scarica documento - Mostra internazionale del nuovo cinema
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LINO MICCICHÈ<br />
mente forme di consapevolezza, estetica e politica, così (relativamente)<br />
avanzate come: 1. la coscienza <strong>del</strong> superamento definitivo <strong>del</strong><br />
mito/illusione neorealistico e di ogni sua possibile ripresa, o mimesi, o<br />
derivazione, superamento cui corrisponde per altro una ricerca che si<br />
muove pur sempre nell’ambito realistico cercandone tuttavia una rifondazione;<br />
2. la coscienza che l’unico modo per essere degli artisti politici<br />
non è quello di fare <strong>del</strong>l’arte “politica” ma di fare politicamente l’arte, poiché,<br />
come ha detto Paolo Taviani, «l’utilità di un film non esiste al di fuori<br />
di quella modificazione che esso è capace di apportare negli altri nel suo<br />
campo specifico» («nel momento stesso in cui parli <strong>del</strong> Viet-Nam – chiarisce<br />
quindi Vittorio – non si tratta di usare il <strong>cinema</strong> per comunicare<br />
alcuni dati informativi sul Viet-Nam. Ma piuttosto [...] di vietnamizzare il<br />
linguaggio <strong>del</strong> film»); 3. la coscienza che dalla sclerosi <strong>del</strong>le vecchie certezze<br />
ideologistiche non si esce creandone <strong>del</strong>le nuove destinate a loro<br />
volta a sclerotizzarsi, ma scegliendo, materialisticamente, il sistematico<br />
confronto con la realtà in una feconda dialettica tra l’accettazione e la<br />
messa in discussione continue di se stessi; 4. la coscienza che la “politica<br />
<strong>del</strong> possibile” ha finito per emarginare l’“impossibile” dal voluto, ratificando<br />
ad aeternum la sua impossibilità, e che dunque occorre ridare uno<br />
spazio politico all’utopia, alla trasgressione, all’esagerazione non solo<br />
come modi di negazione <strong>del</strong>l’esistente ma come momenti vitali di trasformazione<br />
<strong>del</strong> mondo.<br />
Queste forme di consapevolezza, espresse nel film senza alcuna presunzione<br />
profetica e senza alcuna lacrimosa autocommiserazione, anzi con<br />
rigorosa (pur se partecipe e commossa) asciuttezza, fanno di Sovversivi un<br />
film ricco di presentimenti sessantotteschi: nel senso che gli umori, i fervori,<br />
gli ardori, così come le spinte iconoclaste, antidogmatiche, anticatechistiche<br />
da cui il film è pervaso, troveranno parziale concretizzazione, di<br />
lì a una stagione, nelle piazze, nelle fabbriche e nelle università (parziale:<br />
ché soprattutto in queste ultime si formeranno rapidamente nuovi, e non<br />
meno ottusi, rituali ideologistici). Ciò nonostante, o forse anzi proprio per<br />
questo, Sovversivi è, sia nel <strong>cinema</strong> italiano <strong>del</strong> periodo sia nella filmografia<br />
dei Taviani, un’opera di transizione: nel <strong>cinema</strong> italiano, perché sembra<br />
far da ponte tra due diversi momenti <strong>del</strong>la sua storia, quello degli iniziali<br />
anni sessanta carico di illusioni e in apparente ascesa, e quello <strong>del</strong><br />
riflusso post-sessantottesco che così pervicacemente maschererà la propria<br />
resa con periodiche impennate di “consumismo impegnato”; nella filmografia<br />
dei Taviani, perché è l’ultimo dei loro film direttamente legato<br />
alla cronaca, l’ultimo di esorcizzazione neorealistica, l’ultimo in cui si ha<br />
ancora una compresenza di livelli metaforici e di livelli metonimici (e una<br />
netta prevalenza di questi ultimi), prima <strong>del</strong>le grandi metafore politiche<br />
di Sotto il segno <strong>del</strong>lo Scorpione (1968-1969), San Michele aveva un gallo<br />
(1971), e Allonsanfan ( 1974), opere tutte che gradualmente confermano<br />
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GLI “UTOPISTI” E GLI “ESAGERATI”<br />
(anche se più la prima e la seconda <strong>del</strong>la terza) come la carriera artistica<br />
dei Taviani sia tra le poche «che rivelano un pressoché continuo processo<br />
di maturazione, cioè un sempre maggiore scavo tematico unito a una sempre<br />
maggiore consapevolezza espressiva» (Torri). Converrà intrattenersi<br />
sulla prima di questo trio di opere, poiché se la prima proiezione pubblica<br />
(a Venezia, nel settembre <strong>del</strong> 1969) la pone fuori <strong>del</strong> nostro campo di osservazione,<br />
la data <strong>del</strong>le riprese (estate <strong>del</strong> 1968) e quella <strong>del</strong> primo trattamento<br />
(autunno 1967) ve la fanno perfettamente rientrare.<br />
Un’isola di origine vulcanica (questo è il soggetto di Sotto il segno <strong>del</strong>lo<br />
Scorpione, che è opportuno esporre) sprofonda negli abissi marini. Trova<br />
scampo una pattuglia di uomini, i più giovani, che cercano di approdare<br />
sul continente. Invece sbarcano su un’altra isola, vulcanica anch’essa, in<br />
tutto simile alla loro. L’isola è abitata da gente povera e semplice come<br />
loro, il cui capo, Renno, è tutto saggezza, equilibrio e ricordi di gloriose<br />
lotte fatte vent’anni prima per salvare gli isolani da un’eruzione vulcanica<br />
e ricostruire il villaggio distrutto. Renno e i suoi, superata la prima fase di<br />
diffidenza, accolgono i giovani, li rivestono li rifocillano li ospitano nelle<br />
loro case. Ma non è questo che i giovani vogliono. Giunti in un’isola che<br />
è esattamente come la loro, essi vi vedono gli stessi pericoli da cui sono<br />
scampati: non vogliono correre altri rischi, non vogliono che si ripeta<br />
quello che è già accaduto. Essi puntano a ottenere <strong>del</strong>le barche per lasciare<br />
al più presto l’isola; o meglio ancora ad abbandonarla assieme agli isolani.<br />
Per questo spiegano come fu atroce la tragedia da loro vissuta, descrivono<br />
a lungo l’immane disastro e indicano a più riprese la necessità di ricominciare<br />
altrove una vita tranquilla, un <strong>nuovo</strong> corso sicuro, al riparo da sciagure,<br />
nel quale non sia più necessario vivere sempre provvisoriamente nell’attesa<br />
quotidiana <strong>del</strong> disastro. Gli isolani, specie i più giovani, sulle prime<br />
stanno per convincersi, poi ricominciano ad avere qualche diffidenza nei<br />
confronti dei giovani profughi, in ispecie verso Rutolo e Taleno. Questi<br />
ultimi sono i più attivi tra i nuovi venuti e Renno finisce per farli imprigionare<br />
assieme ai loro compagni. Appena in tempo, perché già i più giovani<br />
<strong>del</strong> villaggio mancano di rispetto agli anziani, le donne <strong>del</strong> villaggio<br />
e gli ospiti cominciano a occhieggiarsi, le discussioni tra le due collettività<br />
si sono trasformate in dibattito interno e Renno stesso è guardato meno<br />
reverenzialmente di prima. Per i giovani profughi sembra finita. Qualcuno<br />
tra i più anziani propone perfino di ammazzarli. Poi Renno pensa una<br />
diversa soluzione: diamo loro una barca, dice, e lasciamoli andare dove<br />
vogliono purché ci lascino in pace. Così si appresta a fare, infatti, convinto<br />
di avere risolto il problema e riprendendo in pace il lavoro nei campi. Ma<br />
i giovani profughi non si contentano di avere le barche: una comunità<br />
senza donne, una volta sul continente, è destinata a non sopravvivere. E<br />
poco prima di imbarcarsi rapiscono le donne <strong>del</strong>l’isola, inclusa Glaia, la<br />
moglie di Renno, inclusa la figlia <strong>del</strong>l’anziano che avrebbe voluto farli ucci-<br />
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