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VITO ZAGARRIO<br />

Anche questo, forse è un sottile – ma anche macabro – auspicio, da<br />

parte dei fratelli Taviani, di eternarsi attraverso il mezzo <strong>cinema</strong>tografico.<br />

Il sopracitato sogno di Volonté in Un uomo da bruciare è preceduto da<br />

un raffinato esercizio metalinguistico, pur nell’ambito di un film “di impegno<br />

civile”. Salvatore è al <strong>cinema</strong> (d’altra parte il film è ricco di rappresentazioni<br />

<strong>del</strong> mondo dei media: la radio, soprattutto), dove fanno un film<br />

– un melodramma di serie B – che mostra a sua volta, in un gioco di mise<br />

en abîme, il palcoscenico di un varietà. Nella scena vista da Salvatore, un<br />

marinaio grida il suo amore e viene ucciso da un losco figuro, prefigurando<br />

la stessa uccisione <strong>del</strong> protagonista; il tutto mentre canta una Carmen Villani<br />

d’epoca: si tratta, insomma, di un gioco quasi barocco, in cui la<br />

“modernità” (la canzonetta, la sala <strong>cinema</strong>tografica, la sceneggiata) si<br />

incontra con i riti antichi <strong>del</strong>la mafia.<br />

Una citazione, soprattutto, mi appare inquietante, ed è quella <strong>del</strong> finale<br />

di Paisà (i Taviani hanno sempre dichiarato, <strong>del</strong> resto, il loro amore per<br />

Rossellini), in cui i partigiani vengono gettati nelle acque <strong>del</strong> Po, in silenzio.<br />

Bene, è come se questo drammatico epilogo rappresentasse, per i<br />

Taviani, una sorta di trauma e di peccato originali, che entra incessantemente<br />

nel loro <strong>cinema</strong>.<br />

Il tuffo nell’acqua. E qui apro alle reiterate ossessioni, ai motivi – psicanalitici<br />

e non – che ricorrono e si rincorrono nei film. Il tuffo mortale è<br />

uno di questi: spesso dei corpi – a volte legati mani e piedi come in quella<br />

scena madre di Paisà – si gettano o vengono gettati in acqua. In Sotto il<br />

segno <strong>del</strong>lo Scorpione sono le donne che cercano di suicidarsi. In San<br />

Michele Giulio si getta in acqua dalla barca, con un gesto che è stato<br />

oggetto di infinite disquisizioni. In Allonsanfan, Fulvio viene gettato in<br />

acqua all’inizio <strong>del</strong> film dai compagni che lo accusano di tradimento; poi<br />

lo stesso Fulvio provoca la morte – anche qui ambiguamente – di Lionello<br />

che cade in acqua dalla barca, ma avrebbe dovuto gettarvisi. In Luisa Sanfelice,<br />

i corpi dei rivoluzionari vengono buttati in acqua, esattamente con<br />

gli stessi gesti di Rossellini, una volta avvenuta la “restaurazione”. L’acqua<br />

annega i corpi, ma anche accoglie e purifica, come in un battesimo laico<br />

o in sacrificio purificatorio. L’acqua pulisce dalla merda in Un uomo da<br />

bruciare, o dal sudore in La notte di San Lorenzo.<br />

La finestra e la trazzera. Verrebbe voglia di continuare a lungo, questa<br />

topografia dei “luoghi” ricorrenti nei Taviani. Lo spazio non me lo consente,<br />

ma qualche esempio lo posso fare: la finestra, grande metafora di<br />

molti film dei nostri registi. È simbolo dichiarato sin dalla prima inquadratura<br />

<strong>del</strong> film nel Prato, quando la mdp inquadra fissamente Brogi e<br />

Marconi, con nel mezzo una finestra “aperta” sulla città moderna. Per<br />

tutto il film, la finestra sarà un leit motiv ossessivo: finestra sui campi, o<br />

sulla piazza, che può diventare porta o portone, e dà sempre su una dimensione<br />

“altra”, teatrale o onirica.<br />

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SOVVERSIVI E FUORILEGGE?<br />

Dalla finestra guardano sia Volonté che i suoi nemici in Un uomo da<br />

bruciare; le finestre sono décor ripetuto – stavolta ritoccate al computer –<br />

in Luisa Sanfelice; dalla finestra la governante assiste al famoso coro sulle<br />

note di “Dirindindin” in Allonsanfan, e dalla finestra Fulvio scruta i suoi<br />

“compagni” travestiti da cacciatori, arrivati per riprenderselo quando lui<br />

ha scoperto una vita tranquillamente “borghese”. Davanti a una finestra<br />

su cui si staglia il cielo stellato, in La notte di San Lorenzo, la madre racconta<br />

alla figlia la “favola” di quella notte di quando era bambina.<br />

Su una trazzera, su un viottolo, lungo una strada di campagna, si<br />

avviano, spesso simbolicamente, i protagonisti dei “cori” tavianei: i profughi<br />

di La notte di San Lorenzo in una sorta di atipico travel film; o i teatranti<br />

<strong>del</strong> Prato – che giocano forse a citare Il fascino discreto <strong>del</strong>la borghesia.<br />

Su una trazzera muore Salvatore in Un uomo da bruciare. Su un<br />

viottolo polveroso e macchiato di sangue il re attraversa la Storia reale in<br />

Luisa Sanfelice.<br />

La favola. Un altro dato di fondo <strong>del</strong> <strong>cinema</strong> tavianeo è la presenza<br />

<strong>del</strong>la favola, che permette, come è stato già notato, di rileggere tutto i film<br />

dei nostri registi, anche quelli più “impegnati”, come un grande racconto<br />

di fiaba. Tutto La notte di San Lorenzo, film “resistenziale” e di “memoria<br />

civile”, è in realtà una favola raccontata (alla finestra) in voce fuori campo.<br />

E naturalmente fiabeschi sono tutti i modi <strong>del</strong>la rappresentazione, dalla<br />

già citata morte <strong>del</strong>la ragazza che sogna di incontrare i “paesani” di<br />

Brooklyn, alla bambina protagonista che riveste di elementi di gioco e di<br />

magico tutta la drammatica vicenda.<br />

Una favola viene raccontata da Fulvio a suo figlio, ed anche “messa in<br />

scena” teatralmente (Mastroianni mette un panno verde sulla lampada per<br />

creare un’atmosfera magica), sino a far magicamente apparire un vero<br />

rospo. Che è in realtà un parto <strong>del</strong>l’immaginazione <strong>del</strong> bambino, ma<br />

insieme dei “bambini Paolo e Vittorio”, eterni “fanciullini” alla ricerca di<br />

una propria favola personale da raccontare: «San Michele aveva un gallo,<br />

bianco rosso, verde e giallo…» – canta Gulio da piccolo. E in un paio di<br />

film un bambino o dei bambini cresciuti – i Taviani stessi? – acchiappano<br />

una lucciola: in Allonsanfan è Massimiliano, il figlio di Fulvio, in Good<br />

Morning Babilonia sono Andrea e Nicola che offrono una lucciola alle<br />

ragazze che corteggiano.<br />

Potrei continuare per molte pagine ancora. Perché tutto il <strong>cinema</strong> dei<br />

Taviani – pur con alti e bassi – è un <strong>cinema</strong> fiabesco, onirico, visionario,<br />

che permette ai due registi di affrontare il presente storico ma di raccontare<br />

anche i loro ancestrali miti <strong>del</strong>l’infanzia, di rileggere la grande letteratura<br />

ma al tempo stesso di autorappresentarsi, di mettere in scena i propri<br />

luoghi (come il paesaggio toscano, ma anche quello siciliano che<br />

diventa <strong>nuovo</strong> paesaggio archetipico) e i propri sogni prepuberali. Un<br />

<strong>cinema</strong> visionario anche quando è “epico” e “politico”.<br />

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