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sostuisce a quel nome (con un evidente anacronismo) quello del pittore Hieronymus Bosch, e quando Guccio vuole ostentare la sua immaginaria ricchezza “quasi stato fosse il Siri di Castiglione”, Van Breughel scrive “quasi fosse il vescovo di Turnhout”, con una probabile allusione ad un personaggio contemporaneo. Anche questa versione fu ristampata diverse volte fino al 1644, e anch’essa è ormai consultabile in internet. Nel suo voluminoso studio sulle novelle di Boccaccio nella cultura farsesca del Rinascimento neerlandese 7 , René van Stipriaan ha dimostrato che le due traduzioni hanno fornito abbondante materia per un genere particolarmente fortunato presso le classi popolari durante il secolo d’oro olandese: la farsa. Ma anche diversi autori di commedie, tragicommedie e tragedie hanno trovato una fonte d’ispirazione nelle novelle del Decameron. Mentre nel corso del Cinquecento si possono già trovare motivi boccacciani riconducibili probabilmente a riduzioni teatrali francesi, dopo il 1600 è provabile un uso diretto delle traduzioni, anche se in genere l’azione è spostata nei Paesi Bassi e i personaggi sono olandesi. Van Stipriaan è riuscito ad individuare almeno una dozzina di opere teatrali che si rifanno testualmente ad una delle due traduzioni, di cui la più nota è rimasta la commedia Andrea de Piere di Willem Dirckszoon Hooft del 1628, che segue fin nei dettagli la novella di Andreuccio da Perugia. Nei decenni seguenti, rispettivamente nel 1659 e nel 1701, vedono la luce anche le prime (e rimaste uniche) traduzioni neerlandesi dell’Elegia di Madonna Fiammetta e de Il Corbaccio. Benché la prima porti la menzione “ora tradotto per la prima volta dall’italiano”, tutt’e due sono visibilmente riconducibili a testi intermedi francesi. Per una serie di ragioni politiche ed economiche, il Settecento segna un rapido decadimento delle Province Unite da grande potenza europea e conseguentemente anche un declino culturale. Il protestantesimo, una volta il motore della fioritura artistica, si sgretola in decine di sette che si ripiegano su se stesse e si combattono intensamente. È ormai una piccola borghesia conservatrice e chiusa a dominare la vita culturale. Di questo clima cambiato testimonia anche la terza traduzione neerlandese del Decameron, che nel 1732 esce ad 7 R. VAN STIPRIAAN, Leugens en vermaak. Boccaccio’s novellen in de kluchtcultuur van de Nederlandse renaissance, Amsterdam, Amsterdam University Press, 1996. 276
Amsterdam con il titolo Aardige en vermakelyke historien van Bocatius, den Florentyner. Op eenen lossen en onbedwongenen trant in ‘t Nederduitsch overgezet (“Piacevoli e divertenti storie di Boccaccio il fiorentino, volte in neerlandese in modo libero e spigliato”), senza il nome del traduttore e sotto finte spoglie, poiché il frontespizio reca l’indicazione falsa “A Colonia, presso Jacobus Gaillard”, uno pseudonimo abbastanza trasparente (l’aggettivo francese gaillard significa anche “salace”). Tutti questi elementi fanno supporre che si tratti di un’edizione semiclandestina, da vendere sottobanco, e inoltre ad un pubblico piuttosto facoltoso, dato che è corredata di decine di incisioni. Nella sua prefazione, l’anonimo traduttore (l’attribuzione della traduzione a Jan Hendriksz. Glazemaker da parte del suo successore S.H. Weiland è altamente improbabile) espone abbastanza dettagliatamente il suo metodo di lavoro: descrive il Decameron come un libro “pieno di trovate comiche e spiritose”, che egli si sente obbligato di esprimere a volte in un modo velato, ma che secondo lui saranno capite lo stesso dai buoni intenditori. Inoltre, spiega, “si è dovuti vestire l’opera secondo la moda nostra: le novelle prolisse sono state decurtate, le ripetizioni evitate, e spesso sono stati cambiati non soltanto dei periodi interi, ma l’impostazione stessa del testo. Specialmente ci si è adoperati, per quanto fosse possibile, di essere brevi e di conservare delle novelle nient’altro che l’essenziale e il più spiritoso”. Per questa stessa ragione, così continua il suo discorso, ha abbreviato molto anche il proemio e l’introduzione alla prima giornata (che egli è il primo a tradurre). E riguardo a prevedibili critiche di anticlericalismo, mette già le mani avanti premettendo nella sua prefazione, a proposito dei monaci: “Ognuno sa bene che ai tempi in cui scrisse il Boccaccio, i costumi dei frati erano corrotti. [...] Quello che racconta, oggi dovrebbe riguardare soltanto i preti cattivi; i virtuosi non se ne dovrebbero preoccupare, mentre gli altri [...] dovrebbero possibilmente correggere le loro sregolatezze”. Per chi guarda bene, c’è però una strana omissione: mentre il traduttore sostiene di includere tutt’e cento le novelle, ne manca una, e proprio di quelle più piccanti: la storia di Alibech e del suo romita, che risulta sostituita con un raccontino tratto dall’introduzione alla quarta giornata. Malgrado questa premessa poco promettente, si tratta di una versione interessante per la storia della traduzione letteraria, tipica 277
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S.H. Weiland è altamente improbabile) espone abbastanza dettagliatamente<br />
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“pieno <strong>di</strong> trovate comiche e spiritose”, che egli si sente obbligato<br />
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conservare delle novelle nient’altro che l’essenziale e il più spiritoso”.<br />
Per questa stessa ragione, così cont<strong>in</strong>ua il suo <strong>di</strong>scorso, ha abbreviato<br />
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possibilmente correggere le loro sregolatezze”. Per chi guarda bene,<br />
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piccanti: la storia <strong>di</strong> Alibech e del suo romita, che risulta sostituita<br />
con un raccont<strong>in</strong>o tratto dall’<strong>in</strong>troduzione alla quarta giornata.<br />
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