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SECONDA GUERRA MONDIALE - Uni3 Ivrea

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con irruenza. A Cremona dirige uno squadrismo feroce. Chiama il Parlamento «un troiaio»,<br />

disgusta persino D’Annunzio che lo definisce «goffo turiferario». Strappa una laurea in<br />

legge e fa l’avvocato. Difende Dumini, l’assassino di Matteotti, nel processo-farsa di Chieti.<br />

Segretario dei PNF, viene silurato e resta in ombra fino ai 1933. Va in Etiopia come pilota,<br />

ma è un disastro: si perde e Bruno Mussolini deve andare a recuperarlo. Ladro, razzista,<br />

filotedesco senza pudore: persino Goebbels lo definisce «un babbeo». Nel Gran Consiglio<br />

presenta un suo o.d.g. ma è l’unico a votarlo. Durante la RSI farà da fedele sottocoda dei<br />

tedeschi. Finirà sotto le pallottole dei partigiani.<br />

Giovanni Marinelli. (n. ad Adria il 18-10.1879, m. l’11-1-1944). Ragioniere, non<br />

combattente perché riformato, eterno segretario amministrativo del PNF, sotto l’aspetto da<br />

travet nasconde un animo spietato: è lui il responsabile dei crimini della «Ceka fascista»<br />

negli anni Venti e dei delitto Matteotti. Sordo come una campana, della discussione in<br />

Gran Consiglio non capisce nulla né mai interviene. Ma vota l’o.d.g. Grandi, il che gli<br />

costerà poi la vita.<br />

Edmondo Rossoni. (n. a Tresigallo il 6-5-1884, m. il 17-12-1961). Ex sindacalista, dopo<br />

lunghi anni di quasi anonimato – salvo un periodo di sottosegretariato alla presidenza del<br />

Consiglio – finalmente raggiunge un ministero, quello dell’Agricoltura. Durante la seduta<br />

del Gran Consiglio non apre bocca; nessuno fra quelli che riferiranno poi di quella<br />

drammatica riunione avrà motivo di citarlo.<br />

Franco Fucci<br />

Il 25 luglio di Pertini e Pajetta<br />

Sandro Pertini<br />

Questo è il racconto di Pertini Alessandro, del fu Alberto e di Muzio Maria, avvocato,<br />

socialista, confinato politico nell’isola di Ventotene.<br />

«Domenica 25 luglio: una serata come tutte le altre. Quando la radio diede il comunicato<br />

ci avevano già rinchiusi nel camerone. Eravamo più di settecento, nella stragrande<br />

maggioranza comunisti: Longo, Terracini, Scoccimarro, Camilla Ravera, Secchia. Poi<br />

c’erano Ernesto Rossi e Riccardo Bauer, del partito d’azione, e anche degli anarchici, gente<br />

che veniva dalle prigioni, naturalmente, che aveva fatto la guerra in Spagna, che era stata<br />

nei campi di concentramento francesi.<br />

Alcuni di noi, ritenuti “pericolosissimi”, godevano di un trattamento speciale: venivano<br />

sorvegliati a vista. La mattina del 26 notai che i militi che avevano la consegna di<br />

pedinarmi erano costernati. Un agente gridò: “C’è una comunicazione importante: tutti in<br />

piazza”. Era lì che ci riunivano per l’appello: quando veniva letto il nostro nome bisognava<br />

rispondere: “Presente”. Una guardia non seppe stare zitta, e si lasciò scappare una notizia<br />

che aspettavamo da vent’anni: “Hanno arrestato Mussolini”.<br />

Scoprimmo così che c’era un nuovo governo, presieduto dal maresciallo Badoglio, e che la<br />

guerra continuava. Scoppiò un applauso, ma non si videro scene di esultanza clamorosa, il<br />

sentimento che prevalse fu un senso di angoscia per quello che ci aspettava: una eredità<br />

fallimentare.<br />

Presi subito contatto con alcuni compagni: “Se non stiamo attenti”, dissi “può accadere<br />

qualcosa di grave”. Costituimmo un comitato, ne facevano parte, ricordo, anche un<br />

albanese, che fu ucciso al ritorno in patria, e un libertario. Giovanni Damaschi, impiccato<br />

poi durante la lotta partigiana.<br />

Chiedemmo di essere ricevuti dal direttore della colonia penale, il commissario Guida, che<br />

diventò poi questore di Milano. Lo trovammo nel suo ufficio, era pallido, nervoso, aveva

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