SECONDA GUERRA MONDIALE - Uni3 Ivrea
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«Segnò il principio della crisi italiana e uno dei primi duri colpi per la Germania?». «Non c’è dubbio. Alamein fu il punto di svolta. Fu la prima vittoria per gli Alleati e la prima grande sconfitta per tedeschi e italiani e fu la conferma di quella che era la strategia di mio nonno: non stare fermi e cioè ripiegati sulla nostra piccola isola in posizione difensiva, ma combattere una guerra di movimento nel deserto. Dopo alcune ritirate iniziali come Tobruk riuscimmo a vincere ad Alamein e da quel momento la sconfitta dell’esercito di Rommel fu quasi sicura. Un mese più tardi, ci fu Stalingrado che volle dire la conferma strategica importante per quello che gli inglesi avevano già conseguito ad El-Alamein». «Che idea aveva Churchill di Rommel?». «Lo considerava un buon comandante militare di una unità indipendente che combatteva nel deserto. Non credo avesse di lui l’immagine tanto colorita di Montgomery. Che era solito tenere ogni notte, nella sua tenda, una fotografia di Rommel, così da poter vedere l’uomo contro cui stava battendosi». «E che cosa pensava degli italiani?». «Mio nonno ha sempre amato l’Italia. Ho condotto una indagine interrogando chi, allora, durante il conflitto, era il suo segretario privato. Gli chiesi quale fu la reazione di Churchill quando l’Italia si dichiarò nostra nemica. Mi disse che la considerò come una grande tragedia. Disse che gli italiani erano i migliori del mondo nelle arti, i migliori scultori, i migliori pittori e i migliori architetti e che non avrebbero dovuto coinvolgersi in cose nelle quali non erano competenti, come fare la guerra». «Che cosa pensava Churchill dei russi, della loro resistenza, dei soldati?». «Aveva un’altissima opinione di ciò che i soldati russi stavano facendo. Penso che chiunque abbia visitato Leningrado, abbia visto dove è sepolto più di mezzo milione di abitanti e debba essere grato a quella nazione per i sacrifici che ha dovuto sopportare nella Seconda Guerra Mondiale. Credo fu una mossa geniale di mio nonno rendersi conto che per sconfiggere Hitler bisognava stabilire un’amicizia con l’Unione Sovietica e con Stalin benché i due sistemi politici fossero diversi». «Churchill considerava Stalin un grande capo militare?». «Ammirò Stalin. Forse lo ammirò troppo. Lo ammirò per il suo potere e la sua forza. Fu forse uno sbaglio, ma ebbero certamente un ottimo rapporto di lavoro». «Riconosceva in Hitler un grande stratega?». «No. Ma lo temeva a capo di una Germania forte, potente, totalitaria». Enzo Biagi Le fasi dello sbarco alleato in Nord Africa Come in tutti gli sbarchi, anche per l’Operazione Torch l’ora X – le 23 del 7 novembre 1942 – è dettata dagli esperti dell’ufficio meteorologico: una marea favorevole, di discreta durata, aiuterà le forze alleate a mettere piede sulle coste dell’Africa del Nord con i tre distaccamenti programmati, sotto il comando dei generali Patton (zona di Casablanca), Fredenhall (zona di Orano) e Ryder (zona di Algeri). Si tratta, complessivamente, di un esercito di 110.000 uomini, tutti inglesi e americani, imbarcato su 290 navi: 73.000 soldati avranno come obiettivi Algeri, Grano, Arzew, Castiglione, Sidi Ferruch e Capo Matifou; gli altri 36.000 dovranno invadere il Marocco attraverso Fedala, Casablanca, Safi e Port-Lyautey. Le operazioni cominciano puntualmente, conformemente ai piani studiati dagli Stati Maggiori Combinati. Quasi nello stesso istante, però, i sommergibili americani che hanno scortato i convogli dagli Stati Uniti attraverso l’Atlantico e si sono poi diretti nelle
zone di operazioni stabilite, segnalano improvvise difficoltà per il settore del Marocco (generale Patton): le informazioni meteorologiche raccolte dai sottomarini fanno prevedere una forte risacca, con scirocco e probabili perturbazioni generali in aumento. C’è un rapido e drammatico consulto a Gibilterra nel comando operazioni. Eisenhower pensa di ritardare lo sbarco, radunando nella rada sotto la rocca tutti i convogli nell’attesa che il tempo migliori. L’ammiraglio Henry H. Hewitt – nella sua qualità di capo delle operazioni di sbarco – interviene dissentendo. Afferma che se si accetta il punto di vista di Eisenhower occorre dirottare a Gibilterra una vera e propria flotta di trasporti, cioè oltre 200 navi. «Creeremmo una terribile confusione», dice Hewitt. «Bisogna andare avanti secondo il programma. Delle conseguenze mi assumo io la responsabilità». Ike acconsente; l’Operazione Torch procede. Hewitt ha visto giusto e la fortuna lo aiuta. Verso mezzanotte, il mare sulle coste marocchine si calma notevolmente, la luna sparisce dietro grandi banchi di nuvole cariche di pioggia. Il grande convoglio con le truppe di Patton può avanzare silenziosamente nel fresco buio – e su un mare completamente deserto – diretto al suo primo obiettivo. Scatta l’ora X Sui piroscafi si preparano le scialuppe con i carri armati, i camion, l’artiglieria, i pezzi controcarro (che sono l’arma più potente di cui dispongano in questo momento gli americani) mentre gli uomini – quasi tutti giovani e giovanissimi e in larghissima parte sia ufficiali subalterni che soldati, novellini di operazioni del genere – prendono posto negli zatteroni, silenziosi e immobili. «Guardavamo la terra, io e i miei compagni», scrive il fante di marina Preston G. Derryl, 22 anni, di Detroit, Michigan e che cadrà in combattimento il 16 dicembre successivo, «e cercavamo di scorgere una luce, un qualche segno di vita. Tutto era buio pesto e fondo, un buio così forte che ci sembrava pieno di minacce mortali». Invece è il buio di una tranquilla cittadina addormentata. Quando gli orologi di bordo segnano le 4.45 del mattino dell’8 novembre un triplice colpo di fischietto ordina, su ogni piroscafo, di calare le scialuppe in mare. Il viaggio verso i sei settori della costa africana nei quali lo sbarco è stato suddiviso dura esattamente mezz’ora durante la quale – da terra – non giunge nessun segno di allarme. Alle 5.15 un soldato americano che porta un nome famoso della storia patria, Thomas Jefferson, 22 anni, di Tallahassee, Florida, appartenente alla 3ª Divisione fanteria, mette per primo il piede sulla spiaggia di Fedala. Deve trascorrere ancora un quarto d’ora prima che, dalla parte francese, si registri una reazione. Alle 6.05, infatti, la batteria del porto e quella di Pont-Blondin (armata, quest’ultima, da quattro moderni pezzi da 138 millimetri) aprono il fuoco verso il mare, benché la visibilità sia fortemente ostacolata dalla nebbia mattutina. A quanto si apprenderà più tardi, al comando delle batterie è giunta la segnalazione telefonica di «una flotta sconosciuta» presentatasi a due miglia dall’imboccatura del porto e che non ha risposto ai segnali in codice e i serventi hanno aperto il fuoco senza sapere esattamente quale nemico (se davvero è un nemico) abbiano di fronte. Lo sbarco, comunque, prosegue velocemente, rispettando quasi tutti i tempi indicati nei programmi: invano un peschereccio francese, il Victoria, armato di mitragliatrici pesanti, tenta di speronare il cacciatorpediniere americano Hogan perché, alla distanza di 300 metri, viene colato a picco con una salva di cannonate che lo raggiunge all’altezza della linea di immersione. Gli Alleati non informano de Gaulle
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C’è un rapido e drammatico consulto a Gibilterra nel comando operazioni. Eisenhower<br />
pensa di ritardare lo sbarco, radunando nella rada sotto la rocca tutti i convogli<br />
nell’attesa che il tempo migliori. L’ammiraglio Henry H. Hewitt – nella sua qualità di<br />
capo delle operazioni di sbarco – interviene dissentendo. Afferma che se si accetta il<br />
punto di vista di Eisenhower occorre dirottare a Gibilterra una vera e propria flotta di<br />
trasporti, cioè oltre 200 navi. «Creeremmo una terribile confusione», dice Hewitt.<br />
«Bisogna andare avanti secondo il programma. Delle conseguenze mi assumo io la<br />
responsabilità». Ike acconsente; l’Operazione Torch procede.<br />
Hewitt ha visto giusto e la fortuna lo aiuta. Verso mezzanotte, il mare sulle coste<br />
marocchine si calma notevolmente, la luna sparisce dietro grandi banchi di nuvole<br />
cariche di pioggia. Il grande convoglio con le truppe di Patton può avanzare<br />
silenziosamente nel fresco buio – e su un mare completamente deserto – diretto al suo<br />
primo obiettivo.<br />
Scatta l’ora X<br />
Sui piroscafi si preparano le scialuppe con i carri armati, i camion, l’artiglieria, i pezzi<br />
controcarro (che sono l’arma più potente di cui dispongano in questo momento gli<br />
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sia ufficiali subalterni che soldati, novellini di operazioni del genere – prendono posto<br />
negli zatteroni, silenziosi e immobili. «Guardavamo la terra, io e i miei compagni»,<br />
scrive il fante di marina Preston G. Derryl, 22 anni, di Detroit, Michigan e che cadrà in<br />
combattimento il 16 dicembre successivo, «e cercavamo di scorgere una luce, un<br />
qualche segno di vita. Tutto era buio pesto e fondo, un buio così forte che ci sembrava<br />
pieno di minacce mortali». Invece è il buio di una tranquilla cittadina addormentata.<br />
Quando gli orologi di bordo segnano le 4.45 del mattino dell’8 novembre un triplice<br />
colpo di fischietto ordina, su ogni piroscafo, di calare le scialuppe in mare. Il viaggio<br />
verso i sei settori della costa africana nei quali lo sbarco è stato suddiviso dura<br />
esattamente mezz’ora durante la quale – da terra – non giunge nessun segno di<br />
allarme. Alle 5.15 un soldato americano che porta un nome famoso della storia patria,<br />
Thomas Jefferson, 22 anni, di Tallahassee, Florida, appartenente alla 3ª Divisione<br />
fanteria, mette per primo il piede sulla spiaggia di Fedala.<br />
Deve trascorrere ancora un quarto d’ora prima che, dalla parte francese, si registri una<br />
reazione. Alle 6.05, infatti, la batteria del porto e quella di Pont-Blondin (armata,<br />
quest’ultima, da quattro moderni pezzi da 138 millimetri) aprono il fuoco verso il mare,<br />
benché la visibilità sia fortemente ostacolata dalla nebbia mattutina. A quanto si<br />
apprenderà più tardi, al comando delle batterie è giunta la segnalazione telefonica di<br />
«una flotta sconosciuta» presentatasi a due miglia dall’imboccatura del porto e che non<br />
ha risposto ai segnali in codice e i serventi hanno aperto il fuoco senza sapere<br />
esattamente quale nemico (se davvero è un nemico) abbiano di fronte. Lo sbarco,<br />
comunque, prosegue velocemente, rispettando quasi tutti i tempi indicati nei<br />
programmi: invano un peschereccio francese, il Victoria, armato di mitragliatrici pesanti,<br />
tenta di speronare il cacciatorpediniere americano Hogan perché, alla distanza di 300<br />
metri, viene colato a picco con una salva di cannonate che lo raggiunge all’altezza della<br />
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