scarica documento - Mostra internazionale del nuovo cinema
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Sono davvero «utopisti ed esagerati» i fratelli Taviani, come li ha definiti<br />
Miccichè in un suo antico saggio? Sono «sovversivi» e «fuorilegge», come si<br />
chiede il libro giocando sul titolo di due loro film? E la loro carica trasgressiva<br />
e militante si è esaurita con la crisi <strong>del</strong>l’ideologia? O il loro <strong>cinema</strong> si è trasformato<br />
nel corso <strong>del</strong>la loro ormai lunga carriera? Sono tutte domande che si<br />
pone un libro dedicato a Paolo e Vittorio Taviani, due degli ultimi “maestri”<br />
<strong>del</strong> nostro <strong>cinema</strong>, due autori su cui è stato scritto molto e a cui sono state<br />
dedicate varie personali. Ma c’è senz’altro ancora uno spazio di riflessione su<br />
un <strong>cinema</strong> come il loro, che può essere letto con occhi sempre diversi, via via<br />
che passano gli anni, mutano le ideologie, si modificano gli approcci analitici.<br />
I film dei Taviani – è la tesi di fondo <strong>del</strong> volume – vanno rivisti con strumenti<br />
e metodi più moderni di quelli classici degli anni sessanta-settanta. È per questo<br />
che il <strong>cinema</strong> di Paolo e Vittorio Taviani è rivisitato da molteplici punti di<br />
vista, da studiosi di estrazione e di età diverse, ed anche con il supporto di una<br />
serie di testimonianze <strong>del</strong>la loro “squadra” tecnico artistica, quella che è stata<br />
definita una sorta di “bottega” rinascimentale. A dimostrazione di come il loro<br />
universo autoriale sia sempre ricco e stimolante, aperto a nuove riflessioni e<br />
interpretazioni.<br />
Il volume comprende saggi e interventi di: Antonio Albanese, Omero<br />
Antonutti, Lorenzo Baraldi, Sandro Bernardi, Giulio Brogi, Laura Buffoni,<br />
Cristina Bragaglia, Callisto Cosulich, Lorenzo Cuccu, Leonardo De<br />
Franceschi, Franco Di Giacomo, Adriano Giannini, Maria Fancelli, Virgilio<br />
Fantuzzi, Giulio Ferroni, Fabio Francione, Massimo Galimberti, Sebastiano<br />
Gesù, Jean Gili, Marco Giusti, Tonino Guerra, Matilde Hochkofler, Pasquale<br />
Iaccio, Tullio Kezich, Giuseppe Lanci, Margarita Lozano, Millicent Marcus,<br />
Lino Miccichè, Franco Monteleone, Lina Nerli Taviani, Guido Pappadà,<br />
Ivelise Perniola, Roberto Perpignani, Sandro Petraglia, Nicola Piovani, Farah<br />
Polato, Eugenio Premuda, Galatea Ranzi, Franco Ruffini, Rosa Maria<br />
Salvatore, Raffaella Setti, Robert Sklar, Pietro Toesca, Bruno Torri, Gaia<br />
Tridente, Grazia Volpi, Vito Zagarrio.<br />
In copertina: Paolo e Vittorio Taviani.<br />
Utopisti, esagerati<br />
Nuovo<strong>cinema</strong><br />
Utopisti, esagerati<br />
Il <strong>cinema</strong> di<br />
Paolo e Vittorio Taviani<br />
a cura di Vito Zagarrio<br />
Saggi Marsilio
SAGGI MARSILIO
NUOVOCINEMA/PESARO N. 57<br />
Quaderni <strong>del</strong>la <strong>Mostra</strong> Internazionale <strong>del</strong> Nuovo Cinema<br />
Collana diretta da Lino Miccichè
<strong>Mostra</strong> Internazionale <strong>del</strong> Nuovo Cinema<br />
UTOPISTI, ESAGERATI<br />
Il <strong>cinema</strong> di Paolo e Vittorio Taviani<br />
a cura di Vito Zagarrio<br />
Marsilio Editori
© 2004 BY MARSILIO EDITORI ® S.P.A. IN VENEZIA<br />
Il presente volume viene pubblicato in occasione <strong>del</strong> 18° Evento Speciale, manifestazione parallela<br />
alla 40ª <strong>Mostra</strong> Internazionale <strong>del</strong> Nuovo Cinema (Pesaro 25 giugno – 3 luglio 2004), organizzato<br />
in collaborazione con la Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia – Cineteca<br />
Nazionale.<br />
La redazione <strong>del</strong> volume è di Enrico Carocci, Ofelia Catanea e Barbara Maio.<br />
La <strong>Mostra</strong> Internazionale <strong>del</strong> Nuovo Cinema è stata realizzata con il contributo <strong>del</strong>la Direzione<br />
Generale Cinema – Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Regione Marche, Provincia<br />
di Pesaro e Urbino, Comune di Pesaro, Commissione Europea - Programma Media.<br />
7<br />
A Lino
INDICE<br />
11 Sovversivi e fuorilegge? Introduzione di Vito Zagarrio<br />
23 Gli “utopisti” e gli “esagerati” di Lino Miccichè<br />
39 Il “<strong>nuovo</strong> <strong>cinema</strong>” di Paolo e Vittorio Taviani di Bruno Torri<br />
Il <strong>cinema</strong> dei Taviani: ideologia e stile<br />
49 Lo stile come opposizione di Virgilio Fantuzzi<br />
68 L’utopia dei Taviani di Pietro M. Toesca<br />
74 Tra fondamentalismo e stile. I Taviani e l’ideologia<br />
di Callisto Cosulich<br />
Tecniche <strong>del</strong>la messa in scena<br />
85 Il funambolo può solo camminare. La regia<br />
di Eugenio Premuda<br />
102 All’origine <strong>del</strong> mito di fondazione. Il suono di Farah Polato<br />
112 Il piacere <strong>del</strong>la narrazione. I dialoghi di Raffaella Setti<br />
121 Partiture incompiute. La sceneggiatura di Ivelise Perniola<br />
Cinema & letteratura<br />
133 Il mito critico. Letteratura, simulacro, visione di Giulio Ferroni<br />
136 Siamo tutti figli di Tolstoj. I Taviani e le fonti letterarie<br />
di Cristina Bragaglia<br />
145 L’ispirazione goethiana di Maria Fancelli<br />
155 Piran<strong>del</strong>lo e la Sicilia di Sebastiano Gesù<br />
9
Cinema & Tv<br />
165 Diario di un esordio. “San Michele aveva un gallo” di Tullio Kezich<br />
172 La televisione secondo i Taviani di Franco Monteleone<br />
186 La “Resurrezione” dei Taviani di Lorenzo Cuccu<br />
196 Pubblicità d’autore. I caroselli dei Taviani di Marco Giusti<br />
Storia, psicanalisi, individuo<br />
201 L’utopia come momento <strong>del</strong>la verità. La presenza <strong>del</strong>la Storia<br />
di Pasquale Iaccio<br />
213 Il paesaggio non indifferente di Sandro Bernardi<br />
219 Documentario e memoria di Laura Buffoni<br />
231 La costanza <strong>del</strong> desiderio di Rosa Maria Salvatore<br />
Il teatro, l’attore<br />
249 Scene di teatro di Franco Ruffini<br />
256 Fra trasparenza e opacità. Il lavoro con gli attori di Leonardo De Franceschi<br />
264 Mastroianni e “Allonsanfan” di Matilde Hochkofler<br />
La fortuna critica all’estero<br />
271 L’accoglienza in Francia di Jean A. Gili<br />
279 L’accoglienza negli Stati Uniti di Robert Sklar<br />
286 Insegnare con il <strong>cinema</strong> dei Taviani di Millicent Marcus<br />
Il lavoro di gruppo<br />
297 Dalla “bottega” dei Taviani. Testimonianze<br />
a cura di Massimo Galimberti e Gaia Tridente<br />
Produzione: Grazia Volpi<br />
Sceneggiatura: Tonino Guerra, Sandro Petraglia<br />
Fotografia ed effetti speciali: Franco Di Giacomo, Giuseppe Lanci, Guido Pappadà<br />
Scenografia e costumi: Lorenzo Baraldi, Lina Nerli Taviani<br />
Montaggio: Roberto Perpignani (a cura di Fabio Francione)<br />
Musica: Nicola Piovani<br />
Attori: Antonio Albanese, Omero Antonutti, Giulio Brogi, Adriano Giannini ,<br />
Margarita Lozano, Galatea Ranzi<br />
Strumenti<br />
339 Filmografia a cura di Sergio Di Lino<br />
345 Bibliografia a cura di Chiara Polizzi<br />
INDICE<br />
10
VITO ZAGARRIO<br />
SOVVERSIVI E FUORILEGGE?<br />
Introduzione<br />
Mi è capitato più volte di introdurre i volumi editi in occasione <strong>del</strong>le<br />
manifestazioni – i convegni, le retrospettive, i festival – <strong>del</strong>la <strong>Mostra</strong> Internazionale<br />
<strong>del</strong> Nuovo Cinema. Mai con le emozioni contrastanti di questa<br />
volta. Da un lato il piacere di dedicare un libro e un “evento speciale” (il<br />
18mo di Pesaro) a Paolo e Vittorio Taviani: due degli ultimi maestri <strong>del</strong><br />
nostro <strong>cinema</strong>, che ho seguito da quando ero un giovanissimo spettatore<br />
guardandoli come miti e mo<strong>del</strong>li da imitare, due grandi cineasti che ho<br />
avuto l’onore di conoscere da vicino, di seguire a volte su un set o durante<br />
una lavorazione.<br />
Dall’altro lato il dispiacere per un altro maestro, Lino Miccichè, che<br />
non può essere <strong>del</strong>la partita. Lino, che ha scritto sui Taviani pagine “storiche”,<br />
e che avrebbe dovuto essere tra i protagonisti di questo volume,<br />
specie in un “evento speciale” che coincide con il quarantennale <strong>del</strong>la<br />
<strong>Mostra</strong> di Pesaro. A lui spettava di diritto l’intervista a Paolo e Vittorio,<br />
come di tradizione, un vis à vis tra un decano <strong>del</strong>la critica e i veterani <strong>del</strong><br />
“<strong>nuovo</strong> <strong>cinema</strong>”. Lino si è sentito male poche ore prima <strong>del</strong>l’appuntamento<br />
che aveva fissato con i due registi, e che ha dovuto disdire.<br />
Non abbiamo voluto sostituire quell’intervista e pubblichiamo, invece,<br />
un saggio di Miccichè sui Taviani che si intitola Gli “utopisti” e gli “esagerati”;<br />
titolo che non a caso ispira anche questo volume.<br />
Per una rilettura critica dei Taviani<br />
Ma veniamo al <strong>cinema</strong> dei Taviani e al taglio di questo libro loro dedicato.<br />
La prima impressione di fondo che emerge da questo lavoro di riflessione<br />
sui loro film – sia commissionando i saggi a studiosi di varia forma-<br />
11
VITO ZAGARRIO<br />
zione e di varie generazioni, sia valutando i risultati critici – è che i Taviani<br />
possano e debbano essere ri-letti, oggi, con occhi nuovi.<br />
Voglio dire che c’è una lettura acquisita <strong>del</strong> loro <strong>cinema</strong>, che è in parte<br />
responsabile <strong>del</strong>la loro fama, ma che rischia anche di ghettizzarli e di impedirne<br />
una lettura aggiornata agli anni duemila: è la lettura ideologica, che<br />
li presenta come degli “utopisti” in senso politico e sociale, come dei “rivoluzionari”<br />
o dei nostalgici di una rivoluzione mancata o perduta, come<br />
degli Autori “impegnati”, capifila di un <strong>cinema</strong> “civile”. Questa interpretazione<br />
è stata certamente valida, soprattutto in un contesto storico come<br />
quello degli anni sessanta e settanta, ma nel momento <strong>del</strong>la crisi <strong>del</strong>l’Ideologia<br />
degli anni ottanta e novanta ha forse impedito di seguire in modo<br />
corretto l’evoluzione <strong>del</strong>l’universo etico ed estetico dei fratelli Taviani,<br />
impedendone a volte una giusta valorizzazione.<br />
Ne è esempio il saggio di Robert Sklar, noto storico <strong>del</strong> <strong>cinema</strong> americano<br />
e mondiale, che ricostruendo successi e insuccessi dei Nostri negli<br />
Stati Uniti, tende a identificare la loro fortuna con la forza <strong>del</strong> loro impegno<br />
“militante”. In altre parole, i Taviani “sfondano” in America solo nel<br />
momento in cui un pubblico socialmente “impegnato” vede nei loro film<br />
un mo<strong>del</strong>lo mitico e un’alternativa “politica” alle meno utopiche atmosfere<br />
locali. “When the spirit of radical change returns to U.S. politics and<br />
culture – scrive Sklar – committed spectators will once again discover the<br />
significance of the Taviani’s achievement” 1 . Un meraviglioso auspicio (e<br />
<strong>del</strong> resto il saggio di Sklar è convincente), ma così facendo si rischia di<br />
semplificare la authorship – per restare nei termini <strong>del</strong> dibattito americano<br />
– dei Taviani. E si rischia, al tempo stesso di non capire i film <strong>del</strong>la maturità<br />
dei due registi, inconsapevolmente fissando un “primo tempo” e un<br />
“secondo tempo” <strong>del</strong>la loro visione <strong>del</strong> mondo e svalutando, in quest’ottica,<br />
i loro film più recenti. I Nostri funzionano, allora, soltanto quando<br />
sono “sovversivi” (come suona il loro titolo <strong>del</strong> ‘67) o “fuorilegge” (il gioco<br />
di parole è con I fuorilegge <strong>del</strong> matrimonio, ‘63, firmato insieme ad Orsini);<br />
quando propongono un’impossibile Utopia, quando si pongono fuori o<br />
contro un “Sistema” di marcusiana memoria, sia in termini di modi produttivi<br />
che in termini di modi linguistici. Ma non funzionano più quando<br />
accettano i meccanismi <strong>del</strong> mercato, o giocano coi codici dei generi o <strong>del</strong>la<br />
letteratura d’appendice; non funzionano quando le loro opere appaiono<br />
prive di “messaggi”, non più capaci, mutati i tempi, di graffiare e di aggredire,<br />
o semplicemente di proporre utopie, con la U maiuscola o con quella<br />
minuscola.<br />
Allora, sono davvero “utopisti ed esagerati” i fratelli Taviani, come li<br />
ha definiti Miccichè in quel suo antico saggio? Sono ancora, o sono mai<br />
stati, “sovversivi” e “fuorilegge”, oppure hanno accettato un “compromesso”<br />
con la vita e la politica? E la loro carica trasgressiva e militante si<br />
è esaurita con la crisi <strong>del</strong>l’ideologia, o il loro <strong>cinema</strong> si è trasformato nel<br />
12<br />
SOVVERSIVI E FUORILEGGE?<br />
corso <strong>del</strong>la loro ormai lunga carriera? Sono tutte domande lecite, ma sono<br />
convinto che i loro film vadano oggi rivisitati al di là dei vecchi dibattiti e<br />
dei vecchi schieramenti, applicando strumenti più adatti all’oggi; e magari<br />
al di là <strong>del</strong>le loro stesse dichiarazioni teoriche, malgrado loro stessi.<br />
Sui Taviani è stato scritto molto, sono state molte le occasioni di analisi<br />
dei loro film, varie le personali e le pubblicazioni; ma la sensazione è<br />
che ci sia senz’altro ancora uno spazio di riflessione su un <strong>cinema</strong> come il<br />
loro, che può essere letto con occhi sempre diversi, via via che passano gli<br />
anni, mutano le ideologie, si modificano gli approcci analitici. I film dei<br />
Taviani vanno rivisti con approcci e metodi più moderni – e funzionali alla<br />
complessità <strong>del</strong>l’universo contemporaneo – di quelli classici degli anni sessanta-settanta.<br />
Analizzare un film significa re-voir, propone Michel Marie: e “rivedere”<br />
significa vedere di <strong>nuovo</strong> in situazioni mutate, in mutati contesti,<br />
con differenti situazioni emotive e psicologiche, con diverse capacità e<br />
disponibilità analitiche. Si possono applicare al <strong>cinema</strong> dei Taviani metodi<br />
che sono più gettonati nel dibattito contemporaneo: tanto per fare degli<br />
esempi, <strong>cinema</strong> e psicanalisi, generi, gender, cultural studies, modi di produzione;<br />
poststrutturalismo, postmodernismo, attenzione all’elemento<br />
carnascialesco, a quello autoriflessivo, ecc.<br />
Provo a fare un esempio: gender. Sarebbe interessante analizzare, nella<br />
cornice dei women studies, il ruolo <strong>del</strong>le figure femminili nel <strong>cinema</strong> tavianeo:<br />
dalla figurina moderna di Marina Malfatti, ritratta con i modi <strong>del</strong>la<br />
nouvelle vague in Un uomo da bruciare a quella forte, antica, di Lucia Bosé<br />
in Sotto il segno <strong>del</strong>lo Scorpione; dalle donne ritratte con i toni <strong>del</strong>la contemporaneità<br />
in Fuorilegge e Sovversivi, a quelle “in costume” di Allonsanfan:<br />
la fascinosa Lea Massari, la seducente Mimsy Farmer, Laura Betti che<br />
rimanda sempre “ad altro”. La complessa femminilità di Isabella Rossellini<br />
nel Prato. Le star internazionali (Greta Scacchi, Nastassja Kinski, Isabelle<br />
Huppert, Laetitia Casta), e quelle nazionali (Stefania Rocca, Sabrina Ferilli).<br />
Le “caratteriste” (Didi Perego, Lydia Alfonsi, Enrica Maria Modugno),<br />
le molte donne <strong>del</strong> coro di La notte di San Lorenzo, con un cammeo <strong>del</strong>l’organizzatrice<br />
Grazia Volpi: come dire, la produzione al femminile. Margarita<br />
Lozano, personaggio carismatico ricorrente (La notte di San Lorenzo,<br />
Kaos, Good Morning Babilonia, Luisa Sanfelice); interprete di un femminino<br />
che mi piacerebbe mettere in gioco con alcuni suoi ruoli precedenti: ad<br />
esempio con la donna forte, la capofamiglia in Per un pugno di dollari, dove<br />
trova un altro personaggio tavianeo, Gian Maria Volonté…<br />
D’altra parte, ci sono molti elementi western nell’immaginario dei<br />
Taviani, nelle musiche (Allonsanfan musicata non a caso da Morricone),<br />
negli scontri di massa (ancora Allonsanfan), nei paesaggi (l’America di<br />
Good Morning Babilonia su tutti, ma anche Padre padrone, Kaos, Tu ridi);<br />
e persino in Un uomo da bruciare (Salvatore che sogna la sua morte, anche<br />
13
VITO ZAGARRIO<br />
qui musicata alla western da Gianfranco Intra). E allora il discorso porterebbe<br />
a rintracciare gli elementi <strong>del</strong> “genere” (hollywoodiano o non) all’interno<br />
<strong>del</strong> loro <strong>cinema</strong>: il cappa e spada, il road movie, il film carcerario, il<br />
melodramma, il feuilleton, persino il “film d’impegno civile” inteso come<br />
filone.<br />
Gli stessi due insiemi più tradizionali con cui si sono studiati i Taviani,<br />
“<strong>cinema</strong> & storia” e “<strong>cinema</strong> & letteratura”, possono essere revisionati<br />
con posizioni meno consuete. Si veda, a titolo indicativo, un libro che si<br />
occupa di storia, inserendola però nell’ambito dei cultural studies statunitensi:<br />
in Revisioning History. Film and the Construcion of a New Past,<br />
Robert Rosenstone cuce in un volume collettaneo (come è di moda tra gli<br />
studiosi americani) una serie di interventi su film disparati: da Distant Voices,<br />
Still Lives di Terence Davies a Walker di Alex Cox, da Hiroshima mon<br />
amour a Mississipi Burning. Ma vengono analizzati anche due film italiani:<br />
Dal polo all’equatore <strong>del</strong>la coppia Gianikian & Ricci-Lucchi, e La notte di<br />
San Lorenzo dei fratelli Taviani. Il saggio è affidato a Pierre Sorlin. 2 Anche<br />
per quanto riguarda la relazione con la fonte letteraria, si può spostare l’attenzione,<br />
oltre alle tradizioni alte, alle “pratiche basse”, al feuilleton, alla<br />
letteratura “popolare”, e spiegare così il matrimonio recente dei Taviani<br />
con la “fiction” televisiva, la loro apertura e il loro interesse verso un immaginario<br />
di massa, verso un pubblico “di profondità” (è un problema che<br />
si pone in questo volume, lavorando sul testo filmico, Lorenzo Cuccu<br />
quando affronta gli ultimi due, controversi, film televisivi).<br />
E perché non applicare ai Taviani le osservazioni di Bachtin sul carnevale,<br />
o quelle di Deleuze sulla voce fuori campo e sul continuum sonoro,<br />
o quelle di Stam e di Grande sull’autoriflessività?<br />
È per questo che il <strong>cinema</strong> di Paolo e Vittorio Taviani è rivisitato, in questo<br />
volume, da molteplici punti di vista, da studiosi di età culturale ed anagrafica<br />
diverse. Ci sono i testimoni <strong>del</strong> dibattito critico, quelli che hanno<br />
vissuto il fervore <strong>del</strong>la battaglia culturale, da Bruno Torri a Callisto<br />
Cosulich a Tullio Kezich (quest’ultimo testimone in diretta degli esordi dei<br />
Taviani in tv), da Pietro Toesca a Virgilio Fantuzzi. Ci sono gli studiosi che<br />
hanno seguito l’opera dei Taviani in Italia e all’estero, da Sandro Bernardi a<br />
Jean Gili. E ci sono critici, ricercatori, studiosi anche non specialisti di <strong>cinema</strong>,<br />
di varie generazioni che approfondiscono relazioni già note: <strong>cinema</strong> &<br />
televisione (Monteleone, Giusti), <strong>cinema</strong> & letteratura (Bragaglia, Ferroni,<br />
Fancelli), <strong>cinema</strong> & teatro (Ruffini), <strong>cinema</strong> & storia (Iaccio), o tentano<br />
approcci inediti: il rapporto con l’inconscio (Salvatore), tema fondamentale<br />
eppure ancora tutto da scoprire nei Taviani, oppure l’analisi <strong>del</strong>le tecniche<br />
<strong>del</strong>la messa in scena, come la sceneggiatura, il suono, i dialoghi (Perniola,<br />
Setti, Polato). In questo ambito, cruciale è l’analisi <strong>del</strong>la regia (qui il<br />
compito è affidato a Eugenio Premuda), un tema che mi sta particolarmente<br />
a cuore e su cui tornerò fra un attimo con più precisione.<br />
14<br />
SOVVERSIVI E FUORILEGGE?<br />
Il modo di produzione dei Taviani<br />
Ma anche l’analisi <strong>del</strong> “modo di produzione” è fondamentale, a maggior<br />
ragione per i Taviani, che vengono da una formazione marxista. Nel<br />
loro caso, infatti, si possono applicare le varie sfumature <strong>del</strong>la formula: il<br />
loro <strong>cinema</strong> si può inserire in un dibattito ideologico di ampio spettro,<br />
relativo al capitalismo contemporaneo, ma i loro film possono essere analizzati<br />
dal punto di vista dei finanziamenti, <strong>del</strong>le modalità con cui l’operazione<br />
produttiva è stata gestita, dei tipi di relazione tra costi e organizzazione<br />
<strong>del</strong>la produzione; e le loro “opere” possono essere analizzate alla<br />
luce <strong>del</strong> team produttivo e tecnico, dai collaboratori artistici alla tipologia<br />
di maestranze. Nel loro caso, il “modo di produzione” può essere inteso<br />
come interrelazione e mutua influenza tra il dato tecnico-artistico <strong>del</strong>la<br />
divisione professionale <strong>del</strong> lavoro e l’espressività autoriale, tra<br />
l’“apparato” <strong>cinema</strong>tografico e lo stile <strong>del</strong> film, oppure connotare un<br />
intero sistema industriale in una data epoca, il micro-sistema <strong>del</strong>la società<br />
o <strong>del</strong>l’industria <strong>cinema</strong>tografica italiane.<br />
Nei loro confronti, si può coniugare una riflessione sulle “professioni”<br />
e sui “mestieri” <strong>del</strong> <strong>cinema</strong> con l’analisi <strong>del</strong> fatto estetico e <strong>del</strong>la testualità<br />
filmica. La “tecnica”, per loro, può essere intesa in ampio modo, come<br />
analisi <strong>del</strong>le tecnologie, strumenti <strong>del</strong> “racconto” filmico, coniugata con<br />
l’espressività, vale a dire con lo stile, il segno riconoscibile, l’autorialità.<br />
Da qui la serie di testimonianze che ho deciso di pubblicare, interventi,<br />
contributi e ricordi <strong>del</strong>la loro “squadra” tecnico artistica, quella che è stata<br />
definita una sorta di “bottega” rinascimentale, un gruppo affiatato e irrinunciabile<br />
che è certamente co-autore <strong>del</strong> <strong>cinema</strong> di Paolo e Vittorio. Un<br />
esempio di storia orale utilissima a ricostruire un universo espressivo. Dare<br />
la parola a Grazia Volpi (prima organizzatrice e poi produttrice dei loro<br />
film), a Roberto Perpignani (montatore di tutti i loro film da Sotto il segno<br />
<strong>del</strong>lo Scorpione in poi), alla costumista (nonché moglie di Paolo) Lina Nerli<br />
Taviani, ai direttori <strong>del</strong>la fotografia Lanci e Di Giacomo, al musicista<br />
Nicola Piovani, ormai diventato personaggio di rilievo <strong>internazionale</strong>,<br />
ecc., vuol dire ricostruire quel mo<strong>del</strong>lo produttivo, quel team e quella<br />
“famiglia”.<br />
Un mo<strong>del</strong>lo di <strong>cinema</strong> “povero” che fa <strong>del</strong>l’esiguità <strong>del</strong>le risorse una<br />
sfida stilistica. Come negli scenari scarni di Sotto il segno <strong>del</strong>lo Scorpione,<br />
o nel set praticamente unico di San Michele. Anche quando, nel Prato,<br />
appare improvvisamente l’elicottero, si nota come lo sforzo produttivo sia<br />
ottimizzato: e così la scena finale di Giovanni morente in elicottero porta<br />
con sé anche altre inquadrature dall’alto, come quella aerea dei bambini<br />
– bella invenzione poetica – che danzano in fila verso il bosco al suono <strong>del</strong><br />
pifferaio magico. Ed è in questa prospettiva che Allonsafan può essere considerato<br />
un film “di svolta”, proprio se si analizza il salto distributivo che<br />
il “gruppo” fa in questo film, e che fa capire l’esigenza di spettacolo che i<br />
15
VITO ZAGARRIO<br />
Taviani accentuano rispetto alla loro stessa, innata, voglia di raccontare<br />
spettacolarmente.<br />
Elementi di stile<br />
E veniamo, partendo da questi campi lunghi dall’alto, ad alcune osservazioni<br />
sulla regia e sullo stile dei Taviani, che nella loro carriera hanno passato<br />
vari “periodi” e varie fasi, mutando a volte – come è naturale per qualsiasi<br />
artista – tono e registro, ma conservando sempre una decisa impronta<br />
personale e presentando tanti elementi ricorrenti, quasi una “firma” autoriale<br />
che rendono i loro film riconoscibili. Parlavo, ad esempio, di visioni<br />
dall’alto: ecco, i campi lunghi connotano il <strong>cinema</strong> dei Taviani, soprattutto<br />
nei loro primi film. Ricordo il bel piano sequenza <strong>del</strong>l’occupazione dei campi<br />
in Un uomo da bruciare, quando le masse si muovono con una coreografia<br />
di rara emozione, riprese dalla macchina fissa, appunto dall’alto. Oppure<br />
i campi lunghi e lunghissimi di Sotto il segno <strong>del</strong>lo Scorpione, crudi, a volte<br />
sgradevoli. Perché è un linguaggio filmico, quello dei Taviani, anti-televisivo<br />
anche quando i loro film sono finanziati o supportati dalla televisione.<br />
Il loro stile di regia passa da un impianto abbastanza classico, seppur<br />
venato di elementi di “modernità” (Un uomo da bruciare) alla nouvelle<br />
vague di Sovversivi, dalla sperimentazione pura e acompromissoria (Sotto il<br />
segno <strong>del</strong>lo Scorpione) alla svolta estetica di Allonsanfan, ideato per un pubblico<br />
più generalizzato; dallo stile crudo e autoreferenziale sino alla provocazione<br />
di Padre padrone e de Il prato alle fabulae di La notte di San Lorenzo<br />
e Kaos; e poi a una nuova svolta “<strong>internazionale</strong>”, verso un <strong>cinema</strong> che esca<br />
dal ghetto cinefilo per andare verso il grande pubblico e le grandi platee,<br />
anche televisive (da Good Morning Babilonia a Luisa Sanfelice).<br />
I Taviani sperimentano continuamente, anche quando sembrano strizzare<br />
l’occhio allo spettatore. Prendiamo ad esempio Allonsanfan, film<br />
“formalista” se lo si mette in relazione con le precedenti durezze (spesso,<br />
ad esempio, la macchina da presa indugia su orpelli, stucchi, colori, quasi<br />
a dichiarare un’estetica), e destinato al grande pubblico (vedi la scelta di<br />
Mastroianni al posto di Brogi), eppure pieno di “rotture” <strong>del</strong>lo stile classico<br />
<strong>del</strong>la messa in scena. Come indizio, cito un paio di sequenze: la prima<br />
è la cena di Fulvio, travestito da frate, a casa dei fratelli. Qui i Taviani rompono<br />
volutamente le regole <strong>del</strong>la grammatica filmica, giocando sui campi<br />
dei commensali escludendo il controcampo <strong>del</strong> protagonista; e creando<br />
così, grazie al montaggio, una geografia stridente di personaggi e di sentimenti.<br />
La seconda è la sequenza in cui Fulvio e Charlotte fuggono dalla<br />
casa paterna <strong>del</strong> protagonista, portandosi via l’altro Fulvio, il nipotino, su<br />
un calesse. Qui l’azione è raccontata in maniera sincopata, eliminando in<br />
ripresa e in montaggio gli snodi narrativi: il bambino visto in soggettiva,<br />
la mano che lo aiuta a salire, il carro che se ne va, ecc., ancora una volta<br />
spiazzando la percezione tradizionale <strong>del</strong>lo spettatore.<br />
16<br />
SOVVERSIVI E FUORILEGGE?<br />
I Taviani hanno poi <strong>del</strong>le vere e proprie “ossessioni” che popolano i<br />
loro film. Proverò qui ad elencarne qualcuna.<br />
Il doppio e il travestimento. Il <strong>cinema</strong> dei fratelli Taviani è spesso basato<br />
sul tema <strong>del</strong> “doppio”. Tema classicamente psicanalitico, il rapporto con<br />
l’“altro”, con un altro da sé che è spesso una proiezione <strong>del</strong>l’inconscio.<br />
Intanto i Taviani sono “doppi” per scelta, sono due fratelli (non gemelli<br />
come altri registi, i Frazzi ad esempio), ma specularmente si completano,<br />
agiscono all’unisono. Le loro inquadrature, girate alternatamente da uno<br />
dei due, costituiscono un unico insieme. Spesso, sul set, i registi integrano<br />
i ruoli: se uno è al combo (il controllo video) e ha la cuffia (per il controllo<br />
<strong>del</strong>la presa diretta), l’altro è vicino alla macchina da presa e agli attori, per<br />
dominare la scena da vicino. È fortemente autobiografica la storia dei due<br />
fratelli di Good Morning Babilonia, “artigiani” toscani che approdano al<br />
grande <strong>cinema</strong> conservando però quel gusto per la bottega rinascimentale.<br />
In una scena i due fratelli raccontano alle loro girlfriends la storia di<br />
quando, da bambini, l’improvvisa perdita di parità (uno dei due vince un<br />
coltello a una riffa) provoca la lite e il disastro: sembra una confessione dei<br />
“veri” fratelli Taviani sul loro bisogno di essere doppi, ma a pari dignità.<br />
Pena la fine <strong>del</strong> loro <strong>cinema</strong>.<br />
Doppie e ambigue sono le scelte dei personaggi dei loro film:<br />
Mastroianni non sa se mettersi o levarsi la giubba rossa dei rivoltosi, in<br />
Allonsanfan, perché non sa se la “rivoluzione” è riuscita o no, e muore nell’ambiguo<br />
gesto di una giacca infilata a metà. «Non è vero (…) allora è<br />
vero», continua a dire anche mentre sta per morire. E infatti il <strong>cinema</strong> dei<br />
Taviani è pieno di allusioni al vero-falso: «è tutto finto», dice Fulvio a proposito<br />
<strong>del</strong>l’impresa rivoluzionaria, finte sono le armi e finta è la convinzione<br />
politica. Il “tradimento” è d’altronde un altro leit motiv dei Taviani,<br />
da Allonsanfan (il continuo tradimento di Fulvio) a Luisa Sanfelice (l’involontario<br />
tradimento di Luisa).<br />
Brogi gioca col suo “doppio” per tutto il film, in San Michele aveva un<br />
gallo; dialoga con il suo alter ego, con il suo fantasma. In Luisa Sanfelice,<br />
molti anni dopo, le masse fe<strong>del</strong>i al re sono guidate da un “sosia” <strong>del</strong> principe,<br />
una sorta di “Kagemusha”.<br />
Il tema <strong>del</strong> doppio e <strong>del</strong>l’ambiguità slitta facilmente in quello <strong>del</strong> travestimento,<br />
<strong>del</strong>lo scambio d’abito, tema classico, <strong>del</strong> resto, <strong>del</strong> teatro e<br />
<strong>del</strong>la letteratura: vedi Plauto, Molière, Mozart-Da Ponte (Don Giovanni),<br />
Renoir (La regola <strong>del</strong> gioco). Un tema tipico <strong>del</strong>la commedia degli<br />
equivoci o <strong>del</strong> melodramma, ma anche un tema simbolico che ci riporta<br />
al Marx citato prima: penso a quando, nel primo libro <strong>del</strong> Capitale, Marx<br />
parla <strong>del</strong>le “maschere di carattere”. Ebbene, i film dei Taviani sono zeppi<br />
di travestimenti: in Allonsanfan Fulvio si traveste da frate per non farsi<br />
riconoscere dai fratelli, Lea Massari si traveste da uomo, i “fratelli” da<br />
cacciatori, e Lionello da gelataio. E sul lago Fulvio incontra un gruppo<br />
17
VITO ZAGARRIO<br />
mascherato da Carnevale (i dialoghi insistono sul tema <strong>del</strong>le “maschere”).<br />
Nel Prato, ovviamente, la maschera è il tema dominante, nel teatro<br />
di strada di Eugenia, nei travestimenti degli attori, ma anche nelle<br />
maschere sociali che i protagonisti portano. In Luisa Sanfelice (a dimostrazione<br />
di una linea coerente di sviluppo <strong>del</strong> <strong>cinema</strong> tavianeo), Luisa si<br />
traveste da suora per sfuggire alla morte, ma alla fine si fa riconoscere<br />
(come <strong>del</strong> resto Fulvio coi fratelli). E all’inizio <strong>del</strong> film un teatrino di corte<br />
impone il ricorso ad inquietanti maschere (anche stavolta simbolicamente<br />
“sociali”).<br />
In La notte di San Lorenzo la ragazza “scambia” i tedeschi per americani,<br />
anzi per “siciliani”, e i soldati nazisti appaiono, per un momento, travestiti<br />
da contadini isolani, che portano fazzoletti da braccianti e offrono<br />
pezzi di mito americano sotto vetro. È una visione in punto di morte, un’allucinazione,<br />
un sogno (il mito americano) ad occhi aperti.<br />
Il sogno (a occhi chiusi o aperti) e la febbre. A dimostrazione di una possibile<br />
lettura psicanalitica <strong>del</strong> <strong>cinema</strong> dei Taviani, i loro film sono quasi<br />
sempre “onirici”. C’è spesso un personaggio che “sogna” a occhi aperti:<br />
massimo esempio è il racconto di Allonsanfan, a tutt’oggi uno dei momenti<br />
più alti <strong>del</strong> loro <strong>cinema</strong>, che mente a Fulvio, coinvolgendolo in un sogno<br />
ad occhi spalancati (eyes wide shut). Sogna ad occhi aperti anche Salvatore<br />
in Un uomo da bruciare, quando pensa a Wilma e la figurina di lei si<br />
incarna in un intenso flash back; il quale sogna però anche ad occhi chiusi,<br />
quando mette in scena la sua morte, in una sequenza fortemente metalinguistica.<br />
Sognano ad occhi aperti i due fratelli di Good Morning, quando raccontano,<br />
in parallelo, il citato episodio infantile.<br />
Chi sogna è spesso in uno stato febbrile, ed ecco allora le tante “febbri”<br />
dei Taviani, che spesso sono metafore di una “febbre civile”, di un eroico<br />
furore contro un mondo offeso. Ha sempre la febbre Fulvio in Allonsanfan:<br />
all’inizio, quando viene catturato dai “fratelli sublimi”, e il film si apre alle<br />
sue “soggettive malate”; verso la fine, quando è ferito e si ritrova, suo malgrado,<br />
in viaggio verso il sud. Ha la febbre Giovanni nel Prato, malato di<br />
rabbia, ed anche Eugenia è febbricitante dopo lo spettacolo, tanto da dare<br />
a tutto il film il tono di un racconto visionario, raccontato in uno stato di<br />
trance. È stordito dalla stanchezza e dall’attacco di un avvoltoio anche uno<br />
dei due fratelli in Good Morning Babilonia, non a caso prima <strong>del</strong>l’incontro<br />
col treno e dunque col destino: anche qui un sonno comatoso che potrebbe<br />
far leggere come onirica tutta la parte americana.<br />
Ha la febbre Adriano Giannini, in Luisa Sanfelice, quando viene<br />
accolto, ferito, in casa <strong>del</strong>la protagonista, e galeotta è quella febbre, perché<br />
è l’incipit <strong>del</strong>la passione che travolgerà i due amanti.<br />
La passione e la sessualità. I Taviani sono appassionati e pasionari. Lo<br />
sono politicamente, nelle loro scene epiche (quella già descritta di Allon-<br />
18<br />
SOVVERSIVI E FUORILEGGE?<br />
sanfan, l’occupazione <strong>del</strong>le terre di Un uomo da bruciare, la straordinaria<br />
sequenza <strong>del</strong>l’esplosione in chiesa in La notte di San Lorenzo, ecc) ed utopiche.<br />
Ma lo sono anche nella rappresentazione <strong>del</strong>la sessualità: mi viene<br />
in mente su tutte quella corale di Padre padrone, che coinvolge umani ed<br />
animali; e poi il diffuso erotismo di La notte di San Lorenzo: la passione<br />
senile tra Antonutti e la Lozano, quella più giocosa – e poi tragica – tra<br />
Bigagli e la sua sposa, ma anche l’intenso ammiccamento sessuale tra Hen<strong>del</strong><br />
e la giovane donna che giocano con una fetta di anguria…<br />
Penso alla complicità erotica tra Salvatore e Wilma in Un uomo da bruciare,<br />
all’erotismo trasgressivo e ai nudi esibiti di Sovversivi ed Allonsanfan,<br />
alle scene d’amore ne Le affinità elettive, ai corpi nudi de Il sole anche<br />
di notte e quelli sul palcoscenico teatrale, scoperti da un pubblico voyeur,<br />
in Luisa Sanfelice.<br />
Il metalinguaggio e la cinefilia. E siamo dunque a uno dei temi dominanti<br />
<strong>del</strong> <strong>cinema</strong> dei Taviani, l’elemento self-reflexive, autorefenziale, sia<br />
come rappresentazione <strong>del</strong> <strong>cinema</strong> stesso (e <strong>del</strong> teatro, e dei mass media)<br />
all’interno dei film, sia come esplicitazione-esibizione <strong>del</strong>la macchina<strong>cinema</strong>,<br />
<strong>del</strong>la finzione <strong>cinema</strong>tografica. «Io sono un grande attore» – dice<br />
<strong>del</strong> resto Mastroianni, nei panni di Fulvio che a sua volta ha indossato i<br />
panni di un altro; e sembra dirlo a se stesso, al Mastroianni vero.<br />
Parto proprio dall’ultimo film, Luisa Sanfelice, che è pieno di riferimenti,<br />
come si è visto, al teatro: il teatro reazionario o quello “rivoluzionario”,<br />
con Pulcinella in veste di liberatore. A teatro avviene una <strong>del</strong>le<br />
“scene madri” <strong>del</strong> film, quando si interrompe la rappresentazione per dire<br />
che i soldati di una roccaforte si sono fatti saltare in aria per non farsi prendere,<br />
e i francesi annunciano il loro ritiro da Napoli. È una (cosciente?)<br />
citazione de La grande illusion, quando i soldati francesi prigionieri interrompono<br />
lo spettacolo en travesti per intonare La marsigliese.<br />
D’altronde, i film dei Taviani sono pieni di citazioni, omaggi dichiarati<br />
o forse, a volte, frammenti <strong>del</strong>la loro memoria cinefila che emergono<br />
inconsapevolmente: nel Prato, Germania anno zero diventa motivo trainante<br />
<strong>del</strong> plot e il suicidio di Edmund (che prelude al suicidio di Giovanni)<br />
viene fatto vedere nella scena <strong>del</strong> cineclub. Good Morning Babilonia,<br />
film programmaticamente metalinguistico, non solo mostra vere<br />
sequenze di Intolerance, ma è pieno di omaggi, a volte divertenti, come<br />
durante la traversata, quando i Taviani si divertono a citare Chaplin; o<br />
come quando, nella parte ambientata a Hollywood – e dominata dall’americano<br />
Griffith –, tributano un saluto all’italianissimo Blasetti e al<br />
Visconti di Bellissima: «Avete fatto il militare? E allora, dietro front, avanti,<br />
marsch!». Ma il film, dicevo, è tutto autorappresentativo: Griffith sceglie<br />
i due fratelli perché l’elefante che costruiscono, seppur distrutto dal “cattivo”<br />
direttore di produzione, viene “immortalato” dalla cinepresa; e i due<br />
fratelli, proprio per immortalarsi, si filmano mentre muoiono.<br />
19
VITO ZAGARRIO<br />
Anche questo, forse è un sottile – ma anche macabro – auspicio, da<br />
parte dei fratelli Taviani, di eternarsi attraverso il mezzo <strong>cinema</strong>tografico.<br />
Il sopracitato sogno di Volonté in Un uomo da bruciare è preceduto da<br />
un raffinato esercizio metalinguistico, pur nell’ambito di un film “di impegno<br />
civile”. Salvatore è al <strong>cinema</strong> (d’altra parte il film è ricco di rappresentazioni<br />
<strong>del</strong> mondo dei media: la radio, soprattutto), dove fanno un film<br />
– un melodramma di serie B – che mostra a sua volta, in un gioco di mise<br />
en abîme, il palcoscenico di un varietà. Nella scena vista da Salvatore, un<br />
marinaio grida il suo amore e viene ucciso da un losco figuro, prefigurando<br />
la stessa uccisione <strong>del</strong> protagonista; il tutto mentre canta una Carmen Villani<br />
d’epoca: si tratta, insomma, di un gioco quasi barocco, in cui la<br />
“modernità” (la canzonetta, la sala <strong>cinema</strong>tografica, la sceneggiata) si<br />
incontra con i riti antichi <strong>del</strong>la mafia.<br />
Una citazione, soprattutto, mi appare inquietante, ed è quella <strong>del</strong> finale<br />
di Paisà (i Taviani hanno sempre dichiarato, <strong>del</strong> resto, il loro amore per<br />
Rossellini), in cui i partigiani vengono gettati nelle acque <strong>del</strong> Po, in silenzio.<br />
Bene, è come se questo drammatico epilogo rappresentasse, per i<br />
Taviani, una sorta di trauma e di peccato originali, che entra incessantemente<br />
nel loro <strong>cinema</strong>.<br />
Il tuffo nell’acqua. E qui apro alle reiterate ossessioni, ai motivi – psicanalitici<br />
e non – che ricorrono e si rincorrono nei film. Il tuffo mortale è<br />
uno di questi: spesso dei corpi – a volte legati mani e piedi come in quella<br />
scena madre di Paisà – si gettano o vengono gettati in acqua. In Sotto il<br />
segno <strong>del</strong>lo Scorpione sono le donne che cercano di suicidarsi. In San<br />
Michele Giulio si getta in acqua dalla barca, con un gesto che è stato<br />
oggetto di infinite disquisizioni. In Allonsanfan, Fulvio viene gettato in<br />
acqua all’inizio <strong>del</strong> film dai compagni che lo accusano di tradimento; poi<br />
lo stesso Fulvio provoca la morte – anche qui ambiguamente – di Lionello<br />
che cade in acqua dalla barca, ma avrebbe dovuto gettarvisi. In Luisa Sanfelice,<br />
i corpi dei rivoluzionari vengono buttati in acqua, esattamente con<br />
gli stessi gesti di Rossellini, una volta avvenuta la “restaurazione”. L’acqua<br />
annega i corpi, ma anche accoglie e purifica, come in un battesimo laico<br />
o in sacrificio purificatorio. L’acqua pulisce dalla merda in Un uomo da<br />
bruciare, o dal sudore in La notte di San Lorenzo.<br />
La finestra e la trazzera. Verrebbe voglia di continuare a lungo, questa<br />
topografia dei “luoghi” ricorrenti nei Taviani. Lo spazio non me lo consente,<br />
ma qualche esempio lo posso fare: la finestra, grande metafora di<br />
molti film dei nostri registi. È simbolo dichiarato sin dalla prima inquadratura<br />
<strong>del</strong> film nel Prato, quando la mdp inquadra fissamente Brogi e<br />
Marconi, con nel mezzo una finestra “aperta” sulla città moderna. Per<br />
tutto il film, la finestra sarà un leit motiv ossessivo: finestra sui campi, o<br />
sulla piazza, che può diventare porta o portone, e dà sempre su una dimensione<br />
“altra”, teatrale o onirica.<br />
20<br />
SOVVERSIVI E FUORILEGGE?<br />
Dalla finestra guardano sia Volonté che i suoi nemici in Un uomo da<br />
bruciare; le finestre sono décor ripetuto – stavolta ritoccate al computer –<br />
in Luisa Sanfelice; dalla finestra la governante assiste al famoso coro sulle<br />
note di “Dirindindin” in Allonsanfan, e dalla finestra Fulvio scruta i suoi<br />
“compagni” travestiti da cacciatori, arrivati per riprenderselo quando lui<br />
ha scoperto una vita tranquillamente “borghese”. Davanti a una finestra<br />
su cui si staglia il cielo stellato, in La notte di San Lorenzo, la madre racconta<br />
alla figlia la “favola” di quella notte di quando era bambina.<br />
Su una trazzera, su un viottolo, lungo una strada di campagna, si<br />
avviano, spesso simbolicamente, i protagonisti dei “cori” tavianei: i profughi<br />
di La notte di San Lorenzo in una sorta di atipico travel film; o i teatranti<br />
<strong>del</strong> Prato – che giocano forse a citare Il fascino discreto <strong>del</strong>la borghesia.<br />
Su una trazzera muore Salvatore in Un uomo da bruciare. Su un<br />
viottolo polveroso e macchiato di sangue il re attraversa la Storia reale in<br />
Luisa Sanfelice.<br />
La favola. Un altro dato di fondo <strong>del</strong> <strong>cinema</strong> tavianeo è la presenza<br />
<strong>del</strong>la favola, che permette, come è stato già notato, di rileggere tutto i film<br />
dei nostri registi, anche quelli più “impegnati”, come un grande racconto<br />
di fiaba. Tutto La notte di San Lorenzo, film “resistenziale” e di “memoria<br />
civile”, è in realtà una favola raccontata (alla finestra) in voce fuori campo.<br />
E naturalmente fiabeschi sono tutti i modi <strong>del</strong>la rappresentazione, dalla<br />
già citata morte <strong>del</strong>la ragazza che sogna di incontrare i “paesani” di<br />
Brooklyn, alla bambina protagonista che riveste di elementi di gioco e di<br />
magico tutta la drammatica vicenda.<br />
Una favola viene raccontata da Fulvio a suo figlio, ed anche “messa in<br />
scena” teatralmente (Mastroianni mette un panno verde sulla lampada per<br />
creare un’atmosfera magica), sino a far magicamente apparire un vero<br />
rospo. Che è in realtà un parto <strong>del</strong>l’immaginazione <strong>del</strong> bambino, ma<br />
insieme dei “bambini Paolo e Vittorio”, eterni “fanciullini” alla ricerca di<br />
una propria favola personale da raccontare: «San Michele aveva un gallo,<br />
bianco rosso, verde e giallo…» – canta Gulio da piccolo. E in un paio di<br />
film un bambino o dei bambini cresciuti – i Taviani stessi? – acchiappano<br />
una lucciola: in Allonsanfan è Massimiliano, il figlio di Fulvio, in Good<br />
Morning Babilonia sono Andrea e Nicola che offrono una lucciola alle<br />
ragazze che corteggiano.<br />
Potrei continuare per molte pagine ancora. Perché tutto il <strong>cinema</strong> dei<br />
Taviani – pur con alti e bassi – è un <strong>cinema</strong> fiabesco, onirico, visionario,<br />
che permette ai due registi di affrontare il presente storico ma di raccontare<br />
anche i loro ancestrali miti <strong>del</strong>l’infanzia, di rileggere la grande letteratura<br />
ma al tempo stesso di autorappresentarsi, di mettere in scena i propri<br />
luoghi (come il paesaggio toscano, ma anche quello siciliano che<br />
diventa <strong>nuovo</strong> paesaggio archetipico) e i propri sogni prepuberali. Un<br />
<strong>cinema</strong> visionario anche quando è “epico” e “politico”.<br />
21
VITO ZAGARRIO<br />
All’uscita di Tu ridi, nel ‘98, in pieno dibattito sulla “crisi” <strong>del</strong> <strong>cinema</strong><br />
italiano, parlavo <strong>del</strong>la inedita capacità visionaria in alcuni film <strong>del</strong> “<strong>nuovo</strong><br />
<strong>cinema</strong>” e aggiungevo: «Ma anche i Taviani esprimono un progetto estetico,<br />
seppure opposto: con Tu ridi rinunciano al piacere <strong>del</strong>la storia ben<br />
narrata e ben girata, confessano l’impotenza (<strong>del</strong> nostro tempo e forse in<br />
particolare <strong>del</strong>la loro generazione di cineasti) a raccontare la realtà, la<br />
società, la storia, in maniera armonica. Diversamente dal Giotto che inutilmente<br />
il computer <strong>del</strong> bambino tenta di riprodurre, o dal Galileo evocato<br />
da Turi Ferro, l’artista o lo scienziato di oggi non riescono più a interpretare<br />
il mondo. Restano frammenti di storie, scatole cinesi di narrazioni<br />
possibili che si incastrano l’una nell’altra, strutture volutamente disarmoniche<br />
come è disarmonica la realtà che viviamo. Il tutto raccontato senza<br />
“piacere”, senza acrobazie <strong>del</strong>la macchina da presa, con scarno rigore, con<br />
scheletrica essenzialità. Con un rituale antico e ossessivo, con un battere<br />
dei piedi a scandire il ritmo che viene da lontano (da Sotto il segno <strong>del</strong>lo<br />
Scorpione, da Allonsanfan), con una cadenza e una scadenza minacciosa,<br />
come i dibattiti sul <strong>cinema</strong> italiano».<br />
Sottoscrivo ancora quel giudizio. Dietro quella danza (macabra) di<br />
Lello Arena c’è – altra ossessione ricorrente – la danza coi campanacci<br />
degli scorpionidi, o la bellissima danza “di guerra” dei fratelli sublimi,<br />
uniti nell’immaginazione di Allonsanfan ai contadini e ai paesani insorti.<br />
Ci sono, insomma, una capacità visionaria e un invito alla visionarietà, che<br />
i Taviani continuano a proporre, in maniera coerente e lineare, a dispetto<br />
di chi vede nel loro <strong>cinema</strong> più recente una “involuzione”, o un compromesso,<br />
o addirittura un “tradimento”. Tema, <strong>del</strong> resto, che è radicato nella<br />
critica italiana (vedi Aristarco e Visconti); ed è fortemente radicato, come<br />
abbiamo visto, nella stessa cosmogonia tavianea.<br />
1 «Quando la spinta ad un cambiamento radicale tornerà a far parte <strong>del</strong>la politica e <strong>del</strong>la<br />
cultura statunitensi, il pubblico impegnato tornerà a scoprire il significato <strong>del</strong>l’impresa dei<br />
Taviani».<br />
2 R.A.Rosenstone, P. Sorlin, The Night of Shooting Stars. Fascism, Resistance, and the Liberation<br />
of Italy, in R. A. Rosenstone, Revisioning History. Film and the Construcion of a New Past,<br />
Princeton, Princeton University Press, 1995.<br />
22
LINO MICCICHÈ<br />
GLI “UTOPISTI” E GLI “ESAGERATI”<br />
Giovane o no, il <strong>cinema</strong> degli anni sessanta fonda buona parte <strong>del</strong> proprio<br />
successo sul chiasso di un rumoroso apparato industriale, capace,<br />
anche oltre i normali canali pubblicitari, di profonde penetrazioni mascherate<br />
all’interno <strong>del</strong>la pubblicistica sul <strong>cinema</strong>. Per questo, dagli isolati<br />
esordi di Fina e di De Bosio alle filmografie di Olmi e di De Seta, la ricerca<br />
di voci autentiche <strong>del</strong> <strong>nuovo</strong> <strong>cinema</strong> italiano tra quelle che sembrano sommesse,<br />
soltanto perché lontane dal coro e non partecipi <strong>del</strong> chiasso, può<br />
diventare quasi una regola storiografica.<br />
Proprio in questo ristretto ambito di intellettuali schivi e seriamente<br />
intenti in un lavoro di ricerca autenticamente problematico si collocano<br />
le figure dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani e di Valentino Orsini (la cui<br />
filmografia procede congiunta sino alla metà <strong>del</strong> decennio), che sono un<br />
esempio tra i più coerenti e tra i più costanti <strong>del</strong> <strong>nuovo</strong> <strong>cinema</strong> italiano<br />
degli anni sessanta, dove essi esordiscono, nel 1962, con il lungometraggio<br />
Un uomo da bruciare. Ma il sodalizio fra i tre cineasti ha basi solide e<br />
anteriori a tale data, risalendo a quando, all’inizio degli anni cinquanta, il<br />
ventiquattrenne Orsini (nato nel 1926), il ventunenne Vittorio Taviani<br />
(nato nel 1929) e il diciannovenne Paolo Taviani (nato nel 1931) prendono<br />
a operare insieme nell’ambito <strong>del</strong> <strong>cinema</strong>: dapprima a Pisa dove fondano<br />
cineclub e promuovono attività culturali, poi a Roma dove, alternandoli<br />
ad alcune aiuto-regie, realizzano una serie di documentari pregevoli per<br />
impegno politico, passione civile e rigore culturale, tra i quali il più noto<br />
è San Miniato, luglio ‘44, uno tra i migliori risultati <strong>del</strong> cortometraggio<br />
antifascista italiano. Legatisi, con rapporti che superano quelli tradizionali<br />
tra autore e produttore, a un animatore di produzioni impegnate, Gaetano<br />
«Giuliani» De Negri – un antifascista ligure che già era stato dietro<br />
23
LINO MICCICHÈ<br />
la produzione di Achtung! Banditi! (il primo e l’unico vero esperimento<br />
cooperativistico <strong>del</strong> <strong>cinema</strong> italiano) e di Cronache di poveri amanti di Lizzani<br />
– i Taviani e Orsini diventano, per antonomasia, i registi <strong>del</strong>l’Ager<br />
Film, la società che «Giuliani» aveva fondato assieme a Lizzani e Zavattini<br />
per la realizzazione di un progetto andato poi in fumo, un film sui fratelli<br />
Cervi. È appunto nell’inconsueto ed esemplare ambito di questo rapporto<br />
<strong>nuovo</strong> (tra un produttore che sente i problemi degli autori e autori<br />
che si responsabilizzano anche da un punto di vista produttivo) che nasce<br />
Un uomo da bruciare, qualificandosi, fin dalla proiezione veneziana <strong>del</strong><br />
1962, come un’esperienza doppiamente avanzata, sia dal punto di vista<br />
ideologico-estetico che da quello produttivo.<br />
Ispirati alla figura storica di Salvatore Carnevale (il sindacalista socialista<br />
ucciso dalla mafia) ma senza pretendere in alcun modo di restituirne<br />
la vicenda con astratta «fe<strong>del</strong>tà storica», Orsini e i Taviani hanno voluto<br />
offrire in Un uomo da bruciare il ritratto realistico di un protagonista popolare,<br />
rompendo però gli usuali schemi <strong>del</strong> “realismo” normativo e <strong>del</strong>ineando<br />
invece una figura assolutamente antieroica con una implicita polemica<br />
nei confronti <strong>del</strong> logoro e inerte schema <strong>del</strong>l’eroe positivo. Completamente<br />
antitetico alla tradizione dei personaggi tutti di un pezzo – dotati<br />
di una coscienza etico-politica paranoicamente priva di dubbi e tutti tesi<br />
verso un futuro lucidamente previsto verso il quale chiamano a raccolta<br />
masse sempre obbedienti e sempre combattive – il Salvatore di Un uomo<br />
da bruciare è un uomo pieno di contraddizioni, prima fra tutte quella la<br />
propria ambizione e vocazione di capo e l’istinto (più che la coscienza) di<br />
classe. Le sue reazioni di fronte alla realtà, infatti, appaiono in primo luogo<br />
come ispirate a un suo piano segreto, a una vocazione individuale, a un<br />
suo disegno quasi personale. E il suo stesso essere sindacalista e il suo parteggiare<br />
a sinistra e difendere i diritti dei diseredati, appaiono a tratti più<br />
materia esistenziale che materia ideologica. Tanto è vero che, quando<br />
(dopo la riunione sindacale al teatro palermitano) si trova isolato, Salvatore<br />
continua, solo, a lottare come prima, limitandosi a ricordare gli antichi<br />
compagni, che prima lo seguivano e che ora lo disdegnano e addirittura<br />
lo sospettano. Mitomane, esaltato, sognatore, individualista, il protagonista<br />
di Un uomo da bruciare – proprio per questo coesistere in lui di<br />
vistose contraddizioni, per questo suo non essere «angelo» contro i<br />
«demoni» – è un personaggio di rara autenticità e in tale senso profondamente<br />
realistico perché non retoricamente popolare.<br />
Valga l’esempio <strong>del</strong>la morte <strong>del</strong> sindacalista. Nella vecchia e logora tradizione<br />
<strong>del</strong> «realismo socialista», l’eroe, premoriente, sarebbe stato protagonista<br />
di un possente e confortevole comizio imbandierato; oppure lo<br />
avremmo visto messo a confronto con un segretario di sezione o di cellula<br />
che schiudesse a lui e allo spettatore le gloriose vie <strong>del</strong> domani; o qualche<br />
altra monumentale circostanza avrebbe determinato l’epitaffio ideologico,<br />
24<br />
GLI “UTOPISTI” E GLI “ESAGERATI”<br />
buono a consolare le coscienze falsificate degli spettatori. Nulla di tutto<br />
questo in Un uomo da bruciare. Sottolineando ancora una volta l’individualismo<br />
<strong>del</strong> protagonista, gli autori ne fanno precedere l’assassinio dalla<br />
sua previsione nella fantasia <strong>del</strong> futuro assassinato che, ispirandosi a un<br />
orribile fumetto filmato alla cui proiezione assiste, la prefigura in chiave<br />
di eroismo popolaresco (cioè secondo i propri mo<strong>del</strong>li culturali): terribile<br />
e gloriosa. Ed invece la morte di Salvatore non è epica né eroica, non ha<br />
aspetti sacrificali e non è irrorata dalla coscienza <strong>del</strong>la storia: al contrario<br />
è dura, semplice, atroce. E proprio per questo da annoverare tra le pagine<br />
più belle <strong>del</strong> film.<br />
ll lavoro di smitizzazione, compiuto nel film attorno ai luoghi comuni<br />
<strong>del</strong> realismo canonico, non avviene soltanto spogliando di ogni possibile<br />
“leggendarietà” l’immaginario protagonista. La mafia stessa è presente<br />
senza i rituali d’obbligo e le identità nette, ma con facce di tutti i giorni:<br />
tranquille, borghesi, a volte perfino pacifiche. Così come non li ha il Bene<br />
(Salvatore), neppure il Male (la mafia) ha connotati eccezionali. D’altronde<br />
lo stesso paesaggio siculo – una Sicilia asciutta e arida, ma scevra<br />
da ogni paesaggismo accattivante e da ogni inclinazione fascinosamente<br />
folkloristica – non ha nulla che possa rientrare nella leggenda e nella mitologia<br />
meridionalistiche, essendo anche esso, dunque, sottoposto al generale<br />
processo di demitizzazione.<br />
Opera lucidamente innovatrice, Un uomo da bruciare, nonostante qualche<br />
discontinuità linguistica, qualche astrazione intellettuale e qualche<br />
meccanica soluzione narrativa, segna l’ingresso nel <strong>cinema</strong> italiano di personalità<br />
tanto interessanti e nuove da restare emarginate quanto altre mai<br />
dal mercato. E le difficoltà di quell’opera d’esordio – che ha un’“uscita”<br />
romana semiclandestina, in pieno luglio 1963 – non sono che parzialmente<br />
superate dal successivo film <strong>del</strong> trio I fuorilegge <strong>del</strong> matrimonio (1963),<br />
che pure si lega a una problematica specifica, quella <strong>del</strong> divorzio, e a un<br />
episodio politico concreto, la presentazione di una proposta di legge<br />
moderatamente divorzista da parte <strong>del</strong> senatore Renato Sansone. In realtà,<br />
nonostante l’esplicito proposito di realizzare un film di diretto «impegno<br />
civile», il rapporto con lo specifico tema giuridico-politico non è qui meno<br />
mediato e indiretto di quanto lo era, rispetto al personaggio storico Salvatore<br />
Carnevale, la figura <strong>del</strong> protagonista di Un uomo da bruciare. D’altronde<br />
è uno degli autori, Vittorio Taviani, ad avvertire che «chi si aspettasse<br />
da I fuorilegge <strong>del</strong> matrimonio un’opera esauriente sul problema non<br />
diciamo <strong>del</strong> divorzio ma anche (solo) <strong>del</strong> piccolo divorzio rimarrebbe<br />
<strong>del</strong>uso. [...] Anche se il tema indubbiamente ci ha segnato precisi binari<br />
di marcia, abbiamo cercato – e cercheremo – di fare affiorare altre suggestioni,<br />
altri umori, altri motivi di natura umana, culturale».<br />
Il secondo lungometraggio di Orsini e dei Taviani è composto di sei<br />
“novelle” corrispondenti agli altrettanti casi di scioglimento <strong>del</strong> matrimo-<br />
25
LINO MICCICHÈ<br />
nio previsti dalla legge Sansone: una breve novella-prologo ambientata in<br />
un manicomio, dove Rosanna, un’alienata mentale senza speranza di guarigione,<br />
è visitata da Giulio, il marito senza più speranza di una normale<br />
vita coniugale (caso di scioglimento per pazzia inguaribile <strong>del</strong> coniuge);<br />
una novella ispirata al Boccaccio – ma rovesciata rispetto all’originale –<br />
dove il fratello perbenista di un ergastolano punisce con un’atroce beffa<br />
la “infe<strong>del</strong>tà” <strong>del</strong>la cognata Wilma (scioglimento per condanna <strong>del</strong>l’altro<br />
coniuge a più di dieci anni di carcere); l’agonia di un rapporto ormai irrecuperabile<br />
fra una presentatrice televisiva, Margherita, e un professore<br />
liceale, Francesco (scioglimento per separazione di fatto durante più di<br />
quindici anni); gli stupori di due bambini, Stefano ed Enzo, di fronte alla<br />
ricattatoria ricomparsa di Daniele, il marito <strong>del</strong>la loro madre appena uscito<br />
dal carcere per tentato uxoricidio (scioglimento per tentato omicidio di<br />
un coniuge ai danni <strong>del</strong>l’altro); un ex “colonizzatore” italiano d’Abissinia<br />
che, tornato in Italia convinto di essere vedovo, non può risposarsi perché<br />
in realtà sua moglie si è soltanto fatta monaca (scioglimento per abbandono<br />
almeno quindicennale <strong>del</strong> tetto coniugale); un dibattito rotale sulla<br />
possibilità di scioglimento canonico (conclusivamente negato) <strong>del</strong> vincolo<br />
matrimoniale di una donna la quale, sposatasi quindicenne a un sergente<br />
americano che tornato negli Stati Uniti ha per proprio conto divorziato<br />
risposandosi, non può ora sposarsi con l’uomo che ama (scioglimento per<br />
divorzio all’estero <strong>del</strong> coniuge).<br />
Tuttavia, pur così legate alla casistica prevista dalla proposta di «piccolo<br />
divorzio», le sei novelle confermano la «posizione di gruppo nei confronti<br />
di un <strong>cinema</strong> di idee che sia anche un <strong>cinema</strong> di ricerca espressiva»<br />
che ha caratterizzato fin dagli esordi il trio di giovani autori e il loro rifiuto<br />
di ridurre il tema civile «a una enunciazione, sia pure la più vibrante», di<br />
«abdicare, in suo nome, alla propria autonomia appunto di autori, ai diritti<br />
<strong>del</strong>la fantasia, il contrario cioè <strong>del</strong>l’operazione tentata dal più grande poeta<br />
didascalico <strong>del</strong> nostro tempo, Brecht», come essi stessi sottolineano esplicitando<br />
in quell’allusione brechtiana il riferimento culturale più costante<br />
<strong>del</strong> loro <strong>cinema</strong>. Sentendosi insomma «lontani dal <strong>cinema</strong> rubato al quotidiano,<br />
sia esso il <strong>cinema</strong> verità [...] sia esso il <strong>cinema</strong> <strong>del</strong> pedinamento<br />
zavattiniano», e ritenendo al contempo che «il film civile come libello <strong>cinema</strong>tografico,<br />
di denuncia sociologica o di comizio politico, [...] abbia<br />
perso [...] il ruolo che alcuni anni fa gli affidava la realtà <strong>del</strong>la guerra,<br />
prima, e di un dopoguerra guerreggiato, poi», gli autori dichiarano di<br />
avere «inteso il dato civile obbligato come una sfida alla [...] fantasia» e,<br />
una volta accettato il tema di partenza, di avere «cercato [...] di reinventarlo,<br />
di farlo divenire il momento provocatore» dei loro umori e <strong>del</strong>la loro<br />
ricerca estetica, culturale e umana. In altre parole i tre registi hanno inteso<br />
approfittare <strong>del</strong>la sfaccettatura narrativa e <strong>del</strong>la compattezza ideologica<br />
offerta loro congiuntamente dalla variegata casistica e dall’unità proble-<br />
26<br />
GLI “UTOPISTI” E GLI “ESAGERATI”<br />
matica <strong>del</strong> tema per sperimentare una scelta realistica, che si rifà più alla<br />
lezione brechtiana che a quella neorealistica, puntando a una posizione<br />
poetica dialetticamente intrisa di passione e ironia, di partecipazione e<br />
distacco nei confronti <strong>del</strong>la materia».<br />
Questo esplicito sperimentalismo de I fuorilegge <strong>del</strong> matrimonio fa sì<br />
che il film manchi sostanzialmente di unità. Con una struttura estremamente<br />
indefinita esso evidenzia, praticamente di episodio in episodio, continue<br />
rotture di tono narrativo e di cifra stilistica oltreché un evidente dislivello<br />
di risultati estetici: assai notevoli per esempio nel quarto e nell’ultimo<br />
episodio (il problema visto dai bambini e il problema discusso dalla<br />
Sacra Rota), ragguardevoli nel primo (la novella boccaccesca) e molto<br />
meno persuasivi negli altri tre (il primo che non va molto oltre l’enunciato,<br />
il secondo che risente di una fredda costruzione a tavolino e il quinto dove<br />
la stessa presenza di Tognazzi imprime continue oscillazioni tra la satira<br />
ironica e la farsa comica). Tuttavia, benché minore (significativo, ad esempio<br />
che nella più ampia pubblicazione sul <strong>cinema</strong> dei Taviani che sia<br />
apparsa sino al 1975 – Cinema e utopia: i fratelli Taviani ovvero il significato<br />
<strong>del</strong>l’esagerazione, a cura <strong>del</strong>la Cooperativa Nuovi Quaderni, Parma,<br />
1974 – il film trovi uno spazio relativamente scarso) almeno rispetto agli<br />
altri risultati <strong>del</strong>la filmografia degli autori, I fuorilegge è, crediamo, una<br />
tappa importantissima nel loro <strong>cinema</strong>, proprio per questo suo valore di<br />
sperimentazione assolutamente libera che ne fa, in parte, un’opera che<br />
porta avanti il discorso formale, e di “poetica”, già così egregiamente iniziato<br />
con Un uomo da bruciare, in parte, un preludio alle più mature conquiste<br />
successive che proprio qui trovano il loro primo terreno di verifica.<br />
Se ad esempio, l’episodio <strong>del</strong>la Sacra Rota riprende il «racconto su due<br />
piani, quello dei pensieri e quello dei fatti» già seguito nel lungometraggio<br />
d’esordio, la terza novella, i cui protagonisti «ora si confessano direttamente<br />
al pubblico, ora si abbandonano ai loro pensieri, rimorsi, vagheggiamenti»,<br />
prelude indirettamente ad alcuni momenti tra i più intensi <strong>del</strong><br />
capolavoro dei Taviani San Michele aveva un gallo (1971). Ma in fondo, a<br />
ben vederle, nessuna <strong>del</strong>le sei novelle che compongono il film, pur nei<br />
dislivelli che le caratterizzano, appare priva di conseguenze nella filmografia<br />
dei registi. I quali, dunque, confermano anche in questo caso una<br />
rara e arrischiata (ma proprio per questo meritoria) “responsabilità <strong>del</strong>la<br />
forma” e una dinamica «visione <strong>del</strong>la realtà come un corpo vivo, da non<br />
contemplare soltanto, ma su cui operare attivamente».<br />
Il fatto che i Taviani e Orsini si rifiutino a ogni contemplazione (e a<br />
ogni consolazione) <strong>del</strong> reale è significato, a contrario, dai loro lunghi silenzi<br />
e dalle larghe pause che caratterizzano la loro filmografia. Cineasti che credono<br />
con fermezza e senza tentennamenti nella responsabilità <strong>del</strong> proprio<br />
ruolo, i tre – e il quarto last but not least <strong>del</strong> “gruppo”, il loro produttore-<br />
27
LINO MICCICHÈ<br />
animatore Gaetano «Giuliani» De Negri – preferiscono chiudersi in pluriennali<br />
attese anziché cogliere una qualsiasi occasione a portata di mano<br />
per inserirsi nel giro “professionistico” <strong>del</strong> “<strong>cinema</strong> come è”, in un clima<br />
<strong>cinema</strong>tografico (ma non solo) quietamente dominato dall’etica <strong>del</strong> compromesso<br />
e dalla pratica <strong>del</strong> cedimento. Se “professionisti” bisogna essere,<br />
perché anche quella <strong>del</strong>la sopravvivenza è una legge morale, meglio esserlo<br />
senza infingimenti, senza raccontarsi (e raccontare) comode favole: meglio<br />
insomma gli anonimi “caroselli”, i “documentari industriali” per l’acciaieria<br />
ligure o la fabbrica automobilistica torinese, la “scrittura” come<br />
salariati specializzati. Le filmografie ufficiali dei Taviani e di Orsini ignorano<br />
(e fanno male) gli anonimi episodi dignitosamente alimentari che<br />
riempiono il lungo quadriennio che separa I fuorilegge <strong>del</strong> matrimonio (che<br />
pure ha un relativamente discreto successo di pubblico: 253 milioni di<br />
incasso, pari a circa mezzo miliardo di lire) da Sovversivi che i Taviani,<br />
autonomamente da Orsini, realizzano nel ‘67 e da I dannati <strong>del</strong>la terra che<br />
Orsini realizza da solo nel 1967-1968. Eppure in quella coerenza etica sta<br />
una <strong>del</strong>le ragioni <strong>del</strong>la coerenza estetica <strong>del</strong> “gruppo”, quella che lo mantiene<br />
solidamente unito attorno a «Giuliani» e all’Ager Film, anche nella<br />
nuova e diversa prospettiva di lavoro che vede i due fratelli di San Miniato<br />
separarsi dal pisano Orsini, dopo un sodalizio che – come già si è accennato<br />
– aveva preso avvio nel 1950 (con la regia teatrale di due spettacoli<br />
scritti e diretti a tre), era proseguito lungo il decennio con un’intensa attività<br />
documentaristica (a parte il San Miniato, luglio ‘44, già citato, vanno<br />
ricordati Curtatone e Montanara, Carlo Pisacane, Pittori in città, Moravia,<br />
Lavoratori <strong>del</strong>la pietra, Carvunara, Volterra, comune medievale, I pazzi <strong>del</strong>la<br />
domenica), si era consolidato attorno a Joris Ivens con la collaborazione<br />
alla sceneggiatura e alla regia per il lungometraggio L’Italia non è un Paese<br />
povero (1960), realizzato nel nostro Paese dal maestro olandese, e aveva<br />
prodotto due lungometraggi di diverso livello ma di pari serietà.<br />
Tanta pluriennale coerenza intellettuale ed esistenziale è il necessario<br />
preludio a Sovversivi che, presentato a Venezia 1967, porta finalmente il<br />
grosso <strong>del</strong>la critica italiana e la critica straniera presente al festival ad<br />
attribuire agli autori i primi rilevanti riconoscimenti critici. Alla base di<br />
Sovversivi sta un’idea probabilmente suggerita ai Taviani dall’esperienza<br />
de I fuorilegge: quella di una molteplicità di storie e di personaggi correlati<br />
fra loro da un identico problema che costituisce per tutti un banco<br />
di prova e una svolta esistenziale. La nuova conquista, che fa sortire<br />
il film dallo “sperimentalismo” <strong>del</strong>l’opera precedente, è che, rendendo<br />
questo problema diretta materia narrativa (e non esterno riferimento<br />
“tematico”), gli autori possono far sì che esso diventi il punto di intersezione<br />
dei vari “personaggi” e <strong>del</strong>le loro “storie” in una sostanziale<br />
unità-simultaneità di tempo, di luogo e di azione che fa quindi <strong>del</strong>l’opera<br />
un discorso sul dato collettivo dove non si soffoca in nulla il dato indi-<br />
28<br />
GLI “UTOPISTI” E GLI “ESAGERATI”<br />
viduale e un discorso sul dato individuale, dove si implica senza forzature<br />
il dato collettivo.<br />
Sovversivi è infatti il polittico di quattro “storie parallele”, cioè di altrettante<br />
vite aperte e in cerca di se stesse e <strong>del</strong> proprio ruolo, in un particolare<br />
momento <strong>del</strong>la verità: i funerali di Togliatti, nell’estate 1964 visti<br />
(«addio Togliatti, giovinezza nostra addio» scrive in una lettera un personaggio<br />
<strong>del</strong> film), come già nel pasoliniano Uccellacci e uccellini, quale<br />
ultimo capitolo di un’epoca e inizio di nuova, più matura, e perciò più tormentata,<br />
adesione alle cose. Per Giulia, moglie apparentemente amata di<br />
un funzionario di partito venuto a Roma per il funerale <strong>del</strong> leader comunista,<br />
è il momento di porre fine all’ipocrisia (o all’ignoranza di sé) con cui<br />
ha fino ad allora trattenuto i propri istinti omosessuali, rimuovendoli e formando<br />
in nevrosi la propria insoddisfazione. Per Ettore, un giovane rivoluzionario<br />
venezuelano, è il momento di concludere il proprio esilio<br />
romano per tornare in patria dove lo attende la lotta clandestina, anche se<br />
ha paura di morire e desiderio di restare con Giovanna, la ragazza che ama<br />
e con la quale, strappandola dalla famiglia, passa gli ultimi tre giorni di<br />
“disimpegno”. Per Ermanno, quieto laureato in filosofia, è il momento di<br />
rinunciare alla sicurezza che gli dà un rapporto di amicizia e di lavoro con<br />
il fotografo Muzio, e di abbandonarsi alla propria creatività anche se l’anarchismo<br />
(durante i funerali di Togliatti aggredisce, apparentemente<br />
senza motivi, un vecchio borghese e viene fermato dal servizio d’ordine<br />
<strong>del</strong> Partito comunista), gli fa rischiare la solitudine. Per Ludovico, un regista<br />
<strong>cinema</strong>tografico cui viene diagnosticata una malattia probabilmente<br />
mortale, è il momento di superare lo sconforto per cercare, attraverso il<br />
personaggio di Leonardo da Vinci, su cui sta facendo un film, di significare<br />
la necessità di fuggire dal mondo “come è” per cercare – e con ciò<br />
affermare – il mondo come “dovrebbe essere”.<br />
Per questi personaggi, e per le loro diverse e concomitanti “situazioni”,<br />
la morte di Togliatti, anzi i suoi funerali (il film si chiude sulla partenza<br />
<strong>del</strong>l’aereo di Ettore per il Venezuela e, subito dopo, al cimitero romano<br />
<strong>del</strong> Verano, sulla «bara [che] spinta a fatica dagli uomini, scende nella<br />
fossa»), costituiscono l’elemento scatenante di una mise en question radicale<br />
<strong>del</strong> proprio progetto esistenziale e/o politico, un simbolico “addio al<br />
padre” che rende improvvisamente caduche le vecchie sicurezze, le incrostate<br />
assuefazioni, i rituali consuetudinari e necessarie nuove aperture problematiche,<br />
diverse prospettive, più arrischiate sperimentazioni. “Addio<br />
al padre”, si diceva; ma non soltanto nel senso che «il vero argomento <strong>del</strong><br />
film è un dialogo serrato <strong>del</strong> comunismo posteriore a Togliatti con la sua<br />
bara: un dialogo col padre morto, conflittuale e di qualità molto intima»<br />
(Piovene); non soltanto cioè essenzialmente nel senso di «un dialogo, a circuito<br />
stretto, <strong>del</strong> comunismo con se stesso», con il che si connoterebbero<br />
in modo troppo angustamente «politico» le qualità <strong>del</strong> film che è invece<br />
29
LINO MICCICHÈ<br />
politico, ma senza virgolette proprio perché rifiuta la nozione di Politica<br />
come campo d’azione specifico e “specialistico” (la tipica eredità idealistica<br />
che affligge, negli anni sessanta e oltre, molto <strong>cinema</strong> “politico” che<br />
si vuole materialistico); bensì nel senso assai più vasto e coinvolgente di<br />
ripensamento integrale di una generazione su se stessa, su un’epoca e sul<br />
modo di viverla. L’“addio al padre” – cioè a qualcosa che si è amato, (o<br />
odiato) e che ci ha reso come siamo (impedendoci anche di essere diversi<br />
da ciò che siamo) – è insomma in Sovversivi il momento, liberatorio e angoscioso<br />
(e perciò commosso) in cui i personaggi vedono venir meno il<br />
garante <strong>del</strong>la loro tranquillità, <strong>del</strong>la loro pacificazione con se stessi, <strong>del</strong>la<br />
loro quieta accettazione <strong>del</strong>l’inquietudine e, recuperando la propria<br />
libertà (che ha come prezzo, s’intende, la precarietà), si riprogettano,<br />
riprendendo a credere nell’utopia come momento <strong>del</strong>la verità, a liberarsi<br />
dalla paura <strong>del</strong>l’errore («Conviene sbagliare» fu il primo titolo che i<br />
Taviani proposero per il film), a vedere positivamente l’“esagerazione” se<br />
essa serve a tirare fuori il senso <strong>del</strong>le cose, a «contrapporre, a un presente<br />
che rischia l’appiattimento per la lontananza <strong>del</strong>la prospettiva, un futuro<br />
immaginario e desiderato».<br />
«In Sovversivi – chiarisce Vittorio Taviani in un’intervista ai «Cahiers<br />
du cinéma» – tanti personaggi, come un unico personaggio. Come un<br />
gruppo. Un gruppo in un momento di crisi, di passaggio. Un equilibrio è<br />
finito e minaccia di coinvolgere il gruppo. Di qui la necessità – prima di<br />
tutto fisiologica – di altri equilibri. Avere la forza di distruggere (ma non<br />
per martoriarsi con i detriti <strong>del</strong> mondo distrutto, né per identificarsi<br />
romanticamente con la sua distruzione). Ma per avere le mani libere per<br />
ricominciare a cercare. Il funerale di Togliatti [...] è il funerale <strong>del</strong> padre<br />
(il padre come mito, come padre naturale, come momento storico, come<br />
neorealismo [...]). Una impresa luttuosa ma anche liberatrice. Disponibilità<br />
a nuove dimensioni: ancora a livello personale, nei personaggi <strong>del</strong> film,<br />
ma come sintomo di una necessità più ampia». Sovversivi è insomma anche<br />
un incontro con la morte: quella <strong>del</strong> proprio padre in se stessi e di se stessi<br />
nel proprio padre; e rappresenta in tale senso una “fisiologica” reimmersione<br />
nel tempo – cioè nella dinamica <strong>del</strong>la storia viva, <strong>del</strong>lo scontro esistenziale<br />
vissuto, <strong>del</strong> dramma <strong>del</strong>la vita privato di facili appigli e comode<br />
consolazioni – quindi un superamento <strong>del</strong>la fase “giovanile”, vissuta come<br />
un eterno presente reso immoto da catechistiche ideologizzazioni, non più<br />
credibili, ora, di fronte alla morte <strong>del</strong> proprio passato e all’immagine <strong>del</strong>la<br />
morte <strong>del</strong> proprio futuro che essa implica. Sovversivi è infine «un funerale<br />
a un modo di guardare la realtà che, talvolta, è stato chiamato neorealismo»<br />
(Ponzi), proprio perché le uniche inquadrature “neorealistiche”,<br />
quelle metonimicamente mortuarie <strong>del</strong>l’interramento, sono metaforizzate<br />
in spunto iniziale di una dinamica di cui il film registra soltanto le prime<br />
fasi di emergenza ma che si nega a qualsiasi “messaggio”, a qualsiasi “con-<br />
30<br />
GLI “UTOPISTI” E GLI “ESAGERATI”<br />
clusione”, a qualsiasi “rispecchiamento”, in quanto il suo orizzonte è<br />
altrove, nell’“utopia” (nel senso letterale di assenza di topos e di kronos),<br />
in una tensione etico-politica e fisiologico-esistenziale che non può esattamente<br />
definirsi senza nuovamente ideologizzarsi, non può ricomporre<br />
tutti i dati in una nuova sommaria sintesi, non può eliminare la contraddizione<br />
senza rischiare una nuova paralizzante ortodossia.<br />
Non si tratta certo di un film esente da difetti. Se dovessimo indulgere<br />
al vezzo <strong>del</strong>le classifiche non lo metteremmo né al primo né al secondo<br />
posto di una filmografia per altro egregia come quella che da Un uomo da<br />
bruciare ad Allonsanfan pone i Taviani fra gli autori di punta <strong>del</strong> <strong>cinema</strong><br />
italiano. Rispetto ai più maturi film successivi, nuocciono a quell’opera <strong>del</strong><br />
1967: un episodio non privo di slabbrature di sceneggiatura e di incertezza<br />
di regia come quello di Giulia (per altro fondamentale a connotare la politicità,<br />
non virgolettata, <strong>del</strong> film), che non sempre si integra narrativamente<br />
con il resto <strong>del</strong> polittico; la polifonica coesistenza di due o tre cifre stilistiche<br />
(pensiamo a quella assai elaborata che domina la storia di Ludovico,<br />
il regista), non sempre persuasivamente orchestrate e fuse tra loro; la magmaticità<br />
a volte stridente <strong>del</strong> tono complessivo dove il patetico e il grottesco,<br />
il drammatico e l’ironico sono talora meccanicamente giustapposti.<br />
Questi limiti valgono tuttavia, più che altro, a definire l’opera nel contesto<br />
<strong>del</strong> <strong>cinema</strong> dei Taviani, non certo a sminuirne il rilievo estetico e culturale.<br />
Innanzi tutto perché quelli che abbiamo rapidamente citato sono<br />
appunto taluni tra gli scogli contro i quali i Taviani hanno volontariamente<br />
deciso di dirigersi sapendo che essi costituivano l’ovvio rischio di fare un<br />
film sul “superamento” che fosse anche un film di superamento e nel quale<br />
pertanto gli stessi mo<strong>del</strong>li <strong>del</strong> racconto <strong>cinema</strong>tografico (presenti ancora,<br />
nonostante tutto, in Un uomo da bruciare) dovevano essere accantonati,<br />
nella ricerca di nuove vie per un coinvolgimento (democratico, cioè consapevole<br />
e dialettico) <strong>del</strong>lo spettatore. Insomma, la scelta di un <strong>cinema</strong><br />
comportamentistico che offra la sintomatologia e non la diagnosi <strong>del</strong> reale<br />
– e che dunque usa l’ideologia più come una chiave metodologica che<br />
come un “grimal<strong>del</strong>lo” interpretativo (più come strada per identificare i<br />
problemi che come dispensa per sco<strong>del</strong>lare soluzioni) – comporta un<br />
grado di “apertura” che implica anche un livello di indefinizione, e quindi<br />
pure di contraddizione, almeno fino a quando si resta ancora in una qualche<br />
misura legati al mo<strong>del</strong>lo <strong>del</strong> personaggio “psicologicamente definito”.<br />
Non a caso, a partire dal film successivo, i Taviani compiranno un ulteriore<br />
passo avanti proprio puntando a una più compatta unità stilistica, a<br />
un maggiore fenomenologismo psicologico e a un programmatico “straniamento”.<br />
Ma il rilievo di Sovversivi è soprattutto culturale, ed è in questa luce<br />
che questo film va considerato tra i più significativi <strong>del</strong> periodo 1959-1968<br />
da noi preso in esame. In pochi film come in questo coesistono positiva-<br />
31
LINO MICCICHÈ<br />
mente forme di consapevolezza, estetica e politica, così (relativamente)<br />
avanzate come: 1. la coscienza <strong>del</strong> superamento definitivo <strong>del</strong><br />
mito/illusione neorealistico e di ogni sua possibile ripresa, o mimesi, o<br />
derivazione, superamento cui corrisponde per altro una ricerca che si<br />
muove pur sempre nell’ambito realistico cercandone tuttavia una rifondazione;<br />
2. la coscienza che l’unico modo per essere degli artisti politici<br />
non è quello di fare <strong>del</strong>l’arte “politica” ma di fare politicamente l’arte, poiché,<br />
come ha detto Paolo Taviani, «l’utilità di un film non esiste al di fuori<br />
di quella modificazione che esso è capace di apportare negli altri nel suo<br />
campo specifico» («nel momento stesso in cui parli <strong>del</strong> Viet-Nam – chiarisce<br />
quindi Vittorio – non si tratta di usare il <strong>cinema</strong> per comunicare<br />
alcuni dati informativi sul Viet-Nam. Ma piuttosto [...] di vietnamizzare il<br />
linguaggio <strong>del</strong> film»); 3. la coscienza che dalla sclerosi <strong>del</strong>le vecchie certezze<br />
ideologistiche non si esce creandone <strong>del</strong>le nuove destinate a loro<br />
volta a sclerotizzarsi, ma scegliendo, materialisticamente, il sistematico<br />
confronto con la realtà in una feconda dialettica tra l’accettazione e la<br />
messa in discussione continue di se stessi; 4. la coscienza che la “politica<br />
<strong>del</strong> possibile” ha finito per emarginare l’“impossibile” dal voluto, ratificando<br />
ad aeternum la sua impossibilità, e che dunque occorre ridare uno<br />
spazio politico all’utopia, alla trasgressione, all’esagerazione non solo<br />
come modi di negazione <strong>del</strong>l’esistente ma come momenti vitali di trasformazione<br />
<strong>del</strong> mondo.<br />
Queste forme di consapevolezza, espresse nel film senza alcuna presunzione<br />
profetica e senza alcuna lacrimosa autocommiserazione, anzi con<br />
rigorosa (pur se partecipe e commossa) asciuttezza, fanno di Sovversivi un<br />
film ricco di presentimenti sessantotteschi: nel senso che gli umori, i fervori,<br />
gli ardori, così come le spinte iconoclaste, antidogmatiche, anticatechistiche<br />
da cui il film è pervaso, troveranno parziale concretizzazione, di<br />
lì a una stagione, nelle piazze, nelle fabbriche e nelle università (parziale:<br />
ché soprattutto in queste ultime si formeranno rapidamente nuovi, e non<br />
meno ottusi, rituali ideologistici). Ciò nonostante, o forse anzi proprio per<br />
questo, Sovversivi è, sia nel <strong>cinema</strong> italiano <strong>del</strong> periodo sia nella filmografia<br />
dei Taviani, un’opera di transizione: nel <strong>cinema</strong> italiano, perché sembra<br />
far da ponte tra due diversi momenti <strong>del</strong>la sua storia, quello degli iniziali<br />
anni sessanta carico di illusioni e in apparente ascesa, e quello <strong>del</strong><br />
riflusso post-sessantottesco che così pervicacemente maschererà la propria<br />
resa con periodiche impennate di “consumismo impegnato”; nella filmografia<br />
dei Taviani, perché è l’ultimo dei loro film direttamente legato<br />
alla cronaca, l’ultimo di esorcizzazione neorealistica, l’ultimo in cui si ha<br />
ancora una compresenza di livelli metaforici e di livelli metonimici (e una<br />
netta prevalenza di questi ultimi), prima <strong>del</strong>le grandi metafore politiche<br />
di Sotto il segno <strong>del</strong>lo Scorpione (1968-1969), San Michele aveva un gallo<br />
(1971), e Allonsanfan ( 1974), opere tutte che gradualmente confermano<br />
32<br />
GLI “UTOPISTI” E GLI “ESAGERATI”<br />
(anche se più la prima e la seconda <strong>del</strong>la terza) come la carriera artistica<br />
dei Taviani sia tra le poche «che rivelano un pressoché continuo processo<br />
di maturazione, cioè un sempre maggiore scavo tematico unito a una sempre<br />
maggiore consapevolezza espressiva» (Torri). Converrà intrattenersi<br />
sulla prima di questo trio di opere, poiché se la prima proiezione pubblica<br />
(a Venezia, nel settembre <strong>del</strong> 1969) la pone fuori <strong>del</strong> nostro campo di osservazione,<br />
la data <strong>del</strong>le riprese (estate <strong>del</strong> 1968) e quella <strong>del</strong> primo trattamento<br />
(autunno 1967) ve la fanno perfettamente rientrare.<br />
Un’isola di origine vulcanica (questo è il soggetto di Sotto il segno <strong>del</strong>lo<br />
Scorpione, che è opportuno esporre) sprofonda negli abissi marini. Trova<br />
scampo una pattuglia di uomini, i più giovani, che cercano di approdare<br />
sul continente. Invece sbarcano su un’altra isola, vulcanica anch’essa, in<br />
tutto simile alla loro. L’isola è abitata da gente povera e semplice come<br />
loro, il cui capo, Renno, è tutto saggezza, equilibrio e ricordi di gloriose<br />
lotte fatte vent’anni prima per salvare gli isolani da un’eruzione vulcanica<br />
e ricostruire il villaggio distrutto. Renno e i suoi, superata la prima fase di<br />
diffidenza, accolgono i giovani, li rivestono li rifocillano li ospitano nelle<br />
loro case. Ma non è questo che i giovani vogliono. Giunti in un’isola che<br />
è esattamente come la loro, essi vi vedono gli stessi pericoli da cui sono<br />
scampati: non vogliono correre altri rischi, non vogliono che si ripeta<br />
quello che è già accaduto. Essi puntano a ottenere <strong>del</strong>le barche per lasciare<br />
al più presto l’isola; o meglio ancora ad abbandonarla assieme agli isolani.<br />
Per questo spiegano come fu atroce la tragedia da loro vissuta, descrivono<br />
a lungo l’immane disastro e indicano a più riprese la necessità di ricominciare<br />
altrove una vita tranquilla, un <strong>nuovo</strong> corso sicuro, al riparo da sciagure,<br />
nel quale non sia più necessario vivere sempre provvisoriamente nell’attesa<br />
quotidiana <strong>del</strong> disastro. Gli isolani, specie i più giovani, sulle prime<br />
stanno per convincersi, poi ricominciano ad avere qualche diffidenza nei<br />
confronti dei giovani profughi, in ispecie verso Rutolo e Taleno. Questi<br />
ultimi sono i più attivi tra i nuovi venuti e Renno finisce per farli imprigionare<br />
assieme ai loro compagni. Appena in tempo, perché già i più giovani<br />
<strong>del</strong> villaggio mancano di rispetto agli anziani, le donne <strong>del</strong> villaggio<br />
e gli ospiti cominciano a occhieggiarsi, le discussioni tra le due collettività<br />
si sono trasformate in dibattito interno e Renno stesso è guardato meno<br />
reverenzialmente di prima. Per i giovani profughi sembra finita. Qualcuno<br />
tra i più anziani propone perfino di ammazzarli. Poi Renno pensa una<br />
diversa soluzione: diamo loro una barca, dice, e lasciamoli andare dove<br />
vogliono purché ci lascino in pace. Così si appresta a fare, infatti, convinto<br />
di avere risolto il problema e riprendendo in pace il lavoro nei campi. Ma<br />
i giovani profughi non si contentano di avere le barche: una comunità<br />
senza donne, una volta sul continente, è destinata a non sopravvivere. E<br />
poco prima di imbarcarsi rapiscono le donne <strong>del</strong>l’isola, inclusa Glaia, la<br />
moglie di Renno, inclusa la figlia <strong>del</strong>l’anziano che avrebbe voluto farli ucci-<br />
33
LINO MICCICHÈ<br />
dere. E uccidono invece quanti si oppongono al ratto, facendo strage degli<br />
abitanti <strong>del</strong>l’isola, tra cui Renno sorpreso a lavorare assieme alle sue donne.<br />
Giunte sul continente assieme ai giovani, che esaminano intanto il terreno<br />
su cui costruirsi un futuro, le donne, spinte da Glaia, decidono di suicidarsi<br />
piuttosto che di accettare la nuova condizione di spose forzate. Ma<br />
le più giovani sono per la vita e non per la morte. E se alcune di esse sono<br />
gettate a forza nel fiume dalle più anziane, altre cercano di sottrarsi e una<br />
di loro va ad avvertire gli uomini. Questi accorrono e riescono a salvare<br />
gran parte <strong>del</strong>le donne e si preparano a vivere con esse.<br />
Se Sovversivi è un film sulla realtà che si libera dalle proprie costrizioni<br />
trasgredendo la propria stessa logica, Sotto il segno <strong>del</strong>lo Scorpione (il<br />
titolo, su cui per altro si affannerà una fantasiosa esegetica, è ripreso, quasi<br />
esclusivamente per ragioni affettive, dalla prima versione <strong>del</strong> copione di<br />
Allonsanfan, allora appunto intitolata «Sotto il segno <strong>del</strong>lo Scorpione»,<br />
progetto al quale i Taviani debbono sul momento rinunciare) è «una parabola,<br />
come un apologo». Il film rappresenta, nel progressivo discorso filmografico<br />
dei Taviani, la realizzazione concreta di quanto in Sovversivi era<br />
solo astrattamente possibile: il recupero <strong>del</strong>la dimensione utopistica è già<br />
possibilità <strong>del</strong>la sua (fantastica) realizzazione. Ma la realizzazione utopica<br />
può essere soltanto immaginata, appunto, in una atemporalità che,<br />
negando il presente, collega passato mitico/storico e futuro utopico/politico<br />
poiché «in una realtà come la nostra europea, in cui non è<br />
dato pensare al momento <strong>del</strong>la sua sovversione, se non in tempi lunghi, il<br />
salto rivoluzionario si presenta come favola, nei modi <strong>del</strong>l’utopia. Un’utopia.<br />
Non una evasione». Utopisticamente, dunque, «se i personaggi dei<br />
Sovversivi cercavano [...] i protagonisti <strong>del</strong>lo Scorpione trovano». Portatori<br />
di una “sovversione” (che in realtà corrisponde, materialisticamente,<br />
alla propria autoconservazione), essi si scontrano con un gruppo che già<br />
ha operato a suo tempo la propria “sovversione” – allorché, vent’anni<br />
prima (la Resistenza?), quando nell’isola vi fu una spaventosa eruzione (gli<br />
ultimi feroci sussulti <strong>del</strong> fascismo?), riedificò il villaggio distrutto (la Ricostruzione?)<br />
– e ora gestisce quella conquista come un definitivo eterno presente.<br />
Usciti da una drammatica esperienza (anche i loro padri avevano<br />
resistito a una prima eruzione, anche i loro padri avevano ricostruito il villaggio,<br />
anche i loro padri si ritenevano al sicuro da nuove eruzioni), i nuovi<br />
venuti cercano di persuadere gli isolani che bisogna fuggire dall’isola (cioè<br />
dalla circolarità di un presente che riproduce il passato) e trasferirsi sul<br />
continente (cioè su un <strong>nuovo</strong> e più vasto spazio dialettico). E poiché il loro<br />
discorso viene rifiutato, usano la violenza per spezzare la catena di un presente<br />
riproduttivo <strong>del</strong> passato e per impadronirsi di un diverso futuro il<br />
quale, d’altronde, neppure esso, ha alcunché «di definitivo, di consolatorio»<br />
e anzi, a sua volta, «contiene già in se stesso i motivi <strong>del</strong> suo superamento».<br />
34<br />
GLI “UTOPISTI” E GLI “ESAGERATI”<br />
Tuttavia la comunità di Rutolo e Taleno non sembra destinata a riprodurre<br />
meccanicamente la stessa esperienza, vissuta da Renno a partire da<br />
vent’anni prima, di “conservazione <strong>del</strong>la rivoluzione” cioè di ideologizzazione<br />
<strong>del</strong> <strong>nuovo</strong> ordine. La contrapposizione isola/continente, così vistosamente<br />
sottolineata nel corso <strong>del</strong> film, è in questo senso significativa: così<br />
come è significativo che Rutolo e Taleno non approdino a una nuova isola<br />
bensì, appunto, nel continente. Ma il continente non si differenzia dall’isola<br />
per sue intrinseche qualità, ché anzi Rutolo e Taleno ne colgono la<br />
sostanziale identità con il paesaggio insulare («Me lo immaginavo<br />
diverso,» dicono), bensì per le condizioni strutturali: l’isola è appunto circolare,<br />
autosufficiente, solitaria, conosciuta; il continente è lineare, composito,<br />
abitato, sconosciuto. Insomma l’isola è un “microcosmo” che offre<br />
un solo rischio noto e nessuna sorpresa; il continente è il “cosmo” pieno<br />
di possibilità e di pericolo ignoti. A questo punto ci si accorge che la contrapposizione<br />
isola/continente è anche leggibile come teoria/praxis, ideologia/politica,<br />
mito/storia, e che dunque l’abbandono <strong>del</strong>l’isola (anzi la<br />
violenza contro gli isolani) corrisponde all’abbandono <strong>del</strong>l’illusione ideologistica,<br />
<strong>del</strong>la falsa coscienza consolante e paralizzante; così come l’approdo<br />
sul continente è la rimessa in circuito <strong>del</strong> moto storico e cioè il passaggio<br />
da un presente ripiegato su se stesso, come semplice rimozione <strong>del</strong><br />
passato, a un «presente nuovamente in rapporto col futuro». Nonostante<br />
questa radicalità che sembra prefigurare un grado zero <strong>del</strong>la storia, il rapporto<br />
continua in ogni caso a essere dialettico: la realtà <strong>del</strong>l’isola così violentemente<br />
negata ha un suo rilevante retaggio nella comunità di Rutolo<br />
(Taleno muore sul continente spinto in acqua dalla moglie di Renno), un<br />
retaggio che qualifica, come eredità accettata (anzi voluta) <strong>del</strong> passato-presente<br />
pur negato, i limiti <strong>del</strong>la negazione stessa: le donne degli isolani, a<br />
cominciare da Glaia, la moglie di Renno, cioè quel potenziale fisiologico<br />
di futuro (la riproduzione <strong>del</strong>la specie) che la comunità <strong>del</strong>l’isola aveva e<br />
che quella di Rutolo non aveva, un qualcosa che apparenta il rapporto tra<br />
le due comunità a quello distruttivo/nutritivo che Totò e Ninetto hanno<br />
con il corvo pasoliniano di Uccellacci e uccellini. Anche da tale angolazione<br />
Sotto il segno <strong>del</strong>lo Scorpione torna a proporre il tema <strong>del</strong> “parricidio” che,<br />
sintomaticamente, aleggia in molto <strong>cinema</strong> pre-sessantottesco e sessantottesco,<br />
e che d’altronde era già emergente in Sovversivi: la differenza è<br />
che qui il padre da eliminare, come il figlio “parricida”, sono sostituiti<br />
dallo scontro tra comunità, significando così la frantumazione dei mitici<br />
archetipi individuali nella storia dei rapporti collettivi.<br />
Sotto il segno <strong>del</strong>lo Scorpione è, come hanno detto gli stessi autori, «un<br />
film semplice»; e «così elementare nella struttura, così semplice nella linea<br />
narrativa, appare come un film scandaloso». Ma «tutte le cose semplici<br />
[...] implicano sempre una molteplicità di significazioni». Per questo esso<br />
è anche un film ricchissimo, pieno di sottosensi e soprasensi, all’interno e<br />
35
LINO MICCICHÈ<br />
all’esterno <strong>del</strong>lo schema di prima lettura metaforica che esso offre e di cui<br />
abbiamo sottolineato alcuni aspetti.<br />
Lungi dall’essere dei corollari aggiuntivi rispetto a una interpretazione<br />
base, queste molteplici possibilità di ulteriore lettura rivelano la vera identità<br />
<strong>del</strong>l’opera la quale – come sempre accade in un testo “poetico” – ha<br />
nella polivalenza dei significati (e nella “galassia di significanti” che li<br />
determinano) la propria fecondità conoscitiva e trova nella “pluralità<br />
trionfante” <strong>del</strong>le proprie griglie semantiche la propria ragion d’essere.<br />
Sotto il segno <strong>del</strong>lo Scorpione è, ad esempio (anche), come ha rilevato Pascal<br />
Kané in un suo lucido saggio, una rappresentazione critica di «come servirsi<br />
<strong>del</strong> linguaggio ideologico d’una società senza obbligatoriamente sottoscrivere<br />
le sue rappresentazioni dominanti». Ovvero è, come Otto e<br />
mezzo di Fellini (ma volgendo in chiave materialistica e storica quanto ivi<br />
era alluso in chiave idealistica e soggettiva), un film che include al proprio<br />
interno, come struttura <strong>del</strong>la propria struttura, la rappresentazione critica<br />
di se stesso. Ma, contrariamente al capolavoro felliniano, non «costruita<br />
in abisso» (film nel film), ma in una sorta di assoluta coincidenza strutturale<br />
per cui la «rappresentazione» non «contiene» ma «è anche» la critica<br />
<strong>del</strong> modo di rappresentare, realizzando dunque quello che è un punto di<br />
arrivo <strong>del</strong>la pratica formale oggi necessaria: quello di proporsi anche (se<br />
non innanzitutto) come diegesi di se stessa.<br />
Infatti lo Scorpione è anche interpretabile come un film “comunicazionale”:<br />
sul tentativo di un gruppo (gli allogeni, i nuovi venuti) di comunicare<br />
a un altro (gli indigeni, i preesistenti abitanti) una propria verità e<br />
di infrangere, dunque, con la coscienza <strong>del</strong>la propria esperienza, la<br />
coscienza <strong>del</strong>la sua su cui quell’altro gruppo è attestato. Da questa<br />
esigenza, che sostanzia interamente tutta la prima parte <strong>del</strong> film, nascono<br />
i tentativi <strong>del</strong> gruppo allogeno di trasmettere al gruppo indigeno la storia<br />
<strong>del</strong>la propria esperienza. Questo tentativo ha due fasi nettamente distinte<br />
e diversamente funzionali.<br />
La prima fase, di tipo mimetico realistico, si limita a essere una “rappresentazione”<br />
<strong>del</strong> vissuto dagli allogeni fondata sull’“esagerazione” cioè<br />
sulla “retorica” (Rutolo: «Facciamoli piangere, impauriteli, esagerate<br />
anche...». Un compagno: «Ma chi? Loro? Perché?». Rutolo: «Devono<br />
lasciare l’isola con noi, subito. Se no che andiamo a fare sul continente?».<br />
Altro compagno: «È anche nel loro interesse, no?». Altro compagno: «Ma<br />
per convincerli chissà quanto tempo ci vuole». Rutolo: «Appunto! Esagerate,<br />
impauriteli, fateli piangere». Taleno: «Senza esagerare, basta raccontare<br />
quello che è successo». Rutolo: «Ma no! Fate spettacolo, come se<br />
l’isola stesse per saltare davvero»); ovvero uno «spettacolo» che cerca di<br />
riprodurre il vissuto secondo un codice di referenti che i due gruppi hanno<br />
in comune (l’eruzione, la paura, il dolore ecc.). Tale fase trova la propria<br />
contraddizione fondamentale nel fatto che, proprio la comunanza <strong>del</strong><br />
36<br />
GLI “UTOPISTI” E GLI “ESAGERATI”<br />
codice e la verosimiglianza <strong>del</strong>la «rappresentazione» finiscono per fare<br />
emergere le differenze <strong>del</strong> vissuto, cioè in fondo per lasciare le due esperienze<br />
separate e incomunicabili («[...] tranquilli – conclude Renno – qui<br />
non correte nessun pericolo. Anche qui c’è un vulcano! Come no? Ha<br />
distrutto le nostre case, venti anni fa. Ma noi le abbiamo ricostruite, con<br />
calma, con pazienza»).<br />
La seconda fase <strong>del</strong> tentativo, di tipo mitico rituale, è allora quella <strong>del</strong>la<br />
“manifestazione” (la lunga, ossessiva danza dei campanacci), programmaticamente<br />
slegata da qualsiasi referenzialità e metonimicità, costituita<br />
da relazioni indicative e non descrittive, e dunque radicalmente sottratta<br />
al peso <strong>del</strong>l’«endoxalité», cioè, secondo il neologismo barthesiano, <strong>del</strong><br />
controllo che il discorso dominante opera sul verosimile. Tale fase trova<br />
la propria contraddizione nel fatto che, risultando ai più illeggibile e inconoscibile<br />
– e per ciò stesso oscuramente minacciosa («L’inconscio – dice<br />
Lacan – è il discorso <strong>del</strong>l’Altro») – determina nel gruppo indigeno il gesto<br />
<strong>del</strong>l’esclusione, non solo quella <strong>del</strong>l’interdetto al discorso non più “assimilabile”,<br />
ma quella fisica degli stessi allogeni (Renno: «Ho una bella idea.<br />
Nessuno di noi lascia l’isola. Quella gente va presa e rinchiusa. Li mettiamo<br />
nella fossa»).<br />
È a questo punto, quando nessun “discorso” è più possibile perché o<br />
viene assimilato o viene interdetto – e quando la sua esclusione classifica<br />
chi se ne è fatto portatore come definitivamente Altro, Estraneo, Antagonista<br />
– che il confronto tra i due gruppi esce dalla chiusura dei reciproci<br />
rinvii e <strong>del</strong>le reciproche elisioni per entrare nella dimensione storica, come<br />
praxis, come violenza rivoluzionaria. Cosicché Sotto il segno <strong>del</strong>lo Scorpione<br />
è anche leggibile (oltreché come uno dei più lucidi apporti al dibattito<br />
antico e <strong>nuovo</strong> sulla possibilità di organizzare discorsi sul “dover<br />
essere” seguendo i mo<strong>del</strong>li di produzione <strong>del</strong> senso <strong>del</strong> “mondo come è”),<br />
come una parabola sui limiti oltre i quali la trasgressione verbale deve<br />
essere seguita dalla trasgressione gestuale e questa da quella trasgressione<br />
totale che è la Rivoluzione.<br />
Ora non v’è dubbio che questa consapevolezza imbeve solo in parte il<br />
tessuto, essenzialmente generazionale, <strong>del</strong>la contestazione sessantottesca;<br />
la quale, almeno nella sua fase più appariscente (che non coincide per altro<br />
né con quella politicamente più importante, né con le mises en question<br />
più radicali che essa operò ottenendo risultati positivi tali da contrassegnare<br />
una svolta “storica”), oscillò quasi sempre (per restare tra le<br />
metafore <strong>del</strong>lo Scorpione) tra la “rappresentazione” e la “manifestazione”,<br />
cioè tra la “parola” e il “gesto”), intese ambedue come “spettacolo” e a<br />
loro volta combattute alternativamente dal Sistema mediante l’assimilazione<br />
e/o l’esclusione, in una sostanziale impasse circolare, che sovente<br />
ridusse la violenza <strong>del</strong>lo scontro a ridondante rituale a conclusione <strong>del</strong><br />
quale non poteva esservi che la restaurazione. Ebbene ciò che rende Sotto<br />
37
LINO MICCICHÈ<br />
il segno <strong>del</strong>lo Scorpione non solo il più bel film dei Taviani assieme a San<br />
Michele aveva un gallo (e assieme a esso tra i più belli <strong>del</strong> nostro «<strong>nuovo</strong><br />
<strong>cinema</strong>») ma anche uno dei più importanti culturalmente (e dunque anche<br />
politicamente), è che, realizzato proprio mentre la contestazione si realizzava,<br />
esso vi partecipa con un’intensità pari alla lucidità critica, vivendone<br />
riti e miti con convinzione e al contempo con distacco. Il fatto che «nel<br />
breve periodo in cui “a sinistra” molti intellettuali, molti artisti rincorrevano<br />
– e non solo nel <strong>cinema</strong> l’“emergenza” politica, i Taviani manifestavano<br />
invece la loro presenza con un opera così filtrata, così lontana, così<br />
trasgressiva, da risultare assolutamente intraducibile nelle formule (nonché<br />
nei facili furori) allora ricorrenti» (Torri), è una conferma, dopo la<br />
indicazione già data con Sovversivi, di come questi due cineasti siano tra<br />
i pochi (e non soltanto nel <strong>cinema</strong> italiano) a muoversi nella direttrice, certamente<br />
tuttora problematica ma in genere assai poco frequentata, di una<br />
pratica formale materialistica e dialettica capace di vivere il presente storicizzandolo,<br />
cioè sottraendolo a qualsiasi ideologizzazione, e ponendo di<br />
volta in volta in discussione se stessa come prima “illusione” da negare per<br />
non precludersi il futuro.<br />
38
BRUNO TORRI<br />
IL “NUOVO CINEMA”<br />
DI PAOLO E VITTORIO TAVIANI<br />
Gli inizi degli anni sessanta coincidono, com’è noto, con la piena affermazione<br />
di quel vasto fenomeno <strong>internazionale</strong> conosciuto come “<strong>nuovo</strong><br />
<strong>cinema</strong>”. Sotto questa dizione, anzi, sotto questa nozione, venivano rubricati<br />
tutti quei film che, già in fase progettuale, e poi negli esiti espressivi e<br />
comunicativi, manifestavano vocazione per la ricerca, azzardo stilistico,<br />
responsabilità semantica accompagnata spesso dall’apertura verso nuove<br />
aree tematiche; e tutto ciò risultava molte volte collegato all’attuazione di<br />
nuove formule realizzative, di nuovi modi di produzione. In alcuni Paesi<br />
(in Francia con la nouvelle vague, in Brasile con il <strong>cinema</strong> nôvo, per fermarsi<br />
agli esempi più probanti) il “<strong>nuovo</strong> <strong>cinema</strong>” era derivato, anche, da<br />
un’attività, intellettuale e organizzativa, di gruppo: era stato, cioè, il frutto<br />
di un movimento che puntava al rinnovamento, non soltanto generazionale,<br />
<strong>del</strong>la <strong>cinema</strong>tografia nazionale, per riqualificarla sotto il profilo<br />
estetico; ma anche per conferirle una diversa valenza ideologico-politica<br />
che, tra l’altro, presupponeva pure una diversa concezione e un diverso<br />
atteggiamento nei confronti <strong>del</strong>lo spettatore <strong>cinema</strong>tografico.<br />
In Italia quest’ultimo aspetto non si è verificato; non c’è stata una precedente<br />
elaborazione teorica, né il coordinamento operativo e la diretta<br />
collaborazione tra cineasti che condividevano un comune orientamento o<br />
addirittura un’identica idea di <strong>cinema</strong>, come avveniva altrove in alcune<br />
realtà nazionali. Ci sono stati, tuttavia, alcuni registi esordienti i quali, in<br />
maniera autonoma e consapevole, si sono mossi in direzione <strong>del</strong> “<strong>nuovo</strong><br />
<strong>cinema</strong>”, favorendo la sua crescita e il suo primato artistico e culturale.<br />
Tra questi registi cui va riconosciuta la qualifica di autori – il “film d’autore”<br />
è stato, oltre che una pratica artistica, una <strong>del</strong>le principali categorie,<br />
quasi un sinonimo, <strong>del</strong> “<strong>nuovo</strong> <strong>cinema</strong>” – una posizione di primissimo pia-<br />
39
BRUNO TORRI<br />
no è occupata da Paolo e Vittorio Taviani, i quali, con la loro opera prima,<br />
Un uomo da bruciare, girata nel 1962 assieme a Valentino Orsini, si<br />
pongono subito tra i suoi esponenti più rappresentativi, proprio in virtù<br />
<strong>del</strong>la “diversità” e dei marcati tratti di originalità esibiti in questo film.<br />
Anche se non vi mancano tracce <strong>del</strong>la lezione neorealistica, Un uomo<br />
da bruciare è tutto il contrario di un’opera epigonica: il suo impegno contenutistico,<br />
pur molto evidente, trova sempre il giusto equilibrio con le<br />
scelte formali che lo veicolano, e che infatti, valorizzando le potenzialità<br />
insite nel linguaggio <strong>cinema</strong>tografico, finiscono per rafforzare il discorso<br />
sviluppato nel film. Pur muovendosi ancora sulla strada <strong>del</strong> realismo filmico,<br />
i fratelli Taviani e Orsini introducono nella struttura narrativa e nelle<br />
soluzioni figurative degli elementi elaborati dalla fantasia e dall’immaginazione,<br />
costruendo così un’unitaria pluralità di livelli espressivi e comunicativi<br />
che riesce a rendere meglio la complessità <strong>del</strong> reale, a coniugare<br />
l’interno e l’esterno <strong>del</strong> personaggio su cui si incentra la vicenda narrata,<br />
ad accrescere la spinta referenziale <strong>del</strong> film. Un uomo da bruciare è, prima<br />
di ogni altra cosa, la storia di un uomo; quindi il suo processo creativo presenta<br />
come principale motivazione, come ragione espressiva fondante, la<br />
costruzione <strong>del</strong> protagonista, per il quale gli autori prendono spunto da<br />
una persona realmente esistita (il sindacalista e poeta Salvatore Carnevale),<br />
ma inventano anche diverse componenti caratteriali e comportamentali<br />
e diversi avvenimenti esistenziali che ne fanno una figura sostanzialmente<br />
nuova, staccata dal mo<strong>del</strong>lo originario. Nella narrazione-rappresentazione<br />
<strong>del</strong> Salvatore di Un uomo da bruciare non c’è discontinuità tra<br />
la dimensione privata e la dimensione pubblica <strong>del</strong> personaggio, nel senso<br />
che non viene dato un maggiore rilievo a una di queste dimensioni, mentre<br />
ne vengono messi costantemente in rilievo i nessi intercorrenti, l’interazione<br />
dialettica, i condizionamenti reciproci. Pertanto, l’introspezione<br />
psicologica e l’azione sociale <strong>del</strong> personaggio diventano, nel racconto filmico,<br />
le due facce di un’unica medaglia: una mostra l’individualità <strong>del</strong> tutto<br />
particolare di Salvatore, l’altra descrive la sua militanza ideologico-politica,<br />
il segno da lui lasciato nell’ambito in cui ha agito; l’una e l’altra danno<br />
il senso di un destino umano che è, insieme, voluto e subìto, e che contemporaneamente<br />
serve anche a <strong>del</strong>ineare un preciso contesto sociale.<br />
Ambientato in Sicilia nella fase di transizione che vede la mafia riorganizzarsi<br />
al proprio interno per spostare la sua influenza e la sua attività<br />
criminale dal feudo all’edilizia, Un uomo da bruciare dispiega e approfondisce<br />
la vita di un agitatore politico-sindacale il quale non solo vuole lottare<br />
contro il potere mafioso, ma anche, e insieme, contro le ingiustizie<br />
sociali che – come il film mette bene in risalto – sono possibili e si perpetuano<br />
proprio per le complicità esistenti tra la mafia stessa e altri poteri,<br />
economici e politici. Nello svolgimento di questo tema, e focalizzando<br />
sempre l’attenzione sul vissuto <strong>del</strong> protagonista, il film coglie tutte le pecu-<br />
40<br />
IL “NUOVO CINEMA” DI PAOLO E VITTORIO TAVIANI<br />
liarità <strong>del</strong>la sua lotta politico-sindacale e, al contempo, <strong>del</strong>la sua personalità<br />
più intima, mettendo in luce pulsioni e contraddizioni, grandezze e<br />
miserie di una vita comunque eccezionale. In tal modo Un uomo da bruciare<br />
va oltre l’opera di denuncia, così come non resta impaniato nella retorica<br />
<strong>del</strong>l’“eroe positivo”: senza trascurare la Storia, e anzi lasciandone<br />
emergere il movimento e i condizionamenti, il film riesce a dare spessore<br />
e credibilità a una tipologia umana molto singolare la quale, in ciò che<br />
maggiormente la connota e la distingue, apparirà più volte nel <strong>cinema</strong> dei<br />
fratelli Taviani. Il personaggio di Salvatore, infatti, è quello <strong>del</strong> “rivoluzionario”,<br />
<strong>del</strong>l’“utopista”, <strong>del</strong>l’“esagerato”, di colui che vuole forzare i<br />
tempi (storici) per anticipare l’avvento di un futuro diverso e migliore; un<br />
personaggio anche ambiguo, dalla natura passionale, i cui entusiasmi<br />
manifestano o, altrimenti, “rimuovono” illusioni, narcisismi e paure radicate<br />
nel mondo infantile, e al quale appare sempre riservata, nel bene e nel<br />
male, una sorte estrema.<br />
Tra i tanti meriti che vanno ascritti a Un uomo da bruciare vi è anche<br />
quello concernente le sue modalità produttive, vale a dire la scelta <strong>del</strong> basso<br />
costo, la costituzione, sostanziale anche se non formalizzata, di un sistema<br />
produttivo di tipo cooperativistico e, in sintonia con tutto il resto, la<br />
simbiosi nata sul set tra gli autori e il produttore Giuliani De Negri, il quale<br />
in seguito parteciperà, ricoprendo un ruolo non soltanto economico ma<br />
anche intellettuale, alla realizzazione di tutti i film dei Taviani e di Orsini.<br />
Rispetto a Un uomo da bruciare, il loro secondo film, I fuorilegge <strong>del</strong><br />
matrimonio, girato nel 1963, appare meno caratterizzato dalla ricerca “linguistica”,<br />
dallo sforzo di guadagnarsi uno stile personale; e, conseguentemente,<br />
la sua resa estetica e la sua portata culturale risultano meno rilevanti,<br />
o più esattamente, risultano più corrispondenti a una tradizione<br />
<strong>cinema</strong>tografica, sì ancora valida e riproponibile, ma ormai più legata al<br />
passato che volta al futuro. Con questo film nato, per così dire, su commissione<br />
e che non ambisce prioritariamente alla bellezza bensì all’utilità,<br />
i registi, accettando appunto una sorta di mandato sociale, prendono posizione<br />
a favore di una battaglia civile, cioè il sostegno di un disegno di legge<br />
che intendeva introdurre, sia pure in misura limitata, il divorzio in Italia.<br />
Composto di sei episodi ognuno dei quali illustra altrettanti casi in cui<br />
l’applicazione <strong>del</strong> “piccolo divorzio” (così era definito quel disegno di legge)<br />
poteva essere ammissibile, I fuorilegge <strong>del</strong> matrimonio rivela una funzionale<br />
seppure un po’ facile didascalicità, che supporta adeguatamente i<br />
suoi scopi informativi ed esplicativi. Tuttavia solo in due racconti, quello<br />
dei concubini costretti a vivere separatamente e quello <strong>del</strong>la Sacra Rota,<br />
il linguaggio <strong>cinema</strong>tografico appare davvero sperimentato e risolto felicemente<br />
nel tracciato narrativo, mentre nel suo insieme il film tradisce l’assenza<br />
di un’autentica ispirazione, di una intrinseca necessità.<br />
Molto differente, in quanto molto sentito e molto pensato, oltre che<br />
41
BRUNO TORRI<br />
molto innovativo, è invece Sovversivi, diretto nel 1967 da Paolo e Vittorio<br />
Taviani, i quali intanto avevano interrotto amichevolmente il sodalizio con<br />
Orsini. Sovversivi conferma la tendenza dei registi, ravvisabile specialmente<br />
negli anni sessanta, di fare film ogni volta diversi, pur lasciando trapelare<br />
in tutto il loro <strong>cinema</strong> alcune componenti costanti. Anche Sovversivi<br />
si caratterizza per la perseguita intenzione di tenere uniti l’impegno<br />
ideologico-politico e la ricerca artistica; anche questo film coniuga l’interesse<br />
per i contenuti, quindi per i significati, e la tensione stilistica. Tutto<br />
ciò, che investe subito l’essenziale <strong>del</strong>la poetica dei Taviani, corrisponde<br />
anche, e nel migliore dei modi, alla specifica materia e alle specifiche finalità,<br />
estetiche ed etiche, <strong>del</strong> film, dal momento che Sovversivi intende riflettere<br />
un momento di crisi e di passaggio: non solo dei registi, ma anche di<br />
un largo settore <strong>del</strong>la sinistra italiana e segnatamente dei comunisti italiani,<br />
settore <strong>del</strong> quale gli stessi Taviani facevano parte, sia pure in maniera<br />
molto più critica che ortodossa. C’è una dichiarazione degli autori, dai toni<br />
molto accesi, che rende bene il clima in cui il film era nato e le motivazioni<br />
che lo animavano:<br />
Si stava soffocando. La vita politica, culturale e privata stagnava; mancava una<br />
direttrice unica che coinvolgesse energie, desideri, odi. Tutto pareva cristallizzato<br />
in un equilibrio pacificante e un po’ enigmatico: che era invece il coperchio<br />
posato sulla fossa dei leoni, sul nido <strong>del</strong>le vipere. Sono momenti di svilimento,<br />
squallidi… Non volevamo soffocare. Sentivamo il bisogno, fisiologico<br />
prima di tutto, di rompere quello pseudoequilibrio. Come? Non esisteva un<br />
movimento di massa. Le avanguardie sarebbero balzate fuori dopo, proprio<br />
da questo putridume. La sola rottura possibile era a livello personale. Essere<br />
costretti a questo significava già dare testimonianza di quei giorni. Sovversivi<br />
è la storia di cinque personaggi che cercano di far saltare il loro stato di quiete<br />
apparente. Cercano qualcosa. Non sanno bene cosa. Vogliono cambiare.<br />
Forse sbagliando. Ma “conviene sbagliare”: questo sarebbe potuto essere il<br />
sottotitolo <strong>del</strong> film.<br />
Sono parole, queste, che denotano molta consapevolezza, ma anche<br />
molto coinvolgimento emotivo; e che inoltre svelano l’aspetto autobiografico<br />
<strong>del</strong> film, suggerendo però che si tratta di un’autobiografia molto<br />
mediata, molto filtrata, in cui il momento generazionale, che è insieme anagrafico,<br />
politico ed esistenziale, prevale su quello strettamente privato.<br />
Non a caso Sovversivi è un film corale a struttura episodica. Il ricorso a<br />
diversi personaggi e a diverse storie, quelli e queste riconducibili a circostanze<br />
coincidenti e a problematiche analoghe, rispondono appunto all’esigenza<br />
di trattare lo stesso tema, vale a dire la crisi <strong>del</strong> comunismo italiano,<br />
da diverse angolazioni e con diverse prospettive.<br />
Nel film tutti i protagonisti sono, sia pure in maniera differenziata, dei<br />
comunisti; tutti vanno a Roma per partecipare allo stesso avvenimento (i<br />
42<br />
IL “NUOVO CINEMA” DI PAOLO E VITTORIO TAVIANI<br />
funerali di Togliatti); tutti si trovano in una situazione molto particolare<br />
che li costringe a interrogarsi, a fare i conti con se stessi, a mettersi in gioco;<br />
tutti devono fronteggiare una crisi che non è soltanto di natura ideologico-politica,<br />
ma anche, e in alcuni casi soprattutto, di natura individuale,<br />
intima; e in ciò si ritrova un aspetto caratteristico <strong>del</strong> <strong>cinema</strong> dei<br />
Taviani, vale a dire la compresenza e l’interazione <strong>del</strong>l’ideologico e <strong>del</strong> fisiologico<br />
nei loro personaggi, e nei moventi di questi. Tutti i protagonisti di<br />
Sovversivi sono o diventano essi stessi “sovversivi”, in quanto, per volontà<br />
o per necessità, devono sovvertire il loro precedente ordine esistenziale,<br />
devono chiudere la loro precedente esperienza vitale anche se non sempre<br />
sanno quale sarà lo sbocco di quella che stanno per intraprendere. Il<br />
linguaggio e il racconto filmico sono ancora di stampo prevalentemente<br />
realistico, tuttavia includono anche dei risvolti simbolici; i funerali di<br />
Togliatti, ad esempio, assumono nel film una triplice funzione e un triplice<br />
significato: in primo luogo sono quello che erano stati, un fatto storico<br />
esattamente datato, ripreso in quanto tale come pretesto narrativo; quindi<br />
divengono, nel dispiegarsi <strong>del</strong>la narrazione stessa, l’occasione, lo stimolo<br />
intellettuale e affettivo, che mette i diversi personaggi nella condizione<br />
di dover scegliere; inoltre acquisiscono, in ciò prefigurando l’itinerario<br />
umano dei diversi personaggi, la parvenza simbolica di una fase di<br />
passaggio, il passaggio dal comunismo italiano <strong>del</strong> dopoguerra, appunto<br />
il comunismo togliattiano, a un’altra forma di comunismo di cui peraltro<br />
ancora non si conoscono gli elementi peculiari e gli sviluppi storici. Non<br />
solo: la morte di Togliatti, comportante la perdita, ancora una volta reale<br />
e simbolica, <strong>del</strong> capo carismatico, <strong>del</strong> “padre” che lascia i suoi figli come<br />
“gattini ciechi”, proprio per il modo in cui viene mostrata e “discussa” nel<br />
film, non è soltanto un fatto tragico, recante dolore e lutto; è anche presentata<br />
come un’opportunità per ripensare il proprio passato, per imparare<br />
a fare a meno <strong>del</strong>l’autorità e <strong>del</strong>la guida “paterna” dimostrandosi davvero<br />
adulti, davvero capaci di assumere le proprie responsabilità, di scegliere<br />
autonomamente la propria strada, che può benissimo essere la strada<br />
di molti, se molti ne condividono la meta. In Sovversivi, intorno al tema<br />
centrale <strong>del</strong>la crisi <strong>del</strong> comunismo italiano, colta soprattutto nella crisi di<br />
alcuni militanti comunisti afflitti anche, come si è accennato, da malesseri<br />
<strong>del</strong> tutto soggettivi, <strong>del</strong> tutto compresi nella sfera <strong>del</strong> privato e <strong>del</strong>la psicologia,<br />
ne ruotano altri, tra cui quello, complesso e controverso, <strong>del</strong>la<br />
“creazione artistica”, che i Taviani trattano, in una chiave ancora coerentemente<br />
e discretamente autobiografica, con precisione espressiva e<br />
coscienza metalinguistica.<br />
Opera aperta e problematica, revisionista nel senso più appropriato e<br />
incisivo <strong>del</strong> termine, Sovversivi – proprio perché è bene innervata nella<br />
contemporaneità, proprio perché riesce a implicare e capire lo spirito <strong>del</strong><br />
tempo – si fa anche portatrice di futuro. Questo traspare, nel modo più<br />
43
BRUNO TORRI<br />
netto e convincente, dalle parole e dagli atti <strong>del</strong> più giovane dei protagonisti:<br />
un personaggio che, per il suo radicale dissenso nei confronti <strong>del</strong>l’esistente,<br />
per la sua impazienza, per il suo estremismo, insomma per le sue<br />
personali “esagerazioni”, sembra preannunciare molto di quel grande<br />
evento sociale e storico che di lì a poco, nel cruciale anno 1968, sarà conosciuto<br />
– in Italia e nel mondo – con l’appellativo di “contestazione globale”,<br />
e che comporterà una carica di emancipazione assieme a rischi degenerativi.<br />
Per alcuni aspetti contenutistici, Sovversivi è avvicinabile a Sotto il<br />
segno <strong>del</strong>lo Scorpione, il film successivo girato da Paolo e Vittorio Taviani<br />
nel 1969, che tuttavia è, anche questa volta, molto diverso dagli altri che<br />
lo hanno preceduto, tanto da segnare una svolta importantissima nella loro<br />
filmografia. La strutturazione espositiva e la cifra stilistica rendono Sotto<br />
il segno <strong>del</strong>lo Scorpione un’opera tanto originale quanto avanzata. Raggiunta<br />
ormai la maturità espressiva, i Taviani riprendono il confronto con<br />
la realtà coeva da una posizione più distaccata per puntare a un maggiore<br />
spessore discorsivo, senza più ricorrere alla testimonianza partecipe,<br />
all’autobiografismo indiretto, alla verosimiglianza realistica ravvisabili in<br />
Sovversivi. Al contrario, Sotto il segno <strong>del</strong>lo Scorpione si affida interamente<br />
ai linguaggi traslati; è una favola politica, o se si preferisce, un apologo<br />
politico tutto racchiuso in un metaforico spazio estetico, il cui senso ultimo,<br />
più interrogativo che assertivo, va letto tra le righe, anche se non mancano<br />
scoperti richiami all’attualità. Così il film, in armonia con i propri<br />
presupposti artistici e con le proprie intenzioni comunicative, non esalta<br />
bensì “raffredda” in un ragionato artificio formale i requisiti ideologici che<br />
pure lo sostanziano. Gli autori, per meglio creare un film politico idoneo<br />
anche ad alimentare la discussione politica interna alla sinistra, hanno<br />
voluto evitare qualsiasi sacrificio artistico, nella consapevolezza che il<br />
“<strong>cinema</strong> politico” non deve mai sottintendere una preponderanza <strong>del</strong>l’aggettivo<br />
sul sostantivo, pena altrimenti di fare <strong>del</strong> cattivo <strong>cinema</strong> e, insieme,<br />
<strong>del</strong>la cattiva politica. Inoltre, l’intendimento di risarcire compiutamente<br />
le potenzialità artistiche <strong>del</strong> linguaggio <strong>cinema</strong>tografico ha anche<br />
evitato il pericolo di ridurre alla sola dimensione <strong>del</strong>la politica le molteplici<br />
dimensioni <strong>del</strong>l’umano. E infatti, puntando tutte le loro carte sulla<br />
riuscita estetica, Paolo e Vittorio Taviani riescono a realizzare un’opera<br />
ricca di contenuti, lasciandovi permanere un margine di positiva ambiguità;<br />
un’opera che si apre, in virtù <strong>del</strong>la sua calibrata costruzione metaforica,<br />
a una pluralità di interpretazioni.<br />
Ambientata in un tempo e in un luogo preistorici, la vicenda narrata<br />
in Sotto il segno <strong>del</strong>lo Scorpione mette a confronto e, nello stesso tempo,<br />
sollecita la riflessione su due diversi modi di pensare e di vivere la rivoluzione.<br />
Nel film si avverte l’eco <strong>del</strong> dibattito ideologico allora in corso: l’opposizione<br />
dialettica tra chi propugna la prassi rivoluzionaria come palin-<br />
44<br />
IL “NUOVO CINEMA” DI PAOLO E VITTORIO TAVIANI<br />
genetica realizzazione <strong>del</strong>l’utopia, come definitiva liberazione <strong>del</strong>l’umanità<br />
dal peso <strong>del</strong>la Storia (anche se nel film la Storia trapela come Natura,<br />
una natura ostile), e chi ritiene, con atteggiamento più realistico ma anche<br />
più compromissorio, che la rivoluzione può essere solo parziale, resta sempre<br />
incompiuta, e dunque bisogna sapersi fermare per salvaguardare quel<br />
tanto, o poco, che è stato conquistato. L’alternativa posta dal film, sempre<br />
con riferimento schematico alla realtà e agli scontri politici di quegli anni,<br />
rimanda a quella tra la sinistra istituzionale, parlamentare, e la nuova sinistra,<br />
quest’ultima considerata non soltanto nelle sue enunciazioni teoriche<br />
ma anche nelle sue manifestazioni esteriori, e specialmente nelle nuove<br />
forme di lotta <strong>del</strong> movimento studentesco. Le due piccole comunità primordiali<br />
che nel film si fronteggiano raffigurano emblematicamente queste<br />
due diverse concezioni rivoluzionarie; e dalla loro conflittualità, dapprima<br />
solo verbale poi cruenta, traspare anche un discorso, di taglio etico<br />
oltre che politico, sulla violenza <strong>del</strong> potere e sul potere <strong>del</strong>la violenza, con<br />
tutte le ricadute esistenziali su chi il potere stesso esercita o subisce. Più<br />
in particolare, e sempre per il tramite <strong>del</strong>l’apologo e <strong>del</strong>la metafora, Sotto<br />
il segno <strong>del</strong>lo Scorpione mette in scena, ricorrendo anche a tecniche stranianti<br />
nella recitazione e nella gestualità degli attori, i comportamenti politici<br />
dei nuovi soggetti politici: l’“assemblearismo”, le “provocazioni”, l’uso<br />
“terroristico” <strong>del</strong>le parole, la purezza <strong>del</strong>le aspirazioni e (a volte) il cinismo<br />
<strong>del</strong>le azioni, la “spettacolarizzazione” <strong>del</strong>la politica stessa. Di conseguenza<br />
il film, la cui gestazione risale al 1967 (e quindi conferma le intuizioni<br />
anticipatrici rintracciabili in molto <strong>cinema</strong> dei Taviani) si pone anche<br />
come un’inedita rappresentazione dei miti e dei riti <strong>del</strong>la Contestazione,<br />
che gli stessi autori non intendono documentare direttamente o raccontare<br />
in chiave realistica, ma alla quale, con il loro speciale codice artistico,<br />
alludono con chiarezza, scartando e l’assunzione di una visione pregiudiziale<br />
e il pronunciamento di un giudizio conclusivo, lasciando così allo<br />
spettatore, disposto all’attività ermeneutica, la possibilità di rielaborarne<br />
uno proprio.<br />
Pur essendo, per le sue opzioni e per le sue soluzioni formali, un’opera<br />
<strong>del</strong> tutto eccentrica, oltre che <strong>del</strong> tutto risolta sul piano <strong>del</strong>l’innovazione<br />
stilistica e <strong>del</strong>la densità espressiva, Sotto il segno <strong>del</strong>lo Scorpione permette<br />
di individuare il metodo operativo e i fattori compositivi che più<br />
contraddistinguono il <strong>cinema</strong> dei Taviani, in particolare quello degli anni<br />
sessanta e <strong>del</strong> decennio successivo. Metodo e fattori che possono essere<br />
sintetizzati, contestualmente, nei punti seguenti: la valorizzazione di ogni<br />
specificità <strong>del</strong> mezzo espressivo; la preferenza per le tematiche ideologico-politiche<br />
calate, oltre che nel sociale, nell’interiorità dei personaggi;<br />
l’inclinazione a narrare le tensioni e le contraddizioni <strong>del</strong> presente; la tendenza<br />
a fondere le categorie <strong>del</strong> reale e <strong>del</strong> fantastico, sia a fini estetici, sia<br />
per aumentare le implicazioni critico-conoscitive dei film; l’attivazione di<br />
45
BRUNO TORRI<br />
una dialettica interna alle opere, che non concerne soltanto la trattazione<br />
dei temi prescelti, ma anche il rapporto tra le diverse componenti espressive,<br />
ad esempio tra le immagini e il sonoro, e che rende le opere stesse<br />
più polisemiche e più problematiche, dunque più rispettose <strong>del</strong>le facoltà<br />
critiche degli spettatori. I quattro film realizzati da Paolo e Vittorio Taviani<br />
negli anni sessanta hanno costituito un cospicuo contributo all’affermazione<br />
di un “<strong>nuovo</strong> <strong>cinema</strong>” italiano, hanno dato agli stessi autori un<br />
meritato prestigio, anche in campo <strong>internazionale</strong>, e hanno determinato il<br />
pieno sviluppo <strong>del</strong>la loro personalità artistica, così da consentire, nel 1971,<br />
la realizzazione di San Michele aveva un gallo, il loro capolavoro.<br />
46
STRUMENTI
FILMOGRAFIA<br />
a cura di Sergio Di Lino<br />
1962 – UN UOMO DA BRUCIARE<br />
Regia: Paolo e Vittorio Taviani, Valentino Orsini; soggetto e sceneggiatura: Paolo e Vittorio<br />
Taviani, Valentino Orsini; fotografia: Toni Secchi; montaggio: Lionello Massobrio;<br />
scenografia: Piero Paletto; musiche: Gianfranco Intra; interpreti: Gian Maria Volonté (Salvatore),<br />
Didi Perego (Barbara), Spyros Focas (Jachino), Lydia Alfonsi, Marina Malfatti,<br />
Vittorio Duse, Alessandro Sperlì, Marcella Rovena, Giampaolo Serra, Alfonso D’Errico,<br />
Turi Ferro, Ignazio Roberto Daidone, Franco Facciolo, Giulio Girola, Renato Montalbano,<br />
Ida Carrara, Giuseppe Lo Presti, Pierluigi Manetti, Vanni Tumminello, Vincenzo<br />
Tumminello, Carmen Villani; produzione: Giuliani G. De Negri e Henryck Chrorscicki<br />
per Ager Film, Sancro Film e Cinematografica (Italia); origine: Italia; durata: 92’.<br />
1963 – I FUORILEGGE DEL MATRIMONIO<br />
Regia: Paolo e Vittorio Taviani, Valentino Orsini; soggetto: Lucio Battistrada, Giuliani<br />
G. De Negri, Renato Nicolai, Valentino Orsini, Paolo e Vittorio Taviani, ispirato alla<br />
proposta di legge sul “piccolo divorzio” <strong>del</strong> Senatore Luigi Renato Sansone; sceneggiatura:<br />
Lucio Battistrada, Giuliani G. De Negri, Renato Nicolai, Valentino Orsini, Paolo<br />
e Vittorio Taviani; fotografia: Erico Menczer; montaggio: Lionello Massobrio; scenografia:<br />
Lina Nerli Taviani; costumi: Lina Nerli Taviani; musiche: Giovanni Fusco; interpreti:<br />
Ugo Tognazzi (Vasco), Annie Girardot (Margherita), Romolo Valli (Francesco), Marina<br />
Malfatti (Rosanna), Scilla Gabel (Wilma), Isa Crescenzi (Giulia), Didi Perego (Caterina),<br />
Gabriella Giorgelli, Renato Nicolai, Giuseppe Lo Presti, Enzo Robutti, Luigi Scavran,<br />
Giampaolo Serra, Lionello Zanchi, Nando Angelini, Carlo Maria Badini, Armando<br />
Bertuccelli, Emy Eco, Franca Lumachi, Alberto Masini, Ghilka Matteuzzi,<br />
Mariangela Matteuzzi, Riccardo Ricci, Fleano Serra, Sandro Vignocchi; produzione: Giuliani<br />
G. De Negri per Ager Film, Film Coop e D’Errico Film (Italia); distribuzione:<br />
Cidif; origine: Italia; durata: 100’.<br />
1967 – SOVVERSIVI<br />
Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto e sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani; fotografia:<br />
Gianni Narzisi, Giuseppe Ruzzolini; montaggio: Franco Taviani; scenografia: Lina<br />
Nerli Taviani; costumi: Lina Nerli Taviani; musiche: Giovanni Fusco; interpreti: Giulio<br />
339
FILMOGRAFIA<br />
Brogi (Ettore), Marija Tocinowski (Giulia), Lucio Dalla (Ermanno), Pier Paolo Capponi<br />
(Muzio), Ferruccio De Ceresa (Ludovico), Giorgio Arlorio (Sebastiano), Fabienne Fabre<br />
(Giovanna), Lidija Jurakic (Paola), Filippo De Luigi, Nando Angelini, Barbara Pilavin,<br />
Maria Cumani Quasimodo, Raffaele Triggia, José Torres, Feodor Chaliapin; produzione:<br />
Giuliani G. De Negri per Ager Film (Italia); distribuzione: Cidif; origine: Italia; durata:<br />
110’.<br />
1969 – SOTTO IL SEGNO DELLO SCORPIONE<br />
Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto e sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani; fotografia:<br />
Giuseppe Pinori; montaggio: Roberto Perpignani; scenografia: Gianni Sbarra; costumi:<br />
Lina Nerli Taviani; musiche: Vittorio Gelmetti; interpreti: Gian Maria Volonté (Renno),<br />
Lucia Bosè (Glaia), Giulio Brogi (Rutolo), Samy Pavel (Taleno), Daniele Dublino<br />
(Femio), Steffen Zacharias (Il vecchio isolano), Saro Liotta, Sergio De Vecchi, Giuseppe<br />
Scarcella, Alessandro Haber, Massimo Castri, Giuliano Disperati, Renato Scarpa, Bruno<br />
Cattaneo, Olimpia Carlisi, Milvia Deanna Frosini, Claudia Rittore, Laura De Marchi, Piera<br />
Degli Esposti, Anita Saxe, Caterina Altieri, Stefano Guerrieri, Antonio Cataldi, Luciano<br />
Odorisio, Napoleone Bizzarri, Vito Rocca, Biagio Pelligra, Marcello Di Martire, Antonio<br />
Piovanelli, Giovanni Brusatori, Maggiorino Porta, Maria Teresa Piaggio; produzione:<br />
Giuliani G. De Negri per Ager Film (Italia) e Rai Radiotelevisione Italiana; distribuzione:<br />
Cidif; origine: Italia; durata: 100’.<br />
1971 – SAN MICHELE AVEVA UN GALLO<br />
Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto: Paolo e Vittorio Taviani, liberamente ispirato al<br />
racconto Il divino e l’umano di Lev Tolstoj; sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani; fotografia:<br />
Mario Masini; montaggio: Roberto Perpignani; scenografia: Gianni Sbarra; costumi:<br />
Lina Nerli Taviani; musiche: Benedetto Ghiglia; interpreti: Giulio Brogi (Giulio Manieri),<br />
Daniele Dublino (Il carceriere), Renato Cestiè (Giulio Bambino), Vito Cipolla, Virginia<br />
Ciuffini, Marcello Di Martire, Vittorio Fanfoni, Francesco Sanvilli, Giuseppe Scarcella,<br />
Renato Scarpa, Sergio Serafini; produzione: Giuliani G. De Negri per Ager Film e<br />
Rai-tv (Italia); distribuzione: Cidif; origine: Italia; durata: 90’.<br />
1974 – ALLONSANFAN<br />
Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto e sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani; fotografia:<br />
Giuseppe Ruzzolini; montaggio: Roberto Perpignani; scenografia: Gianni Sbarra;<br />
costumi: Lina Nerli Taviani; musiche: Ennio Morricone; interpreti e personaggi: Marcello<br />
Mastroianni (Fulvio), Lea Massari (Charlotte), Mimsy Farmer (Francesca), Laura Betti<br />
(Esther), Claudio Cassinelli (Lionello), Bruno Cirino (Tito), Benjamin Lev (Vanni), Luisa<br />
De Santis (Fiorella), Ermanno Taviani (Massimiliano), Renato De Carmine (Costantino),<br />
Alderice Casali (La governante), Stanko Molnar (Allosanfan), Biagio Pelligra (Il prete),<br />
Michael Berger, Raul Cabrera, Roberto Frau, Cirylle Spiga, Francesca Taviani, Stavros<br />
Tornes, Pier Giovanni Anchisi, Luis La Torre, Carla Mancini, Bruna Rigetti; produzione:<br />
Giuliani G. De Negri per “Una cooperativa <strong>cinema</strong>tografica” (Italia); distribuzione:<br />
Istituto Luce – Italnoleggio Cinematografico; origine: Italia; durata: 115’.<br />
1977 – PADRE PADRONE<br />
Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto: Paolo e Vittorio Taviani, dall’omonimo romanzo<br />
di Gavino Ledda; sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani; fotografia: Mario Masini;<br />
montaggio: Roberto Perpignani; scenografia: Gianni Sbarra; costumi: Lina Nerli Taviani;<br />
musiche: Egisto Macchi; interpreti: Saverio Marconi (Gavino ragazzo), Omero Antonutti<br />
(Padre di Gavino), Marcella Michelangeli (Madre di Gavino), Fabrizio Forte (Gavino bambino),<br />
Marino Cenna (Il pastore), Stanko Molnar (Sebastiano), Nanni Moretti (Cesare),<br />
340<br />
FILMOGRAFIA<br />
Gavino Ledda (Se stesso), Pierluigi Alvau, Giuseppino Angioni, Fabio Angioni, Giuseppe<br />
Brandino, Mario Cheri, Giuseppe Chessa Perle, Domenico Deriu, Pier Paolo Fauli,<br />
Mario Fulghesu, Antonio Garrucciu, Patrizia Giannichedda, Roberto Giannichedda,<br />
Vincenzo Giannichedda, Pietro Giordo, Antonello Gloriani, Costanzo Mela, Domenico<br />
Moranti, Luigi Muntoni, Giuseppina Perantoni, Cristina Piazza, Matteo Piu, Maria<br />
Immacolata Porcu, Cosimo Rodio, Marco Sanna, Stefano Satta, Mario Spissu, Salvatore<br />
Stangoli, Marco Unali; produzione: Giuliani G. De Negri per Cinema S.r.L., Rai Rete 2<br />
(Italia); distribuzione: Cidif; origine: Italia; durata: 117’.<br />
1979 – IL PRATO<br />
Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto e sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani; fotografia:<br />
Franco Di Giacomo; montaggio: Roberto Perpignani; scenografia: Gianni Sbarra;<br />
costumi: Lina Nerli Taviani, Renato Ventura; musiche: Ennio Morricone; interpreti: Saverio<br />
Marconi (Giovanni), Isabella Rossellini (Eugenia), Michele Placido (Enzo), Giulio Brogi<br />
(Sergio, papà di Giovanni), Angela Goodwin (Giuliana, mamma di Giovanni), Remo<br />
Remotti, Ermanno Taviani, Mirio Gui<strong>del</strong>li, Giuseppe Rocca, Francesca Taviani, Maria<br />
Toesca, Alessandra Toesca, Giovanni Bacciottini, Giacomo Pardini, Massimo Bertolaccini;<br />
produzione: Giuliani G. De Negri per Rai Radiotelevisione Italiana e Filmtre S.r.L.<br />
(Italia); distribuzione: Cidif; origine: Italia, 1979; durata: 118’.<br />
1982 – LA NOTTE DI SAN LORENZO<br />
Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto: Paolo e Vittorio Taviani; sceneggiatura: Paolo e<br />
Vittorio Taviani e Giuliani G. De Negri, con la collaborazione di Tonino Guerra; fotografia:<br />
Franco Di Giacomo; montaggio: Roberto Perpignani; scenografia: Gianni Sbarra;<br />
costumi: Lina Nerli Taviani; musiche: Nicola Piovani; interpreti: Omero Antonutti (Galvano),<br />
Claudio Bigagli (Corrado), Massimo Bonetti (Nicola), Dario Cantarelli (Il prete),<br />
Sergio Dagliana (Olinto), Giuseppe Furia (Requiem), Paolo Hen<strong>del</strong> (Dilvo), Margarita<br />
Lozano (Concetta), Laura Mannucchi (Signora Naldini), Norma Martelli (Ivana), Rinaldo<br />
Mirannalti (Avvocato Migliorati), Enrica Maria Modugno (Mara), Mauro Monni (Dante),<br />
Franco Piacentini (Padre di Nicola), Donata Piacentini (Madre di Nicola), David Riondino<br />
(Giglioli), Massimo Sarchielli (Marmugi padre), Sabina Vannucchi (Rosanna), Antonio<br />
Prester (Tuminello), Gianfranco Salemi (Uomo nel bus), Mario Spallino (Bruno), Mirio<br />
Gui<strong>del</strong>li (Duilio), Titta Gui<strong>del</strong>li (Alfredina), Antonella Gui<strong>del</strong>li (Renata), Giovanni Gui<strong>del</strong>li<br />
(Marmugi figlio), Micol Gui<strong>del</strong>li (Cecilia), Miriam Gui<strong>del</strong>li (Bellindia), Samanta Boi<br />
(Rosanna bambina), Beatrice Bar<strong>del</strong>li (Donna in cantina), Marco Fastame (Gino), Edoardo<br />
Gazzetti (Egisto), Carlo Gensini (Ruggero), Vinicio Gioli (Padre di Bellindia), Andrea<br />
Giuntini (Gufo), Guido Marziali (Nardini), Gianfranco Moranti (Seminarista); produzione:<br />
Giuliani G. De Negri per Rai Radiotelevisione Italiana e Ager Cinematografica (Italia);<br />
distribuzione: Cidif; origine: Italia; durata: 105’.<br />
1984 – KAOS<br />
Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto: Paolo e Vittorio Taviani, liberamente tratto da<br />
Novelle per un anno di Luigi Piran<strong>del</strong>lo; sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani, Tonino<br />
Guerra; fotografia: Giuseppe Lanci; montaggio: Roberto Perpignani; scenografia: Francesco<br />
Bronzi; costumi: Lina Nerli Taviani; musiche: Nicola Piovani; interpreti: Margarita<br />
Lozano (Madre), Orazio Torrisi (Cola Camizzi), Carlo Cartier (Giovane dottore), Claudio<br />
Bigagli (Batà), Enrica Maria Modugno (Isidora), Massimo Bonetti (Saro), Anna Malvica<br />
(Madre di Sidora), Ciccio Ingrassia (Don Lollò), Franco Franchi (Zi’ Dima), Biagio Barone<br />
(Salvatore), Laura Mollica (Figlia), Salvatore Rossi (Patriarca), Franco Scaldati (Padre<br />
Sarso), Pasquale Spadola (Barone), Omero Antonutti (Luigi Piran<strong>del</strong>lo), Regina Bianchi<br />
(Madre di Piran<strong>del</strong>lo), Laura De Marchi (Nonna di Piran<strong>del</strong>lo giovane), Giovanna Tavia-<br />
341
FILMOGRAFIA<br />
ni (Madre di Piran<strong>del</strong>lo bambina), Giovanni Blandino, Veronica Campo, Giovanni Catania,<br />
Danilo Corasanti, Saro Di Martino, Lorenzo Randisi, Enzo Rizza, Enzo Alessi, Maria<br />
Lo Sardo, Matilde Piana, Maria Teresa Di Fede, Giovanni Marsala, Enzo Gambino, Angelo<br />
Mezzasalma, Giuseppe Sorge, Domenica Gennaro, Salvatore Mignosi, Toni Sperandeo,<br />
Claudio Gazziano, Fernando Jelo, Giorgio Gurrieri, Valentina Taviani, Giuliano<br />
Taviani, Frida Terranova, Maria Terranova, Bartolo Vindigni, Nello Accardi, Sabrina Belfiore,<br />
Marcello Bruno, Daniele Chessari, Salvatore Chessari, Maddalena De Panfilis,<br />
Maria Lauretta, Giuseppe Meli, Francesco Nicolosi, Silvana Puglisi, Giovanni Scivoletto,<br />
Tania Vicari; produzione: Giuliani G. De Negri per Rai Radiotelevisione Italiana e Filmtre<br />
s.r.l. (Italia); distribuzione: Sacis; origine: Italia; durata: 190’ (versione televisiva) – 140’<br />
(versione <strong>cinema</strong>tografica).<br />
1987 – GOOD MORNING BABILONIA<br />
Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto: Paolo e Vittorio Taviani, da un’idea di Lloyd<br />
Fonvielle; sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani, con la collaborazione di Tonino Guerra;<br />
fotografia: Giuseppe Lanci; montaggio: Roberto Perpignani; scenografia: Gianni Sbarra;<br />
costumi: Lina Nerli Taviani; musiche: Nicola Piovani; interpreti: Vincent Spano (Nicola),<br />
Joaquim De Almeida (Andrea), Greta Scacchi (Edna), Désirée Becker (Mabel), Omero<br />
Antonutti (Bonanno), Charles Dance (David Wark Griffith), Béreangère Bonvoisin<br />
(Mrs. Griffith), David Brandon (Grass), Brian Freilino (Thompson), Margarita Lozano (La<br />
veneziana), Massimo Venturiello (Duccio), Andrea Prodan (Operatore irlandese), Dorotea<br />
Ausenda, Ugo Bencini, Daniel Bosch, Renzo Cantini, Marco Cavicchioli, Fiorenza<br />
d’Alessandro, Lionello Pio Di Savoia, Maurizio Fardo, Domenico Fiore, Mirio Gui<strong>del</strong>li,<br />
John Francis Lane, Ubaldo Lo Presti, Luciano Macherelli, Sandro Mellegni, Elio Marconato,<br />
Michele Melega, Mauro Monni, Lamberto Petrecca, Diego Ribon, Antonio Russo,<br />
Giuseppe Scarcella, Leontine Snel, Egidio Termine, Francesco Tola, Pinon Toska;<br />
produzione: Giuliani G. De Negri per Filmtre Rai (Italia), MK2 Productions, Films A2<br />
(Francia), Edward Pressman Film Corporation (USA); distribuzione: Istituto Luce; origine:<br />
Italia; durata: 117’.<br />
1990 – IL SOLE ANCHE DI NOTTE<br />
Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto: Paolo e Vittorio Taviani, dal racconto Padre Sergio<br />
di Lev Tolstoj; sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani, con la collaborazione di Tonino<br />
Guerra; fotografia: Giuseppe Lanci; montaggio: Roberto Perpignani; scenografia:<br />
Gianni Sbarra; costumi: Lina Nerli Taviani; musiche: Nicola Piovani; interpreti: Julian<br />
Sands (Padre Sergio), Charlotte Gainsbourg (Matilda), Patricia Millardet (Aurelia), Rüdiger<br />
Vogler (Re Carlo III di Borbone), Margarita Lozano (madre di Sergio), Pamela Villoresi<br />
(Giuseppina), Massimo Bonetti (Principe Santobuono, aiutante di campo <strong>del</strong> Re),<br />
Nastassja Kinski (Cristina), Lorenzo Perpignani (Sergio bambino), Gaetano Sperandeo<br />
(Gesuino, brigante e padre <strong>del</strong> bambino muto), Geppy Gleijeses (Il vescovo), Sonia Gessner<br />
(Duchessa Del Carpio), Matilde Piana (La contadina), Vittorio Capotorto (Padre di<br />
Matilda), Riccardo Patrizio Perrotti (Duca Del Carpio), Salvatore Rossi (Eugenio), Teresa<br />
Brescianini (Concetta), Biagio Barone (Biagio), Ferdinando Murolo (Avvocato), Aleksander<br />
Mincer (Organista), Ubaldo Lo Presti (Ministro degli Interni), Carlo Luca De Ruggieri<br />
(Figlio di Gesuino), Maria Antonia Capotorto (Livia), Marco Di Stefano (Ufficiale in<br />
carrozza), Morena Turchi (Giuseppina bambina), Giovanni Cassinelli (Fratello di Cristina),<br />
Antonella Visini (Sorella di Cristina), Massimiliano Scarpa, Lucia Bastianini, Pino Patti,<br />
Francesco Ferrante, Mario Sandro De Luca, Peppe Bosone, Giovanni Fois, Carlo Di<br />
Maio, Fausto Lombardi, Dora Romano, Miana Merisi, Antonella Cocciante, Federica<br />
Paulillo, Ilaria Borrelli, Luigi Laurito, Agostino Belloni, Massimo Abate, Ezio Nandi,<br />
Giorgia Palombi, Tonino Maresca, Nicoletta Barberio, Daniele Lovecchio, Claudio<br />
342<br />
FILMOGRAFIA<br />
Lovecchio, Angela Fraccalvieri; produzione: Giuliani G. De Negri per Raiuno – Radiotelevisione<br />
Italiana e Filmtre s.r.l. (Italia), CAPOUL – INTERPOOL – SARA FILM (Francia),<br />
DIREKT FILM (Germania); distribuzione: SACIS; origine: Italia; durata: 113’.<br />
1993 – FIORILE<br />
Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto: Paolo e Vittorio Taviani; sceneggiatura: Paolo e<br />
Vittorio Taviani, Sandro Petraglia; fotografia: Giuseppe Lanci; montaggio: Roberto Perpignani;<br />
scenografia: Gianni Sbarra; costumi: Lina Nerli Taviani; musiche: Nicola Piovani;<br />
interpreti: Claudio Bigagli (Corrado/Alessandro), Galatea Ranzi (Elisabetta/Elisa),<br />
Michael Vartan (Jean/Massimo), Lino Capolicchio (Luigi), Costanze Engelbrecht (Juliette),<br />
Athina Cenci (Gina), Giovanni Gui<strong>del</strong>li (Elio), Norma Martelli (Livia), Pier Paolo<br />
Capponi (Duilio), Chiara Caselli (Chiara), Renato Carpentieri (Massimo anziano), Carlo<br />
Luca De Ruggieri (Renzo), Laurent Schilling (Il tenente), Fritz Mueller Schertz (Il professore),<br />
Laura Scarimbolo (Alfredina), Elisa Giani (Simona), Ciro Esposito (Emilio), Giovanni<br />
Cassinelli (Massimo bambino), Giancarlo Carboni (Nobile toscano), Sergio Dagliana<br />
(Vecchio contadino), Dominique Proust (Ufficiale), Mario Andrei (Tenente fascista),<br />
Massimo Grigò (Milite fascista), A<strong>del</strong>aide Foti (Vecchia contadina), Paul Muller (Inserviente),<br />
Massimo Tarducci (Lido), Massimo Salvianti (Fattore), Consuelo Ciatti (Contadina),<br />
Sergio Albelli (Giovane innamorato), Salvatore Corbi (Capo dei partigiani), Guido<br />
Cioli (Giovane partigiano), Juraj Chmel (Sacerdote), Marco Giorgetti (Capitano fascista),<br />
Andrea Kaemmerle (Partigiano), Riccardo Naldini (Partigiano), Elena D’Anna (Cameriera),<br />
Barbara Gai Barbieri (Giovane signora), Daniela Pini (Contadina Capponi), Riccardo<br />
Rombi (Contadino), Antonio Rugani (Avvocato), Folco Salani (Francese in acqua), Nicolò<br />
Chiaroni, Cecilia Vannini, Franco Millotti, Eli Siosopulos; produzione: Grazia Volpi per<br />
Filmtre s.r.l. – Gierre Film, con la collaborazione di Pentafilm (Italia), Florida Movies –<br />
La Sept (Francia), Roxy-Film – K.S.-Film (Germania), con la partecipazione di Canal+<br />
(Francia), e con il sostegno <strong>del</strong> fondo “Eurimages” <strong>del</strong> Consiglio d’Europa; distribuzione:<br />
Penta; origine: Italia; durata: 118’.<br />
1996 – LE AFFINITÀ ELETTIVE<br />
Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto: Paolo e Vittorio Taviani, dall’omonimo romanzo<br />
di J. W. Goethe; sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani; fotografia: Giuseppe Lanci;<br />
montaggio: Roberto Perpignani; scenografia: Gianni Sbarra; costumi: Lina Nerli Taviani;<br />
musiche: Carlo Crivelli; interpreti: Isabelle Huppert (Carlotta), Fabrizio Bentivoglio (Ottone),<br />
Jean-Hugues Anglade (Edoardo), Marie Gillain (Ottilia), Massimo Popolizio (Marchese),<br />
Laura Marinoni (Marchesa), Stefania Fuggetta (Agostina), Consuelo Ciatti (Governante),<br />
Massimo Grigò (Cameriera), A<strong>del</strong>aide Foti (Albergatrice), Giancarlo Carboni<br />
(Medico), Giancarlo Giannini (Voce narrante); produzione: Grazia Volpi per Filmtre-Gierre<br />
Film (Italia), in collaborazione con Rai Radiotelevisione Italiana, Florida Movies, France3<br />
Cinéma (Francia), con la partecipazione di Canal+ (Francia); distribuzione: Filmauro;<br />
origine: Italia; durata: 98’.<br />
1998 – TU RIDI<br />
Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto: Paolo e Vittorio Taviani, dalle novelle di Luigi<br />
Piran<strong>del</strong>lo; sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani; fotografia: Giuseppe Lanci; montaggio:<br />
Roberto Perpignani; scenografia: Gianni Sbarra; costumi: Lina Nerli Taviani; musiche:<br />
Nicola Piovani; interpreti: Antonio Albanese (Felice), Sabrina Ferilli (Nora), Luca<br />
Zingaretti (Migliori), Giuseppe Cederna (Rambaldi), Elena Ghiaurov (Marika), Dario<br />
Cantarelli (Il dottore), Piero De Silva (Collega di Felice), Turi Ferro (Ballarò), Lello Arena<br />
(Rocco), Steve Spedicato (Vincenzo), Orio Scaduto (Primo sequestratore), Ludovico<br />
Calderera (Secondo sequestratore), Roberto Fuzio (Terzo sequestratore), Luciano Virgilio,<br />
343
FILMOGRAFIA<br />
Roberto Nobile, Carmelo Carnemolla, Biancamaria D’Amato, Alessandra Costanzo,<br />
Filippo Dini, Andrea Di Casa, Riccardo Mosca, Gianluca Valenti, Frida Bruno, Nanà Torbica,<br />
Valentina Barresi, Elvira Anna Elena Feo, Donatella Furino, Maurilio Scaduto; produzione:<br />
Grazia Volpi per Filmtre s.r.l., in collaborazione con Dania Film, Rai – Cinemafiction<br />
(Italia); distribuzione: Istituto Luce; origine: Italia; durata: 99’.<br />
2001 – RESURREZIONE<br />
Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto: Paolo e Vittorio Taviani, dal romanzo omonimo<br />
di Lev Tolstoj; sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani; fotografia: Franco Di Giacomo;<br />
montaggio: Roberto Perpignani; scenografia: Lorenzo Baraldi; costumi: Lina Nerli<br />
Taviani; musiche: Nicola Piovani; interpreti: Stefania Rocca (Katiuˇsa), Timothy Peach<br />
(Principe Dimitri Neclyudov), Giulio Scarpati (Simonson), Marina Vlady (Zia Duchessa),<br />
Antonella Ponziani (Vera), Cecile Bois (Marietta), Marie Baumer, Eva Christian, Sonia<br />
Gessner, Giulia Lazzaroni, Michele Melega, Vania Vilers, Daniela Bakerova, Maria Barintova,<br />
Ian Bidlas, Imra Boraros, Vladmir Cech, Karol Chalik, Vlado Durdic, Hana Frejkrova,<br />
Milan Gargula, Jan Jirabeta, Vladimir Javorosky, Robert Jaskow, Zora Ulla Keslerova,<br />
Josef Kramar, Jana Krausova, Pavel Kriz, Martin Kubacak, Jan Kuzelka, Vit Marecek,<br />
Matej Matejka, Bara Milova, Stefan Misovich, Frantiˇsek Nemec, Pepa Nos, Zdnek<br />
Peckacek, Eni Rabova, Jhoanna Rezkova, Michal Rosen, Ja’n Sedal, Jiri Sieber, Hana Stedova,<br />
Vera Uzelakova, Peter Varga, Karel Zima, Jakub Zinduk; produzione: Grazia Volpi<br />
per Rai Fiction e Filmtre s.r.l. (Italia), Pampa Productions, France 2 (Francia), Bavaria<br />
Film (Germania); distribuzione: Rai Radiotelevisione Italiana, Rai Trade; origine: Italia;<br />
durata: 110’.<br />
2004 – LUISA SANFELICE<br />
Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto: Paolo e Vittorio Taviani, dal romanzo omonimo<br />
di Alexandre Dumas; sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani; fotografia: Franco Di<br />
Giacomo; montaggio: Roberto Perpignani; scenografia: Lorenzo Baraldi; costumi: Lina<br />
Nerli Taviani; musiche: Nicola Piovani; interpreti: Laetitia Casta (Luisa Sanfelice), Adriano<br />
Giannini (Salvato Palmieri), Cecilia Roth (Regina Carolina), Marie Baumer (Lady<br />
Hamilton), Emilio Solfrizzi (Re Ferdinando), Lello Arena (Pasquale De Simone), Linda<br />
Batista (Eleonora Pimentel), Mariano Rigillo (Luciano Sanfelice), Johannes Silberschneider<br />
(Lord Nelson), Margarita Lozano (Marga), Yari Gugliucci (Michele), Carmelo Gomez<br />
(Cardinale Ruffo), Jeany Vesberteloot (Championnet), Teresa Saponangelo (Assunta),<br />
Aketza Lopez (Granduca Francesco), Steffen Wink (Andreas Baker), Antonino Iuorio (Fra’<br />
Pacifico), Roberto Nobile (Conte Ascoli), Cristiana Capotondi (Maria Clementina), Lello<br />
Giulivo (Garat), Glauco Onorato (Carramanico), Mario Aterrano, Marcello Belotti, Carmine<br />
Borrino, Ludovico Caldarera, Ciro Capano, Carlo Damasco, Antonio D’Avino, Mitchel<br />
Dawson, Susi Del Giudice, Raffaele Esposito, Andrea Fiorillo, Emiliano Fittipaldi,<br />
Angelo Gullotti, Ferdinando Maddaloni, Bruno Marinelli, Giuseppe Mastrocinque, Giuseppe<br />
Miale, Adriano Mottola, Isabella Orsini, Ivan Polidoro, Ruben Rigillo, Andrea Ivan<br />
Refuto, Odoardo Trasmondi, Peter Aczel, Luiza Cernuskovà, Jozef Fila, Monika Fiserovà,<br />
Lubo Pavlovic, Lucia Srncovà, Frantisen Velecky; produzione: Grazia Volpi e Riccardo<br />
Tozzi per Rai Radiotelevisione Italiana, Ager3 e Cattleya (Italia), Victory Media<br />
Group, Pampa Production (Francia), con la collaborazione di France 2 e Alquimia Cinema;<br />
distribuzione: Rai Radiotelevisione Italiana; origine: Italia; durata: 181’.<br />
344
BIBLIOGRAFIA<br />
a cura di Chiara Polizzi<br />
MONOGRAFIE<br />
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Bandecchi & Vivaldi, Pontedera, 1990.<br />
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Chiristian Zimmer, Les idées des frères Taviani, in Id., Cinéma et Politique, Seghers,<br />
Paris, 1974, pp. 230-235.<br />
Pascal Bonitzer, Allonsanfan, in Id., Le regard et la voix, Union Générale d’Editions,<br />
Paris, 1976.<br />
Ermanno Comuzio, Musica e suoni protagonisti nel <strong>cinema</strong> dei fratelli Taviani, in «Bianco<br />
e Nero» n. 5/6, 1977, pp. 104-121.<br />
Jean A. Gili, Paolo et Vittorio Taviani, in Id., Le cinéma italien, Union Générale d’Editions,<br />
Paris, 1978, pp. 332-401.<br />
Lino Miccichè, Politica e arte dei fratelli Taviani, in «Avanti», 10/11/1978.<br />
Aldo Tassone, Parla il <strong>cinema</strong> italiano, Il Formichiere, Milano, 1980.<br />
Leonardo Quaresima, Il discorso allegorico: Bellocchio, Bertolucci, Ferreri, i Taviani, in<br />
A<strong>del</strong>io Ferrero (a cura di), Storia <strong>del</strong> <strong>cinema</strong> italiano anni ‘70 e le nuove <strong>cinema</strong>tografie,<br />
Marsilio, Venezia, 1981, pp. 57-77.<br />
R.T. Witcombe, Peasant perspectives: Ermanno Olmi and the Taviani, in Id., The new<br />
italian <strong>cinema</strong>, Secker & Warburg, London, 1982, pp. 189-217.<br />
Gian Piero Brunetta, Paolo e Vittorio Taviani e Valentino Orsini, in Id., Storia <strong>del</strong> <strong>cinema</strong><br />
italiano. Dal 1945 agli anni ‘80, Editori Riuniti, Roma, 1982, pp. 675-681.<br />
Vito Attolini, La terza barca, i fratelli Taviani, in Id., Sotto il segno <strong>del</strong> film, <strong>cinema</strong> italiano<br />
1968/76, Adda, Bari, 1983, pp. 93-112.<br />
Guido Aristarco, Un ulteriore approccio a Brecht, in Id., L’utopia <strong>cinema</strong>tografica, Sellerio,<br />
Palermo, 1984, pp. 184-188.<br />
Michael Esteve, Paolo et Vittorio Taviani ou l’utopie au service de l’homme, in Id., Le<br />
pouvoir en question. Essai sur la dignité de l’homme à l’écran, Editions du Cerf, Paris, 1984,<br />
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Henri Agel, La Nuit de San Lorenzo, in Id., Un art de la célébration. Le cinéma de Flaherty<br />
à Rouch, Editions du Cerf, Paris, 1987, pp. 116-121.<br />
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Guido Aristarco (introduzione di) Salvatore Piscicelli (a cura di), “San Michele aveva<br />
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Paolo Taviani e Vittorio Taviani, “Eravamo un milione” – “Sovversivi”, in «Cinemasessanta»<br />
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Mino Argentieri (a cura di), Padre padrone, Cappelli, Bologna, 1977.<br />
Paolo Taviani e Vittorio Taviani, “Sotto il segno <strong>del</strong>lo Scorpione”; “Il prato”, ERI edizioni<br />
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Don Ranvaud (a cura di), Good Morning Babylon, Faber and Faber, London-Boston,<br />
1987.<br />
Hartmut Kohler, “Die Nacht von San Lorenzo”, Paolo und Vittorio Taviani, Delphi,<br />
Nordlingen, 1988.<br />
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Orsini e Paolo e Vittorio Taviani sul film “I fuorilegge <strong>del</strong> matrimonio”, in «Filmcritica»,<br />
n. 134, giugno 1963, pp. 335-342.<br />
Valentino Orsini, Paolo Taviani, Vittorio Taviani, Impegno civile e diritti <strong>del</strong>la fantasia,<br />
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Sandro Zambretti, Splendori e miseria…. in «Cineforum», n. 37, settembre 1964, pp.<br />
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M. Pelinq, Les Taviani à l’écoute de la mémoire collective, in «Jeune Cinéma», n. 144,<br />
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Pascal Bonitzer, Serge Toubiana, Le cinéma double de Paolo et Vittorio Taviani, in<br />
«Cahiers du Cinéma», n. 342, décembre 1982, pp. 36-43.<br />
Gervais Ginette, Tournès Andrée, Ainsi naissent les légendes: les Taviani sur la nuit de<br />
San Lorenzo, in «Jeune Cinéma», n. 147, décembre-janvier 1982-83, pp. 1-3.<br />
Peter Brunette, Vittorio Taviani: an interview. In «Film Quarterly» n. 3, vol. XXXVI,<br />
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Andrée Tournès, A la recherche de la vérité. “Le soleil même la nuit”, in «Jeune Cinéma»<br />
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Mirella Poggialini, Resurrezione, in «Avvenire», 16/1/2002.<br />
Gian Luigi Rondi, Resurrezione, in «Il Tempo», 16/1/2002.<br />
“LUISA SANFELICE”<br />
Virgilio Fantuzzi, “Luisa Sanfelice” di Paolo e Vittorio Taviani, in «La Civiltà Cattolica»,<br />
Quaderno 3688, Anno 2004.<br />
Dario Bazargan, “Luisa Sanfelice” Timido tentativo di buona televisione, in «Cinemavvenire.it».<br />
358