SECONDA GUERRA MONDIALE - Uni3 Ivrea
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prima di dare il proprio benestare: la sera medesima l’ammiraglio Halsey, che comanda il settore meridionale del Pacifico, riceve infatti un dispaccio ultrasegreto del ministro Knox: «Dovete attaccare e distruggere a tutti i costi. Presidente attribuisce estrema importanza a questa operazione». Nella notte Halsey dà il «via» al comandante della base aerea di Guadalcanal, vice ammiraglio Mitscher, con una decina di parole che rimarranno famose: «Il pavone sta per apparire. Prendilo per la coda». Il «Pavone» Yamamoto si farà vivo, di lì a tre giorni, nel cielo delle Salomone e non c’è tempo da perdere. L’arcipelago delle Salomone, a nord-est dell’Australia, è una lunga e stretta catena di isole, isolette, atolli e scogli corallini. In cima alla fila c’è Bougainville, la seguono Shortland, Ballale, Choiseul, New Georgia, Vella Lavella, Treasury, Santa Isabel, tutte fortificate dai giapponesi; più giù, infine, c’è Guadalcanal, che da poche settimane è tornata in mano americana. Yamamoto, da gennaio, sta gettando le basi dell’« Operazione I» destinata a cacciare il nemico sia dalle Salomone sia da Papua, due spine conficcate nel fianco del suo schieramento. Per questo motivo ha deciso un’ispezione agli avamposti. Dall’altra parte dello schieramento, Mitscher cerca di cogliere il momento giusto per colpire: quando Yamamoto arriverà in aereo da Rabaul (come vorrebbero il ministro Knox e l’ammiraglio Halsey), oppure quando sarà a terra o starà per salire sulla silurante per gli spostamenti nell’arcipelago (come suggerirebbero la prudenza e il calcolo delle probabilità)? La scelta è fatta la mattina del 16, venerdì. Mitscher ordina che una squadriglia di «P-38», i caccia Lightning a più lunga autonomia, risalga le coste delle Salomone volando a bassissima quota per sfuggire agli stormi aerei nemici e intercetti il bombardiere di Yamamoto prima che giunga a Ballale. L’incarico cade sulla 339ª Squadriglia comandata dal ventottenne ufficiale pilota John W. Mitchell, di Enid, Mississippi, ex pugile, ex cameriere, giornalista sportivo e campione di tennis. Il gruppo Mitchell, di sedici P-38, è diviso in due formazioni d’assalto di quattro caccia ciascuna, protette dal resto della formazione: una la comanda Mitchell stesso, l’altra il tenente ventottenne Tom Lanphier di Detroit, Michigan, figlio di un veterano della caccia aerea. Il 18 aprile, domenica delle Palme, i sedici piloti americani prendono il volo da Campo Henderson, a Guadalcanal, per un raid di 680 chilometri alla ricerca della preda tanto ambita dagli alti comandi. Sono le 7.25, è una mattina calda, col cielo perfettamente limpido. In questo stesso momento, tenendo conto delle due ore di scarto del fuso orario, gli orologi di Rabaul segnano le 5.30 e la «preda» si prepara all’ultimo viaggio. L’ammiraglio Yamamoto, in divisa kaki da campagna ma con i guanti bianchi dell’alta uniforme e la spada da cerimonia, prende posto con il suo capo di Stato Maggiore Ugaki, e gli altri ufficiali su due grandi bimotori «Betty» da bombardamento della 705ª Squadriglia che, scortati da sei caccia «Zero», si levano subito nel cielo terso della Nuova Britannia e puntano a sud in linea retta. L’arrivo a Ballale è previsto per le 7.45 esatte (le 9.45, ora americana) ma dieci minuti prima, sulla costa di Bougainville, troveranno la morte ad attenderli. La pattuglia di Mitchell, infatti, costeggiate le isole fino all’altezza di Shortland, ha virato verso il largo e poi ha piegato di 20 gradi in direzione est per tagliare la rotta di Yamamoto. Gli aerei americani volano sull’oceano a dieci metri di quota e, qualche volta, scendono a pelo d’acqua tanto che spruzzi di mare investono i loro parabrezza. Alle 9.35, ora americana, il più giovane dei piloti – il ventiduenne Douglas Canning, da Wayne, Nebraska – rompe improvvisamente il silenzio radio: «Nemico su ore undici». I velivoli giapponesi sono là, sopra le loro teste,
a circa quota 1500, con le fusoliere prive di mimetizzazione e luccicanti al sole: gli «Zero», in formazione scalata, proteggono i due bombardieri in testa e in coda. L’inutile tentativo del pilota giapponese di sfuggire ai «P-38» Due «P-38» – quelli di Lanphier e del sottotenente Rex Barber, ventisettenne, da Culver, Oregon – partono immediatamente all’attacco cabrando a piena potenza, mentre Mitchell s’incarica di provvedere a neutralizzare gli «Zero». Per i primi istanti i giapponesi non si accorgono della presenza del nemico e proseguono nella rotta; poi, il luccicare dei serbatoi supplementari sganciati dagli americani per alleggerirsi e iniziare il combattimento, richiama l’attenzione degli «Zero» che rompono la formazione e si dispiegano avventandosi sull’avversario. All’allarme il bombardiere di Yamamoto compie una secca virata a sinistra e «picchia» verso terra, in direzione dell’aeroporto di Buin, sulla punta estrema di Bougainville: in pochissimi secondi perde oltre mille metri di quota. Lanphier, che s è messo in volo rovesciato per osservare la scena, lo nota sgattaiolare all’altezza delle cime degli alberi, lungo il filo della costa. Incurante di due «Zero» che gli stanno piombando addosso, Lanphier si mette in coda al bombardiere e apre il fuoco con le mitragliatrici di bordo: l’ala destra del «Betty» giapponese si stacca e precipita: il velivolo, in fiamme, sorvola lentamente la costa e si inabissa nella vegetazione, a venti chilometri da Buin. Anche l’altro bombardiere è colpito e si sfascia nell’oceano; tre «Zero» lo seguono nella stessa sorte mentre uno solo dei sedici «P-38», quello di Ray Hine, non rientrerà alla base di Guadalcanal. Per ragioni diverse, né i giapponesi né gli americani diedero notizia, il giorno dopo, della morte di Yamamoto. I giapponesi preferirono evitare un colpo al morale della nazione e soltanto un mese più tardi, il 21 maggio, un breve comunicato radio annunciò che l’ammiraglio aveva trovato «gloriosa morte a bordo di un aereo militare». Il 5 giugno Yamamoto ebbe funerali di stato e fu sepolto in un piccolo tempio buddhista alla periferia di Nagaoka: secondo le sue ultime volontà, la lapide fu di umile pietra e venne tagliata tre centimetri più corta di quella di suo padre, seppellito nello stesso luogo. Gli americani tacquero su Yamamoto sino alla fine della guerra: volevano custodire il prezioso segreto della «camera nera» e continuare a decifrare i codici nemici, cosa che avvenne. Giuseppe Mayda L’inferno di Guadalcanal A Guadalcanal i marines devono combattere, oltre che contro i giapponesi, anche per la loro sopravvivenza «Guadalcanal l’isola di febbre e di sangue». Con questo titolo comparve sull’’Harper’s Magazine, all’inizio del 1943, un articolo-testimonianza del tenente di vascello Edward Lincoln Smith, della marina degli Stati Uniti. A metà settembre del 1942 mi trovavo a bordo di una nave diretta a Guadalcanal. Nell’oscurità che precede l’alba ci stavamo addentrando silenziosamente nel Canale di Sealark. Al di là della stretta distesa di acque nerastre giaceva l’isola misteriosa. Stavo sulla tolda con altri ufficiali e fissavo ansiosamente l’ombra oscura che lentamente emergeva dalla notte fredda, e due velivoli solitari che ripetutamente sorvolavano la spiaggia sulla quale dovevamo sbarcare. Nostro obiettivo era Guadalcanal. Dovevamo scendere a terra per rinforzare i contingenti della marina da sbarco che avevano conquistato l’isola il mese prima, e che
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prima di dare il proprio benestare: la sera medesima l’ammiraglio Halsey, che comanda<br />
il settore meridionale del Pacifico, riceve infatti un dispaccio ultrasegreto del ministro<br />
Knox: «Dovete attaccare e distruggere a tutti i costi. Presidente attribuisce estrema<br />
importanza a questa operazione». Nella notte Halsey dà il «via» al comandante della<br />
base aerea di Guadalcanal, vice ammiraglio Mitscher, con una decina di parole che<br />
rimarranno famose: «Il pavone sta per apparire. Prendilo per la coda». Il «Pavone»<br />
Yamamoto si farà vivo, di lì a tre giorni, nel cielo delle Salomone e non c’è tempo da<br />
perdere.<br />
L’arcipelago delle Salomone, a nord-est dell’Australia, è una lunga e stretta catena di<br />
isole, isolette, atolli e scogli corallini. In cima alla fila c’è Bougainville, la seguono<br />
Shortland, Ballale, Choiseul, New Georgia, Vella Lavella, Treasury, Santa Isabel, tutte<br />
fortificate dai giapponesi; più giù, infine, c’è Guadalcanal, che da poche settimane è<br />
tornata in mano americana. Yamamoto, da gennaio, sta gettando le basi dell’«<br />
Operazione I» destinata a cacciare il nemico sia dalle Salomone sia da Papua, due spine<br />
conficcate nel fianco del suo schieramento. Per questo motivo ha deciso un’ispezione<br />
agli avamposti. Dall’altra parte dello schieramento, Mitscher cerca di cogliere il<br />
momento giusto per colpire: quando Yamamoto arriverà in aereo da Rabaul (come<br />
vorrebbero il ministro Knox e l’ammiraglio Halsey), oppure quando sarà a terra o starà<br />
per salire sulla silurante per gli spostamenti nell’arcipelago (come suggerirebbero la<br />
prudenza e il calcolo delle probabilità)? La scelta è fatta la mattina del 16, venerdì.<br />
Mitscher ordina che una squadriglia di «P-38», i caccia Lightning a più lunga autonomia,<br />
risalga le coste delle Salomone volando a bassissima quota per sfuggire agli stormi<br />
aerei nemici e intercetti il bombardiere di Yamamoto prima che giunga a Ballale.<br />
L’incarico cade sulla 339ª Squadriglia comandata dal ventottenne ufficiale pilota John<br />
W. Mitchell, di Enid, Mississippi, ex pugile, ex cameriere, giornalista sportivo e campione<br />
di tennis.<br />
Il gruppo Mitchell, di sedici P-38, è diviso in due formazioni d’assalto di quattro caccia<br />
ciascuna, protette dal resto della formazione: una la comanda Mitchell stesso, l’altra il<br />
tenente ventottenne Tom Lanphier di Detroit, Michigan, figlio di un veterano della<br />
caccia aerea.<br />
Il 18 aprile, domenica delle Palme, i sedici piloti americani prendono il volo da Campo<br />
Henderson, a Guadalcanal, per un raid di 680 chilometri alla ricerca della preda tanto<br />
ambita dagli alti comandi. Sono le 7.25, è una mattina calda, col cielo perfettamente<br />
limpido.<br />
In questo stesso momento, tenendo conto delle due ore di scarto del fuso orario, gli<br />
orologi di Rabaul segnano le 5.30 e la «preda» si prepara all’ultimo viaggio.<br />
L’ammiraglio Yamamoto, in divisa kaki da campagna ma con i guanti bianchi dell’alta<br />
uniforme e la spada da cerimonia, prende posto con il suo capo di Stato Maggiore<br />
Ugaki, e gli altri ufficiali su due grandi bimotori «Betty» da bombardamento della 705ª<br />
Squadriglia che, scortati da sei caccia «Zero», si levano subito nel cielo terso della<br />
Nuova Britannia e puntano a sud in linea retta. L’arrivo a Ballale è previsto per le 7.45<br />
esatte (le 9.45, ora americana) ma dieci minuti prima, sulla costa di Bougainville,<br />
troveranno la morte ad attenderli. La pattuglia di Mitchell, infatti, costeggiate le isole<br />
fino all’altezza di Shortland, ha virato verso il largo e poi ha piegato di 20 gradi in<br />
direzione est per tagliare la rotta di Yamamoto. Gli aerei americani volano sull’oceano a<br />
dieci metri di quota e, qualche volta, scendono a pelo d’acqua tanto che spruzzi di mare<br />
investono i loro parabrezza. Alle 9.35, ora americana, il più giovane dei piloti – il<br />
ventiduenne Douglas Canning, da Wayne, Nebraska – rompe improvvisamente il<br />
silenzio radio: «Nemico su ore undici». I velivoli giapponesi sono là, sopra le loro teste,