SECONDA GUERRA MONDIALE - Uni3 Ivrea
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totale» con i bombardamenti indiscriminati sulle città) alle esigenze «politiche» di rovesciare il regime è immediato. Tutti perciò comprendono assai bene il problema, e la stragrande maggioranza condivide il senso di un altro manifestino che, partendo dalla richiesta di respingere gli straordinari che dilatano l’orario di lavoro fino a dodici ore al giorno, afferma: «Per il pane e la libertà! Contro le 12 ore e la guerra maledetta! Esigiamo la cacciata di Mussolini dal potere! Lottiamo per la pace e l’indipendenza del nostro Paese! Per l’aumento del salario e perché questo ci venga pagato! L’azione, lo sciopero, la lotta sono le sole armi che possediamo, la via della nostra salvezza. Sciopero, sciopero, sciopero!». Sono slogans elementari, che rispondono alle paure, alle pene di tutti. Ecco perché se anche la sirena delle 10 il 5 marzo non è suonata (doveva essere quello il segnale della fermata degli operai) gli stabilimenti si sono fermati. Qualche infiltrato della polizia in seno alle organizzazioni clandestine ha avvertito le autorità del progetto di sciopero e la polizia non ha fatto arrivare il segnale delle 10. Ma la misura è colma e anche il mancato segnale, anziché intimorire gli operai, li esaspera. Gli scioperi dilagano Le fermate, gli scioperi più o meno lunghi continueranno per diversi giorni, si estenderanno a tutti gli stabilimenti FIAT, poi ad altre industrie interessate alla produzione bellica, a metà mese dilagheranno a Milano e a Porto Marghera. Comincia la repressione poliziesca, operai attivisti vengono arrestati all’interno e fuori delle fabbriche. Ma i primi giorni dell’agitazione sono stati segnati dalla disorganizzazione e più ancora dallo sconcerto delle autorità preposte all’ordine. Eppure il capo della polizia Senise scriverà nelle sue memorie, provando che Mussolini sapeva delle agitazioni prima che queste si manifestassero in modo tanto clamoroso: «Di questo sciopero avevamo avuto già qualche sentore una ventina di giorni prima, essendo venuti in possesso di talune istruzioni emanate dal Partito Comunista, istruzioni che io portai personalmente a conoscenza del Capo del governo, il quale le lesse attentamente in mia presenza e se le trattenne… Pur avendone avuto preventivo sentore, era ovvio che la polizia non poteva fare nulla per impedirne l’attuazione; non so che cosa abbiano fatto gli organi corporativi [i sindacati fascisti], ma debbo pensare che il Capo del governo qualche disposizione abbia dovuto darla, non fosse altro che per seguire l’atteggiamento e lo stato d’animo delle masse dei lavoratori, tutti iscritti nei sindacati». Senise evidentemente aveva sopravvalutato i sindacati fascisti, incapaci di interpretare anche le esigenze più elementari dei lavoratori e da questi ormai apertamente ignorati e duramente criticati da anni, mentre Mussolini si abbandonerà poi alle sue abituali, arroganti argomentazioni. Dice ai gerarchi: «Non chiediamo alcun attestato di gratitudine [agli operai] e, se ce ne volessero dare, lo respingeremmo. Ma quando essi abbandonano il lavoro in un momento come questo in cui è in gioco la vera e propria esistenza della nazione, allora, se non si mettono in regola nel più breve tempo possibile, saranno trattati come si trattano coloro che abbandonano il proprio posto di fronte al nemico». Quando le agitazioni si spostano a Milano, l’allarme nel regime è più forte. Mussolini protesta per la scarsa efficacia delle misure di polizia e il 17 aprile, parlando al direttorio del partito afferma: «Non ho avuto l’impressione che gli organi di polizia abbiano avuto il mordente necessario. Non ci sono state schiumature [sic] per farla finita. Se avessero sparato le autoblindo, io ne avrei assunto subito la responsabilità».
E un gerarca, il consigliere nazionale Malusardi, dice: «C’è un episodio istruttivo avvenuto presso la nostra grande alleata, la Germania. In una grande fabbrica bellica, gli operai hanno incrociato le braccia, essi sono stati decimati come al fronte; alcuni operai che avevano raccolto denaro per aiutare le famiglie dei fucilati, vennero fucilati a loro volta». S’incarica Farinacci di dire a Mussolini la verità «politica» degli scioperi milanesi. Il «ras di Cremona» scrive al duce: «Ho vissuto, stando naturalmente nell’ombra, le manifestazioni degli operai di Milano. Ne sono rimasto profondamente amareggiato come fascista e come italiano. Non siamo stati capaci né di prevenire né di reprimere ed abbiamo infranto il principio di autorità del nostro regime. A Milano gli avvenimenti hanno esautorato il Federale che è un ottimo camerata e valoroso combattente ma con le spalle impotenti a reggere quella situazione… Se ti dicono che il movimento ha assunto un aspetto esclusivamente economico ti dicono una menzogna… ». La stessa lettera di Farinacci è una «fotografia» più ampia dello stato d’animo degli italiani nella primavera del 1943: «Il partito è assente e impotente. Ora avviene l’inverosimile. Dovunque, nei tram, nei caffè, nei teatri, nei cinematografi, nei rifugi, nei treni, si critica, si inveisce contro il regime e si denigra non più questo o quel gerarca, ma addirittura il Duce. E la cosa gravissima è che nessuno più insorge. Anche le questure rimangono assenti, come se l’opera loro fosse ormai inutile. Andiamo incontro a giorni che gli avvenimenti militari potrebbero far diventare più angosciosi. Difendiamo la nostra rivoluzione con tutte le forze… E poi, caro Presidente, perché non convochi il Gran Consiglio? Lascia che ognuno sfoghi il suo stato d’animo e ti dica il suo pensiero, e fa in modo che tutti tornino rincuorati dalla tua parola». La congiura di Grandi È un fatto che le agitazioni operaie della primavera, la manifesta ostilità del popolo alla guerra e al regime hanno una parte determinante nella crisi che porta al 25 luglio, e sono di conforto alla monarchia per decidersi al gran passo di «licenziare» Mussolini. Dopo l’incontro con il duce del 22 luglio, Grandi ha un’altra serie di incontri con gli esponenti più critici del fascismo, in particolare con Bottai e Ciano e il pomeriggio del 24 luglio, prima di raggiungere Palazzo Venezia i tre si dedicano alla stesura definitiva dell’ordine del giorno. Il documento, dopo l’omaggio di prammatica alle forze armate e «alla fiera gente di Sicilia» (che però sta accogliendo gli Alleati come liberatori) afferma «la necessità dell’unione morale e materiale di tutti gli italiani in quest’ora grave e decisiva per i destini del Paese» e a questo scopo dichiara «necessario l’immediato ripristino di tutte le funzioni statali, attribuendo alla Corona, al Gran Consiglio, al Governo, al Parlamento, alle Corporazioni i compiti e le responsabilità delle nostre leggi statutarie e costituzionali». Infine invita «il Capo del Governo a pregare la Maestà del Re, verso la quale si rivolge fedele e fiducioso il cuore dell’intera Nazione, acciocché Egli voglia, per l’amore e per la salvezza della Patria, assumere con l’effettivo comando delle Forze Armate di terra, di mare e dell’aria, secondo l’Art. 5 dello Statuto del Regno, quella suprema iniziativa di decisione che le nostre Istituzioni a Lui attribuiscono e ne sono sempre state, in tutta la nostra Storia nazionale, il retaggio glorioso della nostra Augusta Dinastia di Savoia». L’autodifesa del duce
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E un gerarca, il consigliere nazionale Malusardi, dice: «C’è un episodio istruttivo avvenuto<br />
presso la nostra grande alleata, la Germania. In una grande fabbrica bellica, gli operai<br />
hanno incrociato le braccia, essi sono stati decimati come al fronte; alcuni operai che<br />
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S’incarica Farinacci di dire a Mussolini la verità «politica» degli scioperi milanesi. Il «ras di<br />
Cremona» scrive al duce: «Ho vissuto, stando naturalmente nell’ombra, le manifestazioni<br />
degli operai di Milano. Ne sono rimasto profondamente amareggiato come fascista e come<br />
italiano. Non siamo stati capaci né di prevenire né di reprimere ed abbiamo infranto il<br />
principio di autorità del nostro regime. A Milano gli avvenimenti hanno esautorato il Federale<br />
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esclusivamente economico ti dicono una menzogna… ».<br />
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E la cosa gravissima è che nessuno più insorge. Anche le questure rimangono assenti,<br />
come se l’opera loro fosse ormai inutile. Andiamo incontro a giorni che gli avvenimenti<br />
militari potrebbero far diventare più angosciosi. Difendiamo la nostra rivoluzione con tutte<br />
le forze… E poi, caro Presidente, perché non convochi il Gran Consiglio? Lascia che ognuno<br />
sfoghi il suo stato d’animo e ti dica il suo pensiero, e fa in modo che tutti tornino rincuorati<br />
dalla tua parola».<br />
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È un fatto che le agitazioni operaie della primavera, la manifesta ostilità del popolo alla<br />
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Dopo l’incontro con il duce del 22 luglio, Grandi ha un’altra serie di incontri con gli<br />
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necessità dell’unione morale e materiale di tutti gli italiani in quest’ora grave e decisiva per<br />
i destini del Paese» e a questo scopo dichiara «necessario l’immediato ripristino di tutte le<br />
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Infine invita «il Capo del Governo a pregare la Maestà del Re, verso la quale si rivolge<br />
fedele e fiducioso il cuore dell’intera Nazione, acciocché Egli voglia, per l’amore e per la<br />
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L’autodifesa del duce