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LINO MICCICHÈ<br />

politico, ma senza virgolette proprio perché rifiuta la nozione di Politica<br />

come campo d’azione specifico e “specialistico” (la tipica eredità idealistica<br />

che affligge, negli anni sessanta e oltre, molto <strong>cinema</strong> “politico” che<br />

si vuole materialistico); bensì nel senso assai più vasto e coinvolgente di<br />

ripensamento integrale di una generazione su se stessa, su un’epoca e sul<br />

modo di viverla. L’“addio al padre” – cioè a qualcosa che si è amato, (o<br />

odiato) e che ci ha reso come siamo (impedendoci anche di essere diversi<br />

da ciò che siamo) – è insomma in Sovversivi il momento, liberatorio e angoscioso<br />

(e perciò commosso) in cui i personaggi vedono venir meno il<br />

garante <strong>del</strong>la loro tranquillità, <strong>del</strong>la loro pacificazione con se stessi, <strong>del</strong>la<br />

loro quieta accettazione <strong>del</strong>l’inquietudine e, recuperando la propria<br />

libertà (che ha come prezzo, s’intende, la precarietà), si riprogettano,<br />

riprendendo a credere nell’utopia come momento <strong>del</strong>la verità, a liberarsi<br />

dalla paura <strong>del</strong>l’errore («Conviene sbagliare» fu il primo titolo che i<br />

Taviani proposero per il film), a vedere positivamente l’“esagerazione” se<br />

essa serve a tirare fuori il senso <strong>del</strong>le cose, a «contrapporre, a un presente<br />

che rischia l’appiattimento per la lontananza <strong>del</strong>la prospettiva, un futuro<br />

immaginario e desiderato».<br />

«In Sovversivi – chiarisce Vittorio Taviani in un’intervista ai «Cahiers<br />

du cinéma» – tanti personaggi, come un unico personaggio. Come un<br />

gruppo. Un gruppo in un momento di crisi, di passaggio. Un equilibrio è<br />

finito e minaccia di coinvolgere il gruppo. Di qui la necessità – prima di<br />

tutto fisiologica – di altri equilibri. Avere la forza di distruggere (ma non<br />

per martoriarsi con i detriti <strong>del</strong> mondo distrutto, né per identificarsi<br />

romanticamente con la sua distruzione). Ma per avere le mani libere per<br />

ricominciare a cercare. Il funerale di Togliatti [...] è il funerale <strong>del</strong> padre<br />

(il padre come mito, come padre naturale, come momento storico, come<br />

neorealismo [...]). Una impresa luttuosa ma anche liberatrice. Disponibilità<br />

a nuove dimensioni: ancora a livello personale, nei personaggi <strong>del</strong> film,<br />

ma come sintomo di una necessità più ampia». Sovversivi è insomma anche<br />

un incontro con la morte: quella <strong>del</strong> proprio padre in se stessi e di se stessi<br />

nel proprio padre; e rappresenta in tale senso una “fisiologica” reimmersione<br />

nel tempo – cioè nella dinamica <strong>del</strong>la storia viva, <strong>del</strong>lo scontro esistenziale<br />

vissuto, <strong>del</strong> dramma <strong>del</strong>la vita privato di facili appigli e comode<br />

consolazioni – quindi un superamento <strong>del</strong>la fase “giovanile”, vissuta come<br />

un eterno presente reso immoto da catechistiche ideologizzazioni, non più<br />

credibili, ora, di fronte alla morte <strong>del</strong> proprio passato e all’immagine <strong>del</strong>la<br />

morte <strong>del</strong> proprio futuro che essa implica. Sovversivi è infine «un funerale<br />

a un modo di guardare la realtà che, talvolta, è stato chiamato neorealismo»<br />

(Ponzi), proprio perché le uniche inquadrature “neorealistiche”,<br />

quelle metonimicamente mortuarie <strong>del</strong>l’interramento, sono metaforizzate<br />

in spunto iniziale di una dinamica di cui il film registra soltanto le prime<br />

fasi di emergenza ma che si nega a qualsiasi “messaggio”, a qualsiasi “con-<br />

30<br />

GLI “UTOPISTI” E GLI “ESAGERATI”<br />

clusione”, a qualsiasi “rispecchiamento”, in quanto il suo orizzonte è<br />

altrove, nell’“utopia” (nel senso letterale di assenza di topos e di kronos),<br />

in una tensione etico-politica e fisiologico-esistenziale che non può esattamente<br />

definirsi senza nuovamente ideologizzarsi, non può ricomporre<br />

tutti i dati in una nuova sommaria sintesi, non può eliminare la contraddizione<br />

senza rischiare una nuova paralizzante ortodossia.<br />

Non si tratta certo di un film esente da difetti. Se dovessimo indulgere<br />

al vezzo <strong>del</strong>le classifiche non lo metteremmo né al primo né al secondo<br />

posto di una filmografia per altro egregia come quella che da Un uomo da<br />

bruciare ad Allonsanfan pone i Taviani fra gli autori di punta <strong>del</strong> <strong>cinema</strong><br />

italiano. Rispetto ai più maturi film successivi, nuocciono a quell’opera <strong>del</strong><br />

1967: un episodio non privo di slabbrature di sceneggiatura e di incertezza<br />

di regia come quello di Giulia (per altro fondamentale a connotare la politicità,<br />

non virgolettata, <strong>del</strong> film), che non sempre si integra narrativamente<br />

con il resto <strong>del</strong> polittico; la polifonica coesistenza di due o tre cifre stilistiche<br />

(pensiamo a quella assai elaborata che domina la storia di Ludovico,<br />

il regista), non sempre persuasivamente orchestrate e fuse tra loro; la magmaticità<br />

a volte stridente <strong>del</strong> tono complessivo dove il patetico e il grottesco,<br />

il drammatico e l’ironico sono talora meccanicamente giustapposti.<br />

Questi limiti valgono tuttavia, più che altro, a definire l’opera nel contesto<br />

<strong>del</strong> <strong>cinema</strong> dei Taviani, non certo a sminuirne il rilievo estetico e culturale.<br />

Innanzi tutto perché quelli che abbiamo rapidamente citato sono<br />

appunto taluni tra gli scogli contro i quali i Taviani hanno volontariamente<br />

deciso di dirigersi sapendo che essi costituivano l’ovvio rischio di fare un<br />

film sul “superamento” che fosse anche un film di superamento e nel quale<br />

pertanto gli stessi mo<strong>del</strong>li <strong>del</strong> racconto <strong>cinema</strong>tografico (presenti ancora,<br />

nonostante tutto, in Un uomo da bruciare) dovevano essere accantonati,<br />

nella ricerca di nuove vie per un coinvolgimento (democratico, cioè consapevole<br />

e dialettico) <strong>del</strong>lo spettatore. Insomma, la scelta di un <strong>cinema</strong><br />

comportamentistico che offra la sintomatologia e non la diagnosi <strong>del</strong> reale<br />

– e che dunque usa l’ideologia più come una chiave metodologica che<br />

come un “grimal<strong>del</strong>lo” interpretativo (più come strada per identificare i<br />

problemi che come dispensa per sco<strong>del</strong>lare soluzioni) – comporta un<br />

grado di “apertura” che implica anche un livello di indefinizione, e quindi<br />

pure di contraddizione, almeno fino a quando si resta ancora in una qualche<br />

misura legati al mo<strong>del</strong>lo <strong>del</strong> personaggio “psicologicamente definito”.<br />

Non a caso, a partire dal film successivo, i Taviani compiranno un ulteriore<br />

passo avanti proprio puntando a una più compatta unità stilistica, a<br />

un maggiore fenomenologismo psicologico e a un programmatico “straniamento”.<br />

Ma il rilievo di Sovversivi è soprattutto culturale, ed è in questa luce<br />

che questo film va considerato tra i più significativi <strong>del</strong> periodo 1959-1968<br />

da noi preso in esame. In pochi film come in questo coesistono positiva-<br />

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