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RICORDI E PERIPEZIE DI UN TRIPOLINO<br />
Carissimi tutti, sono di nuovo Emilio Parlato. Mi avete conosciuto, leggendo i miei<br />
due primi racconti sul sito “Caro diario” con “<strong>Ricordi</strong> di Libia e della centrale di<br />
Garian” e “Da Tripoli a Hon orientarsi nel deserto”,messo gentilmente a disposizione<br />
dall’instancabile caro <strong>Paolo</strong> <strong>Cason</strong>. Il presente racconto va inserito subito dopo lo<br />
scoppio delle navi Birmania e Città di Bari, che hanno distrutto,al porto, nel 1941, il<br />
bar di proprietà della mia famiglia. Io allora ero diciottenne; mio padre, già grande, a<br />
causa di quel bombardamento,è rimasto senza lavoro. Noi, stanchi di tutto quello che<br />
avevamo passato, volevamo allontanarci dalla guerra, che specialmente al porto era<br />
stata particolarmente dura. Dato che i miei genitori erano siciliani, scegliemmo la<br />
Sicilia come luogo tranquillo,in cui la guerra non sarebbe arrivata,così credevamo.<br />
Lasciavamo Tripoli con dolore, anche perché una mia sorella si era sposata e voleva<br />
restare, due miei fratelli, uno del 14 e uno del 20, erano sotto le armi e combattevano<br />
sui fronti libici. Prefettura e Questura ci fornirono tutti i documenti necessari e il 15<br />
ottobre 41 fummo pronti a partire. I nostri familiari restanti ci hanno accompagnato<br />
fino alla casa Littoria, nei pressi del lungomare e lì, con dei pullman già pronti, siamo<br />
partiti per l’aeroporto di Castel Benito. L’unico mezzo di trasporto disponibile era un<br />
aereo militare, un trimotore S79, in nostra attesa, da poco arrivato portando dall’Italia<br />
soldati e rifornimenti. Salimmo con un gruppo formato tutto da donne e bambini, gli<br />
unici uomini eravamo mio padre, poco più che cinquantenne ed io diciottenne.<br />
L’equipaggio era formato dal pilota e un aviere che fungeva da mitragliere. Le<br />
mitraglie, però, erano tre, una al centro, che fuoriusciva dalla torretta ed era azionata<br />
dall’aviere, seduto su un sediolo rotante, per potere sparare in tutte le direzioni e le<br />
altre due erano posizionate nei due fianchi. Quando l’aviere vide che l’unico uomo<br />
disponibile a sparare ero io, cominciò in fretta e furia ad istruirmi sul funzionamento<br />
dell’arma in caso di necessità, raccomandandomi di non sparare verso la coda<br />
dell’aereo, né verso l’ala, ma solo in linea diritta, perché al resto avrebbe pensato lui.<br />
Il mio battesimo di volo è avvenuto così, in una situazione drammatica. Lasciando la<br />
terra ferma, avevamo davanti solo mare e cielo; all’altezza di Malta, base inglese, il<br />
pilota fece segno all’aviere di stare all’erta, e lui si piazzò nella mitraglia centrale,<br />
assegnandomi quella di destra. Eravamo tutti paralizzati dal terrore, le donne<br />
pregavano ed io con l’arma in mano cercavo di bucare le nuvole con gli occhi, alla<br />
ricerca del nemico. Per fortuna, quel momento interminabile passò senza incidenti e<br />
guardando giù ecco improvvisamente la Sicilia, che vedevo per la prima volta, non<br />
piatta come l’Africa, ma con le sue montagne,che io vedevo storte, dato che l’aereo<br />
stava virando per atterrare. Prima di toccare terra, l’aviere rientrò le mitraglie,<br />
chiudendo gli sportelli ; eravamo a Castelvetrano, ma prima di scendere,<br />
ringraziammo il pilota per la sua bravura ed io abbracciai l’aviere, di cui mi<br />
consideravo collega. Quei bravi ragazzi non li ho più visti, chissà che fine avranno<br />
fatto. Era il 15 ottobre 1941. Scesi, ci siamo inginocchiati ed io ho baciato per la<br />
prima volta il suolo italiano, terra che osservavo con grande meraviglia, nel vederne il<br />
colore diverso da quello di Tripoli e nel toccarne la solidità diversa dalla sabbia.
Negli uffici municipali di Castelvetrano, ci hanno registrato come profughi e<br />
accompagnati alla stazione sul treno per Agrigento. Anche questa esperienza è stata<br />
una novità, per il mezzo sul quale non avevo mai viaggiato e per il paesaggio che<br />
continuava a sorprendermi. Arrivati a Castrofilippo, siamo stati accolti dalla famiglia<br />
di mia mamma, che ci ha messo a disposizione una casa. Prima che finisse il 1941, mi<br />
impiegai al Comune, come responsabile dell’ufficio Anagrafe bestiame, in cui<br />
venivano registrati tutti gli animali da lavoro del paese e forniti di carta d’identità,<br />
che doveva essere mostrata, in un eventuale controllo da parte dei carabinieri, anche<br />
per strada. La mia competenza comprendeva anche la leva militare per i muli, che,<br />
quando occorreva, potevano essere requisiti dall’esercito. Quando era necessario,<br />
arrivava una commissione di ufficiali veterinari, per visitare i muli , che , se venivano<br />
dichiarati abili, potevano essere requisiti e utilizzati in guerra . La popolazione veniva<br />
avvisata dell’arrivo della commissione, alcuni giorni prima, da un banditore con un<br />
tamburo . Questa requisizione era obbligatoria, nessuno poteva esimersi; anche se<br />
veniva pagata a prezzi stabiliti dal governo, il contadino veniva privato del suo mezzo<br />
di lavoro a cui era molto affezionato. A causa della guerra e quindi della mancanza di<br />
personale maschile, facevano parte del numero degli impiegati anche le donne. Una<br />
di queste faceva la dattilografa, si chiamava Concettina, e dato che esisteva una sola<br />
macchina da scrivere, tutti ci rivolgevamo a lei ed io in modo particolare. Il sabato<br />
pomeriggio, detto sabato fascista, era destinato alle esercitazioni militari, che<br />
avvenivano in un grande piazzale , dove noi giovani,in attesa della chiamata alle<br />
armi, ci addestravamo. Un giorno fui chiamato dal Federale, che mi propose di<br />
partecipare ad un corso a Roma per l’attestato di “Primo Cadetto”, che sarebbe durato<br />
un mese. Accettai con entusiasmo, desideroso di conoscere la Capitale e partii con<br />
altri “fortunati”. Alla stazione di Roma ci accolse un gerarca, che prima di<br />
accompagnarci al campo di Monte Mario, ci avvertì che lì dentro si faceva sul serio e<br />
che, se qualcuno voleva ritirarsi, era meglio lo facesse subito. Quel mese è stato<br />
sfiancante per la severità della disciplina e della ginnastica, ma anche per la<br />
mancanza di una adeguata alimentazione. Alla fine sono venuti degli osservatori dalla<br />
Germania, Giappone e Spagna ad ammirare la nostra sfilata a passo romano di parata.<br />
Tornato a casa, con l’attestato di “Primo Cadetto”, sono stato nominato istruttore<br />
premilitare e con me i giovani hanno provato la vera ginnastica. A gennaio del 1943,<br />
fui chiamato alle armi e assegnato al 6° reggimento di fanteria della divisione Aosta,<br />
posta fra Palermo e Trapani, in difesa della costa nord-occidentale; in vista di un<br />
eventuale sbarco nemico, ci esercitavamo alle armi e ai combattimenti. Tutto ciò durò<br />
fino al 10 luglio 1943, data del vero sbarco, che avvenne invece nelle coste a sud<br />
dell’isola, lontano dalla nostra posizione. Quindi io non mi trovai subito ad affrontare<br />
il nemico appena sbarcato, ma la mia divisione si scontrò dopo pochi giorni con le<br />
truppe americane, che risalivano dal sud, mentre noi dai dintorni di Palermo<br />
andavamo verso il centro della Sicilia, a Nicosia, in provincia di Enna, dove ho avuto<br />
il battesimo del fuoco, per tentare di fermarli. Ma questa era pura illusione, perché<br />
nelle grandi battaglie che abbiamo sostenuto nei pressi di Troina, parte dei nostri<br />
reparti furono sconfitti o presi prigionieri o riuscirono a risalire lo stretto di Messina.<br />
Io mi trovai nel mezzo di una grande ritirata disordinata, che ci portò fino a Troina,<br />
tenendo questa nuova posizione per cinque giorni. Sembrava che gli americani
avessero premura, agguerriti sempre più, facevano ripetuti attacchi terrestri e aerei; in<br />
uno di questi, alcuni gruppi caddero prigionieri, tra quei soldati, c’ero io. Era il 5<br />
agosto 1943. Leggendo oggi i libri di storia a questo proposito, il generale Bradley,<br />
comandante del 2° corpo di Armata americano, ebbe a dire che a Troina fu<br />
combattuta la più impegnativa e sanguinosa battaglia che gli Americani sostennero<br />
durante l’intera campagna di Sicilia. La mia prigionia durò pochi giorni, perché gli<br />
Americani, che esaminavano la situazione e la provenienza di ogni prigioniero, si<br />
accorsero che provenivo da una zona già da loro conquistata e, senza perdere tempo,<br />
per non dover portare appresso il peso di questi prigionieri, firmarono un documento<br />
dove risultavo prigioniero sulla parola e in cui mi impegnavo sul mio onore, a non<br />
prendere più le armi contro gli anglo-americani; con esso dovevo presentarmi, giunto<br />
in paese, al Comando che ormai era nelle loro mani. Aperti i cancelli del campo solo<br />
per i fortunati come me, che abitavano a sud, mi avviai verso casa, che distava da lì<br />
circa 200 chilometri , che percorsi un po’ a piedi e un po’ su carretti di passaggio,<br />
guidati da carrettieri mossi a compassione del mio aspetto estenuato, ma che mi<br />
davano un po’ di respiro. Arrivato a casa e dopo un periodo di riposo, tornai a<br />
lavorare all’ufficio Anagrafe bestiame, dove incontrai i vecchi colleghi e quella<br />
dattilografa, che mi aveva colpito in precedenza, tanto che ci fidanzammo e poi<br />
sposammo in un giorno particolare il 29 aprile 1945. Quel giorno , era domenica,<br />
suonarono le campane a festa, credevamo che fossero per noi, invece sapemmo che<br />
era finita la guerra e che l’Italia era libera, ma nel nostro piccolo paese, questa grande<br />
notizia era arrivata con quattro giorni di ritardo. Nei giorni che seguirono il<br />
matrimonio, la mia mente e quella dei miei genitori era rivolta di nuovo verso quella<br />
Tripoli, che eravamo stati costretti a lasciare, anche perché vi abitavano un fratello,<br />
ormai tornato dalla prigionia e una sorella sposata. Ma questa volta Tripoli non era<br />
più italiana e ancora non c’erano servizi di linea. Data la voglia di rientrare della mia<br />
famiglia, alla quale si era unita anche la mia giovane sposa, cercammo un<br />
traghettatore o come si direbbe oggi, uno scafista. Lo trovammo a Siracusa, nel porto.<br />
Lui prendeva tempo, perché non si fidava, ma poi acconsentì e raccolse settanta<br />
persone che dovevano attraversare il Mediterraneo in motopeschereccio, ma questa<br />
volta partendo dalla Sicilia. Il viaggio fu un’altra avventura, prima per raggiungere a<br />
gruppetti con piccole barche il natante, che aspettava al largo e poi per affrontare due<br />
notti e due giorni di navigazione. Tutti i movimenti dell’imbarco sono avvenuti di<br />
sera tardi, per evitare controlli; il motore era una Isotta Fraschini, aveva un bel rombo<br />
e presto ci siamo trovati in alto mare. Per fortuna era estate e il mare era calmo, ma<br />
attorno a noi c’era solo mare, sole e il buio della notte. Dovevamo avere pazienza e<br />
pregare. Fattosi giorno, i marinai ci invitarono a fare silenzio e restare chini e coricati<br />
sul fondo, perché eravamo nei pressi di Malta ed era prudente non farsi vedere. Dopo<br />
un altro giorno di navigazione, venuta la sera, i marinai ci avvisarono che non<br />
mancava molto, infatti dopo un paio d’ore vedemmo delle luci e finalmente la terra. Il<br />
motore venne messo al minimo, ora la barca si muoveva appena. Il capo dei tre<br />
marinai col binocolo osservava la terra vicina a quelle luci, era quello il punto dello<br />
sbarco; eravamo davanti ad una spiaggia, il lido di Tripoli, come dire, davanti casa. In<br />
precedenza avevamo osservato un passeggero che parlottava con il capo barca,<br />
all’arrivo capimmo che era un familiare dei proprietari del lido, dove in quel
momento si stava svolgendo una serata danzante. Aspettammo in silenzio la fine della<br />
festa e poi fu messa in acqua una piccola barca , dove presero posto il nostro<br />
compagno con un marinaio. Dopo circa mezz’ora ecco arrivare due grosse barche, i<br />
cui rematori erano arabi, i quali, nella gioia di vedere il loro padrone, si prodigarono,<br />
con parecchi viaggi, a portarci a terra. I marinai rimasti a bordo, nel salutarci ci<br />
chiesero di non buttare il cibo che ci era avanzato, perché poteva servire a loro nel<br />
viaggio di ritorno. L’ Isotta Fraschini si rimise in moto e prima che noi toccassimo<br />
terra, era scomparsa. Ci siamo calati scalzi sul bagnasciuga, toccando terra. Gli<br />
Albanesi nel 2000 e poi gli Africani hanno copiato da noi. La famiglia del nostro<br />
compagno di viaggio è stata gentile, nel suggerirci come non farci trovare dalla<br />
polizia, altrimenti c’era l’arresto e il rimpatrio. Come Dio volle raggiungemmo la<br />
nostra casa, riabbracciando i nostri familiari increduli. Così ritrovammo le nostre<br />
abitudini, amicizie, luoghi che avevamo lasciato ma non dimenticato, mentre per mia<br />
moglie tutto era nuovo e veniva conquistata dalle bellezze della città, di cui le<br />
avevamo tanto parlato e che lei stava provando e assaporando. Non persi tempo per<br />
cercarmi un lavoro; anche se ,essendo arrivato clandestinamente, ero sprovvisto di<br />
documenti, mi presentai agli uffici delle officine P.W.D. e trovai due persone che<br />
discutevano, poi seppi che erano lo staff Watson , seduto alla scrivania , e Vittorio<br />
Malinconico, il capo officina. Alla mia richiesta di lavoro, lo staff rispose<br />
affermativamente, chiedendo il mio nome e un documento. Gli dissi il nome, facendo<br />
finta di cercare il documento, che sapevo di non avere; nello stesso tempo, contando<br />
su quell’altro signore, Malinconico, che mi ispirava un’istintiva fiducia, senza essere<br />
visto dall’inglese, gli feci un gesto significativo con la mano e lui capendo al volo,<br />
assicurò lo staff che si sarebbe occupato della questione. Lo staff si allontanò,<br />
raccomandandomi di tornare l’indomani, puntuale al lavoro con i documenti. Rimasti<br />
soli, il mio salvatore mi chiese se ero arrivato con le barche, e capita la situazione, mi<br />
assicurò che lì mi sarei trovato in buone mani e potevo stare tranquillo. Per merito<br />
suo ho fatto la mia carriera di operaio meccanico, anzi posso dire che diventai il suo<br />
beniamino, perché per qualunque problema si rivolgeva a me. Un’ altra persona che<br />
mi stimava molto, era il maggiore inglese, che comandava tutte le officine collegate<br />
ed aveva il suo ufficio in corso Sicilia, al Palazzo del Governo. Ogni tanto veniva ad<br />
ispezionare i reparti con la sua macchina privata, una Hillmann. Mentre si fermava<br />
per le ispezioni, voleva che gli controllassi la macchina, ed io cercavo di farlo<br />
contento. Una volta, invece, telefonò a Malinconico, chiedendo che lo raggiungessi al<br />
suo ufficio. Arrivato lì, tutto emozionato e non sapendo cosa voleva il maggiore da<br />
me, mi vidi consegnare le chiavi della sua macchina, che doveva servire per portare<br />
in giro la moglie, ma ad una condizione, che non la facessi assolutamente guidare. A<br />
casa, trovai già pronta la signora,che, uscendo,si avviò verso il posto di guida. Io fui<br />
più svelto di lei, le aprii lo sportello di dietro e mi infilai al posto di guida. Volle<br />
essere portata ai magazzini generali inglesi, e, all’uscita, risalendo in macchina,<br />
cominciò a fare conversazione, mentre io la osservavo dallo specchietto retrovisore.<br />
Poi sorridendo mi chiese di guidare ed io, altrettanto sorridendo le risposi di no. Al<br />
che lei domandò se era suo marito che me lo aveva raccomandato e, alla mia risposta<br />
affermativa , smise di insistere. Questa fu la prima delle tante uscite in macchina che<br />
facemmo insieme. Ormai i soldati inglesi, di turno all’entrata, mi conoscevano e mi
facevano entrare senza problemi. Nelle successive uscite, ogni tanto tornava a<br />
chiedere di guidare, ed io alla fine, persi la mia fermezza, concedendole il posto di<br />
guida e sedendole accanto. Capii subito il motivo dei divieti del maggiore, la signora<br />
era una spericolata ed io temevo per tutti e due. Le chiesi cosa sarebbe successo se il<br />
marito fosse venuto a saperlo e candidamente mi rispose che non sarebbe stata certo<br />
lei a dirglielo. Da quella volta ha guidato sempre lei. Ad agosto del 1948 , la mia<br />
famiglia aumentò , nacque una bambina, in via Raffaello, 31. Tutto era andato bene,<br />
ma dopo una settimana mia moglie ebbe delle complicazioni ; chiamai il primario del<br />
reparto chirurgia, professor Regoli,, che la fece immediatamente ricoverare. Ora<br />
dovevo tutti i giorni recarmi in ospedale e rispuntava quel problema, che ancora non<br />
avevo risolto, la mancanza di documenti. Anche se avevo “amici” inglesi, non avevo<br />
osato ancora sollevare questo argomento, forse sbagliando, temendo di perdere il<br />
lavoro. Avevo un grande amico francescano, padre Illuminato Colombo, che<br />
proteggeva ed aiutava chiunque avesse bisogno. Mi rivolsi a lui, raccontandogli le<br />
mia vicissitudini e quali conoscenze avessi sul lavoro. Lui contattò il maggiore<br />
inglese, che comandava in polizia e, dopo una settimana, fui convocato. Dopo , seppi<br />
che erano state chieste informazioni su di me al capo del P.W.D., proprio quel<br />
maggiore, che si fidava di me, affidandomi la macchina con la moglie. Il capo della<br />
polizia, infatti, mi confermò che la mia situazione si era sbloccata proprio grazie a lui,<br />
che aveva garantito per me. Con il tanto sospirato documento, mi recai al lavoro e<br />
venni a sapere da Malinconico che il maggiore mi voleva al Palazzo del Governo;<br />
quando arrivai, mi chiese se avevo sistemato tutto ed io sorridendo, gli mostrai il<br />
documento, che dovevo a lui. Per ringraziarlo, nell’andarmene, scattai sull’attenti,<br />
battendo i tacchi, riconoscendo la sua superiorità e magnanimità. Per questa volta ho<br />
finito, saluto con affetto tutti coloro che hanno avuto la pazienza di leggere questi<br />
miei ricordi e soprattutto ringrazio <strong>Paolo</strong>, il padrone di casa, se vorrà pubblicarli.<br />
Arrivederci alla prossima volta.<br />
Emilio Parlato