SECONDA GUERRA MONDIALE - Uni3 Ivrea

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20.05.2013 Views

maresciallo Pétain», che di Vichy è il nume tutelare) mette i territori liberati dagli angloamericani in una luce politicamente ambigua e convalida il giudizio di Battaglia: la conservazione del regime di Vichy in colonia si realizza attraverso il mantenimento delle leggi fasciste e razziali e la persecuzione dei «traditori», cioè degli antifascisti e di de Gaulle. Winston Churchill è il primo a rendersi conto degli svantaggi di questa situazione. E subito si affretta, nel modo che gli è caratteristico, a svuotare del suo contenuto l’accordo stipulato il 13 novembre tra Eisenhower e Darlan. Sotto la pressione dell’opinione pubblica, che vede in quel patto «un basso e sporco compromesso con uno dei nostri nemici più accaniti», il Primo Ministro britannico comincia insistentemente a definirlo «solo un espediente provvisorio» giustificato da impellenti necessità militari. «Non dobbiamo trascurare», scrive il 17 novembre al presidente degli Stati Uniti, «il grave danno politico che può arrecare alla nostra causa, non solo in Francia ma in tutta l’Europa, la convinzione che noi siamo pronti ad accordarci con i vari Quisling locali». Messo in difficoltà dal malcontento che l’accordo con Darlan ha fatto nascere negli Stati Uniti, anche Roosevelt comincia a tirarsi indietro, ribadendo la propria opposizione «a tutti i francesi che appoggiano Hitler e l’Asse». Una sua pubblica dichiarazione su Darlan, negli stessi termini usati da Churchill, provoca un autentico vespaio. Noguès, in Marocco, minaccia di dimettersi. I comandanti locali non nascondono il loro disorientamento. Lo stesso Darlan prende la penna e scrive al generale Clark di non essere «un limone che gli americani getteranno via dopo averlo spremuto». Eisenhower si affretta a prendere le sue difese: «Qui sul posto ci è assolutamente necessario, poiché è senz’altro il solo che ci abbia dato finora qualche aiuto concreto». Altri, come il maresciallo Smuts, giurano sulla sua conversione agli ideali della democrazia: «Non può esservi dubbio sul fatto che Darlan e i suoi amici si sono bruciati i vascelli alle spalle e ora stanno facendo del loro meglio per combattere l’Asse e unire tutti i francesi in questa lotta». La morale della favola risulta bene espressa dal proverbio che il 19 novembre, durante una conferenza stampa, Roosevelt recita ai giornalisti presenti: «Ragazzi miei, in tempi di grave pericolo è consentito accompagnarsi anche col diavolo finché non si è attraversato il ponte». Di Darlan gli Alleati stanno servendosi per attraversare il ponte, e siccome non sono ancora arrivati sull’altra sponda preferirebbero continuare così. Ma il naso di quello straordinario animale politico che è Churchill fiuta odore di tempesta. «Sono stato molto turbato», dice un suo messaggio del 9 dicembre a Roosevelt, «dai rapporti giunti negli ultimissimi giorni dall’Africa del Nord sulle condizioni esistenti nel Marocco e in Algeria. […] Questi rapporti dimostrano che il S.O.L. (Service d’Ordre Légionnaire, associazione di ex-combattenti di Vichy) e organizzazioni fasciste consimili continuano ad operare e a perseguitare i francesi che hanno simpatizzato per noi, alcuni dei quali non sono stati ancora dimessi dalle prigioni. […] Ben noti filonazisti, già rimossi dalle loro cariche, sono stati reintegrati. In tal modo si sono incoraggiati i nostri nemici e viceversa si sono disorientati e oppressi i nostri amici. Si è dato persino il caso di soldati francesi condannati per diserzione per avere cercato di appoggiare le truppe alleate durante lo sbarco… ». L’allarme di Churchill è giustificato. Nelle ultime settimane del 1942 la situazione politica nordafricana non fa che peggiorare. Mentre al vertice è in corso una lotta disperata per il potere, alla base cresce il malcontento. Il 19 dicembre arriva ad Algeri un emissario di de Gaulle. I «francesi liberi» offrono la loro collaborazione militare sia a Giraud che a Eisenhower, ma nessuno vuole prendersi la responsabilità di accettarla. Nel frattempo gli elementi monarchici locali hanno deciso di premere su Darlan per indurlo a dimettersi e a cedere il potere ad un gabinetto in cui siano rappresentati tutti i partiti.

La vigilia di Natale, raggiunto in automobile il palazzo del governo, Darlan viene abbattuto a colpi di pistola sulla soglia del suo ufficio da uno studente universitario di nome Bonnier de la Chapelle. È un gollista? Un monarchico? Un pazzo? Il tragico episodio non è mai stato completamente chiarito. Processato da una corte marziale per ordine di Giraud, l’assassino è fucilato all’alba del 26 dicembre. La morte di Darlan apre il problema della successione. Tornato a precipizio dal fronte tunisino, Eisenhower non può fare altro che nominare, al posto dell’ammiraglio assassinato, il generale Giraud. Ora la strada è aperta ad una collaborazione con i «francesi liberi» di de Gaulle. «L’assassinio di Darlan, benché criminoso, tolse gli Alleati dall’imbarazzo di dovere collaborare con lui, e nello stesso tempo lasciò loro tutti i vantaggi che Darlan era stato in grado di procurare durante le ore decisive dello sbarco», ha scritto Churchill nelle sue memorie. «Per me», commenta il generale Clark, «la morte di Darlan fu un atto della provvidenza. Certo fu orribile che finisse a quel modo, ma strategicamente parlando la sua uscita dalla scena fu come l’incisione di un foruncolo preoccupante. Darlan era servito allo scopo cui poteva servire e la sua morte risolse un problema che in futuro avrebbe potuto diventare molto difficile: che fare di lui?». Conclude Roberto Battaglia, uno storico che nella provvidenza non ha mai avuto molta fiducia: «L’atteggiamento dei generali coloniali francesi e degli stessi Darlan e Pétain non è soltanto un caso estremo d’opportunismo o di doppio gioco condotto fino al limite dell’assurdo. Il fatto è che essi, “in nome del maresciallo”, scambiano la purezza del sentimento patriottico con “la difesa dell’impero” ad ogni costo, buttandosi da una parte o dall’altra indifferentemente, purché sia garantita la sopravvivenza della Francia quale grande potenza coloniale. Questo è il motivo di fondo che determina tutta la torbida vicenda, perfettamente inquadrabile nell’ancora più vasta manovra imperialistica promossa da Churchill, utilizzando l’inesperienza o l’ingenuità degli stessi generali americani, del tutto ignari delle cose europee e del significato antifascista della guerra». Rommel fiuta la disfatta Lo sbarco degli Alleati nel Nord Africa imponeva alle forze dell’Asse una scelta precisa: o usare la testa di ponte tunisina per procedere al salvataggio dell’armata di Rommel, con una mossa analoga a quella del corpo di spedizione britannico a Dunkerque; o attribuire a entrambi i settori, quello libico e quello tunisino, una funzione di ostacolo e di freno rispetto al temuto sbarco in Europa. In questo secondo caso si sarebbero dovuti potenziare al massimo entrambi i fronti nordafricani, coordinandone lo sforzo difensivo. Fu scelta, invece, una via di mezzo. Col risultato, sostiene Battaglia, che «si resistette in Libia con l’effettivo comandante in capo, cioè Rommel, convinto dell’inutilità della resistenza; e se in Tunisia la situazione rimase a lungo statica e invariata, ciò fu dovuto più che alla consistenza della testa di ponte alla debolezza della spinta esercitata in questa zona dalle forze anglo-americane provenienti dall’Algeria». In quale momento Rommel si convince che la battaglia è perduta? Secondo la maggior parte degli storici, quando riceve la notizia dello sbarco alleato nel Nord Africa. In quel momento la sua Panzerarmee si trova ancora in Egitto ma, inseguita dalla 8ª Armata, va ripiegando verso la frontiera libica. A Marsa Matruh, dopo la sconfitta di El-Alamein, Rommel ha fatto l’inventario delle forze che gli restano: qualche decina di carri armati, pochissimi aerei, circa settantamila uomini. Drammatica si è fatta la situazione del carburante. In più di un’occasione meccanici e autisti sono stati costretti a travasare la benzina da un serbatoio all’altro per far viaggiare almeno una parte degli autoveicoli. In

La vigilia di Natale, raggiunto in automobile il palazzo del governo, Darlan viene<br />

abbattuto a colpi di pistola sulla soglia del suo ufficio da uno studente universitario di<br />

nome Bonnier de la Chapelle. È un gollista? Un monarchico? Un pazzo? Il tragico<br />

episodio non è mai stato completamente chiarito. Processato da una corte marziale per<br />

ordine di Giraud, l’assassino è fucilato all’alba del 26 dicembre. La morte di Darlan apre<br />

il problema della successione. Tornato a precipizio dal fronte tunisino, Eisenhower non<br />

può fare altro che nominare, al posto dell’ammiraglio assassinato, il generale Giraud.<br />

Ora la strada è aperta ad una collaborazione con i «francesi liberi» di de Gaulle.<br />

«L’assassinio di Darlan, benché criminoso, tolse gli Alleati dall’imbarazzo di dovere<br />

collaborare con lui, e nello stesso tempo lasciò loro tutti i vantaggi che Darlan era stato<br />

in grado di procurare durante le ore decisive dello sbarco», ha scritto Churchill nelle sue<br />

memorie. «Per me», commenta il generale Clark, «la morte di Darlan fu un atto della<br />

provvidenza. Certo fu orribile che finisse a quel modo, ma strategicamente parlando la<br />

sua uscita dalla scena fu come l’incisione di un foruncolo preoccupante. Darlan era<br />

servito allo scopo cui poteva servire e la sua morte risolse un problema che in futuro<br />

avrebbe potuto diventare molto difficile: che fare di lui?». Conclude Roberto Battaglia,<br />

uno storico che nella provvidenza non ha mai avuto molta fiducia: «L’atteggiamento dei<br />

generali coloniali francesi e degli stessi Darlan e Pétain non è soltanto un caso estremo<br />

d’opportunismo o di doppio gioco condotto fino al limite dell’assurdo. Il fatto è che essi,<br />

“in nome del maresciallo”, scambiano la purezza del sentimento patriottico con “la<br />

difesa dell’impero” ad ogni costo, buttandosi da una parte o dall’altra indifferentemente,<br />

purché sia garantita la sopravvivenza della Francia quale grande potenza coloniale.<br />

Questo è il motivo di fondo che determina tutta la torbida vicenda, perfettamente<br />

inquadrabile nell’ancora più vasta manovra imperialistica promossa da Churchill,<br />

utilizzando l’inesperienza o l’ingenuità degli stessi generali americani, del tutto ignari<br />

delle cose europee e del significato antifascista della guerra».<br />

Rommel fiuta la disfatta<br />

Lo sbarco degli Alleati nel Nord Africa imponeva alle forze dell’Asse una scelta precisa: o<br />

usare la testa di ponte tunisina per procedere al salvataggio dell’armata di Rommel, con<br />

una mossa analoga a quella del corpo di spedizione britannico a Dunkerque; o attribuire<br />

a entrambi i settori, quello libico e quello tunisino, una funzione di ostacolo e di freno<br />

rispetto al temuto sbarco in Europa. In questo secondo caso si sarebbero dovuti<br />

potenziare al massimo entrambi i fronti nordafricani, coordinandone lo sforzo difensivo.<br />

Fu scelta, invece, una via di mezzo. Col risultato, sostiene Battaglia, che «si resistette in<br />

Libia con l’effettivo comandante in capo, cioè Rommel, convinto dell’inutilità della<br />

resistenza; e se in Tunisia la situazione rimase a lungo statica e invariata, ciò fu dovuto<br />

più che alla consistenza della testa di ponte alla debolezza della spinta esercitata in<br />

questa zona dalle forze anglo-americane provenienti dall’Algeria».<br />

In quale momento Rommel si convince che la battaglia è perduta? Secondo la maggior<br />

parte degli storici, quando riceve la notizia dello sbarco alleato nel Nord Africa. In quel<br />

momento la sua Panzerarmee si trova ancora in Egitto ma, inseguita dalla 8ª Armata,<br />

va ripiegando verso la frontiera libica. A Marsa Matruh, dopo la sconfitta di El-Alamein,<br />

Rommel ha fatto l’inventario delle forze che gli restano: qualche decina di carri armati,<br />

pochissimi aerei, circa settantamila uomini. Drammatica si è fatta la situazione del<br />

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