SECONDA GUERRA MONDIALE - Uni3 Ivrea

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20.05.2013 Views

Capitolo cinquantacinquesimo Il 25 luglio Quando Mussolini, il 20 luglio del 1943, rientra a Roma dal convegno di Feltre con Hitler a mani vuote (se si esclude la promessa di un’altra divisione tedesca a difesa della Sicilia) la sua sorte è già segnata. Quello che era un proposito maturato nei mesi da Vittorio Emanuele III, dagli uomini della Corte e dai militari che fanno capo, sia pure con diverse sfumature, a Badoglio e al Capo di Stato Maggiore, Ambrosio, si trasforma in una decisione. Per il 24 luglio è stato convocato il Gran Consiglio del fascismo. Dino Grandi, presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, uomo di liaison, e di punta, nei rapporti tra la monarchia e gli elementi dissidenti o comunque dubbiosi del partito, presenterà e farà votare a maggioranza il famoso ordine del giorno che toglie a Mussolini tutti i poteri per rimetterli nelle mani del sovrano. Ma se esista un collegamento diretto tra l’iniziativa di Grandi e le intenzioni del re è difficile dirlo. Certo Grandi tiene da tempo al corrente di tutto Acquarone, ministro della Real Casa, e proprio Acquarone sarà il primo ad essere informato dell’esito del voto al Gran Consiglio la mattina del 25 luglio. Lo stesso Grandi in quella occasione ha pronti due schemi di decreti: il primo riguarda la soppressione della Camera dei Fasci e delle Corporazioni e la sua sostituzione con l’ordinamento parlamentare previsto dallo Statuto Albertino; il secondo prevede la soppressione del Gran Consiglio del fascismo. Quale azione parallela esista tra le iniziative di Grandi e il «complotto» contro il regime fascista di militari e Casa Reale si saprà forse con maggiore chiarezza dopo la morte dello stesso Grandi, avendo questi più volte, anche in anni recenti, ribadito che alcuni «segreti» di quell’anno cruciale non usciranno dal suo archivio prima della sua scomparsa. È un fatto che la riunione del Gran Consiglio, fissata per la sera di sabato 24 luglio, è maturata il 15 luglio in una riunione tra un gruppo di gerarchi e Mussolini. In quell’incontro Bottai ha lamentato apertamente il fatto che il supremo consesso del regime sia spesso tenuto estraneo alle decisioni più importanti per il paese. Pare sia Farinacci a proporre la convocazione del Gran Consiglio. Ma già pensando ai due personaggi, su versanti opposti dello schieramento all’interno del partito, si capisce come ognuno dei grossi protagonisti, nella seduta del 24 luglio, puntasse sulla propria soluzione, meditando di trascinare la maggioranza dei membri minori, frastornati e indecisi sul da farsi, a sostegno delle sue tesi. Se questa era dunque la situazione di profonda frattura all’interno del partito e del regime, con un Mussolini soltanto in apparenza sicuro di sé, ma poi pronto di fatto a subire, come dimostrerà il suo comportamento nella notte decisiva, il re e i militari non aspettano, a quanto pare, il «la» del Gran Consiglio. La loro decisione di sostituire il duce è presa e semmai il voto del 25 luglio servirà soltanto ad accelerare i tempi, a far scattare forse con qualche mese, o qualche settimana, di anticipo un piano già preparato. Grandi non ha partecipato alla riunione del 15 luglio, perché assente da Roma, dove ritorna il 22, chiamatovi da Mussolini. È in quella occasione, a quanto si sa, che il presidente della Camera parla al duce del suo progetto di ordine del giorno e fa presente al dittatore quanto il paese sia ormai distaccato dagli obiettivi del regime, quanto odio abbia accumulato per chi l’ha trascinato in una guerra disastrosa, a fianco di un alleato per

il quale la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica italiana ha sempre avuto sentimenti di diffidenza, un alleato che in più ci disprezza. La risposta di Mussolini alle argomentazioni di Grandi (che, visto il temperamento del personaggio, sono state esposte senza sottintesi) è ancora sicura, quasi aggressiva. Ma è un fatto che il duce non fa nulla per arrestare l’iniziativa di Grandi; sa di arrivare alla seduta del Gran Consiglio con un ordine del giorno di condanna del suo operato, con una sostanziale richiesta di cambiare «timoniere». Il duce è ormai in preda ad una forma di apatia che lo accompagnerà fino alla fine dei suoi giorni, dietro la facciata a tratti ancora tracotante; oppure confida di rovesciare le posizioni al Gran Consiglio e di ottenere ancora una volta una vittoria personale? È difficile capirlo, forse sono vere tutt’e due le ipotesi: Mussolini, dalla fine del 1940, alterna apatia a sicurezza, è facile al più nero pessimismo come all’ingiustificato ottimismo. «Per il pane e la libertà!» Certamente sa (perché i rapporti dell’OVRA e dei prefetti gli arrivano regolarmente sul tavolo) che l’opinione pubblica è tutta contro la guerra, che le sofferenze per le privazioni e per i duri bombardamenti che continuano a colpire le grandi città al nord come al sud hanno spezzato la volontà di resistenza del popolo italiano, che gli italiani non vedono sbocco al conflitto se non con il totale annientamento. Le manifestazioni di ostilità sono sfociate in aperta rivolta a Torino, Milano, Venezia e in altri centri industriali nel marzo di quell’anno. Ogni mattina alle 10 le sirene delle grandi città suonano a distesa. È la prova che ogni giorno viene fatta per i segnali d’allarme aereo, ma è pure un sinistro richiamo al suono che nella stessa giornata, o nella notte, si sente non per prova, ma per annunciare un nuovo disastroso bombardamento alleato. Il 5 marzo 1943 negli stabilimenti FIAT di Torino la sirena delle 10 del mattino non suona. Dopo qualche minuto gli operai si fermano e si passano la parola d’ordine da un reparto all’altro: sciopero. Dietro l’iniziativa c’è l’organizzazione comunista clandestina, ma la maggior parte degli operai non si chiede da dove venga l’invito all’agitazione, eppure lo accoglie senza riserve, con la forza dell’esasperazione dice il proprio «no» alla guerra, alle condizioni di lavoro cui il conflitto li obbliga. Il motivo di base per le agitazioni è più che forte. Sono soprattutto le discriminazioni salariali e i ritardi nel pagamento delle indennità. Sono state riconosciute una indennità di 192 ore, pari ad un mese di salario e una di carovita, pari ad una settimana da gennaio, ma soltanto agli operai capi-famiglia che possano provare di avere le famiglie sfollate. E gli altri, che spesso non hanno potuto abbandonare la città per mancanza di mezzi per sistemare altrove la famiglia, si domandano perché debbano avere di meno, e in più subire i tremendi bombardamenti. La questione è sottolineata in un manifestino distribuito dai gruppi comunisti: «Ora si tenta di dare le 192 ore solo agli sfollati. Chi ha sfollato aveva i mezzi. Quelli che non hanno sfollato sono i più poveri, rimasti ad affrontare le bombe senza che il governo barbaro preparasse loro i necessari rifugi con trasporti dai domicili delle famiglie ai rifugi stessi. Molti hanno sfollato con piacere. La maggior parte degli sfollati sono impiegati, capisquadra, capi-reparto, capiofficina, ingegneri ricchi… ». La leva sul proletariato più colpito, anche se per nulla o scarsamente politicizzato, è potente, e passare dalle rivendicazioni economiche (inserite nella pesante condizione d’un paese da tre anni impegnato in una guerra disastrosa che è ormai diventata «guerra

Capitolo cinquantacinquesimo<br />

Il 25 luglio<br />

Quando Mussolini, il 20 luglio del 1943, rientra a Roma dal convegno di Feltre con Hitler a<br />

mani vuote (se si esclude la promessa di un’altra divisione tedesca a difesa della Sicilia) la<br />

sua sorte è già segnata. Quello che era un proposito maturato nei mesi da Vittorio<br />

Emanuele III, dagli uomini della Corte e dai militari che fanno capo, sia pure con diverse<br />

sfumature, a Badoglio e al Capo di Stato Maggiore, Ambrosio, si trasforma in una<br />

decisione.<br />

Per il 24 luglio è stato convocato il Gran Consiglio del fascismo. Dino Grandi, presidente<br />

della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, uomo di liaison, e di punta, nei rapporti tra la<br />

monarchia e gli elementi dissidenti o comunque dubbiosi del partito, presenterà e farà<br />

votare a maggioranza il famoso ordine del giorno che toglie a Mussolini tutti i poteri per<br />

rimetterli nelle mani del sovrano. Ma se esista un collegamento diretto tra l’iniziativa di<br />

Grandi e le intenzioni del re è difficile dirlo. Certo Grandi tiene da tempo al corrente di<br />

tutto Acquarone, ministro della Real Casa, e proprio Acquarone sarà il primo ad essere<br />

informato dell’esito del voto al Gran Consiglio la mattina del 25 luglio. Lo stesso Grandi in<br />

quella occasione ha pronti due schemi di decreti: il primo riguarda la soppressione della<br />

Camera dei Fasci e delle Corporazioni e la sua sostituzione con l’ordinamento parlamentare<br />

previsto dallo Statuto Albertino; il secondo prevede la soppressione del Gran Consiglio del<br />

fascismo.<br />

Quale azione parallela esista tra le iniziative di Grandi e il «complotto» contro il regime<br />

fascista di militari e Casa Reale si saprà forse con maggiore chiarezza dopo la morte dello<br />

stesso Grandi, avendo questi più volte, anche in anni recenti, ribadito che alcuni «segreti»<br />

di quell’anno cruciale non usciranno dal suo archivio prima della sua scomparsa.<br />

È un fatto che la riunione del Gran Consiglio, fissata per la sera di sabato 24 luglio, è<br />

maturata il 15 luglio in una riunione tra un gruppo di gerarchi e Mussolini. In quell’incontro<br />

Bottai ha lamentato apertamente il fatto che il supremo consesso del regime sia spesso<br />

tenuto estraneo alle decisioni più importanti per il paese. Pare sia Farinacci a proporre la<br />

convocazione del Gran Consiglio. Ma già pensando ai due personaggi, su versanti opposti<br />

dello schieramento all’interno del partito, si capisce come ognuno dei grossi protagonisti,<br />

nella seduta del 24 luglio, puntasse sulla propria soluzione, meditando di trascinare la<br />

maggioranza dei membri minori, frastornati e indecisi sul da farsi, a sostegno delle sue<br />

tesi.<br />

Se questa era dunque la situazione di profonda frattura all’interno del partito e del regime,<br />

con un Mussolini soltanto in apparenza sicuro di sé, ma poi pronto di fatto a subire, come<br />

dimostrerà il suo comportamento nella notte decisiva, il re e i militari non aspettano, a<br />

quanto pare, il «la» del Gran Consiglio. La loro decisione di sostituire il duce è presa e<br />

semmai il voto del 25 luglio servirà soltanto ad accelerare i tempi, a far scattare forse con<br />

qualche mese, o qualche settimana, di anticipo un piano già preparato.<br />

Grandi non ha partecipato alla riunione del 15 luglio, perché assente da Roma, dove<br />

ritorna il 22, chiamatovi da Mussolini. È in quella occasione, a quanto si sa, che il<br />

presidente della Camera parla al duce del suo progetto di ordine del giorno e fa presente<br />

al dittatore quanto il paese sia ormai distaccato dagli obiettivi del regime, quanto odio<br />

abbia accumulato per chi l’ha trascinato in una guerra disastrosa, a fianco di un alleato per

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