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LINO MICCICHÈ<br />

nio previsti dalla legge Sansone: una breve novella-prologo ambientata in<br />

un manicomio, dove Rosanna, un’alienata mentale senza speranza di guarigione,<br />

è visitata da Giulio, il marito senza più speranza di una normale<br />

vita coniugale (caso di scioglimento per pazzia inguaribile <strong>del</strong> coniuge);<br />

una novella ispirata al Boccaccio – ma rovesciata rispetto all’originale –<br />

dove il fratello perbenista di un ergastolano punisce con un’atroce beffa<br />

la “infe<strong>del</strong>tà” <strong>del</strong>la cognata Wilma (scioglimento per condanna <strong>del</strong>l’altro<br />

coniuge a più di dieci anni di carcere); l’agonia di un rapporto ormai irrecuperabile<br />

fra una presentatrice televisiva, Margherita, e un professore<br />

liceale, Francesco (scioglimento per separazione di fatto durante più di<br />

quindici anni); gli stupori di due bambini, Stefano ed Enzo, di fronte alla<br />

ricattatoria ricomparsa di Daniele, il marito <strong>del</strong>la loro madre appena uscito<br />

dal carcere per tentato uxoricidio (scioglimento per tentato omicidio di<br />

un coniuge ai danni <strong>del</strong>l’altro); un ex “colonizzatore” italiano d’Abissinia<br />

che, tornato in Italia convinto di essere vedovo, non può risposarsi perché<br />

in realtà sua moglie si è soltanto fatta monaca (scioglimento per abbandono<br />

almeno quindicennale <strong>del</strong> tetto coniugale); un dibattito rotale sulla<br />

possibilità di scioglimento canonico (conclusivamente negato) <strong>del</strong> vincolo<br />

matrimoniale di una donna la quale, sposatasi quindicenne a un sergente<br />

americano che tornato negli Stati Uniti ha per proprio conto divorziato<br />

risposandosi, non può ora sposarsi con l’uomo che ama (scioglimento per<br />

divorzio all’estero <strong>del</strong> coniuge).<br />

Tuttavia, pur così legate alla casistica prevista dalla proposta di «piccolo<br />

divorzio», le sei novelle confermano la «posizione di gruppo nei confronti<br />

di un <strong>cinema</strong> di idee che sia anche un <strong>cinema</strong> di ricerca espressiva»<br />

che ha caratterizzato fin dagli esordi il trio di giovani autori e il loro rifiuto<br />

di ridurre il tema civile «a una enunciazione, sia pure la più vibrante», di<br />

«abdicare, in suo nome, alla propria autonomia appunto di autori, ai diritti<br />

<strong>del</strong>la fantasia, il contrario cioè <strong>del</strong>l’operazione tentata dal più grande poeta<br />

didascalico <strong>del</strong> nostro tempo, Brecht», come essi stessi sottolineano esplicitando<br />

in quell’allusione brechtiana il riferimento culturale più costante<br />

<strong>del</strong> loro <strong>cinema</strong>. Sentendosi insomma «lontani dal <strong>cinema</strong> rubato al quotidiano,<br />

sia esso il <strong>cinema</strong> verità [...] sia esso il <strong>cinema</strong> <strong>del</strong> pedinamento<br />

zavattiniano», e ritenendo al contempo che «il film civile come libello <strong>cinema</strong>tografico,<br />

di denuncia sociologica o di comizio politico, [...] abbia<br />

perso [...] il ruolo che alcuni anni fa gli affidava la realtà <strong>del</strong>la guerra,<br />

prima, e di un dopoguerra guerreggiato, poi», gli autori dichiarano di<br />

avere «inteso il dato civile obbligato come una sfida alla [...] fantasia» e,<br />

una volta accettato il tema di partenza, di avere «cercato [...] di reinventarlo,<br />

di farlo divenire il momento provocatore» dei loro umori e <strong>del</strong>la loro<br />

ricerca estetica, culturale e umana. In altre parole i tre registi hanno inteso<br />

approfittare <strong>del</strong>la sfaccettatura narrativa e <strong>del</strong>la compattezza ideologica<br />

offerta loro congiuntamente dalla variegata casistica e dall’unità proble-<br />

26<br />

GLI “UTOPISTI” E GLI “ESAGERATI”<br />

matica <strong>del</strong> tema per sperimentare una scelta realistica, che si rifà più alla<br />

lezione brechtiana che a quella neorealistica, puntando a una posizione<br />

poetica dialetticamente intrisa di passione e ironia, di partecipazione e<br />

distacco nei confronti <strong>del</strong>la materia».<br />

Questo esplicito sperimentalismo de I fuorilegge <strong>del</strong> matrimonio fa sì<br />

che il film manchi sostanzialmente di unità. Con una struttura estremamente<br />

indefinita esso evidenzia, praticamente di episodio in episodio, continue<br />

rotture di tono narrativo e di cifra stilistica oltreché un evidente dislivello<br />

di risultati estetici: assai notevoli per esempio nel quarto e nell’ultimo<br />

episodio (il problema visto dai bambini e il problema discusso dalla<br />

Sacra Rota), ragguardevoli nel primo (la novella boccaccesca) e molto<br />

meno persuasivi negli altri tre (il primo che non va molto oltre l’enunciato,<br />

il secondo che risente di una fredda costruzione a tavolino e il quinto dove<br />

la stessa presenza di Tognazzi imprime continue oscillazioni tra la satira<br />

ironica e la farsa comica). Tuttavia, benché minore (significativo, ad esempio<br />

che nella più ampia pubblicazione sul <strong>cinema</strong> dei Taviani che sia<br />

apparsa sino al 1975 – Cinema e utopia: i fratelli Taviani ovvero il significato<br />

<strong>del</strong>l’esagerazione, a cura <strong>del</strong>la Cooperativa Nuovi Quaderni, Parma,<br />

1974 – il film trovi uno spazio relativamente scarso) almeno rispetto agli<br />

altri risultati <strong>del</strong>la filmografia degli autori, I fuorilegge è, crediamo, una<br />

tappa importantissima nel loro <strong>cinema</strong>, proprio per questo suo valore di<br />

sperimentazione assolutamente libera che ne fa, in parte, un’opera che<br />

porta avanti il discorso formale, e di “poetica”, già così egregiamente iniziato<br />

con Un uomo da bruciare, in parte, un preludio alle più mature conquiste<br />

successive che proprio qui trovano il loro primo terreno di verifica.<br />

Se ad esempio, l’episodio <strong>del</strong>la Sacra Rota riprende il «racconto su due<br />

piani, quello dei pensieri e quello dei fatti» già seguito nel lungometraggio<br />

d’esordio, la terza novella, i cui protagonisti «ora si confessano direttamente<br />

al pubblico, ora si abbandonano ai loro pensieri, rimorsi, vagheggiamenti»,<br />

prelude indirettamente ad alcuni momenti tra i più intensi <strong>del</strong><br />

capolavoro dei Taviani San Michele aveva un gallo (1971). Ma in fondo, a<br />

ben vederle, nessuna <strong>del</strong>le sei novelle che compongono il film, pur nei<br />

dislivelli che le caratterizzano, appare priva di conseguenze nella filmografia<br />

dei registi. I quali, dunque, confermano anche in questo caso una<br />

rara e arrischiata (ma proprio per questo meritoria) “responsabilità <strong>del</strong>la<br />

forma” e una dinamica «visione <strong>del</strong>la realtà come un corpo vivo, da non<br />

contemplare soltanto, ma su cui operare attivamente».<br />

Il fatto che i Taviani e Orsini si rifiutino a ogni contemplazione (e a<br />

ogni consolazione) <strong>del</strong> reale è significato, a contrario, dai loro lunghi silenzi<br />

e dalle larghe pause che caratterizzano la loro filmografia. Cineasti che credono<br />

con fermezza e senza tentennamenti nella responsabilità <strong>del</strong> proprio<br />

ruolo, i tre – e il quarto last but not least <strong>del</strong> “gruppo”, il loro produttore-<br />

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