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BRUNO TORRI<br />

no è occupata da Paolo e Vittorio Taviani, i quali, con la loro opera prima,<br />

Un uomo da bruciare, girata nel 1962 assieme a Valentino Orsini, si<br />

pongono subito tra i suoi esponenti più rappresentativi, proprio in virtù<br />

<strong>del</strong>la “diversità” e dei marcati tratti di originalità esibiti in questo film.<br />

Anche se non vi mancano tracce <strong>del</strong>la lezione neorealistica, Un uomo<br />

da bruciare è tutto il contrario di un’opera epigonica: il suo impegno contenutistico,<br />

pur molto evidente, trova sempre il giusto equilibrio con le<br />

scelte formali che lo veicolano, e che infatti, valorizzando le potenzialità<br />

insite nel linguaggio <strong>cinema</strong>tografico, finiscono per rafforzare il discorso<br />

sviluppato nel film. Pur muovendosi ancora sulla strada <strong>del</strong> realismo filmico,<br />

i fratelli Taviani e Orsini introducono nella struttura narrativa e nelle<br />

soluzioni figurative degli elementi elaborati dalla fantasia e dall’immaginazione,<br />

costruendo così un’unitaria pluralità di livelli espressivi e comunicativi<br />

che riesce a rendere meglio la complessità <strong>del</strong> reale, a coniugare<br />

l’interno e l’esterno <strong>del</strong> personaggio su cui si incentra la vicenda narrata,<br />

ad accrescere la spinta referenziale <strong>del</strong> film. Un uomo da bruciare è, prima<br />

di ogni altra cosa, la storia di un uomo; quindi il suo processo creativo presenta<br />

come principale motivazione, come ragione espressiva fondante, la<br />

costruzione <strong>del</strong> protagonista, per il quale gli autori prendono spunto da<br />

una persona realmente esistita (il sindacalista e poeta Salvatore Carnevale),<br />

ma inventano anche diverse componenti caratteriali e comportamentali<br />

e diversi avvenimenti esistenziali che ne fanno una figura sostanzialmente<br />

nuova, staccata dal mo<strong>del</strong>lo originario. Nella narrazione-rappresentazione<br />

<strong>del</strong> Salvatore di Un uomo da bruciare non c’è discontinuità tra<br />

la dimensione privata e la dimensione pubblica <strong>del</strong> personaggio, nel senso<br />

che non viene dato un maggiore rilievo a una di queste dimensioni, mentre<br />

ne vengono messi costantemente in rilievo i nessi intercorrenti, l’interazione<br />

dialettica, i condizionamenti reciproci. Pertanto, l’introspezione<br />

psicologica e l’azione sociale <strong>del</strong> personaggio diventano, nel racconto filmico,<br />

le due facce di un’unica medaglia: una mostra l’individualità <strong>del</strong> tutto<br />

particolare di Salvatore, l’altra descrive la sua militanza ideologico-politica,<br />

il segno da lui lasciato nell’ambito in cui ha agito; l’una e l’altra danno<br />

il senso di un destino umano che è, insieme, voluto e subìto, e che contemporaneamente<br />

serve anche a <strong>del</strong>ineare un preciso contesto sociale.<br />

Ambientato in Sicilia nella fase di transizione che vede la mafia riorganizzarsi<br />

al proprio interno per spostare la sua influenza e la sua attività<br />

criminale dal feudo all’edilizia, Un uomo da bruciare dispiega e approfondisce<br />

la vita di un agitatore politico-sindacale il quale non solo vuole lottare<br />

contro il potere mafioso, ma anche, e insieme, contro le ingiustizie<br />

sociali che – come il film mette bene in risalto – sono possibili e si perpetuano<br />

proprio per le complicità esistenti tra la mafia stessa e altri poteri,<br />

economici e politici. Nello svolgimento di questo tema, e focalizzando<br />

sempre l’attenzione sul vissuto <strong>del</strong> protagonista, il film coglie tutte le pecu-<br />

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IL “NUOVO CINEMA” DI PAOLO E VITTORIO TAVIANI<br />

liarità <strong>del</strong>la sua lotta politico-sindacale e, al contempo, <strong>del</strong>la sua personalità<br />

più intima, mettendo in luce pulsioni e contraddizioni, grandezze e<br />

miserie di una vita comunque eccezionale. In tal modo Un uomo da bruciare<br />

va oltre l’opera di denuncia, così come non resta impaniato nella retorica<br />

<strong>del</strong>l’“eroe positivo”: senza trascurare la Storia, e anzi lasciandone<br />

emergere il movimento e i condizionamenti, il film riesce a dare spessore<br />

e credibilità a una tipologia umana molto singolare la quale, in ciò che<br />

maggiormente la connota e la distingue, apparirà più volte nel <strong>cinema</strong> dei<br />

fratelli Taviani. Il personaggio di Salvatore, infatti, è quello <strong>del</strong> “rivoluzionario”,<br />

<strong>del</strong>l’“utopista”, <strong>del</strong>l’“esagerato”, di colui che vuole forzare i<br />

tempi (storici) per anticipare l’avvento di un futuro diverso e migliore; un<br />

personaggio anche ambiguo, dalla natura passionale, i cui entusiasmi<br />

manifestano o, altrimenti, “rimuovono” illusioni, narcisismi e paure radicate<br />

nel mondo infantile, e al quale appare sempre riservata, nel bene e nel<br />

male, una sorte estrema.<br />

Tra i tanti meriti che vanno ascritti a Un uomo da bruciare vi è anche<br />

quello concernente le sue modalità produttive, vale a dire la scelta <strong>del</strong> basso<br />

costo, la costituzione, sostanziale anche se non formalizzata, di un sistema<br />

produttivo di tipo cooperativistico e, in sintonia con tutto il resto, la<br />

simbiosi nata sul set tra gli autori e il produttore Giuliani De Negri, il quale<br />

in seguito parteciperà, ricoprendo un ruolo non soltanto economico ma<br />

anche intellettuale, alla realizzazione di tutti i film dei Taviani e di Orsini.<br />

Rispetto a Un uomo da bruciare, il loro secondo film, I fuorilegge <strong>del</strong><br />

matrimonio, girato nel 1963, appare meno caratterizzato dalla ricerca “linguistica”,<br />

dallo sforzo di guadagnarsi uno stile personale; e, conseguentemente,<br />

la sua resa estetica e la sua portata culturale risultano meno rilevanti,<br />

o più esattamente, risultano più corrispondenti a una tradizione<br />

<strong>cinema</strong>tografica, sì ancora valida e riproponibile, ma ormai più legata al<br />

passato che volta al futuro. Con questo film nato, per così dire, su commissione<br />

e che non ambisce prioritariamente alla bellezza bensì all’utilità,<br />

i registi, accettando appunto una sorta di mandato sociale, prendono posizione<br />

a favore di una battaglia civile, cioè il sostegno di un disegno di legge<br />

che intendeva introdurre, sia pure in misura limitata, il divorzio in Italia.<br />

Composto di sei episodi ognuno dei quali illustra altrettanti casi in cui<br />

l’applicazione <strong>del</strong> “piccolo divorzio” (così era definito quel disegno di legge)<br />

poteva essere ammissibile, I fuorilegge <strong>del</strong> matrimonio rivela una funzionale<br />

seppure un po’ facile didascalicità, che supporta adeguatamente i<br />

suoi scopi informativi ed esplicativi. Tuttavia solo in due racconti, quello<br />

dei concubini costretti a vivere separatamente e quello <strong>del</strong>la Sacra Rota,<br />

il linguaggio <strong>cinema</strong>tografico appare davvero sperimentato e risolto felicemente<br />

nel tracciato narrativo, mentre nel suo insieme il film tradisce l’assenza<br />

di un’autentica ispirazione, di una intrinseca necessità.<br />

Molto differente, in quanto molto sentito e molto pensato, oltre che<br />

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