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Sono davvero «utopisti ed esagerati» i fratelli Taviani, come li ha definiti<br />

Miccichè in un suo antico saggio? Sono «sovversivi» e «fuorilegge», come si<br />

chiede il libro giocando sul titolo di due loro film? E la loro carica trasgressiva<br />

e militante si è esaurita con la crisi <strong>del</strong>l’ideologia? O il loro <strong>cinema</strong> si è trasformato<br />

nel corso <strong>del</strong>la loro ormai lunga carriera? Sono tutte domande che si<br />

pone un libro dedicato a Paolo e Vittorio Taviani, due degli ultimi “maestri”<br />

<strong>del</strong> nostro <strong>cinema</strong>, due autori su cui è stato scritto molto e a cui sono state<br />

dedicate varie personali. Ma c’è senz’altro ancora uno spazio di riflessione su<br />

un <strong>cinema</strong> come il loro, che può essere letto con occhi sempre diversi, via via<br />

che passano gli anni, mutano le ideologie, si modificano gli approcci analitici.<br />

I film dei Taviani – è la tesi di fondo <strong>del</strong> volume – vanno rivisti con strumenti<br />

e metodi più moderni di quelli classici degli anni sessanta-settanta. È per questo<br />

che il <strong>cinema</strong> di Paolo e Vittorio Taviani è rivisitato da molteplici punti di<br />

vista, da studiosi di estrazione e di età diverse, ed anche con il supporto di una<br />

serie di testimonianze <strong>del</strong>la loro “squadra” tecnico artistica, quella che è stata<br />

definita una sorta di “bottega” rinascimentale. A dimostrazione di come il loro<br />

universo autoriale sia sempre ricco e stimolante, aperto a nuove riflessioni e<br />

interpretazioni.<br />

Il volume comprende saggi e interventi di: Antonio Albanese, Omero<br />

Antonutti, Lorenzo Baraldi, Sandro Bernardi, Giulio Brogi, Laura Buffoni,<br />

Cristina Bragaglia, Callisto Cosulich, Lorenzo Cuccu, Leonardo De<br />

Franceschi, Franco Di Giacomo, Adriano Giannini, Maria Fancelli, Virgilio<br />

Fantuzzi, Giulio Ferroni, Fabio Francione, Massimo Galimberti, Sebastiano<br />

Gesù, Jean Gili, Marco Giusti, Tonino Guerra, Matilde Hochkofler, Pasquale<br />

Iaccio, Tullio Kezich, Giuseppe Lanci, Margarita Lozano, Millicent Marcus,<br />

Lino Miccichè, Franco Monteleone, Lina Nerli Taviani, Guido Pappadà,<br />

Ivelise Perniola, Roberto Perpignani, Sandro Petraglia, Nicola Piovani, Farah<br />

Polato, Eugenio Premuda, Galatea Ranzi, Franco Ruffini, Rosa Maria<br />

Salvatore, Raffaella Setti, Robert Sklar, Pietro Toesca, Bruno Torri, Gaia<br />

Tridente, Grazia Volpi, Vito Zagarrio.<br />

In copertina: Paolo e Vittorio Taviani.<br />

Utopisti, esagerati<br />

Nuovo<strong>cinema</strong><br />

Utopisti, esagerati<br />

Il <strong>cinema</strong> di<br />

Paolo e Vittorio Taviani<br />

a cura di Vito Zagarrio<br />

Saggi Marsilio


SAGGI MARSILIO


NUOVOCINEMA/PESARO N. 57<br />

Quaderni <strong>del</strong>la <strong>Mostra</strong> Internazionale <strong>del</strong> Nuovo Cinema<br />

Collana diretta da Lino Miccichè


<strong>Mostra</strong> Internazionale <strong>del</strong> Nuovo Cinema<br />

UTOPISTI, ESAGERATI<br />

Il <strong>cinema</strong> di Paolo e Vittorio Taviani<br />

a cura di Vito Zagarrio<br />

Marsilio Editori


© 2004 BY MARSILIO EDITORI ® S.P.A. IN VENEZIA<br />

Il presente volume viene pubblicato in occasione <strong>del</strong> 18° Evento Speciale, manifestazione parallela<br />

alla 40ª <strong>Mostra</strong> Internazionale <strong>del</strong> Nuovo Cinema (Pesaro 25 giugno – 3 luglio 2004), organizzato<br />

in collaborazione con la Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia – Cineteca<br />

Nazionale.<br />

La redazione <strong>del</strong> volume è di Enrico Carocci, Ofelia Catanea e Barbara Maio.<br />

La <strong>Mostra</strong> Internazionale <strong>del</strong> Nuovo Cinema è stata realizzata con il contributo <strong>del</strong>la Direzione<br />

Generale Cinema – Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Regione Marche, Provincia<br />

di Pesaro e Urbino, Comune di Pesaro, Commissione Europea - Programma Media.<br />

7<br />

A Lino


INDICE<br />

11 Sovversivi e fuorilegge? Introduzione di Vito Zagarrio<br />

23 Gli “utopisti” e gli “esagerati” di Lino Miccichè<br />

39 Il “<strong>nuovo</strong> <strong>cinema</strong>” di Paolo e Vittorio Taviani di Bruno Torri<br />

Il <strong>cinema</strong> dei Taviani: ideologia e stile<br />

49 Lo stile come opposizione di Virgilio Fantuzzi<br />

68 L’utopia dei Taviani di Pietro M. Toesca<br />

74 Tra fondamentalismo e stile. I Taviani e l’ideologia<br />

di Callisto Cosulich<br />

Tecniche <strong>del</strong>la messa in scena<br />

85 Il funambolo può solo camminare. La regia<br />

di Eugenio Premuda<br />

102 All’origine <strong>del</strong> mito di fondazione. Il suono di Farah Polato<br />

112 Il piacere <strong>del</strong>la narrazione. I dialoghi di Raffaella Setti<br />

121 Partiture incompiute. La sceneggiatura di Ivelise Perniola<br />

Cinema & letteratura<br />

133 Il mito critico. Letteratura, simulacro, visione di Giulio Ferroni<br />

136 Siamo tutti figli di Tolstoj. I Taviani e le fonti letterarie<br />

di Cristina Bragaglia<br />

145 L’ispirazione goethiana di Maria Fancelli<br />

155 Piran<strong>del</strong>lo e la Sicilia di Sebastiano Gesù<br />

9


Cinema & Tv<br />

165 Diario di un esordio. “San Michele aveva un gallo” di Tullio Kezich<br />

172 La televisione secondo i Taviani di Franco Monteleone<br />

186 La “Resurrezione” dei Taviani di Lorenzo Cuccu<br />

196 Pubblicità d’autore. I caroselli dei Taviani di Marco Giusti<br />

Storia, psicanalisi, individuo<br />

201 L’utopia come momento <strong>del</strong>la verità. La presenza <strong>del</strong>la Storia<br />

di Pasquale Iaccio<br />

213 Il paesaggio non indifferente di Sandro Bernardi<br />

219 Documentario e memoria di Laura Buffoni<br />

231 La costanza <strong>del</strong> desiderio di Rosa Maria Salvatore<br />

Il teatro, l’attore<br />

249 Scene di teatro di Franco Ruffini<br />

256 Fra trasparenza e opacità. Il lavoro con gli attori di Leonardo De Franceschi<br />

264 Mastroianni e “Allonsanfan” di Matilde Hochkofler<br />

La fortuna critica all’estero<br />

271 L’accoglienza in Francia di Jean A. Gili<br />

279 L’accoglienza negli Stati Uniti di Robert Sklar<br />

286 Insegnare con il <strong>cinema</strong> dei Taviani di Millicent Marcus<br />

Il lavoro di gruppo<br />

297 Dalla “bottega” dei Taviani. Testimonianze<br />

a cura di Massimo Galimberti e Gaia Tridente<br />

Produzione: Grazia Volpi<br />

Sceneggiatura: Tonino Guerra, Sandro Petraglia<br />

Fotografia ed effetti speciali: Franco Di Giacomo, Giuseppe Lanci, Guido Pappadà<br />

Scenografia e costumi: Lorenzo Baraldi, Lina Nerli Taviani<br />

Montaggio: Roberto Perpignani (a cura di Fabio Francione)<br />

Musica: Nicola Piovani<br />

Attori: Antonio Albanese, Omero Antonutti, Giulio Brogi, Adriano Giannini ,<br />

Margarita Lozano, Galatea Ranzi<br />

Strumenti<br />

339 Filmografia a cura di Sergio Di Lino<br />

345 Bibliografia a cura di Chiara Polizzi<br />

INDICE<br />

10


VITO ZAGARRIO<br />

SOVVERSIVI E FUORILEGGE?<br />

Introduzione<br />

Mi è capitato più volte di introdurre i volumi editi in occasione <strong>del</strong>le<br />

manifestazioni – i convegni, le retrospettive, i festival – <strong>del</strong>la <strong>Mostra</strong> Internazionale<br />

<strong>del</strong> Nuovo Cinema. Mai con le emozioni contrastanti di questa<br />

volta. Da un lato il piacere di dedicare un libro e un “evento speciale” (il<br />

18mo di Pesaro) a Paolo e Vittorio Taviani: due degli ultimi maestri <strong>del</strong><br />

nostro <strong>cinema</strong>, che ho seguito da quando ero un giovanissimo spettatore<br />

guardandoli come miti e mo<strong>del</strong>li da imitare, due grandi cineasti che ho<br />

avuto l’onore di conoscere da vicino, di seguire a volte su un set o durante<br />

una lavorazione.<br />

Dall’altro lato il dispiacere per un altro maestro, Lino Miccichè, che<br />

non può essere <strong>del</strong>la partita. Lino, che ha scritto sui Taviani pagine “storiche”,<br />

e che avrebbe dovuto essere tra i protagonisti di questo volume,<br />

specie in un “evento speciale” che coincide con il quarantennale <strong>del</strong>la<br />

<strong>Mostra</strong> di Pesaro. A lui spettava di diritto l’intervista a Paolo e Vittorio,<br />

come di tradizione, un vis à vis tra un decano <strong>del</strong>la critica e i veterani <strong>del</strong><br />

“<strong>nuovo</strong> <strong>cinema</strong>”. Lino si è sentito male poche ore prima <strong>del</strong>l’appuntamento<br />

che aveva fissato con i due registi, e che ha dovuto disdire.<br />

Non abbiamo voluto sostituire quell’intervista e pubblichiamo, invece,<br />

un saggio di Miccichè sui Taviani che si intitola Gli “utopisti” e gli “esagerati”;<br />

titolo che non a caso ispira anche questo volume.<br />

Per una rilettura critica dei Taviani<br />

Ma veniamo al <strong>cinema</strong> dei Taviani e al taglio di questo libro loro dedicato.<br />

La prima impressione di fondo che emerge da questo lavoro di riflessione<br />

sui loro film – sia commissionando i saggi a studiosi di varia forma-<br />

11


VITO ZAGARRIO<br />

zione e di varie generazioni, sia valutando i risultati critici – è che i Taviani<br />

possano e debbano essere ri-letti, oggi, con occhi nuovi.<br />

Voglio dire che c’è una lettura acquisita <strong>del</strong> loro <strong>cinema</strong>, che è in parte<br />

responsabile <strong>del</strong>la loro fama, ma che rischia anche di ghettizzarli e di impedirne<br />

una lettura aggiornata agli anni duemila: è la lettura ideologica, che<br />

li presenta come degli “utopisti” in senso politico e sociale, come dei “rivoluzionari”<br />

o dei nostalgici di una rivoluzione mancata o perduta, come<br />

degli Autori “impegnati”, capifila di un <strong>cinema</strong> “civile”. Questa interpretazione<br />

è stata certamente valida, soprattutto in un contesto storico come<br />

quello degli anni sessanta e settanta, ma nel momento <strong>del</strong>la crisi <strong>del</strong>l’Ideologia<br />

degli anni ottanta e novanta ha forse impedito di seguire in modo<br />

corretto l’evoluzione <strong>del</strong>l’universo etico ed estetico dei fratelli Taviani,<br />

impedendone a volte una giusta valorizzazione.<br />

Ne è esempio il saggio di Robert Sklar, noto storico <strong>del</strong> <strong>cinema</strong> americano<br />

e mondiale, che ricostruendo successi e insuccessi dei Nostri negli<br />

Stati Uniti, tende a identificare la loro fortuna con la forza <strong>del</strong> loro impegno<br />

“militante”. In altre parole, i Taviani “sfondano” in America solo nel<br />

momento in cui un pubblico socialmente “impegnato” vede nei loro film<br />

un mo<strong>del</strong>lo mitico e un’alternativa “politica” alle meno utopiche atmosfere<br />

locali. “When the spirit of radical change returns to U.S. politics and<br />

culture – scrive Sklar – committed spectators will once again discover the<br />

significance of the Taviani’s achievement” 1 . Un meraviglioso auspicio (e<br />

<strong>del</strong> resto il saggio di Sklar è convincente), ma così facendo si rischia di<br />

semplificare la authorship – per restare nei termini <strong>del</strong> dibattito americano<br />

– dei Taviani. E si rischia, al tempo stesso di non capire i film <strong>del</strong>la maturità<br />

dei due registi, inconsapevolmente fissando un “primo tempo” e un<br />

“secondo tempo” <strong>del</strong>la loro visione <strong>del</strong> mondo e svalutando, in quest’ottica,<br />

i loro film più recenti. I Nostri funzionano, allora, soltanto quando<br />

sono “sovversivi” (come suona il loro titolo <strong>del</strong> ‘67) o “fuorilegge” (il gioco<br />

di parole è con I fuorilegge <strong>del</strong> matrimonio, ‘63, firmato insieme ad Orsini);<br />

quando propongono un’impossibile Utopia, quando si pongono fuori o<br />

contro un “Sistema” di marcusiana memoria, sia in termini di modi produttivi<br />

che in termini di modi linguistici. Ma non funzionano più quando<br />

accettano i meccanismi <strong>del</strong> mercato, o giocano coi codici dei generi o <strong>del</strong>la<br />

letteratura d’appendice; non funzionano quando le loro opere appaiono<br />

prive di “messaggi”, non più capaci, mutati i tempi, di graffiare e di aggredire,<br />

o semplicemente di proporre utopie, con la U maiuscola o con quella<br />

minuscola.<br />

Allora, sono davvero “utopisti ed esagerati” i fratelli Taviani, come li<br />

ha definiti Miccichè in quel suo antico saggio? Sono ancora, o sono mai<br />

stati, “sovversivi” e “fuorilegge”, oppure hanno accettato un “compromesso”<br />

con la vita e la politica? E la loro carica trasgressiva e militante si<br />

è esaurita con la crisi <strong>del</strong>l’ideologia, o il loro <strong>cinema</strong> si è trasformato nel<br />

12<br />

SOVVERSIVI E FUORILEGGE?<br />

corso <strong>del</strong>la loro ormai lunga carriera? Sono tutte domande lecite, ma sono<br />

convinto che i loro film vadano oggi rivisitati al di là dei vecchi dibattiti e<br />

dei vecchi schieramenti, applicando strumenti più adatti all’oggi; e magari<br />

al di là <strong>del</strong>le loro stesse dichiarazioni teoriche, malgrado loro stessi.<br />

Sui Taviani è stato scritto molto, sono state molte le occasioni di analisi<br />

dei loro film, varie le personali e le pubblicazioni; ma la sensazione è<br />

che ci sia senz’altro ancora uno spazio di riflessione su un <strong>cinema</strong> come il<br />

loro, che può essere letto con occhi sempre diversi, via via che passano gli<br />

anni, mutano le ideologie, si modificano gli approcci analitici. I film dei<br />

Taviani vanno rivisti con approcci e metodi più moderni – e funzionali alla<br />

complessità <strong>del</strong>l’universo contemporaneo – di quelli classici degli anni sessanta-settanta.<br />

Analizzare un film significa re-voir, propone Michel Marie: e “rivedere”<br />

significa vedere di <strong>nuovo</strong> in situazioni mutate, in mutati contesti,<br />

con differenti situazioni emotive e psicologiche, con diverse capacità e<br />

disponibilità analitiche. Si possono applicare al <strong>cinema</strong> dei Taviani metodi<br />

che sono più gettonati nel dibattito contemporaneo: tanto per fare degli<br />

esempi, <strong>cinema</strong> e psicanalisi, generi, gender, cultural studies, modi di produzione;<br />

poststrutturalismo, postmodernismo, attenzione all’elemento<br />

carnascialesco, a quello autoriflessivo, ecc.<br />

Provo a fare un esempio: gender. Sarebbe interessante analizzare, nella<br />

cornice dei women studies, il ruolo <strong>del</strong>le figure femminili nel <strong>cinema</strong> tavianeo:<br />

dalla figurina moderna di Marina Malfatti, ritratta con i modi <strong>del</strong>la<br />

nouvelle vague in Un uomo da bruciare a quella forte, antica, di Lucia Bosé<br />

in Sotto il segno <strong>del</strong>lo Scorpione; dalle donne ritratte con i toni <strong>del</strong>la contemporaneità<br />

in Fuorilegge e Sovversivi, a quelle “in costume” di Allonsanfan:<br />

la fascinosa Lea Massari, la seducente Mimsy Farmer, Laura Betti che<br />

rimanda sempre “ad altro”. La complessa femminilità di Isabella Rossellini<br />

nel Prato. Le star internazionali (Greta Scacchi, Nastassja Kinski, Isabelle<br />

Huppert, Laetitia Casta), e quelle nazionali (Stefania Rocca, Sabrina Ferilli).<br />

Le “caratteriste” (Didi Perego, Lydia Alfonsi, Enrica Maria Modugno),<br />

le molte donne <strong>del</strong> coro di La notte di San Lorenzo, con un cammeo <strong>del</strong>l’organizzatrice<br />

Grazia Volpi: come dire, la produzione al femminile. Margarita<br />

Lozano, personaggio carismatico ricorrente (La notte di San Lorenzo,<br />

Kaos, Good Morning Babilonia, Luisa Sanfelice); interprete di un femminino<br />

che mi piacerebbe mettere in gioco con alcuni suoi ruoli precedenti: ad<br />

esempio con la donna forte, la capofamiglia in Per un pugno di dollari, dove<br />

trova un altro personaggio tavianeo, Gian Maria Volonté…<br />

D’altra parte, ci sono molti elementi western nell’immaginario dei<br />

Taviani, nelle musiche (Allonsanfan musicata non a caso da Morricone),<br />

negli scontri di massa (ancora Allonsanfan), nei paesaggi (l’America di<br />

Good Morning Babilonia su tutti, ma anche Padre padrone, Kaos, Tu ridi);<br />

e persino in Un uomo da bruciare (Salvatore che sogna la sua morte, anche<br />

13


VITO ZAGARRIO<br />

qui musicata alla western da Gianfranco Intra). E allora il discorso porterebbe<br />

a rintracciare gli elementi <strong>del</strong> “genere” (hollywoodiano o non) all’interno<br />

<strong>del</strong> loro <strong>cinema</strong>: il cappa e spada, il road movie, il film carcerario, il<br />

melodramma, il feuilleton, persino il “film d’impegno civile” inteso come<br />

filone.<br />

Gli stessi due insiemi più tradizionali con cui si sono studiati i Taviani,<br />

“<strong>cinema</strong> & storia” e “<strong>cinema</strong> & letteratura”, possono essere revisionati<br />

con posizioni meno consuete. Si veda, a titolo indicativo, un libro che si<br />

occupa di storia, inserendola però nell’ambito dei cultural studies statunitensi:<br />

in Revisioning History. Film and the Construcion of a New Past,<br />

Robert Rosenstone cuce in un volume collettaneo (come è di moda tra gli<br />

studiosi americani) una serie di interventi su film disparati: da Distant Voices,<br />

Still Lives di Terence Davies a Walker di Alex Cox, da Hiroshima mon<br />

amour a Mississipi Burning. Ma vengono analizzati anche due film italiani:<br />

Dal polo all’equatore <strong>del</strong>la coppia Gianikian & Ricci-Lucchi, e La notte di<br />

San Lorenzo dei fratelli Taviani. Il saggio è affidato a Pierre Sorlin. 2 Anche<br />

per quanto riguarda la relazione con la fonte letteraria, si può spostare l’attenzione,<br />

oltre alle tradizioni alte, alle “pratiche basse”, al feuilleton, alla<br />

letteratura “popolare”, e spiegare così il matrimonio recente dei Taviani<br />

con la “fiction” televisiva, la loro apertura e il loro interesse verso un immaginario<br />

di massa, verso un pubblico “di profondità” (è un problema che<br />

si pone in questo volume, lavorando sul testo filmico, Lorenzo Cuccu<br />

quando affronta gli ultimi due, controversi, film televisivi).<br />

E perché non applicare ai Taviani le osservazioni di Bachtin sul carnevale,<br />

o quelle di Deleuze sulla voce fuori campo e sul continuum sonoro,<br />

o quelle di Stam e di Grande sull’autoriflessività?<br />

È per questo che il <strong>cinema</strong> di Paolo e Vittorio Taviani è rivisitato, in questo<br />

volume, da molteplici punti di vista, da studiosi di età culturale ed anagrafica<br />

diverse. Ci sono i testimoni <strong>del</strong> dibattito critico, quelli che hanno<br />

vissuto il fervore <strong>del</strong>la battaglia culturale, da Bruno Torri a Callisto<br />

Cosulich a Tullio Kezich (quest’ultimo testimone in diretta degli esordi dei<br />

Taviani in tv), da Pietro Toesca a Virgilio Fantuzzi. Ci sono gli studiosi che<br />

hanno seguito l’opera dei Taviani in Italia e all’estero, da Sandro Bernardi a<br />

Jean Gili. E ci sono critici, ricercatori, studiosi anche non specialisti di <strong>cinema</strong>,<br />

di varie generazioni che approfondiscono relazioni già note: <strong>cinema</strong> &<br />

televisione (Monteleone, Giusti), <strong>cinema</strong> & letteratura (Bragaglia, Ferroni,<br />

Fancelli), <strong>cinema</strong> & teatro (Ruffini), <strong>cinema</strong> & storia (Iaccio), o tentano<br />

approcci inediti: il rapporto con l’inconscio (Salvatore), tema fondamentale<br />

eppure ancora tutto da scoprire nei Taviani, oppure l’analisi <strong>del</strong>le tecniche<br />

<strong>del</strong>la messa in scena, come la sceneggiatura, il suono, i dialoghi (Perniola,<br />

Setti, Polato). In questo ambito, cruciale è l’analisi <strong>del</strong>la regia (qui il<br />

compito è affidato a Eugenio Premuda), un tema che mi sta particolarmente<br />

a cuore e su cui tornerò fra un attimo con più precisione.<br />

14<br />

SOVVERSIVI E FUORILEGGE?<br />

Il modo di produzione dei Taviani<br />

Ma anche l’analisi <strong>del</strong> “modo di produzione” è fondamentale, a maggior<br />

ragione per i Taviani, che vengono da una formazione marxista. Nel<br />

loro caso, infatti, si possono applicare le varie sfumature <strong>del</strong>la formula: il<br />

loro <strong>cinema</strong> si può inserire in un dibattito ideologico di ampio spettro,<br />

relativo al capitalismo contemporaneo, ma i loro film possono essere analizzati<br />

dal punto di vista dei finanziamenti, <strong>del</strong>le modalità con cui l’operazione<br />

produttiva è stata gestita, dei tipi di relazione tra costi e organizzazione<br />

<strong>del</strong>la produzione; e le loro “opere” possono essere analizzate alla<br />

luce <strong>del</strong> team produttivo e tecnico, dai collaboratori artistici alla tipologia<br />

di maestranze. Nel loro caso, il “modo di produzione” può essere inteso<br />

come interrelazione e mutua influenza tra il dato tecnico-artistico <strong>del</strong>la<br />

divisione professionale <strong>del</strong> lavoro e l’espressività autoriale, tra<br />

l’“apparato” <strong>cinema</strong>tografico e lo stile <strong>del</strong> film, oppure connotare un<br />

intero sistema industriale in una data epoca, il micro-sistema <strong>del</strong>la società<br />

o <strong>del</strong>l’industria <strong>cinema</strong>tografica italiane.<br />

Nei loro confronti, si può coniugare una riflessione sulle “professioni”<br />

e sui “mestieri” <strong>del</strong> <strong>cinema</strong> con l’analisi <strong>del</strong> fatto estetico e <strong>del</strong>la testualità<br />

filmica. La “tecnica”, per loro, può essere intesa in ampio modo, come<br />

analisi <strong>del</strong>le tecnologie, strumenti <strong>del</strong> “racconto” filmico, coniugata con<br />

l’espressività, vale a dire con lo stile, il segno riconoscibile, l’autorialità.<br />

Da qui la serie di testimonianze che ho deciso di pubblicare, interventi,<br />

contributi e ricordi <strong>del</strong>la loro “squadra” tecnico artistica, quella che è stata<br />

definita una sorta di “bottega” rinascimentale, un gruppo affiatato e irrinunciabile<br />

che è certamente co-autore <strong>del</strong> <strong>cinema</strong> di Paolo e Vittorio. Un<br />

esempio di storia orale utilissima a ricostruire un universo espressivo. Dare<br />

la parola a Grazia Volpi (prima organizzatrice e poi produttrice dei loro<br />

film), a Roberto Perpignani (montatore di tutti i loro film da Sotto il segno<br />

<strong>del</strong>lo Scorpione in poi), alla costumista (nonché moglie di Paolo) Lina Nerli<br />

Taviani, ai direttori <strong>del</strong>la fotografia Lanci e Di Giacomo, al musicista<br />

Nicola Piovani, ormai diventato personaggio di rilievo <strong>internazionale</strong>,<br />

ecc., vuol dire ricostruire quel mo<strong>del</strong>lo produttivo, quel team e quella<br />

“famiglia”.<br />

Un mo<strong>del</strong>lo di <strong>cinema</strong> “povero” che fa <strong>del</strong>l’esiguità <strong>del</strong>le risorse una<br />

sfida stilistica. Come negli scenari scarni di Sotto il segno <strong>del</strong>lo Scorpione,<br />

o nel set praticamente unico di San Michele. Anche quando, nel Prato,<br />

appare improvvisamente l’elicottero, si nota come lo sforzo produttivo sia<br />

ottimizzato: e così la scena finale di Giovanni morente in elicottero porta<br />

con sé anche altre inquadrature dall’alto, come quella aerea dei bambini<br />

– bella invenzione poetica – che danzano in fila verso il bosco al suono <strong>del</strong><br />

pifferaio magico. Ed è in questa prospettiva che Allonsafan può essere considerato<br />

un film “di svolta”, proprio se si analizza il salto distributivo che<br />

il “gruppo” fa in questo film, e che fa capire l’esigenza di spettacolo che i<br />

15


VITO ZAGARRIO<br />

Taviani accentuano rispetto alla loro stessa, innata, voglia di raccontare<br />

spettacolarmente.<br />

Elementi di stile<br />

E veniamo, partendo da questi campi lunghi dall’alto, ad alcune osservazioni<br />

sulla regia e sullo stile dei Taviani, che nella loro carriera hanno passato<br />

vari “periodi” e varie fasi, mutando a volte – come è naturale per qualsiasi<br />

artista – tono e registro, ma conservando sempre una decisa impronta<br />

personale e presentando tanti elementi ricorrenti, quasi una “firma” autoriale<br />

che rendono i loro film riconoscibili. Parlavo, ad esempio, di visioni<br />

dall’alto: ecco, i campi lunghi connotano il <strong>cinema</strong> dei Taviani, soprattutto<br />

nei loro primi film. Ricordo il bel piano sequenza <strong>del</strong>l’occupazione dei campi<br />

in Un uomo da bruciare, quando le masse si muovono con una coreografia<br />

di rara emozione, riprese dalla macchina fissa, appunto dall’alto. Oppure<br />

i campi lunghi e lunghissimi di Sotto il segno <strong>del</strong>lo Scorpione, crudi, a volte<br />

sgradevoli. Perché è un linguaggio filmico, quello dei Taviani, anti-televisivo<br />

anche quando i loro film sono finanziati o supportati dalla televisione.<br />

Il loro stile di regia passa da un impianto abbastanza classico, seppur<br />

venato di elementi di “modernità” (Un uomo da bruciare) alla nouvelle<br />

vague di Sovversivi, dalla sperimentazione pura e acompromissoria (Sotto il<br />

segno <strong>del</strong>lo Scorpione) alla svolta estetica di Allonsanfan, ideato per un pubblico<br />

più generalizzato; dallo stile crudo e autoreferenziale sino alla provocazione<br />

di Padre padrone e de Il prato alle fabulae di La notte di San Lorenzo<br />

e Kaos; e poi a una nuova svolta “<strong>internazionale</strong>”, verso un <strong>cinema</strong> che esca<br />

dal ghetto cinefilo per andare verso il grande pubblico e le grandi platee,<br />

anche televisive (da Good Morning Babilonia a Luisa Sanfelice).<br />

I Taviani sperimentano continuamente, anche quando sembrano strizzare<br />

l’occhio allo spettatore. Prendiamo ad esempio Allonsanfan, film<br />

“formalista” se lo si mette in relazione con le precedenti durezze (spesso,<br />

ad esempio, la macchina da presa indugia su orpelli, stucchi, colori, quasi<br />

a dichiarare un’estetica), e destinato al grande pubblico (vedi la scelta di<br />

Mastroianni al posto di Brogi), eppure pieno di “rotture” <strong>del</strong>lo stile classico<br />

<strong>del</strong>la messa in scena. Come indizio, cito un paio di sequenze: la prima<br />

è la cena di Fulvio, travestito da frate, a casa dei fratelli. Qui i Taviani rompono<br />

volutamente le regole <strong>del</strong>la grammatica filmica, giocando sui campi<br />

dei commensali escludendo il controcampo <strong>del</strong> protagonista; e creando<br />

così, grazie al montaggio, una geografia stridente di personaggi e di sentimenti.<br />

La seconda è la sequenza in cui Fulvio e Charlotte fuggono dalla<br />

casa paterna <strong>del</strong> protagonista, portandosi via l’altro Fulvio, il nipotino, su<br />

un calesse. Qui l’azione è raccontata in maniera sincopata, eliminando in<br />

ripresa e in montaggio gli snodi narrativi: il bambino visto in soggettiva,<br />

la mano che lo aiuta a salire, il carro che se ne va, ecc., ancora una volta<br />

spiazzando la percezione tradizionale <strong>del</strong>lo spettatore.<br />

16<br />

SOVVERSIVI E FUORILEGGE?<br />

I Taviani hanno poi <strong>del</strong>le vere e proprie “ossessioni” che popolano i<br />

loro film. Proverò qui ad elencarne qualcuna.<br />

Il doppio e il travestimento. Il <strong>cinema</strong> dei fratelli Taviani è spesso basato<br />

sul tema <strong>del</strong> “doppio”. Tema classicamente psicanalitico, il rapporto con<br />

l’“altro”, con un altro da sé che è spesso una proiezione <strong>del</strong>l’inconscio.<br />

Intanto i Taviani sono “doppi” per scelta, sono due fratelli (non gemelli<br />

come altri registi, i Frazzi ad esempio), ma specularmente si completano,<br />

agiscono all’unisono. Le loro inquadrature, girate alternatamente da uno<br />

dei due, costituiscono un unico insieme. Spesso, sul set, i registi integrano<br />

i ruoli: se uno è al combo (il controllo video) e ha la cuffia (per il controllo<br />

<strong>del</strong>la presa diretta), l’altro è vicino alla macchina da presa e agli attori, per<br />

dominare la scena da vicino. È fortemente autobiografica la storia dei due<br />

fratelli di Good Morning Babilonia, “artigiani” toscani che approdano al<br />

grande <strong>cinema</strong> conservando però quel gusto per la bottega rinascimentale.<br />

In una scena i due fratelli raccontano alle loro girlfriends la storia di<br />

quando, da bambini, l’improvvisa perdita di parità (uno dei due vince un<br />

coltello a una riffa) provoca la lite e il disastro: sembra una confessione dei<br />

“veri” fratelli Taviani sul loro bisogno di essere doppi, ma a pari dignità.<br />

Pena la fine <strong>del</strong> loro <strong>cinema</strong>.<br />

Doppie e ambigue sono le scelte dei personaggi dei loro film:<br />

Mastroianni non sa se mettersi o levarsi la giubba rossa dei rivoltosi, in<br />

Allonsanfan, perché non sa se la “rivoluzione” è riuscita o no, e muore nell’ambiguo<br />

gesto di una giacca infilata a metà. «Non è vero (…) allora è<br />

vero», continua a dire anche mentre sta per morire. E infatti il <strong>cinema</strong> dei<br />

Taviani è pieno di allusioni al vero-falso: «è tutto finto», dice Fulvio a proposito<br />

<strong>del</strong>l’impresa rivoluzionaria, finte sono le armi e finta è la convinzione<br />

politica. Il “tradimento” è d’altronde un altro leit motiv dei Taviani,<br />

da Allonsanfan (il continuo tradimento di Fulvio) a Luisa Sanfelice (l’involontario<br />

tradimento di Luisa).<br />

Brogi gioca col suo “doppio” per tutto il film, in San Michele aveva un<br />

gallo; dialoga con il suo alter ego, con il suo fantasma. In Luisa Sanfelice,<br />

molti anni dopo, le masse fe<strong>del</strong>i al re sono guidate da un “sosia” <strong>del</strong> principe,<br />

una sorta di “Kagemusha”.<br />

Il tema <strong>del</strong> doppio e <strong>del</strong>l’ambiguità slitta facilmente in quello <strong>del</strong> travestimento,<br />

<strong>del</strong>lo scambio d’abito, tema classico, <strong>del</strong> resto, <strong>del</strong> teatro e<br />

<strong>del</strong>la letteratura: vedi Plauto, Molière, Mozart-Da Ponte (Don Giovanni),<br />

Renoir (La regola <strong>del</strong> gioco). Un tema tipico <strong>del</strong>la commedia degli<br />

equivoci o <strong>del</strong> melodramma, ma anche un tema simbolico che ci riporta<br />

al Marx citato prima: penso a quando, nel primo libro <strong>del</strong> Capitale, Marx<br />

parla <strong>del</strong>le “maschere di carattere”. Ebbene, i film dei Taviani sono zeppi<br />

di travestimenti: in Allonsanfan Fulvio si traveste da frate per non farsi<br />

riconoscere dai fratelli, Lea Massari si traveste da uomo, i “fratelli” da<br />

cacciatori, e Lionello da gelataio. E sul lago Fulvio incontra un gruppo<br />

17


VITO ZAGARRIO<br />

mascherato da Carnevale (i dialoghi insistono sul tema <strong>del</strong>le “maschere”).<br />

Nel Prato, ovviamente, la maschera è il tema dominante, nel teatro<br />

di strada di Eugenia, nei travestimenti degli attori, ma anche nelle<br />

maschere sociali che i protagonisti portano. In Luisa Sanfelice (a dimostrazione<br />

di una linea coerente di sviluppo <strong>del</strong> <strong>cinema</strong> tavianeo), Luisa si<br />

traveste da suora per sfuggire alla morte, ma alla fine si fa riconoscere<br />

(come <strong>del</strong> resto Fulvio coi fratelli). E all’inizio <strong>del</strong> film un teatrino di corte<br />

impone il ricorso ad inquietanti maschere (anche stavolta simbolicamente<br />

“sociali”).<br />

In La notte di San Lorenzo la ragazza “scambia” i tedeschi per americani,<br />

anzi per “siciliani”, e i soldati nazisti appaiono, per un momento, travestiti<br />

da contadini isolani, che portano fazzoletti da braccianti e offrono<br />

pezzi di mito americano sotto vetro. È una visione in punto di morte, un’allucinazione,<br />

un sogno (il mito americano) ad occhi aperti.<br />

Il sogno (a occhi chiusi o aperti) e la febbre. A dimostrazione di una possibile<br />

lettura psicanalitica <strong>del</strong> <strong>cinema</strong> dei Taviani, i loro film sono quasi<br />

sempre “onirici”. C’è spesso un personaggio che “sogna” a occhi aperti:<br />

massimo esempio è il racconto di Allonsanfan, a tutt’oggi uno dei momenti<br />

più alti <strong>del</strong> loro <strong>cinema</strong>, che mente a Fulvio, coinvolgendolo in un sogno<br />

ad occhi spalancati (eyes wide shut). Sogna ad occhi aperti anche Salvatore<br />

in Un uomo da bruciare, quando pensa a Wilma e la figurina di lei si<br />

incarna in un intenso flash back; il quale sogna però anche ad occhi chiusi,<br />

quando mette in scena la sua morte, in una sequenza fortemente metalinguistica.<br />

Sognano ad occhi aperti i due fratelli di Good Morning, quando raccontano,<br />

in parallelo, il citato episodio infantile.<br />

Chi sogna è spesso in uno stato febbrile, ed ecco allora le tante “febbri”<br />

dei Taviani, che spesso sono metafore di una “febbre civile”, di un eroico<br />

furore contro un mondo offeso. Ha sempre la febbre Fulvio in Allonsanfan:<br />

all’inizio, quando viene catturato dai “fratelli sublimi”, e il film si apre alle<br />

sue “soggettive malate”; verso la fine, quando è ferito e si ritrova, suo malgrado,<br />

in viaggio verso il sud. Ha la febbre Giovanni nel Prato, malato di<br />

rabbia, ed anche Eugenia è febbricitante dopo lo spettacolo, tanto da dare<br />

a tutto il film il tono di un racconto visionario, raccontato in uno stato di<br />

trance. È stordito dalla stanchezza e dall’attacco di un avvoltoio anche uno<br />

dei due fratelli in Good Morning Babilonia, non a caso prima <strong>del</strong>l’incontro<br />

col treno e dunque col destino: anche qui un sonno comatoso che potrebbe<br />

far leggere come onirica tutta la parte americana.<br />

Ha la febbre Adriano Giannini, in Luisa Sanfelice, quando viene<br />

accolto, ferito, in casa <strong>del</strong>la protagonista, e galeotta è quella febbre, perché<br />

è l’incipit <strong>del</strong>la passione che travolgerà i due amanti.<br />

La passione e la sessualità. I Taviani sono appassionati e pasionari. Lo<br />

sono politicamente, nelle loro scene epiche (quella già descritta di Allon-<br />

18<br />

SOVVERSIVI E FUORILEGGE?<br />

sanfan, l’occupazione <strong>del</strong>le terre di Un uomo da bruciare, la straordinaria<br />

sequenza <strong>del</strong>l’esplosione in chiesa in La notte di San Lorenzo, ecc) ed utopiche.<br />

Ma lo sono anche nella rappresentazione <strong>del</strong>la sessualità: mi viene<br />

in mente su tutte quella corale di Padre padrone, che coinvolge umani ed<br />

animali; e poi il diffuso erotismo di La notte di San Lorenzo: la passione<br />

senile tra Antonutti e la Lozano, quella più giocosa – e poi tragica – tra<br />

Bigagli e la sua sposa, ma anche l’intenso ammiccamento sessuale tra Hen<strong>del</strong><br />

e la giovane donna che giocano con una fetta di anguria…<br />

Penso alla complicità erotica tra Salvatore e Wilma in Un uomo da bruciare,<br />

all’erotismo trasgressivo e ai nudi esibiti di Sovversivi ed Allonsanfan,<br />

alle scene d’amore ne Le affinità elettive, ai corpi nudi de Il sole anche<br />

di notte e quelli sul palcoscenico teatrale, scoperti da un pubblico voyeur,<br />

in Luisa Sanfelice.<br />

Il metalinguaggio e la cinefilia. E siamo dunque a uno dei temi dominanti<br />

<strong>del</strong> <strong>cinema</strong> dei Taviani, l’elemento self-reflexive, autorefenziale, sia<br />

come rappresentazione <strong>del</strong> <strong>cinema</strong> stesso (e <strong>del</strong> teatro, e dei mass media)<br />

all’interno dei film, sia come esplicitazione-esibizione <strong>del</strong>la macchina<strong>cinema</strong>,<br />

<strong>del</strong>la finzione <strong>cinema</strong>tografica. «Io sono un grande attore» – dice<br />

<strong>del</strong> resto Mastroianni, nei panni di Fulvio che a sua volta ha indossato i<br />

panni di un altro; e sembra dirlo a se stesso, al Mastroianni vero.<br />

Parto proprio dall’ultimo film, Luisa Sanfelice, che è pieno di riferimenti,<br />

come si è visto, al teatro: il teatro reazionario o quello “rivoluzionario”,<br />

con Pulcinella in veste di liberatore. A teatro avviene una <strong>del</strong>le<br />

“scene madri” <strong>del</strong> film, quando si interrompe la rappresentazione per dire<br />

che i soldati di una roccaforte si sono fatti saltare in aria per non farsi prendere,<br />

e i francesi annunciano il loro ritiro da Napoli. È una (cosciente?)<br />

citazione de La grande illusion, quando i soldati francesi prigionieri interrompono<br />

lo spettacolo en travesti per intonare La marsigliese.<br />

D’altronde, i film dei Taviani sono pieni di citazioni, omaggi dichiarati<br />

o forse, a volte, frammenti <strong>del</strong>la loro memoria cinefila che emergono<br />

inconsapevolmente: nel Prato, Germania anno zero diventa motivo trainante<br />

<strong>del</strong> plot e il suicidio di Edmund (che prelude al suicidio di Giovanni)<br />

viene fatto vedere nella scena <strong>del</strong> cineclub. Good Morning Babilonia,<br />

film programmaticamente metalinguistico, non solo mostra vere<br />

sequenze di Intolerance, ma è pieno di omaggi, a volte divertenti, come<br />

durante la traversata, quando i Taviani si divertono a citare Chaplin; o<br />

come quando, nella parte ambientata a Hollywood – e dominata dall’americano<br />

Griffith –, tributano un saluto all’italianissimo Blasetti e al<br />

Visconti di Bellissima: «Avete fatto il militare? E allora, dietro front, avanti,<br />

marsch!». Ma il film, dicevo, è tutto autorappresentativo: Griffith sceglie<br />

i due fratelli perché l’elefante che costruiscono, seppur distrutto dal “cattivo”<br />

direttore di produzione, viene “immortalato” dalla cinepresa; e i due<br />

fratelli, proprio per immortalarsi, si filmano mentre muoiono.<br />

19


VITO ZAGARRIO<br />

Anche questo, forse è un sottile – ma anche macabro – auspicio, da<br />

parte dei fratelli Taviani, di eternarsi attraverso il mezzo <strong>cinema</strong>tografico.<br />

Il sopracitato sogno di Volonté in Un uomo da bruciare è preceduto da<br />

un raffinato esercizio metalinguistico, pur nell’ambito di un film “di impegno<br />

civile”. Salvatore è al <strong>cinema</strong> (d’altra parte il film è ricco di rappresentazioni<br />

<strong>del</strong> mondo dei media: la radio, soprattutto), dove fanno un film<br />

– un melodramma di serie B – che mostra a sua volta, in un gioco di mise<br />

en abîme, il palcoscenico di un varietà. Nella scena vista da Salvatore, un<br />

marinaio grida il suo amore e viene ucciso da un losco figuro, prefigurando<br />

la stessa uccisione <strong>del</strong> protagonista; il tutto mentre canta una Carmen Villani<br />

d’epoca: si tratta, insomma, di un gioco quasi barocco, in cui la<br />

“modernità” (la canzonetta, la sala <strong>cinema</strong>tografica, la sceneggiata) si<br />

incontra con i riti antichi <strong>del</strong>la mafia.<br />

Una citazione, soprattutto, mi appare inquietante, ed è quella <strong>del</strong> finale<br />

di Paisà (i Taviani hanno sempre dichiarato, <strong>del</strong> resto, il loro amore per<br />

Rossellini), in cui i partigiani vengono gettati nelle acque <strong>del</strong> Po, in silenzio.<br />

Bene, è come se questo drammatico epilogo rappresentasse, per i<br />

Taviani, una sorta di trauma e di peccato originali, che entra incessantemente<br />

nel loro <strong>cinema</strong>.<br />

Il tuffo nell’acqua. E qui apro alle reiterate ossessioni, ai motivi – psicanalitici<br />

e non – che ricorrono e si rincorrono nei film. Il tuffo mortale è<br />

uno di questi: spesso dei corpi – a volte legati mani e piedi come in quella<br />

scena madre di Paisà – si gettano o vengono gettati in acqua. In Sotto il<br />

segno <strong>del</strong>lo Scorpione sono le donne che cercano di suicidarsi. In San<br />

Michele Giulio si getta in acqua dalla barca, con un gesto che è stato<br />

oggetto di infinite disquisizioni. In Allonsanfan, Fulvio viene gettato in<br />

acqua all’inizio <strong>del</strong> film dai compagni che lo accusano di tradimento; poi<br />

lo stesso Fulvio provoca la morte – anche qui ambiguamente – di Lionello<br />

che cade in acqua dalla barca, ma avrebbe dovuto gettarvisi. In Luisa Sanfelice,<br />

i corpi dei rivoluzionari vengono buttati in acqua, esattamente con<br />

gli stessi gesti di Rossellini, una volta avvenuta la “restaurazione”. L’acqua<br />

annega i corpi, ma anche accoglie e purifica, come in un battesimo laico<br />

o in sacrificio purificatorio. L’acqua pulisce dalla merda in Un uomo da<br />

bruciare, o dal sudore in La notte di San Lorenzo.<br />

La finestra e la trazzera. Verrebbe voglia di continuare a lungo, questa<br />

topografia dei “luoghi” ricorrenti nei Taviani. Lo spazio non me lo consente,<br />

ma qualche esempio lo posso fare: la finestra, grande metafora di<br />

molti film dei nostri registi. È simbolo dichiarato sin dalla prima inquadratura<br />

<strong>del</strong> film nel Prato, quando la mdp inquadra fissamente Brogi e<br />

Marconi, con nel mezzo una finestra “aperta” sulla città moderna. Per<br />

tutto il film, la finestra sarà un leit motiv ossessivo: finestra sui campi, o<br />

sulla piazza, che può diventare porta o portone, e dà sempre su una dimensione<br />

“altra”, teatrale o onirica.<br />

20<br />

SOVVERSIVI E FUORILEGGE?<br />

Dalla finestra guardano sia Volonté che i suoi nemici in Un uomo da<br />

bruciare; le finestre sono décor ripetuto – stavolta ritoccate al computer –<br />

in Luisa Sanfelice; dalla finestra la governante assiste al famoso coro sulle<br />

note di “Dirindindin” in Allonsanfan, e dalla finestra Fulvio scruta i suoi<br />

“compagni” travestiti da cacciatori, arrivati per riprenderselo quando lui<br />

ha scoperto una vita tranquillamente “borghese”. Davanti a una finestra<br />

su cui si staglia il cielo stellato, in La notte di San Lorenzo, la madre racconta<br />

alla figlia la “favola” di quella notte di quando era bambina.<br />

Su una trazzera, su un viottolo, lungo una strada di campagna, si<br />

avviano, spesso simbolicamente, i protagonisti dei “cori” tavianei: i profughi<br />

di La notte di San Lorenzo in una sorta di atipico travel film; o i teatranti<br />

<strong>del</strong> Prato – che giocano forse a citare Il fascino discreto <strong>del</strong>la borghesia.<br />

Su una trazzera muore Salvatore in Un uomo da bruciare. Su un<br />

viottolo polveroso e macchiato di sangue il re attraversa la Storia reale in<br />

Luisa Sanfelice.<br />

La favola. Un altro dato di fondo <strong>del</strong> <strong>cinema</strong> tavianeo è la presenza<br />

<strong>del</strong>la favola, che permette, come è stato già notato, di rileggere tutto i film<br />

dei nostri registi, anche quelli più “impegnati”, come un grande racconto<br />

di fiaba. Tutto La notte di San Lorenzo, film “resistenziale” e di “memoria<br />

civile”, è in realtà una favola raccontata (alla finestra) in voce fuori campo.<br />

E naturalmente fiabeschi sono tutti i modi <strong>del</strong>la rappresentazione, dalla<br />

già citata morte <strong>del</strong>la ragazza che sogna di incontrare i “paesani” di<br />

Brooklyn, alla bambina protagonista che riveste di elementi di gioco e di<br />

magico tutta la drammatica vicenda.<br />

Una favola viene raccontata da Fulvio a suo figlio, ed anche “messa in<br />

scena” teatralmente (Mastroianni mette un panno verde sulla lampada per<br />

creare un’atmosfera magica), sino a far magicamente apparire un vero<br />

rospo. Che è in realtà un parto <strong>del</strong>l’immaginazione <strong>del</strong> bambino, ma<br />

insieme dei “bambini Paolo e Vittorio”, eterni “fanciullini” alla ricerca di<br />

una propria favola personale da raccontare: «San Michele aveva un gallo,<br />

bianco rosso, verde e giallo…» – canta Gulio da piccolo. E in un paio di<br />

film un bambino o dei bambini cresciuti – i Taviani stessi? – acchiappano<br />

una lucciola: in Allonsanfan è Massimiliano, il figlio di Fulvio, in Good<br />

Morning Babilonia sono Andrea e Nicola che offrono una lucciola alle<br />

ragazze che corteggiano.<br />

Potrei continuare per molte pagine ancora. Perché tutto il <strong>cinema</strong> dei<br />

Taviani – pur con alti e bassi – è un <strong>cinema</strong> fiabesco, onirico, visionario,<br />

che permette ai due registi di affrontare il presente storico ma di raccontare<br />

anche i loro ancestrali miti <strong>del</strong>l’infanzia, di rileggere la grande letteratura<br />

ma al tempo stesso di autorappresentarsi, di mettere in scena i propri<br />

luoghi (come il paesaggio toscano, ma anche quello siciliano che<br />

diventa <strong>nuovo</strong> paesaggio archetipico) e i propri sogni prepuberali. Un<br />

<strong>cinema</strong> visionario anche quando è “epico” e “politico”.<br />

21


VITO ZAGARRIO<br />

All’uscita di Tu ridi, nel ‘98, in pieno dibattito sulla “crisi” <strong>del</strong> <strong>cinema</strong><br />

italiano, parlavo <strong>del</strong>la inedita capacità visionaria in alcuni film <strong>del</strong> “<strong>nuovo</strong><br />

<strong>cinema</strong>” e aggiungevo: «Ma anche i Taviani esprimono un progetto estetico,<br />

seppure opposto: con Tu ridi rinunciano al piacere <strong>del</strong>la storia ben<br />

narrata e ben girata, confessano l’impotenza (<strong>del</strong> nostro tempo e forse in<br />

particolare <strong>del</strong>la loro generazione di cineasti) a raccontare la realtà, la<br />

società, la storia, in maniera armonica. Diversamente dal Giotto che inutilmente<br />

il computer <strong>del</strong> bambino tenta di riprodurre, o dal Galileo evocato<br />

da Turi Ferro, l’artista o lo scienziato di oggi non riescono più a interpretare<br />

il mondo. Restano frammenti di storie, scatole cinesi di narrazioni<br />

possibili che si incastrano l’una nell’altra, strutture volutamente disarmoniche<br />

come è disarmonica la realtà che viviamo. Il tutto raccontato senza<br />

“piacere”, senza acrobazie <strong>del</strong>la macchina da presa, con scarno rigore, con<br />

scheletrica essenzialità. Con un rituale antico e ossessivo, con un battere<br />

dei piedi a scandire il ritmo che viene da lontano (da Sotto il segno <strong>del</strong>lo<br />

Scorpione, da Allonsanfan), con una cadenza e una scadenza minacciosa,<br />

come i dibattiti sul <strong>cinema</strong> italiano».<br />

Sottoscrivo ancora quel giudizio. Dietro quella danza (macabra) di<br />

Lello Arena c’è – altra ossessione ricorrente – la danza coi campanacci<br />

degli scorpionidi, o la bellissima danza “di guerra” dei fratelli sublimi,<br />

uniti nell’immaginazione di Allonsanfan ai contadini e ai paesani insorti.<br />

Ci sono, insomma, una capacità visionaria e un invito alla visionarietà, che<br />

i Taviani continuano a proporre, in maniera coerente e lineare, a dispetto<br />

di chi vede nel loro <strong>cinema</strong> più recente una “involuzione”, o un compromesso,<br />

o addirittura un “tradimento”. Tema, <strong>del</strong> resto, che è radicato nella<br />

critica italiana (vedi Aristarco e Visconti); ed è fortemente radicato, come<br />

abbiamo visto, nella stessa cosmogonia tavianea.<br />

1 «Quando la spinta ad un cambiamento radicale tornerà a far parte <strong>del</strong>la politica e <strong>del</strong>la<br />

cultura statunitensi, il pubblico impegnato tornerà a scoprire il significato <strong>del</strong>l’impresa dei<br />

Taviani».<br />

2 R.A.Rosenstone, P. Sorlin, The Night of Shooting Stars. Fascism, Resistance, and the Liberation<br />

of Italy, in R. A. Rosenstone, Revisioning History. Film and the Construcion of a New Past,<br />

Princeton, Princeton University Press, 1995.<br />

22


LINO MICCICHÈ<br />

GLI “UTOPISTI” E GLI “ESAGERATI”<br />

Giovane o no, il <strong>cinema</strong> degli anni sessanta fonda buona parte <strong>del</strong> proprio<br />

successo sul chiasso di un rumoroso apparato industriale, capace,<br />

anche oltre i normali canali pubblicitari, di profonde penetrazioni mascherate<br />

all’interno <strong>del</strong>la pubblicistica sul <strong>cinema</strong>. Per questo, dagli isolati<br />

esordi di Fina e di De Bosio alle filmografie di Olmi e di De Seta, la ricerca<br />

di voci autentiche <strong>del</strong> <strong>nuovo</strong> <strong>cinema</strong> italiano tra quelle che sembrano sommesse,<br />

soltanto perché lontane dal coro e non partecipi <strong>del</strong> chiasso, può<br />

diventare quasi una regola storiografica.<br />

Proprio in questo ristretto ambito di intellettuali schivi e seriamente<br />

intenti in un lavoro di ricerca autenticamente problematico si collocano<br />

le figure dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani e di Valentino Orsini (la cui<br />

filmografia procede congiunta sino alla metà <strong>del</strong> decennio), che sono un<br />

esempio tra i più coerenti e tra i più costanti <strong>del</strong> <strong>nuovo</strong> <strong>cinema</strong> italiano<br />

degli anni sessanta, dove essi esordiscono, nel 1962, con il lungometraggio<br />

Un uomo da bruciare. Ma il sodalizio fra i tre cineasti ha basi solide e<br />

anteriori a tale data, risalendo a quando, all’inizio degli anni cinquanta, il<br />

ventiquattrenne Orsini (nato nel 1926), il ventunenne Vittorio Taviani<br />

(nato nel 1929) e il diciannovenne Paolo Taviani (nato nel 1931) prendono<br />

a operare insieme nell’ambito <strong>del</strong> <strong>cinema</strong>: dapprima a Pisa dove fondano<br />

cineclub e promuovono attività culturali, poi a Roma dove, alternandoli<br />

ad alcune aiuto-regie, realizzano una serie di documentari pregevoli per<br />

impegno politico, passione civile e rigore culturale, tra i quali il più noto<br />

è San Miniato, luglio ‘44, uno tra i migliori risultati <strong>del</strong> cortometraggio<br />

antifascista italiano. Legatisi, con rapporti che superano quelli tradizionali<br />

tra autore e produttore, a un animatore di produzioni impegnate, Gaetano<br />

«Giuliani» De Negri – un antifascista ligure che già era stato dietro<br />

23


LINO MICCICHÈ<br />

la produzione di Achtung! Banditi! (il primo e l’unico vero esperimento<br />

cooperativistico <strong>del</strong> <strong>cinema</strong> italiano) e di Cronache di poveri amanti di Lizzani<br />

– i Taviani e Orsini diventano, per antonomasia, i registi <strong>del</strong>l’Ager<br />

Film, la società che «Giuliani» aveva fondato assieme a Lizzani e Zavattini<br />

per la realizzazione di un progetto andato poi in fumo, un film sui fratelli<br />

Cervi. È appunto nell’inconsueto ed esemplare ambito di questo rapporto<br />

<strong>nuovo</strong> (tra un produttore che sente i problemi degli autori e autori<br />

che si responsabilizzano anche da un punto di vista produttivo) che nasce<br />

Un uomo da bruciare, qualificandosi, fin dalla proiezione veneziana <strong>del</strong><br />

1962, come un’esperienza doppiamente avanzata, sia dal punto di vista<br />

ideologico-estetico che da quello produttivo.<br />

Ispirati alla figura storica di Salvatore Carnevale (il sindacalista socialista<br />

ucciso dalla mafia) ma senza pretendere in alcun modo di restituirne<br />

la vicenda con astratta «fe<strong>del</strong>tà storica», Orsini e i Taviani hanno voluto<br />

offrire in Un uomo da bruciare il ritratto realistico di un protagonista popolare,<br />

rompendo però gli usuali schemi <strong>del</strong> “realismo” normativo e <strong>del</strong>ineando<br />

invece una figura assolutamente antieroica con una implicita polemica<br />

nei confronti <strong>del</strong> logoro e inerte schema <strong>del</strong>l’eroe positivo. Completamente<br />

antitetico alla tradizione dei personaggi tutti di un pezzo – dotati<br />

di una coscienza etico-politica paranoicamente priva di dubbi e tutti tesi<br />

verso un futuro lucidamente previsto verso il quale chiamano a raccolta<br />

masse sempre obbedienti e sempre combattive – il Salvatore di Un uomo<br />

da bruciare è un uomo pieno di contraddizioni, prima fra tutte quella la<br />

propria ambizione e vocazione di capo e l’istinto (più che la coscienza) di<br />

classe. Le sue reazioni di fronte alla realtà, infatti, appaiono in primo luogo<br />

come ispirate a un suo piano segreto, a una vocazione individuale, a un<br />

suo disegno quasi personale. E il suo stesso essere sindacalista e il suo parteggiare<br />

a sinistra e difendere i diritti dei diseredati, appaiono a tratti più<br />

materia esistenziale che materia ideologica. Tanto è vero che, quando<br />

(dopo la riunione sindacale al teatro palermitano) si trova isolato, Salvatore<br />

continua, solo, a lottare come prima, limitandosi a ricordare gli antichi<br />

compagni, che prima lo seguivano e che ora lo disdegnano e addirittura<br />

lo sospettano. Mitomane, esaltato, sognatore, individualista, il protagonista<br />

di Un uomo da bruciare – proprio per questo coesistere in lui di<br />

vistose contraddizioni, per questo suo non essere «angelo» contro i<br />

«demoni» – è un personaggio di rara autenticità e in tale senso profondamente<br />

realistico perché non retoricamente popolare.<br />

Valga l’esempio <strong>del</strong>la morte <strong>del</strong> sindacalista. Nella vecchia e logora tradizione<br />

<strong>del</strong> «realismo socialista», l’eroe, premoriente, sarebbe stato protagonista<br />

di un possente e confortevole comizio imbandierato; oppure lo<br />

avremmo visto messo a confronto con un segretario di sezione o di cellula<br />

che schiudesse a lui e allo spettatore le gloriose vie <strong>del</strong> domani; o qualche<br />

altra monumentale circostanza avrebbe determinato l’epitaffio ideologico,<br />

24<br />

GLI “UTOPISTI” E GLI “ESAGERATI”<br />

buono a consolare le coscienze falsificate degli spettatori. Nulla di tutto<br />

questo in Un uomo da bruciare. Sottolineando ancora una volta l’individualismo<br />

<strong>del</strong> protagonista, gli autori ne fanno precedere l’assassinio dalla<br />

sua previsione nella fantasia <strong>del</strong> futuro assassinato che, ispirandosi a un<br />

orribile fumetto filmato alla cui proiezione assiste, la prefigura in chiave<br />

di eroismo popolaresco (cioè secondo i propri mo<strong>del</strong>li culturali): terribile<br />

e gloriosa. Ed invece la morte di Salvatore non è epica né eroica, non ha<br />

aspetti sacrificali e non è irrorata dalla coscienza <strong>del</strong>la storia: al contrario<br />

è dura, semplice, atroce. E proprio per questo da annoverare tra le pagine<br />

più belle <strong>del</strong> film.<br />

ll lavoro di smitizzazione, compiuto nel film attorno ai luoghi comuni<br />

<strong>del</strong> realismo canonico, non avviene soltanto spogliando di ogni possibile<br />

“leggendarietà” l’immaginario protagonista. La mafia stessa è presente<br />

senza i rituali d’obbligo e le identità nette, ma con facce di tutti i giorni:<br />

tranquille, borghesi, a volte perfino pacifiche. Così come non li ha il Bene<br />

(Salvatore), neppure il Male (la mafia) ha connotati eccezionali. D’altronde<br />

lo stesso paesaggio siculo – una Sicilia asciutta e arida, ma scevra<br />

da ogni paesaggismo accattivante e da ogni inclinazione fascinosamente<br />

folkloristica – non ha nulla che possa rientrare nella leggenda e nella mitologia<br />

meridionalistiche, essendo anche esso, dunque, sottoposto al generale<br />

processo di demitizzazione.<br />

Opera lucidamente innovatrice, Un uomo da bruciare, nonostante qualche<br />

discontinuità linguistica, qualche astrazione intellettuale e qualche<br />

meccanica soluzione narrativa, segna l’ingresso nel <strong>cinema</strong> italiano di personalità<br />

tanto interessanti e nuove da restare emarginate quanto altre mai<br />

dal mercato. E le difficoltà di quell’opera d’esordio – che ha un’“uscita”<br />

romana semiclandestina, in pieno luglio 1963 – non sono che parzialmente<br />

superate dal successivo film <strong>del</strong> trio I fuorilegge <strong>del</strong> matrimonio (1963),<br />

che pure si lega a una problematica specifica, quella <strong>del</strong> divorzio, e a un<br />

episodio politico concreto, la presentazione di una proposta di legge<br />

moderatamente divorzista da parte <strong>del</strong> senatore Renato Sansone. In realtà,<br />

nonostante l’esplicito proposito di realizzare un film di diretto «impegno<br />

civile», il rapporto con lo specifico tema giuridico-politico non è qui meno<br />

mediato e indiretto di quanto lo era, rispetto al personaggio storico Salvatore<br />

Carnevale, la figura <strong>del</strong> protagonista di Un uomo da bruciare. D’altronde<br />

è uno degli autori, Vittorio Taviani, ad avvertire che «chi si aspettasse<br />

da I fuorilegge <strong>del</strong> matrimonio un’opera esauriente sul problema non<br />

diciamo <strong>del</strong> divorzio ma anche (solo) <strong>del</strong> piccolo divorzio rimarrebbe<br />

<strong>del</strong>uso. [...] Anche se il tema indubbiamente ci ha segnato precisi binari<br />

di marcia, abbiamo cercato – e cercheremo – di fare affiorare altre suggestioni,<br />

altri umori, altri motivi di natura umana, culturale».<br />

Il secondo lungometraggio di Orsini e dei Taviani è composto di sei<br />

“novelle” corrispondenti agli altrettanti casi di scioglimento <strong>del</strong> matrimo-<br />

25


LINO MICCICHÈ<br />

nio previsti dalla legge Sansone: una breve novella-prologo ambientata in<br />

un manicomio, dove Rosanna, un’alienata mentale senza speranza di guarigione,<br />

è visitata da Giulio, il marito senza più speranza di una normale<br />

vita coniugale (caso di scioglimento per pazzia inguaribile <strong>del</strong> coniuge);<br />

una novella ispirata al Boccaccio – ma rovesciata rispetto all’originale –<br />

dove il fratello perbenista di un ergastolano punisce con un’atroce beffa<br />

la “infe<strong>del</strong>tà” <strong>del</strong>la cognata Wilma (scioglimento per condanna <strong>del</strong>l’altro<br />

coniuge a più di dieci anni di carcere); l’agonia di un rapporto ormai irrecuperabile<br />

fra una presentatrice televisiva, Margherita, e un professore<br />

liceale, Francesco (scioglimento per separazione di fatto durante più di<br />

quindici anni); gli stupori di due bambini, Stefano ed Enzo, di fronte alla<br />

ricattatoria ricomparsa di Daniele, il marito <strong>del</strong>la loro madre appena uscito<br />

dal carcere per tentato uxoricidio (scioglimento per tentato omicidio di<br />

un coniuge ai danni <strong>del</strong>l’altro); un ex “colonizzatore” italiano d’Abissinia<br />

che, tornato in Italia convinto di essere vedovo, non può risposarsi perché<br />

in realtà sua moglie si è soltanto fatta monaca (scioglimento per abbandono<br />

almeno quindicennale <strong>del</strong> tetto coniugale); un dibattito rotale sulla<br />

possibilità di scioglimento canonico (conclusivamente negato) <strong>del</strong> vincolo<br />

matrimoniale di una donna la quale, sposatasi quindicenne a un sergente<br />

americano che tornato negli Stati Uniti ha per proprio conto divorziato<br />

risposandosi, non può ora sposarsi con l’uomo che ama (scioglimento per<br />

divorzio all’estero <strong>del</strong> coniuge).<br />

Tuttavia, pur così legate alla casistica prevista dalla proposta di «piccolo<br />

divorzio», le sei novelle confermano la «posizione di gruppo nei confronti<br />

di un <strong>cinema</strong> di idee che sia anche un <strong>cinema</strong> di ricerca espressiva»<br />

che ha caratterizzato fin dagli esordi il trio di giovani autori e il loro rifiuto<br />

di ridurre il tema civile «a una enunciazione, sia pure la più vibrante», di<br />

«abdicare, in suo nome, alla propria autonomia appunto di autori, ai diritti<br />

<strong>del</strong>la fantasia, il contrario cioè <strong>del</strong>l’operazione tentata dal più grande poeta<br />

didascalico <strong>del</strong> nostro tempo, Brecht», come essi stessi sottolineano esplicitando<br />

in quell’allusione brechtiana il riferimento culturale più costante<br />

<strong>del</strong> loro <strong>cinema</strong>. Sentendosi insomma «lontani dal <strong>cinema</strong> rubato al quotidiano,<br />

sia esso il <strong>cinema</strong> verità [...] sia esso il <strong>cinema</strong> <strong>del</strong> pedinamento<br />

zavattiniano», e ritenendo al contempo che «il film civile come libello <strong>cinema</strong>tografico,<br />

di denuncia sociologica o di comizio politico, [...] abbia<br />

perso [...] il ruolo che alcuni anni fa gli affidava la realtà <strong>del</strong>la guerra,<br />

prima, e di un dopoguerra guerreggiato, poi», gli autori dichiarano di<br />

avere «inteso il dato civile obbligato come una sfida alla [...] fantasia» e,<br />

una volta accettato il tema di partenza, di avere «cercato [...] di reinventarlo,<br />

di farlo divenire il momento provocatore» dei loro umori e <strong>del</strong>la loro<br />

ricerca estetica, culturale e umana. In altre parole i tre registi hanno inteso<br />

approfittare <strong>del</strong>la sfaccettatura narrativa e <strong>del</strong>la compattezza ideologica<br />

offerta loro congiuntamente dalla variegata casistica e dall’unità proble-<br />

26<br />

GLI “UTOPISTI” E GLI “ESAGERATI”<br />

matica <strong>del</strong> tema per sperimentare una scelta realistica, che si rifà più alla<br />

lezione brechtiana che a quella neorealistica, puntando a una posizione<br />

poetica dialetticamente intrisa di passione e ironia, di partecipazione e<br />

distacco nei confronti <strong>del</strong>la materia».<br />

Questo esplicito sperimentalismo de I fuorilegge <strong>del</strong> matrimonio fa sì<br />

che il film manchi sostanzialmente di unità. Con una struttura estremamente<br />

indefinita esso evidenzia, praticamente di episodio in episodio, continue<br />

rotture di tono narrativo e di cifra stilistica oltreché un evidente dislivello<br />

di risultati estetici: assai notevoli per esempio nel quarto e nell’ultimo<br />

episodio (il problema visto dai bambini e il problema discusso dalla<br />

Sacra Rota), ragguardevoli nel primo (la novella boccaccesca) e molto<br />

meno persuasivi negli altri tre (il primo che non va molto oltre l’enunciato,<br />

il secondo che risente di una fredda costruzione a tavolino e il quinto dove<br />

la stessa presenza di Tognazzi imprime continue oscillazioni tra la satira<br />

ironica e la farsa comica). Tuttavia, benché minore (significativo, ad esempio<br />

che nella più ampia pubblicazione sul <strong>cinema</strong> dei Taviani che sia<br />

apparsa sino al 1975 – Cinema e utopia: i fratelli Taviani ovvero il significato<br />

<strong>del</strong>l’esagerazione, a cura <strong>del</strong>la Cooperativa Nuovi Quaderni, Parma,<br />

1974 – il film trovi uno spazio relativamente scarso) almeno rispetto agli<br />

altri risultati <strong>del</strong>la filmografia degli autori, I fuorilegge è, crediamo, una<br />

tappa importantissima nel loro <strong>cinema</strong>, proprio per questo suo valore di<br />

sperimentazione assolutamente libera che ne fa, in parte, un’opera che<br />

porta avanti il discorso formale, e di “poetica”, già così egregiamente iniziato<br />

con Un uomo da bruciare, in parte, un preludio alle più mature conquiste<br />

successive che proprio qui trovano il loro primo terreno di verifica.<br />

Se ad esempio, l’episodio <strong>del</strong>la Sacra Rota riprende il «racconto su due<br />

piani, quello dei pensieri e quello dei fatti» già seguito nel lungometraggio<br />

d’esordio, la terza novella, i cui protagonisti «ora si confessano direttamente<br />

al pubblico, ora si abbandonano ai loro pensieri, rimorsi, vagheggiamenti»,<br />

prelude indirettamente ad alcuni momenti tra i più intensi <strong>del</strong><br />

capolavoro dei Taviani San Michele aveva un gallo (1971). Ma in fondo, a<br />

ben vederle, nessuna <strong>del</strong>le sei novelle che compongono il film, pur nei<br />

dislivelli che le caratterizzano, appare priva di conseguenze nella filmografia<br />

dei registi. I quali, dunque, confermano anche in questo caso una<br />

rara e arrischiata (ma proprio per questo meritoria) “responsabilità <strong>del</strong>la<br />

forma” e una dinamica «visione <strong>del</strong>la realtà come un corpo vivo, da non<br />

contemplare soltanto, ma su cui operare attivamente».<br />

Il fatto che i Taviani e Orsini si rifiutino a ogni contemplazione (e a<br />

ogni consolazione) <strong>del</strong> reale è significato, a contrario, dai loro lunghi silenzi<br />

e dalle larghe pause che caratterizzano la loro filmografia. Cineasti che credono<br />

con fermezza e senza tentennamenti nella responsabilità <strong>del</strong> proprio<br />

ruolo, i tre – e il quarto last but not least <strong>del</strong> “gruppo”, il loro produttore-<br />

27


LINO MICCICHÈ<br />

animatore Gaetano «Giuliani» De Negri – preferiscono chiudersi in pluriennali<br />

attese anziché cogliere una qualsiasi occasione a portata di mano<br />

per inserirsi nel giro “professionistico” <strong>del</strong> “<strong>cinema</strong> come è”, in un clima<br />

<strong>cinema</strong>tografico (ma non solo) quietamente dominato dall’etica <strong>del</strong> compromesso<br />

e dalla pratica <strong>del</strong> cedimento. Se “professionisti” bisogna essere,<br />

perché anche quella <strong>del</strong>la sopravvivenza è una legge morale, meglio esserlo<br />

senza infingimenti, senza raccontarsi (e raccontare) comode favole: meglio<br />

insomma gli anonimi “caroselli”, i “documentari industriali” per l’acciaieria<br />

ligure o la fabbrica automobilistica torinese, la “scrittura” come<br />

salariati specializzati. Le filmografie ufficiali dei Taviani e di Orsini ignorano<br />

(e fanno male) gli anonimi episodi dignitosamente alimentari che<br />

riempiono il lungo quadriennio che separa I fuorilegge <strong>del</strong> matrimonio (che<br />

pure ha un relativamente discreto successo di pubblico: 253 milioni di<br />

incasso, pari a circa mezzo miliardo di lire) da Sovversivi che i Taviani,<br />

autonomamente da Orsini, realizzano nel ‘67 e da I dannati <strong>del</strong>la terra che<br />

Orsini realizza da solo nel 1967-1968. Eppure in quella coerenza etica sta<br />

una <strong>del</strong>le ragioni <strong>del</strong>la coerenza estetica <strong>del</strong> “gruppo”, quella che lo mantiene<br />

solidamente unito attorno a «Giuliani» e all’Ager Film, anche nella<br />

nuova e diversa prospettiva di lavoro che vede i due fratelli di San Miniato<br />

separarsi dal pisano Orsini, dopo un sodalizio che – come già si è accennato<br />

– aveva preso avvio nel 1950 (con la regia teatrale di due spettacoli<br />

scritti e diretti a tre), era proseguito lungo il decennio con un’intensa attività<br />

documentaristica (a parte il San Miniato, luglio ‘44, già citato, vanno<br />

ricordati Curtatone e Montanara, Carlo Pisacane, Pittori in città, Moravia,<br />

Lavoratori <strong>del</strong>la pietra, Carvunara, Volterra, comune medievale, I pazzi <strong>del</strong>la<br />

domenica), si era consolidato attorno a Joris Ivens con la collaborazione<br />

alla sceneggiatura e alla regia per il lungometraggio L’Italia non è un Paese<br />

povero (1960), realizzato nel nostro Paese dal maestro olandese, e aveva<br />

prodotto due lungometraggi di diverso livello ma di pari serietà.<br />

Tanta pluriennale coerenza intellettuale ed esistenziale è il necessario<br />

preludio a Sovversivi che, presentato a Venezia 1967, porta finalmente il<br />

grosso <strong>del</strong>la critica italiana e la critica straniera presente al festival ad<br />

attribuire agli autori i primi rilevanti riconoscimenti critici. Alla base di<br />

Sovversivi sta un’idea probabilmente suggerita ai Taviani dall’esperienza<br />

de I fuorilegge: quella di una molteplicità di storie e di personaggi correlati<br />

fra loro da un identico problema che costituisce per tutti un banco<br />

di prova e una svolta esistenziale. La nuova conquista, che fa sortire<br />

il film dallo “sperimentalismo” <strong>del</strong>l’opera precedente, è che, rendendo<br />

questo problema diretta materia narrativa (e non esterno riferimento<br />

“tematico”), gli autori possono far sì che esso diventi il punto di intersezione<br />

dei vari “personaggi” e <strong>del</strong>le loro “storie” in una sostanziale<br />

unità-simultaneità di tempo, di luogo e di azione che fa quindi <strong>del</strong>l’opera<br />

un discorso sul dato collettivo dove non si soffoca in nulla il dato indi-<br />

28<br />

GLI “UTOPISTI” E GLI “ESAGERATI”<br />

viduale e un discorso sul dato individuale, dove si implica senza forzature<br />

il dato collettivo.<br />

Sovversivi è infatti il polittico di quattro “storie parallele”, cioè di altrettante<br />

vite aperte e in cerca di se stesse e <strong>del</strong> proprio ruolo, in un particolare<br />

momento <strong>del</strong>la verità: i funerali di Togliatti, nell’estate 1964 visti<br />

(«addio Togliatti, giovinezza nostra addio» scrive in una lettera un personaggio<br />

<strong>del</strong> film), come già nel pasoliniano Uccellacci e uccellini, quale<br />

ultimo capitolo di un’epoca e inizio di nuova, più matura, e perciò più tormentata,<br />

adesione alle cose. Per Giulia, moglie apparentemente amata di<br />

un funzionario di partito venuto a Roma per il funerale <strong>del</strong> leader comunista,<br />

è il momento di porre fine all’ipocrisia (o all’ignoranza di sé) con cui<br />

ha fino ad allora trattenuto i propri istinti omosessuali, rimuovendoli e formando<br />

in nevrosi la propria insoddisfazione. Per Ettore, un giovane rivoluzionario<br />

venezuelano, è il momento di concludere il proprio esilio<br />

romano per tornare in patria dove lo attende la lotta clandestina, anche se<br />

ha paura di morire e desiderio di restare con Giovanna, la ragazza che ama<br />

e con la quale, strappandola dalla famiglia, passa gli ultimi tre giorni di<br />

“disimpegno”. Per Ermanno, quieto laureato in filosofia, è il momento di<br />

rinunciare alla sicurezza che gli dà un rapporto di amicizia e di lavoro con<br />

il fotografo Muzio, e di abbandonarsi alla propria creatività anche se l’anarchismo<br />

(durante i funerali di Togliatti aggredisce, apparentemente<br />

senza motivi, un vecchio borghese e viene fermato dal servizio d’ordine<br />

<strong>del</strong> Partito comunista), gli fa rischiare la solitudine. Per Ludovico, un regista<br />

<strong>cinema</strong>tografico cui viene diagnosticata una malattia probabilmente<br />

mortale, è il momento di superare lo sconforto per cercare, attraverso il<br />

personaggio di Leonardo da Vinci, su cui sta facendo un film, di significare<br />

la necessità di fuggire dal mondo “come è” per cercare – e con ciò<br />

affermare – il mondo come “dovrebbe essere”.<br />

Per questi personaggi, e per le loro diverse e concomitanti “situazioni”,<br />

la morte di Togliatti, anzi i suoi funerali (il film si chiude sulla partenza<br />

<strong>del</strong>l’aereo di Ettore per il Venezuela e, subito dopo, al cimitero romano<br />

<strong>del</strong> Verano, sulla «bara [che] spinta a fatica dagli uomini, scende nella<br />

fossa»), costituiscono l’elemento scatenante di una mise en question radicale<br />

<strong>del</strong> proprio progetto esistenziale e/o politico, un simbolico “addio al<br />

padre” che rende improvvisamente caduche le vecchie sicurezze, le incrostate<br />

assuefazioni, i rituali consuetudinari e necessarie nuove aperture problematiche,<br />

diverse prospettive, più arrischiate sperimentazioni. “Addio<br />

al padre”, si diceva; ma non soltanto nel senso che «il vero argomento <strong>del</strong><br />

film è un dialogo serrato <strong>del</strong> comunismo posteriore a Togliatti con la sua<br />

bara: un dialogo col padre morto, conflittuale e di qualità molto intima»<br />

(Piovene); non soltanto cioè essenzialmente nel senso di «un dialogo, a circuito<br />

stretto, <strong>del</strong> comunismo con se stesso», con il che si connoterebbero<br />

in modo troppo angustamente «politico» le qualità <strong>del</strong> film che è invece<br />

29


LINO MICCICHÈ<br />

politico, ma senza virgolette proprio perché rifiuta la nozione di Politica<br />

come campo d’azione specifico e “specialistico” (la tipica eredità idealistica<br />

che affligge, negli anni sessanta e oltre, molto <strong>cinema</strong> “politico” che<br />

si vuole materialistico); bensì nel senso assai più vasto e coinvolgente di<br />

ripensamento integrale di una generazione su se stessa, su un’epoca e sul<br />

modo di viverla. L’“addio al padre” – cioè a qualcosa che si è amato, (o<br />

odiato) e che ci ha reso come siamo (impedendoci anche di essere diversi<br />

da ciò che siamo) – è insomma in Sovversivi il momento, liberatorio e angoscioso<br />

(e perciò commosso) in cui i personaggi vedono venir meno il<br />

garante <strong>del</strong>la loro tranquillità, <strong>del</strong>la loro pacificazione con se stessi, <strong>del</strong>la<br />

loro quieta accettazione <strong>del</strong>l’inquietudine e, recuperando la propria<br />

libertà (che ha come prezzo, s’intende, la precarietà), si riprogettano,<br />

riprendendo a credere nell’utopia come momento <strong>del</strong>la verità, a liberarsi<br />

dalla paura <strong>del</strong>l’errore («Conviene sbagliare» fu il primo titolo che i<br />

Taviani proposero per il film), a vedere positivamente l’“esagerazione” se<br />

essa serve a tirare fuori il senso <strong>del</strong>le cose, a «contrapporre, a un presente<br />

che rischia l’appiattimento per la lontananza <strong>del</strong>la prospettiva, un futuro<br />

immaginario e desiderato».<br />

«In Sovversivi – chiarisce Vittorio Taviani in un’intervista ai «Cahiers<br />

du cinéma» – tanti personaggi, come un unico personaggio. Come un<br />

gruppo. Un gruppo in un momento di crisi, di passaggio. Un equilibrio è<br />

finito e minaccia di coinvolgere il gruppo. Di qui la necessità – prima di<br />

tutto fisiologica – di altri equilibri. Avere la forza di distruggere (ma non<br />

per martoriarsi con i detriti <strong>del</strong> mondo distrutto, né per identificarsi<br />

romanticamente con la sua distruzione). Ma per avere le mani libere per<br />

ricominciare a cercare. Il funerale di Togliatti [...] è il funerale <strong>del</strong> padre<br />

(il padre come mito, come padre naturale, come momento storico, come<br />

neorealismo [...]). Una impresa luttuosa ma anche liberatrice. Disponibilità<br />

a nuove dimensioni: ancora a livello personale, nei personaggi <strong>del</strong> film,<br />

ma come sintomo di una necessità più ampia». Sovversivi è insomma anche<br />

un incontro con la morte: quella <strong>del</strong> proprio padre in se stessi e di se stessi<br />

nel proprio padre; e rappresenta in tale senso una “fisiologica” reimmersione<br />

nel tempo – cioè nella dinamica <strong>del</strong>la storia viva, <strong>del</strong>lo scontro esistenziale<br />

vissuto, <strong>del</strong> dramma <strong>del</strong>la vita privato di facili appigli e comode<br />

consolazioni – quindi un superamento <strong>del</strong>la fase “giovanile”, vissuta come<br />

un eterno presente reso immoto da catechistiche ideologizzazioni, non più<br />

credibili, ora, di fronte alla morte <strong>del</strong> proprio passato e all’immagine <strong>del</strong>la<br />

morte <strong>del</strong> proprio futuro che essa implica. Sovversivi è infine «un funerale<br />

a un modo di guardare la realtà che, talvolta, è stato chiamato neorealismo»<br />

(Ponzi), proprio perché le uniche inquadrature “neorealistiche”,<br />

quelle metonimicamente mortuarie <strong>del</strong>l’interramento, sono metaforizzate<br />

in spunto iniziale di una dinamica di cui il film registra soltanto le prime<br />

fasi di emergenza ma che si nega a qualsiasi “messaggio”, a qualsiasi “con-<br />

30<br />

GLI “UTOPISTI” E GLI “ESAGERATI”<br />

clusione”, a qualsiasi “rispecchiamento”, in quanto il suo orizzonte è<br />

altrove, nell’“utopia” (nel senso letterale di assenza di topos e di kronos),<br />

in una tensione etico-politica e fisiologico-esistenziale che non può esattamente<br />

definirsi senza nuovamente ideologizzarsi, non può ricomporre<br />

tutti i dati in una nuova sommaria sintesi, non può eliminare la contraddizione<br />

senza rischiare una nuova paralizzante ortodossia.<br />

Non si tratta certo di un film esente da difetti. Se dovessimo indulgere<br />

al vezzo <strong>del</strong>le classifiche non lo metteremmo né al primo né al secondo<br />

posto di una filmografia per altro egregia come quella che da Un uomo da<br />

bruciare ad Allonsanfan pone i Taviani fra gli autori di punta <strong>del</strong> <strong>cinema</strong><br />

italiano. Rispetto ai più maturi film successivi, nuocciono a quell’opera <strong>del</strong><br />

1967: un episodio non privo di slabbrature di sceneggiatura e di incertezza<br />

di regia come quello di Giulia (per altro fondamentale a connotare la politicità,<br />

non virgolettata, <strong>del</strong> film), che non sempre si integra narrativamente<br />

con il resto <strong>del</strong> polittico; la polifonica coesistenza di due o tre cifre stilistiche<br />

(pensiamo a quella assai elaborata che domina la storia di Ludovico,<br />

il regista), non sempre persuasivamente orchestrate e fuse tra loro; la magmaticità<br />

a volte stridente <strong>del</strong> tono complessivo dove il patetico e il grottesco,<br />

il drammatico e l’ironico sono talora meccanicamente giustapposti.<br />

Questi limiti valgono tuttavia, più che altro, a definire l’opera nel contesto<br />

<strong>del</strong> <strong>cinema</strong> dei Taviani, non certo a sminuirne il rilievo estetico e culturale.<br />

Innanzi tutto perché quelli che abbiamo rapidamente citato sono<br />

appunto taluni tra gli scogli contro i quali i Taviani hanno volontariamente<br />

deciso di dirigersi sapendo che essi costituivano l’ovvio rischio di fare un<br />

film sul “superamento” che fosse anche un film di superamento e nel quale<br />

pertanto gli stessi mo<strong>del</strong>li <strong>del</strong> racconto <strong>cinema</strong>tografico (presenti ancora,<br />

nonostante tutto, in Un uomo da bruciare) dovevano essere accantonati,<br />

nella ricerca di nuove vie per un coinvolgimento (democratico, cioè consapevole<br />

e dialettico) <strong>del</strong>lo spettatore. Insomma, la scelta di un <strong>cinema</strong><br />

comportamentistico che offra la sintomatologia e non la diagnosi <strong>del</strong> reale<br />

– e che dunque usa l’ideologia più come una chiave metodologica che<br />

come un “grimal<strong>del</strong>lo” interpretativo (più come strada per identificare i<br />

problemi che come dispensa per sco<strong>del</strong>lare soluzioni) – comporta un<br />

grado di “apertura” che implica anche un livello di indefinizione, e quindi<br />

pure di contraddizione, almeno fino a quando si resta ancora in una qualche<br />

misura legati al mo<strong>del</strong>lo <strong>del</strong> personaggio “psicologicamente definito”.<br />

Non a caso, a partire dal film successivo, i Taviani compiranno un ulteriore<br />

passo avanti proprio puntando a una più compatta unità stilistica, a<br />

un maggiore fenomenologismo psicologico e a un programmatico “straniamento”.<br />

Ma il rilievo di Sovversivi è soprattutto culturale, ed è in questa luce<br />

che questo film va considerato tra i più significativi <strong>del</strong> periodo 1959-1968<br />

da noi preso in esame. In pochi film come in questo coesistono positiva-<br />

31


LINO MICCICHÈ<br />

mente forme di consapevolezza, estetica e politica, così (relativamente)<br />

avanzate come: 1. la coscienza <strong>del</strong> superamento definitivo <strong>del</strong><br />

mito/illusione neorealistico e di ogni sua possibile ripresa, o mimesi, o<br />

derivazione, superamento cui corrisponde per altro una ricerca che si<br />

muove pur sempre nell’ambito realistico cercandone tuttavia una rifondazione;<br />

2. la coscienza che l’unico modo per essere degli artisti politici<br />

non è quello di fare <strong>del</strong>l’arte “politica” ma di fare politicamente l’arte, poiché,<br />

come ha detto Paolo Taviani, «l’utilità di un film non esiste al di fuori<br />

di quella modificazione che esso è capace di apportare negli altri nel suo<br />

campo specifico» («nel momento stesso in cui parli <strong>del</strong> Viet-Nam – chiarisce<br />

quindi Vittorio – non si tratta di usare il <strong>cinema</strong> per comunicare<br />

alcuni dati informativi sul Viet-Nam. Ma piuttosto [...] di vietnamizzare il<br />

linguaggio <strong>del</strong> film»); 3. la coscienza che dalla sclerosi <strong>del</strong>le vecchie certezze<br />

ideologistiche non si esce creandone <strong>del</strong>le nuove destinate a loro<br />

volta a sclerotizzarsi, ma scegliendo, materialisticamente, il sistematico<br />

confronto con la realtà in una feconda dialettica tra l’accettazione e la<br />

messa in discussione continue di se stessi; 4. la coscienza che la “politica<br />

<strong>del</strong> possibile” ha finito per emarginare l’“impossibile” dal voluto, ratificando<br />

ad aeternum la sua impossibilità, e che dunque occorre ridare uno<br />

spazio politico all’utopia, alla trasgressione, all’esagerazione non solo<br />

come modi di negazione <strong>del</strong>l’esistente ma come momenti vitali di trasformazione<br />

<strong>del</strong> mondo.<br />

Queste forme di consapevolezza, espresse nel film senza alcuna presunzione<br />

profetica e senza alcuna lacrimosa autocommiserazione, anzi con<br />

rigorosa (pur se partecipe e commossa) asciuttezza, fanno di Sovversivi un<br />

film ricco di presentimenti sessantotteschi: nel senso che gli umori, i fervori,<br />

gli ardori, così come le spinte iconoclaste, antidogmatiche, anticatechistiche<br />

da cui il film è pervaso, troveranno parziale concretizzazione, di<br />

lì a una stagione, nelle piazze, nelle fabbriche e nelle università (parziale:<br />

ché soprattutto in queste ultime si formeranno rapidamente nuovi, e non<br />

meno ottusi, rituali ideologistici). Ciò nonostante, o forse anzi proprio per<br />

questo, Sovversivi è, sia nel <strong>cinema</strong> italiano <strong>del</strong> periodo sia nella filmografia<br />

dei Taviani, un’opera di transizione: nel <strong>cinema</strong> italiano, perché sembra<br />

far da ponte tra due diversi momenti <strong>del</strong>la sua storia, quello degli iniziali<br />

anni sessanta carico di illusioni e in apparente ascesa, e quello <strong>del</strong><br />

riflusso post-sessantottesco che così pervicacemente maschererà la propria<br />

resa con periodiche impennate di “consumismo impegnato”; nella filmografia<br />

dei Taviani, perché è l’ultimo dei loro film direttamente legato<br />

alla cronaca, l’ultimo di esorcizzazione neorealistica, l’ultimo in cui si ha<br />

ancora una compresenza di livelli metaforici e di livelli metonimici (e una<br />

netta prevalenza di questi ultimi), prima <strong>del</strong>le grandi metafore politiche<br />

di Sotto il segno <strong>del</strong>lo Scorpione (1968-1969), San Michele aveva un gallo<br />

(1971), e Allonsanfan ( 1974), opere tutte che gradualmente confermano<br />

32<br />

GLI “UTOPISTI” E GLI “ESAGERATI”<br />

(anche se più la prima e la seconda <strong>del</strong>la terza) come la carriera artistica<br />

dei Taviani sia tra le poche «che rivelano un pressoché continuo processo<br />

di maturazione, cioè un sempre maggiore scavo tematico unito a una sempre<br />

maggiore consapevolezza espressiva» (Torri). Converrà intrattenersi<br />

sulla prima di questo trio di opere, poiché se la prima proiezione pubblica<br />

(a Venezia, nel settembre <strong>del</strong> 1969) la pone fuori <strong>del</strong> nostro campo di osservazione,<br />

la data <strong>del</strong>le riprese (estate <strong>del</strong> 1968) e quella <strong>del</strong> primo trattamento<br />

(autunno 1967) ve la fanno perfettamente rientrare.<br />

Un’isola di origine vulcanica (questo è il soggetto di Sotto il segno <strong>del</strong>lo<br />

Scorpione, che è opportuno esporre) sprofonda negli abissi marini. Trova<br />

scampo una pattuglia di uomini, i più giovani, che cercano di approdare<br />

sul continente. Invece sbarcano su un’altra isola, vulcanica anch’essa, in<br />

tutto simile alla loro. L’isola è abitata da gente povera e semplice come<br />

loro, il cui capo, Renno, è tutto saggezza, equilibrio e ricordi di gloriose<br />

lotte fatte vent’anni prima per salvare gli isolani da un’eruzione vulcanica<br />

e ricostruire il villaggio distrutto. Renno e i suoi, superata la prima fase di<br />

diffidenza, accolgono i giovani, li rivestono li rifocillano li ospitano nelle<br />

loro case. Ma non è questo che i giovani vogliono. Giunti in un’isola che<br />

è esattamente come la loro, essi vi vedono gli stessi pericoli da cui sono<br />

scampati: non vogliono correre altri rischi, non vogliono che si ripeta<br />

quello che è già accaduto. Essi puntano a ottenere <strong>del</strong>le barche per lasciare<br />

al più presto l’isola; o meglio ancora ad abbandonarla assieme agli isolani.<br />

Per questo spiegano come fu atroce la tragedia da loro vissuta, descrivono<br />

a lungo l’immane disastro e indicano a più riprese la necessità di ricominciare<br />

altrove una vita tranquilla, un <strong>nuovo</strong> corso sicuro, al riparo da sciagure,<br />

nel quale non sia più necessario vivere sempre provvisoriamente nell’attesa<br />

quotidiana <strong>del</strong> disastro. Gli isolani, specie i più giovani, sulle prime<br />

stanno per convincersi, poi ricominciano ad avere qualche diffidenza nei<br />

confronti dei giovani profughi, in ispecie verso Rutolo e Taleno. Questi<br />

ultimi sono i più attivi tra i nuovi venuti e Renno finisce per farli imprigionare<br />

assieme ai loro compagni. Appena in tempo, perché già i più giovani<br />

<strong>del</strong> villaggio mancano di rispetto agli anziani, le donne <strong>del</strong> villaggio<br />

e gli ospiti cominciano a occhieggiarsi, le discussioni tra le due collettività<br />

si sono trasformate in dibattito interno e Renno stesso è guardato meno<br />

reverenzialmente di prima. Per i giovani profughi sembra finita. Qualcuno<br />

tra i più anziani propone perfino di ammazzarli. Poi Renno pensa una<br />

diversa soluzione: diamo loro una barca, dice, e lasciamoli andare dove<br />

vogliono purché ci lascino in pace. Così si appresta a fare, infatti, convinto<br />

di avere risolto il problema e riprendendo in pace il lavoro nei campi. Ma<br />

i giovani profughi non si contentano di avere le barche: una comunità<br />

senza donne, una volta sul continente, è destinata a non sopravvivere. E<br />

poco prima di imbarcarsi rapiscono le donne <strong>del</strong>l’isola, inclusa Glaia, la<br />

moglie di Renno, inclusa la figlia <strong>del</strong>l’anziano che avrebbe voluto farli ucci-<br />

33


LINO MICCICHÈ<br />

dere. E uccidono invece quanti si oppongono al ratto, facendo strage degli<br />

abitanti <strong>del</strong>l’isola, tra cui Renno sorpreso a lavorare assieme alle sue donne.<br />

Giunte sul continente assieme ai giovani, che esaminano intanto il terreno<br />

su cui costruirsi un futuro, le donne, spinte da Glaia, decidono di suicidarsi<br />

piuttosto che di accettare la nuova condizione di spose forzate. Ma<br />

le più giovani sono per la vita e non per la morte. E se alcune di esse sono<br />

gettate a forza nel fiume dalle più anziane, altre cercano di sottrarsi e una<br />

di loro va ad avvertire gli uomini. Questi accorrono e riescono a salvare<br />

gran parte <strong>del</strong>le donne e si preparano a vivere con esse.<br />

Se Sovversivi è un film sulla realtà che si libera dalle proprie costrizioni<br />

trasgredendo la propria stessa logica, Sotto il segno <strong>del</strong>lo Scorpione (il<br />

titolo, su cui per altro si affannerà una fantasiosa esegetica, è ripreso, quasi<br />

esclusivamente per ragioni affettive, dalla prima versione <strong>del</strong> copione di<br />

Allonsanfan, allora appunto intitolata «Sotto il segno <strong>del</strong>lo Scorpione»,<br />

progetto al quale i Taviani debbono sul momento rinunciare) è «una parabola,<br />

come un apologo». Il film rappresenta, nel progressivo discorso filmografico<br />

dei Taviani, la realizzazione concreta di quanto in Sovversivi era<br />

solo astrattamente possibile: il recupero <strong>del</strong>la dimensione utopistica è già<br />

possibilità <strong>del</strong>la sua (fantastica) realizzazione. Ma la realizzazione utopica<br />

può essere soltanto immaginata, appunto, in una atemporalità che,<br />

negando il presente, collega passato mitico/storico e futuro utopico/politico<br />

poiché «in una realtà come la nostra europea, in cui non è<br />

dato pensare al momento <strong>del</strong>la sua sovversione, se non in tempi lunghi, il<br />

salto rivoluzionario si presenta come favola, nei modi <strong>del</strong>l’utopia. Un’utopia.<br />

Non una evasione». Utopisticamente, dunque, «se i personaggi dei<br />

Sovversivi cercavano [...] i protagonisti <strong>del</strong>lo Scorpione trovano». Portatori<br />

di una “sovversione” (che in realtà corrisponde, materialisticamente,<br />

alla propria autoconservazione), essi si scontrano con un gruppo che già<br />

ha operato a suo tempo la propria “sovversione” – allorché, vent’anni<br />

prima (la Resistenza?), quando nell’isola vi fu una spaventosa eruzione (gli<br />

ultimi feroci sussulti <strong>del</strong> fascismo?), riedificò il villaggio distrutto (la Ricostruzione?)<br />

– e ora gestisce quella conquista come un definitivo eterno presente.<br />

Usciti da una drammatica esperienza (anche i loro padri avevano<br />

resistito a una prima eruzione, anche i loro padri avevano ricostruito il villaggio,<br />

anche i loro padri si ritenevano al sicuro da nuove eruzioni), i nuovi<br />

venuti cercano di persuadere gli isolani che bisogna fuggire dall’isola (cioè<br />

dalla circolarità di un presente che riproduce il passato) e trasferirsi sul<br />

continente (cioè su un <strong>nuovo</strong> e più vasto spazio dialettico). E poiché il loro<br />

discorso viene rifiutato, usano la violenza per spezzare la catena di un presente<br />

riproduttivo <strong>del</strong> passato e per impadronirsi di un diverso futuro il<br />

quale, d’altronde, neppure esso, ha alcunché «di definitivo, di consolatorio»<br />

e anzi, a sua volta, «contiene già in se stesso i motivi <strong>del</strong> suo superamento».<br />

34<br />

GLI “UTOPISTI” E GLI “ESAGERATI”<br />

Tuttavia la comunità di Rutolo e Taleno non sembra destinata a riprodurre<br />

meccanicamente la stessa esperienza, vissuta da Renno a partire da<br />

vent’anni prima, di “conservazione <strong>del</strong>la rivoluzione” cioè di ideologizzazione<br />

<strong>del</strong> <strong>nuovo</strong> ordine. La contrapposizione isola/continente, così vistosamente<br />

sottolineata nel corso <strong>del</strong> film, è in questo senso significativa: così<br />

come è significativo che Rutolo e Taleno non approdino a una nuova isola<br />

bensì, appunto, nel continente. Ma il continente non si differenzia dall’isola<br />

per sue intrinseche qualità, ché anzi Rutolo e Taleno ne colgono la<br />

sostanziale identità con il paesaggio insulare («Me lo immaginavo<br />

diverso,» dicono), bensì per le condizioni strutturali: l’isola è appunto circolare,<br />

autosufficiente, solitaria, conosciuta; il continente è lineare, composito,<br />

abitato, sconosciuto. Insomma l’isola è un “microcosmo” che offre<br />

un solo rischio noto e nessuna sorpresa; il continente è il “cosmo” pieno<br />

di possibilità e di pericolo ignoti. A questo punto ci si accorge che la contrapposizione<br />

isola/continente è anche leggibile come teoria/praxis, ideologia/politica,<br />

mito/storia, e che dunque l’abbandono <strong>del</strong>l’isola (anzi la<br />

violenza contro gli isolani) corrisponde all’abbandono <strong>del</strong>l’illusione ideologistica,<br />

<strong>del</strong>la falsa coscienza consolante e paralizzante; così come l’approdo<br />

sul continente è la rimessa in circuito <strong>del</strong> moto storico e cioè il passaggio<br />

da un presente ripiegato su se stesso, come semplice rimozione <strong>del</strong><br />

passato, a un «presente nuovamente in rapporto col futuro». Nonostante<br />

questa radicalità che sembra prefigurare un grado zero <strong>del</strong>la storia, il rapporto<br />

continua in ogni caso a essere dialettico: la realtà <strong>del</strong>l’isola così violentemente<br />

negata ha un suo rilevante retaggio nella comunità di Rutolo<br />

(Taleno muore sul continente spinto in acqua dalla moglie di Renno), un<br />

retaggio che qualifica, come eredità accettata (anzi voluta) <strong>del</strong> passato-presente<br />

pur negato, i limiti <strong>del</strong>la negazione stessa: le donne degli isolani, a<br />

cominciare da Glaia, la moglie di Renno, cioè quel potenziale fisiologico<br />

di futuro (la riproduzione <strong>del</strong>la specie) che la comunità <strong>del</strong>l’isola aveva e<br />

che quella di Rutolo non aveva, un qualcosa che apparenta il rapporto tra<br />

le due comunità a quello distruttivo/nutritivo che Totò e Ninetto hanno<br />

con il corvo pasoliniano di Uccellacci e uccellini. Anche da tale angolazione<br />

Sotto il segno <strong>del</strong>lo Scorpione torna a proporre il tema <strong>del</strong> “parricidio” che,<br />

sintomaticamente, aleggia in molto <strong>cinema</strong> pre-sessantottesco e sessantottesco,<br />

e che d’altronde era già emergente in Sovversivi: la differenza è<br />

che qui il padre da eliminare, come il figlio “parricida”, sono sostituiti<br />

dallo scontro tra comunità, significando così la frantumazione dei mitici<br />

archetipi individuali nella storia dei rapporti collettivi.<br />

Sotto il segno <strong>del</strong>lo Scorpione è, come hanno detto gli stessi autori, «un<br />

film semplice»; e «così elementare nella struttura, così semplice nella linea<br />

narrativa, appare come un film scandaloso». Ma «tutte le cose semplici<br />

[...] implicano sempre una molteplicità di significazioni». Per questo esso<br />

è anche un film ricchissimo, pieno di sottosensi e soprasensi, all’interno e<br />

35


LINO MICCICHÈ<br />

all’esterno <strong>del</strong>lo schema di prima lettura metaforica che esso offre e di cui<br />

abbiamo sottolineato alcuni aspetti.<br />

Lungi dall’essere dei corollari aggiuntivi rispetto a una interpretazione<br />

base, queste molteplici possibilità di ulteriore lettura rivelano la vera identità<br />

<strong>del</strong>l’opera la quale – come sempre accade in un testo “poetico” – ha<br />

nella polivalenza dei significati (e nella “galassia di significanti” che li<br />

determinano) la propria fecondità conoscitiva e trova nella “pluralità<br />

trionfante” <strong>del</strong>le proprie griglie semantiche la propria ragion d’essere.<br />

Sotto il segno <strong>del</strong>lo Scorpione è, ad esempio (anche), come ha rilevato Pascal<br />

Kané in un suo lucido saggio, una rappresentazione critica di «come servirsi<br />

<strong>del</strong> linguaggio ideologico d’una società senza obbligatoriamente sottoscrivere<br />

le sue rappresentazioni dominanti». Ovvero è, come Otto e<br />

mezzo di Fellini (ma volgendo in chiave materialistica e storica quanto ivi<br />

era alluso in chiave idealistica e soggettiva), un film che include al proprio<br />

interno, come struttura <strong>del</strong>la propria struttura, la rappresentazione critica<br />

di se stesso. Ma, contrariamente al capolavoro felliniano, non «costruita<br />

in abisso» (film nel film), ma in una sorta di assoluta coincidenza strutturale<br />

per cui la «rappresentazione» non «contiene» ma «è anche» la critica<br />

<strong>del</strong> modo di rappresentare, realizzando dunque quello che è un punto di<br />

arrivo <strong>del</strong>la pratica formale oggi necessaria: quello di proporsi anche (se<br />

non innanzitutto) come diegesi di se stessa.<br />

Infatti lo Scorpione è anche interpretabile come un film “comunicazionale”:<br />

sul tentativo di un gruppo (gli allogeni, i nuovi venuti) di comunicare<br />

a un altro (gli indigeni, i preesistenti abitanti) una propria verità e<br />

di infrangere, dunque, con la coscienza <strong>del</strong>la propria esperienza, la<br />

coscienza <strong>del</strong>la sua su cui quell’altro gruppo è attestato. Da questa<br />

esigenza, che sostanzia interamente tutta la prima parte <strong>del</strong> film, nascono<br />

i tentativi <strong>del</strong> gruppo allogeno di trasmettere al gruppo indigeno la storia<br />

<strong>del</strong>la propria esperienza. Questo tentativo ha due fasi nettamente distinte<br />

e diversamente funzionali.<br />

La prima fase, di tipo mimetico realistico, si limita a essere una “rappresentazione”<br />

<strong>del</strong> vissuto dagli allogeni fondata sull’“esagerazione” cioè<br />

sulla “retorica” (Rutolo: «Facciamoli piangere, impauriteli, esagerate<br />

anche...». Un compagno: «Ma chi? Loro? Perché?». Rutolo: «Devono<br />

lasciare l’isola con noi, subito. Se no che andiamo a fare sul continente?».<br />

Altro compagno: «È anche nel loro interesse, no?». Altro compagno: «Ma<br />

per convincerli chissà quanto tempo ci vuole». Rutolo: «Appunto! Esagerate,<br />

impauriteli, fateli piangere». Taleno: «Senza esagerare, basta raccontare<br />

quello che è successo». Rutolo: «Ma no! Fate spettacolo, come se<br />

l’isola stesse per saltare davvero»); ovvero uno «spettacolo» che cerca di<br />

riprodurre il vissuto secondo un codice di referenti che i due gruppi hanno<br />

in comune (l’eruzione, la paura, il dolore ecc.). Tale fase trova la propria<br />

contraddizione fondamentale nel fatto che, proprio la comunanza <strong>del</strong><br />

36<br />

GLI “UTOPISTI” E GLI “ESAGERATI”<br />

codice e la verosimiglianza <strong>del</strong>la «rappresentazione» finiscono per fare<br />

emergere le differenze <strong>del</strong> vissuto, cioè in fondo per lasciare le due esperienze<br />

separate e incomunicabili («[...] tranquilli – conclude Renno – qui<br />

non correte nessun pericolo. Anche qui c’è un vulcano! Come no? Ha<br />

distrutto le nostre case, venti anni fa. Ma noi le abbiamo ricostruite, con<br />

calma, con pazienza»).<br />

La seconda fase <strong>del</strong> tentativo, di tipo mitico rituale, è allora quella <strong>del</strong>la<br />

“manifestazione” (la lunga, ossessiva danza dei campanacci), programmaticamente<br />

slegata da qualsiasi referenzialità e metonimicità, costituita<br />

da relazioni indicative e non descrittive, e dunque radicalmente sottratta<br />

al peso <strong>del</strong>l’«endoxalité», cioè, secondo il neologismo barthesiano, <strong>del</strong><br />

controllo che il discorso dominante opera sul verosimile. Tale fase trova<br />

la propria contraddizione nel fatto che, risultando ai più illeggibile e inconoscibile<br />

– e per ciò stesso oscuramente minacciosa («L’inconscio – dice<br />

Lacan – è il discorso <strong>del</strong>l’Altro») – determina nel gruppo indigeno il gesto<br />

<strong>del</strong>l’esclusione, non solo quella <strong>del</strong>l’interdetto al discorso non più “assimilabile”,<br />

ma quella fisica degli stessi allogeni (Renno: «Ho una bella idea.<br />

Nessuno di noi lascia l’isola. Quella gente va presa e rinchiusa. Li mettiamo<br />

nella fossa»).<br />

È a questo punto, quando nessun “discorso” è più possibile perché o<br />

viene assimilato o viene interdetto – e quando la sua esclusione classifica<br />

chi se ne è fatto portatore come definitivamente Altro, Estraneo, Antagonista<br />

– che il confronto tra i due gruppi esce dalla chiusura dei reciproci<br />

rinvii e <strong>del</strong>le reciproche elisioni per entrare nella dimensione storica, come<br />

praxis, come violenza rivoluzionaria. Cosicché Sotto il segno <strong>del</strong>lo Scorpione<br />

è anche leggibile (oltreché come uno dei più lucidi apporti al dibattito<br />

antico e <strong>nuovo</strong> sulla possibilità di organizzare discorsi sul “dover<br />

essere” seguendo i mo<strong>del</strong>li di produzione <strong>del</strong> senso <strong>del</strong> “mondo come è”),<br />

come una parabola sui limiti oltre i quali la trasgressione verbale deve<br />

essere seguita dalla trasgressione gestuale e questa da quella trasgressione<br />

totale che è la Rivoluzione.<br />

Ora non v’è dubbio che questa consapevolezza imbeve solo in parte il<br />

tessuto, essenzialmente generazionale, <strong>del</strong>la contestazione sessantottesca;<br />

la quale, almeno nella sua fase più appariscente (che non coincide per altro<br />

né con quella politicamente più importante, né con le mises en question<br />

più radicali che essa operò ottenendo risultati positivi tali da contrassegnare<br />

una svolta “storica”), oscillò quasi sempre (per restare tra le<br />

metafore <strong>del</strong>lo Scorpione) tra la “rappresentazione” e la “manifestazione”,<br />

cioè tra la “parola” e il “gesto”), intese ambedue come “spettacolo” e a<br />

loro volta combattute alternativamente dal Sistema mediante l’assimilazione<br />

e/o l’esclusione, in una sostanziale impasse circolare, che sovente<br />

ridusse la violenza <strong>del</strong>lo scontro a ridondante rituale a conclusione <strong>del</strong><br />

quale non poteva esservi che la restaurazione. Ebbene ciò che rende Sotto<br />

37


LINO MICCICHÈ<br />

il segno <strong>del</strong>lo Scorpione non solo il più bel film dei Taviani assieme a San<br />

Michele aveva un gallo (e assieme a esso tra i più belli <strong>del</strong> nostro «<strong>nuovo</strong><br />

<strong>cinema</strong>») ma anche uno dei più importanti culturalmente (e dunque anche<br />

politicamente), è che, realizzato proprio mentre la contestazione si realizzava,<br />

esso vi partecipa con un’intensità pari alla lucidità critica, vivendone<br />

riti e miti con convinzione e al contempo con distacco. Il fatto che «nel<br />

breve periodo in cui “a sinistra” molti intellettuali, molti artisti rincorrevano<br />

– e non solo nel <strong>cinema</strong> l’“emergenza” politica, i Taviani manifestavano<br />

invece la loro presenza con un opera così filtrata, così lontana, così<br />

trasgressiva, da risultare assolutamente intraducibile nelle formule (nonché<br />

nei facili furori) allora ricorrenti» (Torri), è una conferma, dopo la<br />

indicazione già data con Sovversivi, di come questi due cineasti siano tra<br />

i pochi (e non soltanto nel <strong>cinema</strong> italiano) a muoversi nella direttrice, certamente<br />

tuttora problematica ma in genere assai poco frequentata, di una<br />

pratica formale materialistica e dialettica capace di vivere il presente storicizzandolo,<br />

cioè sottraendolo a qualsiasi ideologizzazione, e ponendo di<br />

volta in volta in discussione se stessa come prima “illusione” da negare per<br />

non precludersi il futuro.<br />

38


BRUNO TORRI<br />

IL “NUOVO CINEMA”<br />

DI PAOLO E VITTORIO TAVIANI<br />

Gli inizi degli anni sessanta coincidono, com’è noto, con la piena affermazione<br />

di quel vasto fenomeno <strong>internazionale</strong> conosciuto come “<strong>nuovo</strong><br />

<strong>cinema</strong>”. Sotto questa dizione, anzi, sotto questa nozione, venivano rubricati<br />

tutti quei film che, già in fase progettuale, e poi negli esiti espressivi e<br />

comunicativi, manifestavano vocazione per la ricerca, azzardo stilistico,<br />

responsabilità semantica accompagnata spesso dall’apertura verso nuove<br />

aree tematiche; e tutto ciò risultava molte volte collegato all’attuazione di<br />

nuove formule realizzative, di nuovi modi di produzione. In alcuni Paesi<br />

(in Francia con la nouvelle vague, in Brasile con il <strong>cinema</strong> nôvo, per fermarsi<br />

agli esempi più probanti) il “<strong>nuovo</strong> <strong>cinema</strong>” era derivato, anche, da<br />

un’attività, intellettuale e organizzativa, di gruppo: era stato, cioè, il frutto<br />

di un movimento che puntava al rinnovamento, non soltanto generazionale,<br />

<strong>del</strong>la <strong>cinema</strong>tografia nazionale, per riqualificarla sotto il profilo<br />

estetico; ma anche per conferirle una diversa valenza ideologico-politica<br />

che, tra l’altro, presupponeva pure una diversa concezione e un diverso<br />

atteggiamento nei confronti <strong>del</strong>lo spettatore <strong>cinema</strong>tografico.<br />

In Italia quest’ultimo aspetto non si è verificato; non c’è stata una precedente<br />

elaborazione teorica, né il coordinamento operativo e la diretta<br />

collaborazione tra cineasti che condividevano un comune orientamento o<br />

addirittura un’identica idea di <strong>cinema</strong>, come avveniva altrove in alcune<br />

realtà nazionali. Ci sono stati, tuttavia, alcuni registi esordienti i quali, in<br />

maniera autonoma e consapevole, si sono mossi in direzione <strong>del</strong> “<strong>nuovo</strong><br />

<strong>cinema</strong>”, favorendo la sua crescita e il suo primato artistico e culturale.<br />

Tra questi registi cui va riconosciuta la qualifica di autori – il “film d’autore”<br />

è stato, oltre che una pratica artistica, una <strong>del</strong>le principali categorie,<br />

quasi un sinonimo, <strong>del</strong> “<strong>nuovo</strong> <strong>cinema</strong>” – una posizione di primissimo pia-<br />

39


BRUNO TORRI<br />

no è occupata da Paolo e Vittorio Taviani, i quali, con la loro opera prima,<br />

Un uomo da bruciare, girata nel 1962 assieme a Valentino Orsini, si<br />

pongono subito tra i suoi esponenti più rappresentativi, proprio in virtù<br />

<strong>del</strong>la “diversità” e dei marcati tratti di originalità esibiti in questo film.<br />

Anche se non vi mancano tracce <strong>del</strong>la lezione neorealistica, Un uomo<br />

da bruciare è tutto il contrario di un’opera epigonica: il suo impegno contenutistico,<br />

pur molto evidente, trova sempre il giusto equilibrio con le<br />

scelte formali che lo veicolano, e che infatti, valorizzando le potenzialità<br />

insite nel linguaggio <strong>cinema</strong>tografico, finiscono per rafforzare il discorso<br />

sviluppato nel film. Pur muovendosi ancora sulla strada <strong>del</strong> realismo filmico,<br />

i fratelli Taviani e Orsini introducono nella struttura narrativa e nelle<br />

soluzioni figurative degli elementi elaborati dalla fantasia e dall’immaginazione,<br />

costruendo così un’unitaria pluralità di livelli espressivi e comunicativi<br />

che riesce a rendere meglio la complessità <strong>del</strong> reale, a coniugare<br />

l’interno e l’esterno <strong>del</strong> personaggio su cui si incentra la vicenda narrata,<br />

ad accrescere la spinta referenziale <strong>del</strong> film. Un uomo da bruciare è, prima<br />

di ogni altra cosa, la storia di un uomo; quindi il suo processo creativo presenta<br />

come principale motivazione, come ragione espressiva fondante, la<br />

costruzione <strong>del</strong> protagonista, per il quale gli autori prendono spunto da<br />

una persona realmente esistita (il sindacalista e poeta Salvatore Carnevale),<br />

ma inventano anche diverse componenti caratteriali e comportamentali<br />

e diversi avvenimenti esistenziali che ne fanno una figura sostanzialmente<br />

nuova, staccata dal mo<strong>del</strong>lo originario. Nella narrazione-rappresentazione<br />

<strong>del</strong> Salvatore di Un uomo da bruciare non c’è discontinuità tra<br />

la dimensione privata e la dimensione pubblica <strong>del</strong> personaggio, nel senso<br />

che non viene dato un maggiore rilievo a una di queste dimensioni, mentre<br />

ne vengono messi costantemente in rilievo i nessi intercorrenti, l’interazione<br />

dialettica, i condizionamenti reciproci. Pertanto, l’introspezione<br />

psicologica e l’azione sociale <strong>del</strong> personaggio diventano, nel racconto filmico,<br />

le due facce di un’unica medaglia: una mostra l’individualità <strong>del</strong> tutto<br />

particolare di Salvatore, l’altra descrive la sua militanza ideologico-politica,<br />

il segno da lui lasciato nell’ambito in cui ha agito; l’una e l’altra danno<br />

il senso di un destino umano che è, insieme, voluto e subìto, e che contemporaneamente<br />

serve anche a <strong>del</strong>ineare un preciso contesto sociale.<br />

Ambientato in Sicilia nella fase di transizione che vede la mafia riorganizzarsi<br />

al proprio interno per spostare la sua influenza e la sua attività<br />

criminale dal feudo all’edilizia, Un uomo da bruciare dispiega e approfondisce<br />

la vita di un agitatore politico-sindacale il quale non solo vuole lottare<br />

contro il potere mafioso, ma anche, e insieme, contro le ingiustizie<br />

sociali che – come il film mette bene in risalto – sono possibili e si perpetuano<br />

proprio per le complicità esistenti tra la mafia stessa e altri poteri,<br />

economici e politici. Nello svolgimento di questo tema, e focalizzando<br />

sempre l’attenzione sul vissuto <strong>del</strong> protagonista, il film coglie tutte le pecu-<br />

40<br />

IL “NUOVO CINEMA” DI PAOLO E VITTORIO TAVIANI<br />

liarità <strong>del</strong>la sua lotta politico-sindacale e, al contempo, <strong>del</strong>la sua personalità<br />

più intima, mettendo in luce pulsioni e contraddizioni, grandezze e<br />

miserie di una vita comunque eccezionale. In tal modo Un uomo da bruciare<br />

va oltre l’opera di denuncia, così come non resta impaniato nella retorica<br />

<strong>del</strong>l’“eroe positivo”: senza trascurare la Storia, e anzi lasciandone<br />

emergere il movimento e i condizionamenti, il film riesce a dare spessore<br />

e credibilità a una tipologia umana molto singolare la quale, in ciò che<br />

maggiormente la connota e la distingue, apparirà più volte nel <strong>cinema</strong> dei<br />

fratelli Taviani. Il personaggio di Salvatore, infatti, è quello <strong>del</strong> “rivoluzionario”,<br />

<strong>del</strong>l’“utopista”, <strong>del</strong>l’“esagerato”, di colui che vuole forzare i<br />

tempi (storici) per anticipare l’avvento di un futuro diverso e migliore; un<br />

personaggio anche ambiguo, dalla natura passionale, i cui entusiasmi<br />

manifestano o, altrimenti, “rimuovono” illusioni, narcisismi e paure radicate<br />

nel mondo infantile, e al quale appare sempre riservata, nel bene e nel<br />

male, una sorte estrema.<br />

Tra i tanti meriti che vanno ascritti a Un uomo da bruciare vi è anche<br />

quello concernente le sue modalità produttive, vale a dire la scelta <strong>del</strong> basso<br />

costo, la costituzione, sostanziale anche se non formalizzata, di un sistema<br />

produttivo di tipo cooperativistico e, in sintonia con tutto il resto, la<br />

simbiosi nata sul set tra gli autori e il produttore Giuliani De Negri, il quale<br />

in seguito parteciperà, ricoprendo un ruolo non soltanto economico ma<br />

anche intellettuale, alla realizzazione di tutti i film dei Taviani e di Orsini.<br />

Rispetto a Un uomo da bruciare, il loro secondo film, I fuorilegge <strong>del</strong><br />

matrimonio, girato nel 1963, appare meno caratterizzato dalla ricerca “linguistica”,<br />

dallo sforzo di guadagnarsi uno stile personale; e, conseguentemente,<br />

la sua resa estetica e la sua portata culturale risultano meno rilevanti,<br />

o più esattamente, risultano più corrispondenti a una tradizione<br />

<strong>cinema</strong>tografica, sì ancora valida e riproponibile, ma ormai più legata al<br />

passato che volta al futuro. Con questo film nato, per così dire, su commissione<br />

e che non ambisce prioritariamente alla bellezza bensì all’utilità,<br />

i registi, accettando appunto una sorta di mandato sociale, prendono posizione<br />

a favore di una battaglia civile, cioè il sostegno di un disegno di legge<br />

che intendeva introdurre, sia pure in misura limitata, il divorzio in Italia.<br />

Composto di sei episodi ognuno dei quali illustra altrettanti casi in cui<br />

l’applicazione <strong>del</strong> “piccolo divorzio” (così era definito quel disegno di legge)<br />

poteva essere ammissibile, I fuorilegge <strong>del</strong> matrimonio rivela una funzionale<br />

seppure un po’ facile didascalicità, che supporta adeguatamente i<br />

suoi scopi informativi ed esplicativi. Tuttavia solo in due racconti, quello<br />

dei concubini costretti a vivere separatamente e quello <strong>del</strong>la Sacra Rota,<br />

il linguaggio <strong>cinema</strong>tografico appare davvero sperimentato e risolto felicemente<br />

nel tracciato narrativo, mentre nel suo insieme il film tradisce l’assenza<br />

di un’autentica ispirazione, di una intrinseca necessità.<br />

Molto differente, in quanto molto sentito e molto pensato, oltre che<br />

41


BRUNO TORRI<br />

molto innovativo, è invece Sovversivi, diretto nel 1967 da Paolo e Vittorio<br />

Taviani, i quali intanto avevano interrotto amichevolmente il sodalizio con<br />

Orsini. Sovversivi conferma la tendenza dei registi, ravvisabile specialmente<br />

negli anni sessanta, di fare film ogni volta diversi, pur lasciando trapelare<br />

in tutto il loro <strong>cinema</strong> alcune componenti costanti. Anche Sovversivi<br />

si caratterizza per la perseguita intenzione di tenere uniti l’impegno<br />

ideologico-politico e la ricerca artistica; anche questo film coniuga l’interesse<br />

per i contenuti, quindi per i significati, e la tensione stilistica. Tutto<br />

ciò, che investe subito l’essenziale <strong>del</strong>la poetica dei Taviani, corrisponde<br />

anche, e nel migliore dei modi, alla specifica materia e alle specifiche finalità,<br />

estetiche ed etiche, <strong>del</strong> film, dal momento che Sovversivi intende riflettere<br />

un momento di crisi e di passaggio: non solo dei registi, ma anche di<br />

un largo settore <strong>del</strong>la sinistra italiana e segnatamente dei comunisti italiani,<br />

settore <strong>del</strong> quale gli stessi Taviani facevano parte, sia pure in maniera<br />

molto più critica che ortodossa. C’è una dichiarazione degli autori, dai toni<br />

molto accesi, che rende bene il clima in cui il film era nato e le motivazioni<br />

che lo animavano:<br />

Si stava soffocando. La vita politica, culturale e privata stagnava; mancava una<br />

direttrice unica che coinvolgesse energie, desideri, odi. Tutto pareva cristallizzato<br />

in un equilibrio pacificante e un po’ enigmatico: che era invece il coperchio<br />

posato sulla fossa dei leoni, sul nido <strong>del</strong>le vipere. Sono momenti di svilimento,<br />

squallidi… Non volevamo soffocare. Sentivamo il bisogno, fisiologico<br />

prima di tutto, di rompere quello pseudoequilibrio. Come? Non esisteva un<br />

movimento di massa. Le avanguardie sarebbero balzate fuori dopo, proprio<br />

da questo putridume. La sola rottura possibile era a livello personale. Essere<br />

costretti a questo significava già dare testimonianza di quei giorni. Sovversivi<br />

è la storia di cinque personaggi che cercano di far saltare il loro stato di quiete<br />

apparente. Cercano qualcosa. Non sanno bene cosa. Vogliono cambiare.<br />

Forse sbagliando. Ma “conviene sbagliare”: questo sarebbe potuto essere il<br />

sottotitolo <strong>del</strong> film.<br />

Sono parole, queste, che denotano molta consapevolezza, ma anche<br />

molto coinvolgimento emotivo; e che inoltre svelano l’aspetto autobiografico<br />

<strong>del</strong> film, suggerendo però che si tratta di un’autobiografia molto<br />

mediata, molto filtrata, in cui il momento generazionale, che è insieme anagrafico,<br />

politico ed esistenziale, prevale su quello strettamente privato.<br />

Non a caso Sovversivi è un film corale a struttura episodica. Il ricorso a<br />

diversi personaggi e a diverse storie, quelli e queste riconducibili a circostanze<br />

coincidenti e a problematiche analoghe, rispondono appunto all’esigenza<br />

di trattare lo stesso tema, vale a dire la crisi <strong>del</strong> comunismo italiano,<br />

da diverse angolazioni e con diverse prospettive.<br />

Nel film tutti i protagonisti sono, sia pure in maniera differenziata, dei<br />

comunisti; tutti vanno a Roma per partecipare allo stesso avvenimento (i<br />

42<br />

IL “NUOVO CINEMA” DI PAOLO E VITTORIO TAVIANI<br />

funerali di Togliatti); tutti si trovano in una situazione molto particolare<br />

che li costringe a interrogarsi, a fare i conti con se stessi, a mettersi in gioco;<br />

tutti devono fronteggiare una crisi che non è soltanto di natura ideologico-politica,<br />

ma anche, e in alcuni casi soprattutto, di natura individuale,<br />

intima; e in ciò si ritrova un aspetto caratteristico <strong>del</strong> <strong>cinema</strong> dei<br />

Taviani, vale a dire la compresenza e l’interazione <strong>del</strong>l’ideologico e <strong>del</strong> fisiologico<br />

nei loro personaggi, e nei moventi di questi. Tutti i protagonisti di<br />

Sovversivi sono o diventano essi stessi “sovversivi”, in quanto, per volontà<br />

o per necessità, devono sovvertire il loro precedente ordine esistenziale,<br />

devono chiudere la loro precedente esperienza vitale anche se non sempre<br />

sanno quale sarà lo sbocco di quella che stanno per intraprendere. Il<br />

linguaggio e il racconto filmico sono ancora di stampo prevalentemente<br />

realistico, tuttavia includono anche dei risvolti simbolici; i funerali di<br />

Togliatti, ad esempio, assumono nel film una triplice funzione e un triplice<br />

significato: in primo luogo sono quello che erano stati, un fatto storico<br />

esattamente datato, ripreso in quanto tale come pretesto narrativo; quindi<br />

divengono, nel dispiegarsi <strong>del</strong>la narrazione stessa, l’occasione, lo stimolo<br />

intellettuale e affettivo, che mette i diversi personaggi nella condizione<br />

di dover scegliere; inoltre acquisiscono, in ciò prefigurando l’itinerario<br />

umano dei diversi personaggi, la parvenza simbolica di una fase di<br />

passaggio, il passaggio dal comunismo italiano <strong>del</strong> dopoguerra, appunto<br />

il comunismo togliattiano, a un’altra forma di comunismo di cui peraltro<br />

ancora non si conoscono gli elementi peculiari e gli sviluppi storici. Non<br />

solo: la morte di Togliatti, comportante la perdita, ancora una volta reale<br />

e simbolica, <strong>del</strong> capo carismatico, <strong>del</strong> “padre” che lascia i suoi figli come<br />

“gattini ciechi”, proprio per il modo in cui viene mostrata e “discussa” nel<br />

film, non è soltanto un fatto tragico, recante dolore e lutto; è anche presentata<br />

come un’opportunità per ripensare il proprio passato, per imparare<br />

a fare a meno <strong>del</strong>l’autorità e <strong>del</strong>la guida “paterna” dimostrandosi davvero<br />

adulti, davvero capaci di assumere le proprie responsabilità, di scegliere<br />

autonomamente la propria strada, che può benissimo essere la strada<br />

di molti, se molti ne condividono la meta. In Sovversivi, intorno al tema<br />

centrale <strong>del</strong>la crisi <strong>del</strong> comunismo italiano, colta soprattutto nella crisi di<br />

alcuni militanti comunisti afflitti anche, come si è accennato, da malesseri<br />

<strong>del</strong> tutto soggettivi, <strong>del</strong> tutto compresi nella sfera <strong>del</strong> privato e <strong>del</strong>la psicologia,<br />

ne ruotano altri, tra cui quello, complesso e controverso, <strong>del</strong>la<br />

“creazione artistica”, che i Taviani trattano, in una chiave ancora coerentemente<br />

e discretamente autobiografica, con precisione espressiva e<br />

coscienza metalinguistica.<br />

Opera aperta e problematica, revisionista nel senso più appropriato e<br />

incisivo <strong>del</strong> termine, Sovversivi – proprio perché è bene innervata nella<br />

contemporaneità, proprio perché riesce a implicare e capire lo spirito <strong>del</strong><br />

tempo – si fa anche portatrice di futuro. Questo traspare, nel modo più<br />

43


BRUNO TORRI<br />

netto e convincente, dalle parole e dagli atti <strong>del</strong> più giovane dei protagonisti:<br />

un personaggio che, per il suo radicale dissenso nei confronti <strong>del</strong>l’esistente,<br />

per la sua impazienza, per il suo estremismo, insomma per le sue<br />

personali “esagerazioni”, sembra preannunciare molto di quel grande<br />

evento sociale e storico che di lì a poco, nel cruciale anno 1968, sarà conosciuto<br />

– in Italia e nel mondo – con l’appellativo di “contestazione globale”,<br />

e che comporterà una carica di emancipazione assieme a rischi degenerativi.<br />

Per alcuni aspetti contenutistici, Sovversivi è avvicinabile a Sotto il<br />

segno <strong>del</strong>lo Scorpione, il film successivo girato da Paolo e Vittorio Taviani<br />

nel 1969, che tuttavia è, anche questa volta, molto diverso dagli altri che<br />

lo hanno preceduto, tanto da segnare una svolta importantissima nella loro<br />

filmografia. La strutturazione espositiva e la cifra stilistica rendono Sotto<br />

il segno <strong>del</strong>lo Scorpione un’opera tanto originale quanto avanzata. Raggiunta<br />

ormai la maturità espressiva, i Taviani riprendono il confronto con<br />

la realtà coeva da una posizione più distaccata per puntare a un maggiore<br />

spessore discorsivo, senza più ricorrere alla testimonianza partecipe,<br />

all’autobiografismo indiretto, alla verosimiglianza realistica ravvisabili in<br />

Sovversivi. Al contrario, Sotto il segno <strong>del</strong>lo Scorpione si affida interamente<br />

ai linguaggi traslati; è una favola politica, o se si preferisce, un apologo<br />

politico tutto racchiuso in un metaforico spazio estetico, il cui senso ultimo,<br />

più interrogativo che assertivo, va letto tra le righe, anche se non mancano<br />

scoperti richiami all’attualità. Così il film, in armonia con i propri<br />

presupposti artistici e con le proprie intenzioni comunicative, non esalta<br />

bensì “raffredda” in un ragionato artificio formale i requisiti ideologici che<br />

pure lo sostanziano. Gli autori, per meglio creare un film politico idoneo<br />

anche ad alimentare la discussione politica interna alla sinistra, hanno<br />

voluto evitare qualsiasi sacrificio artistico, nella consapevolezza che il<br />

“<strong>cinema</strong> politico” non deve mai sottintendere una preponderanza <strong>del</strong>l’aggettivo<br />

sul sostantivo, pena altrimenti di fare <strong>del</strong> cattivo <strong>cinema</strong> e, insieme,<br />

<strong>del</strong>la cattiva politica. Inoltre, l’intendimento di risarcire compiutamente<br />

le potenzialità artistiche <strong>del</strong> linguaggio <strong>cinema</strong>tografico ha anche<br />

evitato il pericolo di ridurre alla sola dimensione <strong>del</strong>la politica le molteplici<br />

dimensioni <strong>del</strong>l’umano. E infatti, puntando tutte le loro carte sulla<br />

riuscita estetica, Paolo e Vittorio Taviani riescono a realizzare un’opera<br />

ricca di contenuti, lasciandovi permanere un margine di positiva ambiguità;<br />

un’opera che si apre, in virtù <strong>del</strong>la sua calibrata costruzione metaforica,<br />

a una pluralità di interpretazioni.<br />

Ambientata in un tempo e in un luogo preistorici, la vicenda narrata<br />

in Sotto il segno <strong>del</strong>lo Scorpione mette a confronto e, nello stesso tempo,<br />

sollecita la riflessione su due diversi modi di pensare e di vivere la rivoluzione.<br />

Nel film si avverte l’eco <strong>del</strong> dibattito ideologico allora in corso: l’opposizione<br />

dialettica tra chi propugna la prassi rivoluzionaria come palin-<br />

44<br />

IL “NUOVO CINEMA” DI PAOLO E VITTORIO TAVIANI<br />

genetica realizzazione <strong>del</strong>l’utopia, come definitiva liberazione <strong>del</strong>l’umanità<br />

dal peso <strong>del</strong>la Storia (anche se nel film la Storia trapela come Natura,<br />

una natura ostile), e chi ritiene, con atteggiamento più realistico ma anche<br />

più compromissorio, che la rivoluzione può essere solo parziale, resta sempre<br />

incompiuta, e dunque bisogna sapersi fermare per salvaguardare quel<br />

tanto, o poco, che è stato conquistato. L’alternativa posta dal film, sempre<br />

con riferimento schematico alla realtà e agli scontri politici di quegli anni,<br />

rimanda a quella tra la sinistra istituzionale, parlamentare, e la nuova sinistra,<br />

quest’ultima considerata non soltanto nelle sue enunciazioni teoriche<br />

ma anche nelle sue manifestazioni esteriori, e specialmente nelle nuove<br />

forme di lotta <strong>del</strong> movimento studentesco. Le due piccole comunità primordiali<br />

che nel film si fronteggiano raffigurano emblematicamente queste<br />

due diverse concezioni rivoluzionarie; e dalla loro conflittualità, dapprima<br />

solo verbale poi cruenta, traspare anche un discorso, di taglio etico<br />

oltre che politico, sulla violenza <strong>del</strong> potere e sul potere <strong>del</strong>la violenza, con<br />

tutte le ricadute esistenziali su chi il potere stesso esercita o subisce. Più<br />

in particolare, e sempre per il tramite <strong>del</strong>l’apologo e <strong>del</strong>la metafora, Sotto<br />

il segno <strong>del</strong>lo Scorpione mette in scena, ricorrendo anche a tecniche stranianti<br />

nella recitazione e nella gestualità degli attori, i comportamenti politici<br />

dei nuovi soggetti politici: l’“assemblearismo”, le “provocazioni”, l’uso<br />

“terroristico” <strong>del</strong>le parole, la purezza <strong>del</strong>le aspirazioni e (a volte) il cinismo<br />

<strong>del</strong>le azioni, la “spettacolarizzazione” <strong>del</strong>la politica stessa. Di conseguenza<br />

il film, la cui gestazione risale al 1967 (e quindi conferma le intuizioni<br />

anticipatrici rintracciabili in molto <strong>cinema</strong> dei Taviani) si pone anche<br />

come un’inedita rappresentazione dei miti e dei riti <strong>del</strong>la Contestazione,<br />

che gli stessi autori non intendono documentare direttamente o raccontare<br />

in chiave realistica, ma alla quale, con il loro speciale codice artistico,<br />

alludono con chiarezza, scartando e l’assunzione di una visione pregiudiziale<br />

e il pronunciamento di un giudizio conclusivo, lasciando così allo<br />

spettatore, disposto all’attività ermeneutica, la possibilità di rielaborarne<br />

uno proprio.<br />

Pur essendo, per le sue opzioni e per le sue soluzioni formali, un’opera<br />

<strong>del</strong> tutto eccentrica, oltre che <strong>del</strong> tutto risolta sul piano <strong>del</strong>l’innovazione<br />

stilistica e <strong>del</strong>la densità espressiva, Sotto il segno <strong>del</strong>lo Scorpione permette<br />

di individuare il metodo operativo e i fattori compositivi che più<br />

contraddistinguono il <strong>cinema</strong> dei Taviani, in particolare quello degli anni<br />

sessanta e <strong>del</strong> decennio successivo. Metodo e fattori che possono essere<br />

sintetizzati, contestualmente, nei punti seguenti: la valorizzazione di ogni<br />

specificità <strong>del</strong> mezzo espressivo; la preferenza per le tematiche ideologico-politiche<br />

calate, oltre che nel sociale, nell’interiorità dei personaggi;<br />

l’inclinazione a narrare le tensioni e le contraddizioni <strong>del</strong> presente; la tendenza<br />

a fondere le categorie <strong>del</strong> reale e <strong>del</strong> fantastico, sia a fini estetici, sia<br />

per aumentare le implicazioni critico-conoscitive dei film; l’attivazione di<br />

45


BRUNO TORRI<br />

una dialettica interna alle opere, che non concerne soltanto la trattazione<br />

dei temi prescelti, ma anche il rapporto tra le diverse componenti espressive,<br />

ad esempio tra le immagini e il sonoro, e che rende le opere stesse<br />

più polisemiche e più problematiche, dunque più rispettose <strong>del</strong>le facoltà<br />

critiche degli spettatori. I quattro film realizzati da Paolo e Vittorio Taviani<br />

negli anni sessanta hanno costituito un cospicuo contributo all’affermazione<br />

di un “<strong>nuovo</strong> <strong>cinema</strong>” italiano, hanno dato agli stessi autori un<br />

meritato prestigio, anche in campo <strong>internazionale</strong>, e hanno determinato il<br />

pieno sviluppo <strong>del</strong>la loro personalità artistica, così da consentire, nel 1971,<br />

la realizzazione di San Michele aveva un gallo, il loro capolavoro.<br />

46


STRUMENTI


FILMOGRAFIA<br />

a cura di Sergio Di Lino<br />

1962 – UN UOMO DA BRUCIARE<br />

Regia: Paolo e Vittorio Taviani, Valentino Orsini; soggetto e sceneggiatura: Paolo e Vittorio<br />

Taviani, Valentino Orsini; fotografia: Toni Secchi; montaggio: Lionello Massobrio;<br />

scenografia: Piero Paletto; musiche: Gianfranco Intra; interpreti: Gian Maria Volonté (Salvatore),<br />

Didi Perego (Barbara), Spyros Focas (Jachino), Lydia Alfonsi, Marina Malfatti,<br />

Vittorio Duse, Alessandro Sperlì, Marcella Rovena, Giampaolo Serra, Alfonso D’Errico,<br />

Turi Ferro, Ignazio Roberto Daidone, Franco Facciolo, Giulio Girola, Renato Montalbano,<br />

Ida Carrara, Giuseppe Lo Presti, Pierluigi Manetti, Vanni Tumminello, Vincenzo<br />

Tumminello, Carmen Villani; produzione: Giuliani G. De Negri e Henryck Chrorscicki<br />

per Ager Film, Sancro Film e Cinematografica (Italia); origine: Italia; durata: 92’.<br />

1963 – I FUORILEGGE DEL MATRIMONIO<br />

Regia: Paolo e Vittorio Taviani, Valentino Orsini; soggetto: Lucio Battistrada, Giuliani<br />

G. De Negri, Renato Nicolai, Valentino Orsini, Paolo e Vittorio Taviani, ispirato alla<br />

proposta di legge sul “piccolo divorzio” <strong>del</strong> Senatore Luigi Renato Sansone; sceneggiatura:<br />

Lucio Battistrada, Giuliani G. De Negri, Renato Nicolai, Valentino Orsini, Paolo<br />

e Vittorio Taviani; fotografia: Erico Menczer; montaggio: Lionello Massobrio; scenografia:<br />

Lina Nerli Taviani; costumi: Lina Nerli Taviani; musiche: Giovanni Fusco; interpreti:<br />

Ugo Tognazzi (Vasco), Annie Girardot (Margherita), Romolo Valli (Francesco), Marina<br />

Malfatti (Rosanna), Scilla Gabel (Wilma), Isa Crescenzi (Giulia), Didi Perego (Caterina),<br />

Gabriella Giorgelli, Renato Nicolai, Giuseppe Lo Presti, Enzo Robutti, Luigi Scavran,<br />

Giampaolo Serra, Lionello Zanchi, Nando Angelini, Carlo Maria Badini, Armando<br />

Bertuccelli, Emy Eco, Franca Lumachi, Alberto Masini, Ghilka Matteuzzi,<br />

Mariangela Matteuzzi, Riccardo Ricci, Fleano Serra, Sandro Vignocchi; produzione: Giuliani<br />

G. De Negri per Ager Film, Film Coop e D’Errico Film (Italia); distribuzione:<br />

Cidif; origine: Italia; durata: 100’.<br />

1967 – SOVVERSIVI<br />

Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto e sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani; fotografia:<br />

Gianni Narzisi, Giuseppe Ruzzolini; montaggio: Franco Taviani; scenografia: Lina<br />

Nerli Taviani; costumi: Lina Nerli Taviani; musiche: Giovanni Fusco; interpreti: Giulio<br />

339


FILMOGRAFIA<br />

Brogi (Ettore), Marija Tocinowski (Giulia), Lucio Dalla (Ermanno), Pier Paolo Capponi<br />

(Muzio), Ferruccio De Ceresa (Ludovico), Giorgio Arlorio (Sebastiano), Fabienne Fabre<br />

(Giovanna), Lidija Jurakic (Paola), Filippo De Luigi, Nando Angelini, Barbara Pilavin,<br />

Maria Cumani Quasimodo, Raffaele Triggia, José Torres, Feodor Chaliapin; produzione:<br />

Giuliani G. De Negri per Ager Film (Italia); distribuzione: Cidif; origine: Italia; durata:<br />

110’.<br />

1969 – SOTTO IL SEGNO DELLO SCORPIONE<br />

Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto e sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani; fotografia:<br />

Giuseppe Pinori; montaggio: Roberto Perpignani; scenografia: Gianni Sbarra; costumi:<br />

Lina Nerli Taviani; musiche: Vittorio Gelmetti; interpreti: Gian Maria Volonté (Renno),<br />

Lucia Bosè (Glaia), Giulio Brogi (Rutolo), Samy Pavel (Taleno), Daniele Dublino<br />

(Femio), Steffen Zacharias (Il vecchio isolano), Saro Liotta, Sergio De Vecchi, Giuseppe<br />

Scarcella, Alessandro Haber, Massimo Castri, Giuliano Disperati, Renato Scarpa, Bruno<br />

Cattaneo, Olimpia Carlisi, Milvia Deanna Frosini, Claudia Rittore, Laura De Marchi, Piera<br />

Degli Esposti, Anita Saxe, Caterina Altieri, Stefano Guerrieri, Antonio Cataldi, Luciano<br />

Odorisio, Napoleone Bizzarri, Vito Rocca, Biagio Pelligra, Marcello Di Martire, Antonio<br />

Piovanelli, Giovanni Brusatori, Maggiorino Porta, Maria Teresa Piaggio; produzione:<br />

Giuliani G. De Negri per Ager Film (Italia) e Rai Radiotelevisione Italiana; distribuzione:<br />

Cidif; origine: Italia; durata: 100’.<br />

1971 – SAN MICHELE AVEVA UN GALLO<br />

Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto: Paolo e Vittorio Taviani, liberamente ispirato al<br />

racconto Il divino e l’umano di Lev Tolstoj; sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani; fotografia:<br />

Mario Masini; montaggio: Roberto Perpignani; scenografia: Gianni Sbarra; costumi:<br />

Lina Nerli Taviani; musiche: Benedetto Ghiglia; interpreti: Giulio Brogi (Giulio Manieri),<br />

Daniele Dublino (Il carceriere), Renato Cestiè (Giulio Bambino), Vito Cipolla, Virginia<br />

Ciuffini, Marcello Di Martire, Vittorio Fanfoni, Francesco Sanvilli, Giuseppe Scarcella,<br />

Renato Scarpa, Sergio Serafini; produzione: Giuliani G. De Negri per Ager Film e<br />

Rai-tv (Italia); distribuzione: Cidif; origine: Italia; durata: 90’.<br />

1974 – ALLONSANFAN<br />

Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto e sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani; fotografia:<br />

Giuseppe Ruzzolini; montaggio: Roberto Perpignani; scenografia: Gianni Sbarra;<br />

costumi: Lina Nerli Taviani; musiche: Ennio Morricone; interpreti e personaggi: Marcello<br />

Mastroianni (Fulvio), Lea Massari (Charlotte), Mimsy Farmer (Francesca), Laura Betti<br />

(Esther), Claudio Cassinelli (Lionello), Bruno Cirino (Tito), Benjamin Lev (Vanni), Luisa<br />

De Santis (Fiorella), Ermanno Taviani (Massimiliano), Renato De Carmine (Costantino),<br />

Alderice Casali (La governante), Stanko Molnar (Allosanfan), Biagio Pelligra (Il prete),<br />

Michael Berger, Raul Cabrera, Roberto Frau, Cirylle Spiga, Francesca Taviani, Stavros<br />

Tornes, Pier Giovanni Anchisi, Luis La Torre, Carla Mancini, Bruna Rigetti; produzione:<br />

Giuliani G. De Negri per “Una cooperativa <strong>cinema</strong>tografica” (Italia); distribuzione:<br />

Istituto Luce – Italnoleggio Cinematografico; origine: Italia; durata: 115’.<br />

1977 – PADRE PADRONE<br />

Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto: Paolo e Vittorio Taviani, dall’omonimo romanzo<br />

di Gavino Ledda; sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani; fotografia: Mario Masini;<br />

montaggio: Roberto Perpignani; scenografia: Gianni Sbarra; costumi: Lina Nerli Taviani;<br />

musiche: Egisto Macchi; interpreti: Saverio Marconi (Gavino ragazzo), Omero Antonutti<br />

(Padre di Gavino), Marcella Michelangeli (Madre di Gavino), Fabrizio Forte (Gavino bambino),<br />

Marino Cenna (Il pastore), Stanko Molnar (Sebastiano), Nanni Moretti (Cesare),<br />

340<br />

FILMOGRAFIA<br />

Gavino Ledda (Se stesso), Pierluigi Alvau, Giuseppino Angioni, Fabio Angioni, Giuseppe<br />

Brandino, Mario Cheri, Giuseppe Chessa Perle, Domenico Deriu, Pier Paolo Fauli,<br />

Mario Fulghesu, Antonio Garrucciu, Patrizia Giannichedda, Roberto Giannichedda,<br />

Vincenzo Giannichedda, Pietro Giordo, Antonello Gloriani, Costanzo Mela, Domenico<br />

Moranti, Luigi Muntoni, Giuseppina Perantoni, Cristina Piazza, Matteo Piu, Maria<br />

Immacolata Porcu, Cosimo Rodio, Marco Sanna, Stefano Satta, Mario Spissu, Salvatore<br />

Stangoli, Marco Unali; produzione: Giuliani G. De Negri per Cinema S.r.L., Rai Rete 2<br />

(Italia); distribuzione: Cidif; origine: Italia; durata: 117’.<br />

1979 – IL PRATO<br />

Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto e sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani; fotografia:<br />

Franco Di Giacomo; montaggio: Roberto Perpignani; scenografia: Gianni Sbarra;<br />

costumi: Lina Nerli Taviani, Renato Ventura; musiche: Ennio Morricone; interpreti: Saverio<br />

Marconi (Giovanni), Isabella Rossellini (Eugenia), Michele Placido (Enzo), Giulio Brogi<br />

(Sergio, papà di Giovanni), Angela Goodwin (Giuliana, mamma di Giovanni), Remo<br />

Remotti, Ermanno Taviani, Mirio Gui<strong>del</strong>li, Giuseppe Rocca, Francesca Taviani, Maria<br />

Toesca, Alessandra Toesca, Giovanni Bacciottini, Giacomo Pardini, Massimo Bertolaccini;<br />

produzione: Giuliani G. De Negri per Rai Radiotelevisione Italiana e Filmtre S.r.L.<br />

(Italia); distribuzione: Cidif; origine: Italia, 1979; durata: 118’.<br />

1982 – LA NOTTE DI SAN LORENZO<br />

Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto: Paolo e Vittorio Taviani; sceneggiatura: Paolo e<br />

Vittorio Taviani e Giuliani G. De Negri, con la collaborazione di Tonino Guerra; fotografia:<br />

Franco Di Giacomo; montaggio: Roberto Perpignani; scenografia: Gianni Sbarra;<br />

costumi: Lina Nerli Taviani; musiche: Nicola Piovani; interpreti: Omero Antonutti (Galvano),<br />

Claudio Bigagli (Corrado), Massimo Bonetti (Nicola), Dario Cantarelli (Il prete),<br />

Sergio Dagliana (Olinto), Giuseppe Furia (Requiem), Paolo Hen<strong>del</strong> (Dilvo), Margarita<br />

Lozano (Concetta), Laura Mannucchi (Signora Naldini), Norma Martelli (Ivana), Rinaldo<br />

Mirannalti (Avvocato Migliorati), Enrica Maria Modugno (Mara), Mauro Monni (Dante),<br />

Franco Piacentini (Padre di Nicola), Donata Piacentini (Madre di Nicola), David Riondino<br />

(Giglioli), Massimo Sarchielli (Marmugi padre), Sabina Vannucchi (Rosanna), Antonio<br />

Prester (Tuminello), Gianfranco Salemi (Uomo nel bus), Mario Spallino (Bruno), Mirio<br />

Gui<strong>del</strong>li (Duilio), Titta Gui<strong>del</strong>li (Alfredina), Antonella Gui<strong>del</strong>li (Renata), Giovanni Gui<strong>del</strong>li<br />

(Marmugi figlio), Micol Gui<strong>del</strong>li (Cecilia), Miriam Gui<strong>del</strong>li (Bellindia), Samanta Boi<br />

(Rosanna bambina), Beatrice Bar<strong>del</strong>li (Donna in cantina), Marco Fastame (Gino), Edoardo<br />

Gazzetti (Egisto), Carlo Gensini (Ruggero), Vinicio Gioli (Padre di Bellindia), Andrea<br />

Giuntini (Gufo), Guido Marziali (Nardini), Gianfranco Moranti (Seminarista); produzione:<br />

Giuliani G. De Negri per Rai Radiotelevisione Italiana e Ager Cinematografica (Italia);<br />

distribuzione: Cidif; origine: Italia; durata: 105’.<br />

1984 – KAOS<br />

Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto: Paolo e Vittorio Taviani, liberamente tratto da<br />

Novelle per un anno di Luigi Piran<strong>del</strong>lo; sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani, Tonino<br />

Guerra; fotografia: Giuseppe Lanci; montaggio: Roberto Perpignani; scenografia: Francesco<br />

Bronzi; costumi: Lina Nerli Taviani; musiche: Nicola Piovani; interpreti: Margarita<br />

Lozano (Madre), Orazio Torrisi (Cola Camizzi), Carlo Cartier (Giovane dottore), Claudio<br />

Bigagli (Batà), Enrica Maria Modugno (Isidora), Massimo Bonetti (Saro), Anna Malvica<br />

(Madre di Sidora), Ciccio Ingrassia (Don Lollò), Franco Franchi (Zi’ Dima), Biagio Barone<br />

(Salvatore), Laura Mollica (Figlia), Salvatore Rossi (Patriarca), Franco Scaldati (Padre<br />

Sarso), Pasquale Spadola (Barone), Omero Antonutti (Luigi Piran<strong>del</strong>lo), Regina Bianchi<br />

(Madre di Piran<strong>del</strong>lo), Laura De Marchi (Nonna di Piran<strong>del</strong>lo giovane), Giovanna Tavia-<br />

341


FILMOGRAFIA<br />

ni (Madre di Piran<strong>del</strong>lo bambina), Giovanni Blandino, Veronica Campo, Giovanni Catania,<br />

Danilo Corasanti, Saro Di Martino, Lorenzo Randisi, Enzo Rizza, Enzo Alessi, Maria<br />

Lo Sardo, Matilde Piana, Maria Teresa Di Fede, Giovanni Marsala, Enzo Gambino, Angelo<br />

Mezzasalma, Giuseppe Sorge, Domenica Gennaro, Salvatore Mignosi, Toni Sperandeo,<br />

Claudio Gazziano, Fernando Jelo, Giorgio Gurrieri, Valentina Taviani, Giuliano<br />

Taviani, Frida Terranova, Maria Terranova, Bartolo Vindigni, Nello Accardi, Sabrina Belfiore,<br />

Marcello Bruno, Daniele Chessari, Salvatore Chessari, Maddalena De Panfilis,<br />

Maria Lauretta, Giuseppe Meli, Francesco Nicolosi, Silvana Puglisi, Giovanni Scivoletto,<br />

Tania Vicari; produzione: Giuliani G. De Negri per Rai Radiotelevisione Italiana e Filmtre<br />

s.r.l. (Italia); distribuzione: Sacis; origine: Italia; durata: 190’ (versione televisiva) – 140’<br />

(versione <strong>cinema</strong>tografica).<br />

1987 – GOOD MORNING BABILONIA<br />

Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto: Paolo e Vittorio Taviani, da un’idea di Lloyd<br />

Fonvielle; sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani, con la collaborazione di Tonino Guerra;<br />

fotografia: Giuseppe Lanci; montaggio: Roberto Perpignani; scenografia: Gianni Sbarra;<br />

costumi: Lina Nerli Taviani; musiche: Nicola Piovani; interpreti: Vincent Spano (Nicola),<br />

Joaquim De Almeida (Andrea), Greta Scacchi (Edna), Désirée Becker (Mabel), Omero<br />

Antonutti (Bonanno), Charles Dance (David Wark Griffith), Béreangère Bonvoisin<br />

(Mrs. Griffith), David Brandon (Grass), Brian Freilino (Thompson), Margarita Lozano (La<br />

veneziana), Massimo Venturiello (Duccio), Andrea Prodan (Operatore irlandese), Dorotea<br />

Ausenda, Ugo Bencini, Daniel Bosch, Renzo Cantini, Marco Cavicchioli, Fiorenza<br />

d’Alessandro, Lionello Pio Di Savoia, Maurizio Fardo, Domenico Fiore, Mirio Gui<strong>del</strong>li,<br />

John Francis Lane, Ubaldo Lo Presti, Luciano Macherelli, Sandro Mellegni, Elio Marconato,<br />

Michele Melega, Mauro Monni, Lamberto Petrecca, Diego Ribon, Antonio Russo,<br />

Giuseppe Scarcella, Leontine Snel, Egidio Termine, Francesco Tola, Pinon Toska;<br />

produzione: Giuliani G. De Negri per Filmtre Rai (Italia), MK2 Productions, Films A2<br />

(Francia), Edward Pressman Film Corporation (USA); distribuzione: Istituto Luce; origine:<br />

Italia; durata: 117’.<br />

1990 – IL SOLE ANCHE DI NOTTE<br />

Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto: Paolo e Vittorio Taviani, dal racconto Padre Sergio<br />

di Lev Tolstoj; sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani, con la collaborazione di Tonino<br />

Guerra; fotografia: Giuseppe Lanci; montaggio: Roberto Perpignani; scenografia:<br />

Gianni Sbarra; costumi: Lina Nerli Taviani; musiche: Nicola Piovani; interpreti: Julian<br />

Sands (Padre Sergio), Charlotte Gainsbourg (Matilda), Patricia Millardet (Aurelia), Rüdiger<br />

Vogler (Re Carlo III di Borbone), Margarita Lozano (madre di Sergio), Pamela Villoresi<br />

(Giuseppina), Massimo Bonetti (Principe Santobuono, aiutante di campo <strong>del</strong> Re),<br />

Nastassja Kinski (Cristina), Lorenzo Perpignani (Sergio bambino), Gaetano Sperandeo<br />

(Gesuino, brigante e padre <strong>del</strong> bambino muto), Geppy Gleijeses (Il vescovo), Sonia Gessner<br />

(Duchessa Del Carpio), Matilde Piana (La contadina), Vittorio Capotorto (Padre di<br />

Matilda), Riccardo Patrizio Perrotti (Duca Del Carpio), Salvatore Rossi (Eugenio), Teresa<br />

Brescianini (Concetta), Biagio Barone (Biagio), Ferdinando Murolo (Avvocato), Aleksander<br />

Mincer (Organista), Ubaldo Lo Presti (Ministro degli Interni), Carlo Luca De Ruggieri<br />

(Figlio di Gesuino), Maria Antonia Capotorto (Livia), Marco Di Stefano (Ufficiale in<br />

carrozza), Morena Turchi (Giuseppina bambina), Giovanni Cassinelli (Fratello di Cristina),<br />

Antonella Visini (Sorella di Cristina), Massimiliano Scarpa, Lucia Bastianini, Pino Patti,<br />

Francesco Ferrante, Mario Sandro De Luca, Peppe Bosone, Giovanni Fois, Carlo Di<br />

Maio, Fausto Lombardi, Dora Romano, Miana Merisi, Antonella Cocciante, Federica<br />

Paulillo, Ilaria Borrelli, Luigi Laurito, Agostino Belloni, Massimo Abate, Ezio Nandi,<br />

Giorgia Palombi, Tonino Maresca, Nicoletta Barberio, Daniele Lovecchio, Claudio<br />

342<br />

FILMOGRAFIA<br />

Lovecchio, Angela Fraccalvieri; produzione: Giuliani G. De Negri per Raiuno – Radiotelevisione<br />

Italiana e Filmtre s.r.l. (Italia), CAPOUL – INTERPOOL – SARA FILM (Francia),<br />

DIREKT FILM (Germania); distribuzione: SACIS; origine: Italia; durata: 113’.<br />

1993 – FIORILE<br />

Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto: Paolo e Vittorio Taviani; sceneggiatura: Paolo e<br />

Vittorio Taviani, Sandro Petraglia; fotografia: Giuseppe Lanci; montaggio: Roberto Perpignani;<br />

scenografia: Gianni Sbarra; costumi: Lina Nerli Taviani; musiche: Nicola Piovani;<br />

interpreti: Claudio Bigagli (Corrado/Alessandro), Galatea Ranzi (Elisabetta/Elisa),<br />

Michael Vartan (Jean/Massimo), Lino Capolicchio (Luigi), Costanze Engelbrecht (Juliette),<br />

Athina Cenci (Gina), Giovanni Gui<strong>del</strong>li (Elio), Norma Martelli (Livia), Pier Paolo<br />

Capponi (Duilio), Chiara Caselli (Chiara), Renato Carpentieri (Massimo anziano), Carlo<br />

Luca De Ruggieri (Renzo), Laurent Schilling (Il tenente), Fritz Mueller Schertz (Il professore),<br />

Laura Scarimbolo (Alfredina), Elisa Giani (Simona), Ciro Esposito (Emilio), Giovanni<br />

Cassinelli (Massimo bambino), Giancarlo Carboni (Nobile toscano), Sergio Dagliana<br />

(Vecchio contadino), Dominique Proust (Ufficiale), Mario Andrei (Tenente fascista),<br />

Massimo Grigò (Milite fascista), A<strong>del</strong>aide Foti (Vecchia contadina), Paul Muller (Inserviente),<br />

Massimo Tarducci (Lido), Massimo Salvianti (Fattore), Consuelo Ciatti (Contadina),<br />

Sergio Albelli (Giovane innamorato), Salvatore Corbi (Capo dei partigiani), Guido<br />

Cioli (Giovane partigiano), Juraj Chmel (Sacerdote), Marco Giorgetti (Capitano fascista),<br />

Andrea Kaemmerle (Partigiano), Riccardo Naldini (Partigiano), Elena D’Anna (Cameriera),<br />

Barbara Gai Barbieri (Giovane signora), Daniela Pini (Contadina Capponi), Riccardo<br />

Rombi (Contadino), Antonio Rugani (Avvocato), Folco Salani (Francese in acqua), Nicolò<br />

Chiaroni, Cecilia Vannini, Franco Millotti, Eli Siosopulos; produzione: Grazia Volpi per<br />

Filmtre s.r.l. – Gierre Film, con la collaborazione di Pentafilm (Italia), Florida Movies –<br />

La Sept (Francia), Roxy-Film – K.S.-Film (Germania), con la partecipazione di Canal+<br />

(Francia), e con il sostegno <strong>del</strong> fondo “Eurimages” <strong>del</strong> Consiglio d’Europa; distribuzione:<br />

Penta; origine: Italia; durata: 118’.<br />

1996 – LE AFFINITÀ ELETTIVE<br />

Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto: Paolo e Vittorio Taviani, dall’omonimo romanzo<br />

di J. W. Goethe; sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani; fotografia: Giuseppe Lanci;<br />

montaggio: Roberto Perpignani; scenografia: Gianni Sbarra; costumi: Lina Nerli Taviani;<br />

musiche: Carlo Crivelli; interpreti: Isabelle Huppert (Carlotta), Fabrizio Bentivoglio (Ottone),<br />

Jean-Hugues Anglade (Edoardo), Marie Gillain (Ottilia), Massimo Popolizio (Marchese),<br />

Laura Marinoni (Marchesa), Stefania Fuggetta (Agostina), Consuelo Ciatti (Governante),<br />

Massimo Grigò (Cameriera), A<strong>del</strong>aide Foti (Albergatrice), Giancarlo Carboni<br />

(Medico), Giancarlo Giannini (Voce narrante); produzione: Grazia Volpi per Filmtre-Gierre<br />

Film (Italia), in collaborazione con Rai Radiotelevisione Italiana, Florida Movies, France3<br />

Cinéma (Francia), con la partecipazione di Canal+ (Francia); distribuzione: Filmauro;<br />

origine: Italia; durata: 98’.<br />

1998 – TU RIDI<br />

Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto: Paolo e Vittorio Taviani, dalle novelle di Luigi<br />

Piran<strong>del</strong>lo; sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani; fotografia: Giuseppe Lanci; montaggio:<br />

Roberto Perpignani; scenografia: Gianni Sbarra; costumi: Lina Nerli Taviani; musiche:<br />

Nicola Piovani; interpreti: Antonio Albanese (Felice), Sabrina Ferilli (Nora), Luca<br />

Zingaretti (Migliori), Giuseppe Cederna (Rambaldi), Elena Ghiaurov (Marika), Dario<br />

Cantarelli (Il dottore), Piero De Silva (Collega di Felice), Turi Ferro (Ballarò), Lello Arena<br />

(Rocco), Steve Spedicato (Vincenzo), Orio Scaduto (Primo sequestratore), Ludovico<br />

Calderera (Secondo sequestratore), Roberto Fuzio (Terzo sequestratore), Luciano Virgilio,<br />

343


FILMOGRAFIA<br />

Roberto Nobile, Carmelo Carnemolla, Biancamaria D’Amato, Alessandra Costanzo,<br />

Filippo Dini, Andrea Di Casa, Riccardo Mosca, Gianluca Valenti, Frida Bruno, Nanà Torbica,<br />

Valentina Barresi, Elvira Anna Elena Feo, Donatella Furino, Maurilio Scaduto; produzione:<br />

Grazia Volpi per Filmtre s.r.l., in collaborazione con Dania Film, Rai – Cinemafiction<br />

(Italia); distribuzione: Istituto Luce; origine: Italia; durata: 99’.<br />

2001 – RESURREZIONE<br />

Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto: Paolo e Vittorio Taviani, dal romanzo omonimo<br />

di Lev Tolstoj; sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani; fotografia: Franco Di Giacomo;<br />

montaggio: Roberto Perpignani; scenografia: Lorenzo Baraldi; costumi: Lina Nerli<br />

Taviani; musiche: Nicola Piovani; interpreti: Stefania Rocca (Katiuˇsa), Timothy Peach<br />

(Principe Dimitri Neclyudov), Giulio Scarpati (Simonson), Marina Vlady (Zia Duchessa),<br />

Antonella Ponziani (Vera), Cecile Bois (Marietta), Marie Baumer, Eva Christian, Sonia<br />

Gessner, Giulia Lazzaroni, Michele Melega, Vania Vilers, Daniela Bakerova, Maria Barintova,<br />

Ian Bidlas, Imra Boraros, Vladmir Cech, Karol Chalik, Vlado Durdic, Hana Frejkrova,<br />

Milan Gargula, Jan Jirabeta, Vladimir Javorosky, Robert Jaskow, Zora Ulla Keslerova,<br />

Josef Kramar, Jana Krausova, Pavel Kriz, Martin Kubacak, Jan Kuzelka, Vit Marecek,<br />

Matej Matejka, Bara Milova, Stefan Misovich, Frantiˇsek Nemec, Pepa Nos, Zdnek<br />

Peckacek, Eni Rabova, Jhoanna Rezkova, Michal Rosen, Ja’n Sedal, Jiri Sieber, Hana Stedova,<br />

Vera Uzelakova, Peter Varga, Karel Zima, Jakub Zinduk; produzione: Grazia Volpi<br />

per Rai Fiction e Filmtre s.r.l. (Italia), Pampa Productions, France 2 (Francia), Bavaria<br />

Film (Germania); distribuzione: Rai Radiotelevisione Italiana, Rai Trade; origine: Italia;<br />

durata: 110’.<br />

2004 – LUISA SANFELICE<br />

Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto: Paolo e Vittorio Taviani, dal romanzo omonimo<br />

di Alexandre Dumas; sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani; fotografia: Franco Di<br />

Giacomo; montaggio: Roberto Perpignani; scenografia: Lorenzo Baraldi; costumi: Lina<br />

Nerli Taviani; musiche: Nicola Piovani; interpreti: Laetitia Casta (Luisa Sanfelice), Adriano<br />

Giannini (Salvato Palmieri), Cecilia Roth (Regina Carolina), Marie Baumer (Lady<br />

Hamilton), Emilio Solfrizzi (Re Ferdinando), Lello Arena (Pasquale De Simone), Linda<br />

Batista (Eleonora Pimentel), Mariano Rigillo (Luciano Sanfelice), Johannes Silberschneider<br />

(Lord Nelson), Margarita Lozano (Marga), Yari Gugliucci (Michele), Carmelo Gomez<br />

(Cardinale Ruffo), Jeany Vesberteloot (Championnet), Teresa Saponangelo (Assunta),<br />

Aketza Lopez (Granduca Francesco), Steffen Wink (Andreas Baker), Antonino Iuorio (Fra’<br />

Pacifico), Roberto Nobile (Conte Ascoli), Cristiana Capotondi (Maria Clementina), Lello<br />

Giulivo (Garat), Glauco Onorato (Carramanico), Mario Aterrano, Marcello Belotti, Carmine<br />

Borrino, Ludovico Caldarera, Ciro Capano, Carlo Damasco, Antonio D’Avino, Mitchel<br />

Dawson, Susi Del Giudice, Raffaele Esposito, Andrea Fiorillo, Emiliano Fittipaldi,<br />

Angelo Gullotti, Ferdinando Maddaloni, Bruno Marinelli, Giuseppe Mastrocinque, Giuseppe<br />

Miale, Adriano Mottola, Isabella Orsini, Ivan Polidoro, Ruben Rigillo, Andrea Ivan<br />

Refuto, Odoardo Trasmondi, Peter Aczel, Luiza Cernuskovà, Jozef Fila, Monika Fiserovà,<br />

Lubo Pavlovic, Lucia Srncovà, Frantisen Velecky; produzione: Grazia Volpi e Riccardo<br />

Tozzi per Rai Radiotelevisione Italiana, Ager3 e Cattleya (Italia), Victory Media<br />

Group, Pampa Production (Francia), con la collaborazione di France 2 e Alquimia Cinema;<br />

distribuzione: Rai Radiotelevisione Italiana; origine: Italia; durata: 181’.<br />

344


BIBLIOGRAFIA<br />

a cura di Chiara Polizzi<br />

MONOGRAFIE<br />

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Riccardo Ferrucci (a cura di), La bottega dei Taviani, La Casa Usher, Firenze, 1978.<br />

Vincenzo Camerini e Antonio Tarsi, Dialettica <strong>del</strong>l’utopia: il <strong>cinema</strong> di Paolo e Vittorio<br />

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Paris, 1974, pp. 230-235.<br />

Pascal Bonitzer, Allonsanfan, in Id., Le regard et la voix, Union Générale d’Editions,<br />

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Jean A. Gili, Paolo et Vittorio Taviani, in Id., Le cinéma italien, Union Générale d’Editions,<br />

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Lino Miccichè, Politica e arte dei fratelli Taviani, in «Avanti», 10/11/1978.<br />

Aldo Tassone, Parla il <strong>cinema</strong> italiano, Il Formichiere, Milano, 1980.<br />

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A<strong>del</strong>io Ferrero (a cura di), Storia <strong>del</strong> <strong>cinema</strong> italiano anni ‘70 e le nuove <strong>cinema</strong>tografie,<br />

Marsilio, Venezia, 1981, pp. 57-77.<br />

R.T. Witcombe, Peasant perspectives: Ermanno Olmi and the Taviani, in Id., The new<br />

italian <strong>cinema</strong>, Secker & Warburg, London, 1982, pp. 189-217.<br />

Gian Piero Brunetta, Paolo e Vittorio Taviani e Valentino Orsini, in Id., Storia <strong>del</strong> <strong>cinema</strong><br />

italiano. Dal 1945 agli anni ‘80, Editori Riuniti, Roma, 1982, pp. 675-681.<br />

Vito Attolini, La terza barca, i fratelli Taviani, in Id., Sotto il segno <strong>del</strong> film, <strong>cinema</strong> italiano<br />

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Guido Aristarco, Un ulteriore approccio a Brecht, in Id., L’utopia <strong>cinema</strong>tografica, Sellerio,<br />

Palermo, 1984, pp. 184-188.<br />

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Guido Aristarco (introduzione di) Salvatore Piscicelli (a cura di), “San Michele aveva<br />

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Paolo Taviani e Vittorio Taviani, “Eravamo un milione” – “Sovversivi”, in «Cinemasessanta»<br />

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Mino Argentieri (a cura di), Padre padrone, Cappelli, Bologna, 1977.<br />

Paolo Taviani e Vittorio Taviani, “Sotto il segno <strong>del</strong>lo Scorpione”; “Il prato”, ERI edizioni<br />

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Don Ranvaud (a cura di), Good Morning Babylon, Faber and Faber, London-Boston,<br />

1987.<br />

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Orsini e Paolo e Vittorio Taviani sul film “I fuorilegge <strong>del</strong> matrimonio”, in «Filmcritica»,<br />

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Sandro Zambretti, Splendori e miseria…. in «Cineforum», n. 37, settembre 1964, pp.<br />

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Dario Bazargan, “Luisa Sanfelice” Timido tentativo di buona televisione, in «Cinemavvenire.it».<br />

358

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