

lasciò andare. Lo capisco. Dovevamo far intendere a lui e ai suoi uomini che un mondo era<br />

finito, e che comandavamo noi. Cacciapuoti diceva: “In questo camerone, c è almeno una

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