scarica documento - Mostra internazionale del nuovo cinema
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LINO MICCICHÈ<br />
animatore Gaetano «Giuliani» De Negri – preferiscono chiudersi in pluriennali<br />
attese anziché cogliere una qualsiasi occasione a portata di mano<br />
per inserirsi nel giro “professionistico” <strong>del</strong> “<strong>cinema</strong> come è”, in un clima<br />
<strong>cinema</strong>tografico (ma non solo) quietamente dominato dall’etica <strong>del</strong> compromesso<br />
e dalla pratica <strong>del</strong> cedimento. Se “professionisti” bisogna essere,<br />
perché anche quella <strong>del</strong>la sopravvivenza è una legge morale, meglio esserlo<br />
senza infingimenti, senza raccontarsi (e raccontare) comode favole: meglio<br />
insomma gli anonimi “caroselli”, i “documentari industriali” per l’acciaieria<br />
ligure o la fabbrica automobilistica torinese, la “scrittura” come<br />
salariati specializzati. Le filmografie ufficiali dei Taviani e di Orsini ignorano<br />
(e fanno male) gli anonimi episodi dignitosamente alimentari che<br />
riempiono il lungo quadriennio che separa I fuorilegge <strong>del</strong> matrimonio (che<br />
pure ha un relativamente discreto successo di pubblico: 253 milioni di<br />
incasso, pari a circa mezzo miliardo di lire) da Sovversivi che i Taviani,<br />
autonomamente da Orsini, realizzano nel ‘67 e da I dannati <strong>del</strong>la terra che<br />
Orsini realizza da solo nel 1967-1968. Eppure in quella coerenza etica sta<br />
una <strong>del</strong>le ragioni <strong>del</strong>la coerenza estetica <strong>del</strong> “gruppo”, quella che lo mantiene<br />
solidamente unito attorno a «Giuliani» e all’Ager Film, anche nella<br />
nuova e diversa prospettiva di lavoro che vede i due fratelli di San Miniato<br />
separarsi dal pisano Orsini, dopo un sodalizio che – come già si è accennato<br />
– aveva preso avvio nel 1950 (con la regia teatrale di due spettacoli<br />
scritti e diretti a tre), era proseguito lungo il decennio con un’intensa attività<br />
documentaristica (a parte il San Miniato, luglio ‘44, già citato, vanno<br />
ricordati Curtatone e Montanara, Carlo Pisacane, Pittori in città, Moravia,<br />
Lavoratori <strong>del</strong>la pietra, Carvunara, Volterra, comune medievale, I pazzi <strong>del</strong>la<br />
domenica), si era consolidato attorno a Joris Ivens con la collaborazione<br />
alla sceneggiatura e alla regia per il lungometraggio L’Italia non è un Paese<br />
povero (1960), realizzato nel nostro Paese dal maestro olandese, e aveva<br />
prodotto due lungometraggi di diverso livello ma di pari serietà.<br />
Tanta pluriennale coerenza intellettuale ed esistenziale è il necessario<br />
preludio a Sovversivi che, presentato a Venezia 1967, porta finalmente il<br />
grosso <strong>del</strong>la critica italiana e la critica straniera presente al festival ad<br />
attribuire agli autori i primi rilevanti riconoscimenti critici. Alla base di<br />
Sovversivi sta un’idea probabilmente suggerita ai Taviani dall’esperienza<br />
de I fuorilegge: quella di una molteplicità di storie e di personaggi correlati<br />
fra loro da un identico problema che costituisce per tutti un banco<br />
di prova e una svolta esistenziale. La nuova conquista, che fa sortire<br />
il film dallo “sperimentalismo” <strong>del</strong>l’opera precedente, è che, rendendo<br />
questo problema diretta materia narrativa (e non esterno riferimento<br />
“tematico”), gli autori possono far sì che esso diventi il punto di intersezione<br />
dei vari “personaggi” e <strong>del</strong>le loro “storie” in una sostanziale<br />
unità-simultaneità di tempo, di luogo e di azione che fa quindi <strong>del</strong>l’opera<br />
un discorso sul dato collettivo dove non si soffoca in nulla il dato indi-<br />
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GLI “UTOPISTI” E GLI “ESAGERATI”<br />
viduale e un discorso sul dato individuale, dove si implica senza forzature<br />
il dato collettivo.<br />
Sovversivi è infatti il polittico di quattro “storie parallele”, cioè di altrettante<br />
vite aperte e in cerca di se stesse e <strong>del</strong> proprio ruolo, in un particolare<br />
momento <strong>del</strong>la verità: i funerali di Togliatti, nell’estate 1964 visti<br />
(«addio Togliatti, giovinezza nostra addio» scrive in una lettera un personaggio<br />
<strong>del</strong> film), come già nel pasoliniano Uccellacci e uccellini, quale<br />
ultimo capitolo di un’epoca e inizio di nuova, più matura, e perciò più tormentata,<br />
adesione alle cose. Per Giulia, moglie apparentemente amata di<br />
un funzionario di partito venuto a Roma per il funerale <strong>del</strong> leader comunista,<br />
è il momento di porre fine all’ipocrisia (o all’ignoranza di sé) con cui<br />
ha fino ad allora trattenuto i propri istinti omosessuali, rimuovendoli e formando<br />
in nevrosi la propria insoddisfazione. Per Ettore, un giovane rivoluzionario<br />
venezuelano, è il momento di concludere il proprio esilio<br />
romano per tornare in patria dove lo attende la lotta clandestina, anche se<br />
ha paura di morire e desiderio di restare con Giovanna, la ragazza che ama<br />
e con la quale, strappandola dalla famiglia, passa gli ultimi tre giorni di<br />
“disimpegno”. Per Ermanno, quieto laureato in filosofia, è il momento di<br />
rinunciare alla sicurezza che gli dà un rapporto di amicizia e di lavoro con<br />
il fotografo Muzio, e di abbandonarsi alla propria creatività anche se l’anarchismo<br />
(durante i funerali di Togliatti aggredisce, apparentemente<br />
senza motivi, un vecchio borghese e viene fermato dal servizio d’ordine<br />
<strong>del</strong> Partito comunista), gli fa rischiare la solitudine. Per Ludovico, un regista<br />
<strong>cinema</strong>tografico cui viene diagnosticata una malattia probabilmente<br />
mortale, è il momento di superare lo sconforto per cercare, attraverso il<br />
personaggio di Leonardo da Vinci, su cui sta facendo un film, di significare<br />
la necessità di fuggire dal mondo “come è” per cercare – e con ciò<br />
affermare – il mondo come “dovrebbe essere”.<br />
Per questi personaggi, e per le loro diverse e concomitanti “situazioni”,<br />
la morte di Togliatti, anzi i suoi funerali (il film si chiude sulla partenza<br />
<strong>del</strong>l’aereo di Ettore per il Venezuela e, subito dopo, al cimitero romano<br />
<strong>del</strong> Verano, sulla «bara [che] spinta a fatica dagli uomini, scende nella<br />
fossa»), costituiscono l’elemento scatenante di una mise en question radicale<br />
<strong>del</strong> proprio progetto esistenziale e/o politico, un simbolico “addio al<br />
padre” che rende improvvisamente caduche le vecchie sicurezze, le incrostate<br />
assuefazioni, i rituali consuetudinari e necessarie nuove aperture problematiche,<br />
diverse prospettive, più arrischiate sperimentazioni. “Addio<br />
al padre”, si diceva; ma non soltanto nel senso che «il vero argomento <strong>del</strong><br />
film è un dialogo serrato <strong>del</strong> comunismo posteriore a Togliatti con la sua<br />
bara: un dialogo col padre morto, conflittuale e di qualità molto intima»<br />
(Piovene); non soltanto cioè essenzialmente nel senso di «un dialogo, a circuito<br />
stretto, <strong>del</strong> comunismo con se stesso», con il che si connoterebbero<br />
in modo troppo angustamente «politico» le qualità <strong>del</strong> film che è invece<br />
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