SECONDA GUERRA MONDIALE - Uni3 Ivrea

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20.05.2013 Views

«Pantalone» è stanco di pagare Gli italiani avevano poi coscienza di essere in un vicolo cieco quando si accorgevano quanto il paese mancasse di materie prime provvedevano ad alimentare sempre più questa sensazione deprimente la forsennata requisizione e raccolta delle piccole risorse di metalli. Le cancellate erano sistematicamente demolite per dare ferro all’industria, alle famiglie si sequestravano gli oggetti domestici di rame (allora largamente diffusi), per le case di nuova costruzione era fatto assoluto divieto di usare materiale ferroso per gli infissi. Era stata proibita la compravendita di metalli e pietre preziose; chi ne possedeva era obbligato a denunciarli. Non andava esente la carta: fin dal 1939 i giornali uscivano a quattro pagine. Quanto alle automobili esse erano state colpite da restrizioni sempre più gravi, che erano culminate il 1° novembre del 1941 con il divieto di circolazione a tempo indeterminato di tutte le vetture a benzina. Parallelamente tutti (e in particolare la gran massa della popolazione a medio e basso reddito) subivano pesanti restrizioni nel vitto: tutti i prodotti per consumo alimentare erano soggetti a rigido razionamento mediante le tessere annonarie individuali; e anche i prodotti per igiene domestica e per l’abbigliamento avevano subito lo stesso regime di razionamento (i tessili dal novembre 1941 erano venduti soltanto su presentazione di apposite tessere). Questa ondata di restrizioni si abbatteva anche sugli esercizi pubblici conferendo alla vita di ogni giorno un’altra nota di disperante grigiore: le pasticcerie si erano viste proibire un prodotto dopo l’altro, fino al divieto assoluto di produrre alcun genere nel settembre del 1941. Il caffè, una bevanda che per la stragrande maggioranza degli italiani aveva un’importanza primaria, era scomparso, tutti si erano rassegnati, imprecando, a bere surrogati. L’energia elettrica era diventata anch’essa preziosa: per fare risparmi era stato adottato l’orario unico negli uffici, il servizio tranviario nelle città limitato alle dieci di sera; una restrizione che accompagnandosi all’oscuramento antiaereo aveva determinato la chiusura dei pubblici esercizi alla stessa ora (con l’eccezione dei cinema che continuavano a proiettare film fino alle 23.30). Nell’insieme era un quadro che richiamava alla mente degli italiani la sinistra promessa fatta da Mussolini prima della guerra, e in previsione di questa, quando aveva detto, sicuro di sé come sempre in quel periodo: «I denari li troveremo, a costo di fare tabula rasa di tutto ciò che è vita civile». E la «tabula rasa» alla fine del 1941 era già per la maggioranza degli italiani una sciagura consumata al novanta per cento. Alle restrizioni si accompagnava un duro apparato poliziesco che colpiva prevalentemente i piccoli trasgressori, i piccoli speculatori. Sulla carta erano previste pene molto severe per i reati più gravi, in materia di consumi extra-razionamento e di violazione delle norme sulle valute: in alcuni casi era addirittura prevista la pena di morte. Ma, come regolarmente succede nel nostro paese, spesso il rapporto, per esempio tra polizia annonaria e trasgressori, si traduceva in una specie di gioco a «guardie e ladri» in cui quasi sempre il trasgressore aveva la meglio facendosi beffe dell’autorità. E al di là del comprensibile compiacimento di molti per la «vendetta» dell’eterno «pantalone» nei confronti dello stato vessatorio che aveva gettato il paese nel baratro della guerra, questo stato di cose contribuiva a distruggere ogni residuo rispetto del cittadino per la legge, mentre il risvolto più deteriore era la corruzione dilagante intorno al fenomeno del «mercato nero».

Il partito nazionale fascista aveva cercato di reagire alla degradazione del paese e al crescente «disfattismo». Nell’autunno del 1941 aveva lanciato la «mobilitazione civile», che riguardava otto milioni di cittadini. Il relativo decreto era stato varato nel febbraio del 1942: tutti gli uomini, dai diciotto ai cinquantacinque anni (esclusi ovviamente quelli che erano sotto le armi) si trovavano così «registrati», pronti ad essere destinati a compiti per i quali non esisteva un minimo di programmazione. In un secondo tempo era prevista anche la «mobilitazione» delle donne. «In giro», commentava Ciano, «c’è un certo disagio anche perché non si capisce bene di che si tratta e si teme che sia un doppione del lavoro obbligatorio dei tedeschi». Ma se il partito promuove questa campagna per combattere l’individualismo «disfattista», deve anzitutto badare al suo interno dove i tiepidi e i dubbiosi si moltiplicano. Tornano i «duri» del regime Nell’ottobre del 1940 era stato rimosso dalla carica di segretario del PNF Ettore Muti, che lo stesso Mussolini ritiene un inetto. Lo aveva sostituito Adelchi Serena, che al momento della nomina era ministro dei Lavori Pubblici. Ma anche Serena dura poco, il partito ha bisogno di un elemento «galvanizzante», che sia capace di farlo diventare l’elemento animatore di un fronte interno sempre più ostile al regime. La scelta era caduta, a fine dicembre del 1941 su Aldo Vidussoni, che Ciano così presenta nel suo diario: «… un certo Vidussoni, che ha la medaglia d’oro, ventisei anni, ed è laureando in legge. Altro di lui non vi saprei narrare». Sarà ancora una scelta infelice, Lo stesso Ciano annoterà, il 26 febbraio del 1942, «… temo che questo Vidussoni, che non capisce niente, dia nuove e pericolose sterzate. Vito Mussolini [nipote del duce], che ha avuto ieri un colloquio con lui e che è un giovane prudente, mi ha detto di essere rimasto egualmente sorpreso dall’idiozia, dall’ignoranza e dalla cattiveria del Segretario del Partito». Le preoccupazioni di Ciano erano per la presunta «sterzata a sinistra» che Vidussoni e i «duri» del partito volevano dare al regime. Gli elementi più ostili alla monarchia e al compromesso con la grande proprietà e con la Chiesa, messi in disparte per vent’anni e ridotti al silenzio negli anni d’oro del consenso, tornavano ora a galla, reclamando quel «ritorno alle origini» necessario, a loro modo di vedere, per controbattere l’apatia del paese, mettere la monarchia e soprattutto la persona di Vittorio Emanuele III, notoriamente pessimista sulla guerra fin dall’inizio, con le spalle al muro, dare mano ad una serie di nazionalizzazioni che togliessero di mezzo gli imprenditori privati pavidi e disfattisti. Era insomma una specie di rivoluzione, o meglio il «Compimento» – dal loro punto di vista – di quella del 28 ottobre 1922 che reclamavano gli elementi intransigenti del partito, molti dei quali avrebbero poi realizzato in parte i loro progetti per breve tempo e in clima di guerra civile durante la repubblica di Salò. Ma allora, tra il 1941 e il 1942, né Vidussoni era certo l’uomo capace di prendere la testa di siffatto movimento «rivoluzionario», né lo stesso Mussolini, eternamente indeciso e timoroso di fronte a salti nel buio, intendeva rompere con quelli che fino allora erano stati i suoi veri alleati, sia pure tra alti e bassi: la monarchia e le grandi imprese. Così la «rivoluzione» non c’era stata; mentre continuavano a moltiplicarsi le restrizioni imposte dalla guerra a dal suo andamento negativo. Alla fine di marzo del 1942 la razione base del pane era stata diminuita di cinquanta grammi: per i lavoratori «semplici» era di 250 grammi al giorno, per quelli «pesanti» 350, per quelli «pesantissimi» 450. Una

Il partito nazionale fascista aveva cercato di reagire alla degradazione del paese e al<br />

crescente «disfattismo». Nell’autunno del 1941 aveva lanciato la «mobilitazione civile»,<br />

che riguardava otto milioni di cittadini. Il relativo decreto era stato varato nel febbraio del<br />

1942: tutti gli uomini, dai diciotto ai cinquantacinque anni (esclusi ovviamente quelli che<br />

erano sotto le armi) si trovavano così «registrati», pronti ad essere destinati a compiti per i<br />

quali non esisteva un minimo di programmazione.<br />

In un secondo tempo era prevista anche la «mobilitazione» delle donne. «In giro»,<br />

commentava Ciano, «c’è un certo disagio anche perché non si capisce bene di che si tratta<br />

e si teme che sia un doppione del lavoro obbligatorio dei tedeschi». Ma se il partito<br />

promuove questa campagna per combattere l’individualismo «disfattista», deve anzitutto<br />

badare al suo interno dove i tiepidi e i dubbiosi si moltiplicano.<br />

Tornano i «duri» del regime<br />

Nell’ottobre del 1940 era stato rimosso dalla carica di segretario del PNF Ettore Muti, che<br />

lo stesso Mussolini ritiene un inetto. Lo aveva sostituito Adelchi Serena, che al momento<br />

della nomina era ministro dei Lavori Pubblici. Ma anche Serena dura poco, il partito ha<br />

bisogno di un elemento «galvanizzante», che sia capace di farlo diventare l’elemento<br />

animatore di un fronte interno sempre più ostile al regime.<br />

La scelta era caduta, a fine dicembre del 1941 su Aldo Vidussoni, che Ciano così presenta<br />

nel suo diario: «… un certo Vidussoni, che ha la medaglia d’oro, ventisei anni, ed è<br />

laureando in legge. Altro di lui non vi saprei narrare».<br />

Sarà ancora una scelta infelice, Lo stesso Ciano annoterà, il 26 febbraio del 1942, «…<br />

temo che questo Vidussoni, che non capisce niente, dia nuove e pericolose sterzate. Vito<br />

Mussolini [nipote del duce], che ha avuto ieri un colloquio con lui e che è un giovane<br />

prudente, mi ha detto di essere rimasto egualmente sorpreso dall’idiozia, dall’ignoranza e<br />

dalla cattiveria del Segretario del Partito».<br />

Le preoccupazioni di Ciano erano per la presunta «sterzata a sinistra» che Vidussoni e i<br />

«duri» del partito volevano dare al regime. Gli elementi più ostili alla monarchia e al<br />

compromesso con la grande proprietà e con la Chiesa, messi in disparte per vent’anni e<br />

ridotti al silenzio negli anni d’oro del consenso, tornavano ora a galla, reclamando quel<br />

«ritorno alle origini» necessario, a loro modo di vedere, per controbattere l’apatia del<br />

paese, mettere la monarchia e soprattutto la persona di Vittorio Emanuele III,<br />

notoriamente pessimista sulla guerra fin dall’inizio, con le spalle al muro, dare mano ad<br />

una serie di nazionalizzazioni che togliessero di mezzo gli imprenditori privati pavidi e<br />

disfattisti. Era insomma una specie di rivoluzione, o meglio il «Compimento» – dal loro<br />

punto di vista – di quella del 28 ottobre 1922 che reclamavano gli elementi intransigenti<br />

del partito, molti dei quali avrebbero poi realizzato in parte i loro progetti per breve tempo<br />

e in clima di guerra civile durante la repubblica di Salò.<br />

Ma allora, tra il 1941 e il 1942, né Vidussoni era certo l’uomo capace di prendere la testa<br />

di siffatto movimento «rivoluzionario», né lo stesso Mussolini, eternamente indeciso e<br />

timoroso di fronte a salti nel buio, intendeva rompere con quelli che fino allora erano stati i<br />

suoi veri alleati, sia pure tra alti e bassi: la monarchia e le grandi imprese.<br />

Così la «rivoluzione» non c’era stata; mentre continuavano a moltiplicarsi le restrizioni<br />

imposte dalla guerra a dal suo andamento negativo. Alla fine di marzo del 1942 la razione<br />

base del pane era stata diminuita di cinquanta grammi: per i lavoratori «semplici» era di<br />

250 grammi al giorno, per quelli «pesanti» 350, per quelli «pesantissimi» 450. Una

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