SECONDA GUERRA MONDIALE - Uni3 Ivrea

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20.05.2013 Views

Rimaneva ancora, l’11 maggio, un formidabile nucleo di resistenza nelle montagne fra Zaghouan ed Enfidaville, dove l’8ª Armata stava ancora combattendo, Ma nel pomeriggio il generale Anderson ci chiamò al suo quartier generale fuori Medjez-el-Bab per darci la strabiliante notizia che von Arnim era stato catturato presso l’aerodromo di Sainte Marie du Zit e chiedeva le condizioni di resa. […] Il fatto che persino von Arnim non era stato in grado di sfuggire, era la migliore prova che la nostra vittoria era stata fulminea e totale. Nessun aeroplano, nessuna nave dell’Asse erano riusciti a prendere il largo. Tutti i generali dell’Asse, con una sola eccezione, erano ormai prigionieri. Uno dopo l’altro, reparti famosi, quali la 10ª Divisione Corazzata tedesca, si erano arresi in massa. È dubbio se il numero di soldati che poterono scampare e rifugiarsi in Italia all’ultimo momento sia stato superiore al migliaio. Alle 7.52 del 12 maggio – secondo i rapporti ufficiali – ogni resistenza organizzata in Africa cessò. Per me l’ultima scena fu forse la più drammatica e la più emozionante. Si svolse sulla costa, al nord di Enfidaville. Le due più famose divisioni di fanteria delle armate in lotta – i neozelandesi e la 90ª Divisione Leggera tedesca – avevano continuato a battersi sanguinosamente sui colli, ben dopo che la guerra era cessata dappertutto intorno a loro. Von Sponeck era il comandante della 90ª Leggera, e il suo nome godeva quasi altrettanto prestigio nell’Afrikakorps, di quello di Freyberg nell’8ª Armata. […] Ora tutto era finito. La guerra entro la guerra, il feudo particolare fra le due grandi divisioni aveva termine. Von Sponeck vide che ormai non c’era più nulla da fare. Indossò il cappotto dell’alta uniforme con i distintivi del grado e il berretto, e si avviò lungo la litoranea. I suoi soli compagni erano un autista e un interprete. Freyberg lo aspettava sulla strada, la sua strada, quella che aveva penato tanto per conquistare. Il vecchio leone non aveva un’aria molto elegante nella sua camicia tropicale, i calzoni corti e il berretto logoro. Un po’ appartato dai suoi ufficiali, se ne stava sull’orlo della strada. Von Sponeck scese duro duro dalla macchina e salutò rigidamente. Freyberg rispose con un saluto lento. Per la prima volta i due generali si guardarono in viso. Ma non avevano più nulla da dirsi. La lotta era stata troppo lunga e troppo feroce. I morti erano troppi. Von Sponeck risalì in macchina e partì. Freyberg si voltò e s’incamminò per la strada, senza parlare.

Capitolo cinquantaduesimo La battaglia per Kursk Quattro luglio 1943: sul fronte centro meridionale russo, nella sterminata pianura appena ondulata tra Dnepr e Don, tutta a campi di segala e fiori di girasole a perdita d’occhio, in quella ristretta zona che passerà alla storia come «saliente di Kursk» quasi esattamente a metà strada tra Mosca e Rostov sul Don a poche miglia dal mare d’Azov, ha inizio con un fragore di tuono la più grande battaglia di mezzi corazzati che il mondo abbia mai visto, uno scontro frontale tra i due eserciti – la Wehrmacht e l’Armata Rossa – che si contendono in ultima analisi il dominio del pianeta Terra. È una lotta spietata e implacabile che vede – dopo il tragico inverno del 1941-42 alle porte di Leningrado e di Mosca, e l’altrettanto drammatico inverno del 1942-43 con i disastri tedeschi di Stalingrado e del Caucaso – l’estremo sussulto della macchina bellica nazista. Rispetto agli anni precedenti c’è una grossa differenza: questa volta non c’è il fango autunnale a impantanare i carri germanici, non c’è il freddo siberiano a gelare i lubrificanti e a bloccare le mitragliatrici. Questa volta è piena estate, la superiorità tecnica e di addestramento dei tedeschi è ancora indiscutibile, la volontà di Hitler imperiosa, l’armamento rinnovato e potenziato dal nuovo ministro della Produzione Bellica Albert Speer, promosso da architetto di corte a supremo artificiere del Terzo Reich, in una misura che stupirà gli studiosi del dopoguerra. Nella sola prima ondata offensiva Manstein e Kluge lanciano contro i due lati del saliente almeno duemila carri e i bombardieri dalla grande croce nera colpiscono a tappeto la prima linea nemica. Eppure tutto è inutile, i sovietici si aspettano l’attacco, anche grazie alle informazioni ottenute dal loro servizio spionistico tramite l’agente «Lucy» in Svizzera e hanno preparato le loro contromisure; si aggrappano al terreno (al massimo, sotto i più violenti colpi di maglio degli assalitori, si ritirano per venticinque-trenta chilometri) e dopo meno di due settimane sono in condizioni di passare essi stessi all’offensiva. Tutto ciò mentre, a duemila chilometri di distanza e su tutt’altro fronte, gli anglo-americani invadono la Sicilia e Mussolini viene rovesciato dai suoi stessi seguaci. Per il solitario di Berchtesgaden, perduto in allucinati sogni di dominio mondiale, è la grande svolta, l’inizio della fine. La guerra durerà ancora quasi due anni, ma ormai è il riflusso, la belva nazista è condannata a morire. Torniamo indietro di qualche mese con il nostro racconto e cerchiamo di fare il punto sulla situazione del fronte orientale alla fine della campagna invernale 1942-43, quando Paulus si è appena arreso con i novantamila superstiti della 6ª Armata (ne torneranno in Germania dalla prigionia non più di cinquemila) e quando le forze di List, e poi di Kleist, hanno ormai dovuto abbandonare le lontane pendici del Caucaso con i preziosi pozzi petroliferi. In quelle prime settimane del 1943 il fronte appare decisamente stabilizzato per oltre metà della sua lunghezza. Dall’estremo nord dell’Artico al Baltico dove i tedeschi seguono con i loro telemetri le linee del perimetro d’assedio a Leningrado, via via verso il lago Ilmen e le foreste di pini da Ržhev fino a Orel, il fronte tedesco non ha subito mutamenti di rilievo in dodici mesi: i soldati sono accasermati in baracche di legno che riescono a scaldare a sufficienza con semplici stufe, i cannoni sono sistemati su postazioni di cemento, con i campi di tiro ben delimitati, la posta arriva regolarmente. A parte le costanti insidie dei partigiani il fronte è tutto sommato abbastanza tranquillo. I

Rimaneva ancora, l’11 maggio, un formidabile nucleo di resistenza nelle montagne fra<br />

Zaghouan ed Enfidaville, dove l’8ª Armata stava ancora combattendo, Ma nel<br />

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per darci la strabiliante notizia che von Arnim era stato catturato presso l’aerodromo di<br />

Sainte Marie du Zit e chiedeva le condizioni di resa. […]<br />

Il fatto che persino von Arnim non era stato in grado di sfuggire, era la migliore prova<br />

che la nostra vittoria era stata fulminea e totale. Nessun aeroplano, nessuna nave<br />

dell’Asse erano riusciti a prendere il largo. Tutti i generali dell’Asse, con una sola<br />

eccezione, erano ormai prigionieri. Uno dopo l’altro, reparti famosi, quali la 10ª<br />

Divisione Corazzata tedesca, si erano arresi in massa. È dubbio se il numero di soldati<br />

che poterono scampare e rifugiarsi in Italia all’ultimo momento sia stato superiore al<br />

migliaio.<br />

Alle 7.52 del 12 maggio – secondo i rapporti ufficiali – ogni resistenza organizzata in<br />

Africa cessò. Per me l’ultima scena fu forse la più drammatica e la più emozionante. Si<br />

svolse sulla costa, al nord di Enfidaville. Le due più famose divisioni di fanteria delle<br />

armate in lotta – i neozelandesi e la 90ª Divisione Leggera tedesca – avevano<br />

continuato a battersi sanguinosamente sui colli, ben dopo che la guerra era cessata<br />

dappertutto intorno a loro.<br />

Von Sponeck era il comandante della 90ª Leggera, e il suo nome godeva quasi<br />

altrettanto prestigio nell’Afrikakorps, di quello di Freyberg nell’8ª Armata. […]<br />

Ora tutto era finito. La guerra entro la guerra, il feudo particolare fra le due grandi<br />

divisioni aveva termine. Von Sponeck vide che ormai non c’era più nulla da fare.<br />

Indossò il cappotto dell’alta uniforme con i distintivi del grado e il berretto, e si avviò<br />

lungo la litoranea. I suoi soli compagni erano un autista e un interprete. Freyberg lo<br />

aspettava sulla strada, la sua strada, quella che aveva penato tanto per conquistare. Il<br />

vecchio leone non aveva un’aria molto elegante nella sua camicia tropicale, i calzoni<br />

corti e il berretto logoro. Un po’ appartato dai suoi ufficiali, se ne stava sull’orlo della<br />

strada. Von Sponeck scese duro duro dalla macchina e salutò rigidamente. Freyberg<br />

rispose con un saluto lento. Per la prima volta i due generali si guardarono in viso. Ma<br />

non avevano più nulla da dirsi. La lotta era stata troppo lunga e troppo feroce. I morti<br />

erano troppi. Von Sponeck risalì in macchina e partì. Freyberg si voltò e s’incamminò<br />

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