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SECONDA GUERRA MONDIALE - Uni3 Ivrea

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Capitolo cinquantatreesimo<br />

Il fronte interno italiano nel 1943<br />

La fine della campagna di Tunisia, con la resa delle forze dell’Asse ha in Italia ripercussioni<br />

deprimenti. Il «fronte interno», già provato dagli alti e bassi della guerra, in sostanza mai<br />

compattamente dietro Mussolini, neppure nei momenti più «brillanti» della guerra – per<br />

l’Italia in realtà scarsi e di breve durata – subisce l’ultimo colpo, che porterà a<br />

manifestazioni di aperta rivolta.<br />

Non si verifica un vero e proprio crollo, la gente arriva a scontare la definitiva sconfitta in<br />

Africa (e la parallela tragedia dell’ARMIR in Russia) quasi con rassegnazione. Le grandi<br />

città del Nord, in particolare quelle del «triangolo industriale» sono da mesi sottoposte a<br />

violenti bombardamenti aerei cominciati massicciamente nell’autunno del 1942 (e anche<br />

Napoli è martellata quasi ogni giorno). Una parte consistente della popolazione di quelle<br />

città è sfollata in provincia, non si pensa più ad una rivincita, si spera soltanto che in<br />

qualche modo il paese esca dalla guerra, evitando ulteriori, più dure punizioni.<br />

Il fronte interno, insomma, affonda sempre più nel pessimismo e diventa indifferente,<br />

quando non apertamente ostile, ai richiami del regime per uno sforzo estremo, tale da<br />

capovolgere le sorti del conflitto.<br />

D’altronde lo stato d’animo degli italiani, tra abulia ostile e pessimismo, aveva avuto fin dal<br />

1941 manifestazioni evidenti, alle quali non erano sfuggiti neppure i massimi vertici del<br />

paese. Mussolini aveva addirittura preceduto tutti il 4 dicembre del 1940. Racconta<br />

Galeazzo Ciano nel suo Diario che quel giorno, dopo le disastrose notizie dal fronte grecoalbanese<br />

(i greci avevano sfondato e dilagavano in Albania), il duce l’aveva convocato a<br />

Palazzo Venezia per dirgli, al massimo dello scoramento: «Qui non c’è più niente da fare. È<br />

assurdo e grottesco, ma è così. Bisogna chiedere una tregua tramite Hitler».<br />

All’inizio del 1941 si tiravano anche le somme in cifre, della disastrosa partecipazione<br />

dell’Italia alla guerra: per il 1939-40 il consuntivo del bilancio dello stato dava un<br />

disavanzo di 28 miliardi (i miliardi di allora, s’intende); per il 1940-41, a gennaio del 1940,<br />

si prevedeva un disavanzo di sei miliardi, e per il 1941-42 (previsione al gennaio 1941) un<br />

deficit di nove miliardi.<br />

Il peso era mal sopportato, fin dal 1939, dalla collettività nazionale. Risaliva infatti a<br />

quell’anno (in autunno, quando si scatenava la bufera sull’Europa dopo l’aggressione<br />

hitleriana alla Polonia) l’imposta straordinaria sul patrimonio e l’imposta generale<br />

sull’entrata. Nell’estate del 1941 (poco dopo l’inizio dell’Operazione Barbarossa) era la<br />

volta dell’imposta sul plusvalore dei titoli azionari; in settembre era stata decisa la<br />

nominatività dei titoli, che avrebbe avuto effetto dal giugno del 1942. Infine, nel novembre<br />

del 1941, era resa obbligatoria la denuncia dei redditi superiori alle ventiquattromila lire<br />

annue.<br />

Erano imposizioni che davano la misura delle gravi difficoltà in cui si dibatteva l’economia<br />

del paese, letteralmente strangolata dalle necessità belliche. Alle misure fiscali si<br />

accompagnavano accensioni di prestiti nazionali che dato il regime dittatoriale del fascismo<br />

e l’urgenza della raccolta di fondi per sostenere lo sforzo della guerra, assumevano il<br />

carattere inequivocabile di prestiti forzosi, anche se non lo avevano formalmente.

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