SUB241@68-81 TORRE DEL ORO

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una forte mareggiata di grecale. Le onde erano entrate nella cala e con il loro movimento vorticoso avevano spostato tonnellate di sabbia, che si erano accumulate in un versante lasciando allo scoperto l’altro. Ed è stato fra le rocce messe a nudo dalla corrente che abbiamo visto i resti di una piccola nave di legno, fino allora rimasti sepolti nel fondo: un albero spezzato, diverse ordinate, qualche coccio, giunti e lastre di rame trafitti da chiodi a testa quadra. Dunque c’era stato un naufragio, che i reperti recuperati indicavano avvenuto intorno al diciannovesimo secolo. Ma non era eccessivo tutto quel carbone per una piccola unità che probabilmente aveva affidato la maggior parte della sua propulsione alla vela? Le ricerche storiche che avevamo da poco terminato per dare un contorno e un senso ai resti di una nave erariale romana carica di bronzo individuata a non molta distanza da Cala Morell (SUB n. 210 del mese di marzo 2003) ci avevano già messo a conoscenza del fatto che fino a pochi decenni prima in tutta questa parte dell’isola si produceva carbone di legna. C ’era un nesso fra il materiale sparso sul fondo e il relitto? Probabilmente sì, ma bisognava indagare più a fondo. Dopo aver consultato gli archivi comunali di Ciudadela, i registri della Capitaneria di Porto e la biblioteca, abbiamo coinvolto nelle ricerche anche il massimo esperto di naufragi di Minorca, il giornalista e scrittore Alfonso Buenaventura, con il quale avevamo già collaborato in passato. Alfonso aveva la casa piena di appunti e di vecchie scritture riguardanti gli affondamenti avvenuti intorno all’isola negli ultimi duecento anni e così, facendo confron- 74 ti di date e di nomi, piano piano siamo riusciti a risalire a una storia attendibile. “Margaret” era un’imbarcazione inglese con la matricola di Sunderland e trecentoquattordici tonnellate di dislocamento. Era stata varata nel 1860 ed era stata costruita particolarmente robusta per consentirle di fare molta navigazione costiera anche nei luoghi più fuori mano, dove sarebbe dovuta entrare in baie e insenature anguste, magari irte di scogli affioranti, per caricare il carbone di legna comprato a buon mercato direttamente dagli artigiani sparsi nei piccoli centri. Lo scafo era di legno, ma solido. P er proteggerla dai bassi fondali in cui si sarebbe spinta, la chiglia era stata completamente ricoperta con spesse lastre di rame inchiodate in modo da formare una corazza nella parte più vulnerabile dello scafo. Il 3 giugno 1867, “Margaret” era ancorata a Cala Morell. Nonostante il tempo minacciasse di cambiare, si era fermata per caricare una partita di carbone, che, una volta venduto in Inghilterra, sarebbe servito per la produzione di gas. Le operazioni di carico, fatte a mano passando i sacchi colmi e pesanti dagli scogli alla barca appoggio e da questa alla nave, portarono via più tempo del previsto e quando arrivò impetuoso il nordest il capitano William Smart, che era al comando, si rese conto che era ormai troppo tardi per uscire dal ridosso. Il mare continuava ad aumentare e dopo qualche ora era diventato pericoloso. Smart fece mettere due ancore a V di prua e fece legare la poppa agli scogli subito sotto la Punta dell’Elefante. Poi sperò nella buona sorte. Ma non fu abbastanza. Le creste delle onde superaro- no l’Elefante e piombarono sulla nave che, presa sul fianco, cominciò a tirare sulle cime e a urtare con la poppa gli scogli affioranti della riva. Prima di sera, affondò in poco più di 10 metri d’acqua, ma, grazie al carico pesante che aveva a bordo, rimase in assetto di navigazione, senza rovesciarsi. La nave aveva solamente sette anni di vita, era piena di carbone, che poteva essere asciugato e venduto ugualmente come se niente fosse avvenuto, e la profondità era irrisoria. Così, i suoi armatori decisero di tentarne il recupero e mandarono a Cala Morell, allora selvaggia, deserta e fuori mano, un esperto sommozzatore, il quale visitò lo scafo, si rese conto che i danni erano riparabili e sovrintese ai lavori per riportare tutto a galla. Nella cala, approfittando delle calme estive, venne ancorata una piattaforma galleggiante su cui si avvicendarono molte squadre di operai. Nei primi giorni di settembre “Margaret” galleggiava con il carbone ancora nella stiva, ma il destino delle navi è un po’ come quello degli uomini: è già scritto, e non si può cambiare. Qualche giorno dopo, mentre i carpentieri stavano finendo gli ultimi lavori di allestimento per permetterle di riprendere la na- vigazione, “Margaret” venne investita da un’altra burrasca che flagellò la costa nord di Minorca. Erano le prime avvisaglie delle intemperie autunnali, ma il piccolo bastimento da trasporto, non ancora in grado di rimettersi in mare, fu nuovamente sopraffatto dai marosi. Affondò per la seconda volta quasi nello stesso punto della prima. E lì rimase disfacendosi lentamente e sparpagliando il suo carico nella cala. Sembrava che il mistero del carbone di Cala Morell fosse risolto quando un giorno, esaminando i pezzi recuperati e lasciati ad asciugare al sole nella sede minorchina della PDD, a Maurizio Macori è venuto un dubbio: il carbone non era tutto della medesima qualità. Alcuni reperti erano grezzi e si vedeva chiaramente che provenivano dal legno consunto, di cui si notavano ancora i cerchi concentrici, mentre altri, più grandi e squadrati, avevano un aspetto compatto e una Teia Macori mostra i pezzi di carbone che ancora si trovano sui fondali di Cala Morell e hanno messo i sub sulle tracce della Torre del Oro. Le lunghe esplorazioni sono state fatte con il Ccr Buddy Inspiration. consistenza notevolmente superiore. Uno di questi era addirittura tondo come una boccia e levigato come una lastra di marmo passata sotto una mola. Doveva aver fatto un sacco di strada per ridursi così. Data la sua peculiarità, ci ricordavamo che non l’avevamo trovato dentro la cala, bensì fuori, sulla punta, a una ventina di metri di profondità. Certamente questo carbone non era stato fatto bruciando empiricamente i tronchi di pino e di leccio, ma era un carbone di ottima qualità e più raffinato, che doveva produrre molte calorie durante la combustione. Da dove proveniva se non era di Cala Morell? Una domanda tira l’altra e alla fine ci siamo convinti che le nostre indagini non erano ancora terminate. Un carbone di quel tipo poteva stare bene nella fornace di una grande fabbrica metallurgica del continente, su una locomotiva a vapore, oppure nella caldaia di una grande nave. Visto che eravamo su un’isola priva di industrie e di ferrovie, abbiamo tutti concordato che l’ipotesi della nave fosse la più verosimile. Ma come poteva finire fuori bordo un pezzo di carbone che normalmente sta nella sala macchine, e quindi ben sottocoperta? Certo, qualcuno avrebbe potuto gettarlo in mare per una ragione o l’altra, ma la sfera non era unica. Nei paraggi c’erano altri blocchi della stessa qualità, sebbene di forme diverse. E non riuscivamo a immaginarcelo un marinaio che si divertisse a trasportare i pezzi di carbone uno per uno dalla stiva al ponte per poi buttarli in acqua. Era più facile pensare che il carbone fosse finito sul fondo con tutta la nave. Di naufragi importanti nella zona ce n’erano stati parecchi in passato. A Ciudadela la gente si ricordava ancora bene della terribile tragedia del “General Chanzy”, un postale francese lungo centonove metri e dislocanteduemilanovecentoventi tonnellate che il 9 febbraio 1910 si schiantò contro la scogliera del Codolar de Sa T orre Nova. Vi erano imbarcati ottantasette marinai e settanta passeggeri. Uno soltanto si salvò miracolosamente, centocinquantasei furono i morti e i dispersi. Il posto della 75

catastrofe lo conoscevamo ed era a circa quattro miglia da Cala Morell. Sembrava improbabile che il carbone provenisse da lì. Doveva esserci qualcos’altro. Diverse navi, specialmente negli anni a cavallo del 1900, erano colate a picco nella zona, oltre al “General Chanzy”, e così abbiamo ricominciato a scartabellare negli archivi in cerca di date, luoghi e nomi che per noi potessero avere un significato. E ancora una volta sono stati preziosi gli elenchi dei sinistri marittimi messici a disposizione da Alfonso Buenaventura. Il 26 ottobre 1921 a Minorca c’era stata un’altra grave sciagura: il mercantile “Torre del Oro”, di milletrecentoventuno tonnellate, era finito sugli scogli del Cul de sa Ferrada. Due erano stati i superstiti, ventotto i morti. Detta così, la notizia non ci coinvolgeva più di tanto. Dov’era il Cul de sa Ferrada? Nessuno lo sapeva con precisione, perciò ci siamo armati di pazienza e abbiamo cominciato a esaminare centimetro per centimetro una vecchia carta nautica scritta in minorchino e scovata casualmente in una polverosa libreria. E ci siamo accorti, con stupore, che il Cul de sa Ferrada non era altro che la parte terminale, e quindi più chiusa, della Baia Morell, da dove si accedeva nell’omonima cala. Insomma, il Cul de sa Ferrada potevamo vederlo semplicemente affacciandoci al terrazzo di casa, era la scogliera alta e a picco, impressionante per la sua maestosità, che con un arco pronunciato univa la Punta dell’Elefante alla Punta de s’Escullar. Da tanti anni eravamo nel teatro di una tragedia e non lo sapevamo. Per prima cosa abbiamo cercato di avere qualche conferma. Un evento così drammatico, benché risalisse a ottantatré anni prima, non poteva essere stato completamente dimenticato. Infatti, qualcuno che si ricordava lo abbiamo trovato, ma, forse per l’età avanzata, forse perché a quell’epoca non era ancora nato, le notizie che ci dava erano molto confuse e spesso contraddittorie. Chi diceva che una nave si era infilata proprio là, dove si ve- deva l’imboccatura di una gigantesca caverna che chiamavano La Cattedrale, chi diceva che invece il punto del naufragio era a metà della scogliera. Non restava altro da fare che andare a guardare. Sulle carte c’era scritto che il relitto era stato recuperato pochi anni dopo il naufragio, ma qualche resto doveva per forza essere rimasto sul fondo. Ci lasciava perplessi il fatto che quel tratto di mare l’avevamo già percorso in lungo e in largo moltissime volte e non avevamo mai visto niente che attirasse l’attenzione, a parte i pesci e una coreografia molto suggestiva, fatta di canaloni, grotte passanti e acuminati pinnacoli di pietra che si levavano dal fondo come le guglie di un castello. La prima esplorazione l’abbiamo fatta con il PDD quasi al completo: oltre a noi, c’erano Maurizio con la moglie Teia, Enrico, Alejandro, Jordi, Claudio Corti, presidente della TSA Europa, e Pera Calafat Torres, che ci assisteva rimanendo sul “Pegaso 3”, la nostra barca appoggio. Avevamo deciso di visitare per primi i punti che ci erano stati indicati e ci eravamo divisi a coppie per esplorare un tratto di fondale più vasto. Abbiamo esaminato bene la fascia dei 10 metri, quella dei 15 e quella dei 20 metri. Ci aspettavamo di notare lamiere incrostate e corrose dalla ruggine, qualcosa, insomma, che facesse pensare al relitto, invece abbiamo visto solo scogli ricoperti di alghe. Era chiaro che così la ricerca sarebbe stata lunghissima ed esasperante. José Almagro, anche lui membro del nostro gruppo, ci era già stato molto utile in altre occasioni per la sua approfondita conoscenza dei fondali minorchini. Della “Torre del Oro” aveva sentito parlare vagamente e non sapeva esattamente dove fosse naufragata, ma si ricordava che più o meno là dove stavamo cercando c’era una nave romana. Non l’avevamo vista? Era contro le rocce, a non più di una quindicina di metri di profondità. Tutto ciò non stava in piedi, laggiù c’erano solo scogli, avevamo passato ore a perlustrare la zona e se ci fosse stato qualche reperto antico lo avremmo sicuramente individuato. Ma José insisteva: anni prima lui stesso aveva prelevato parecchi pani di piombo da quel relitto, che tutti supponevano fosse romano. Si trovavano abbandonati sul fondo e parecchi subacquei del posto andavano lì a far provviste quando avevano bisogno di una zavorra. Dov’erano esattamente? Più o meno sotto quelle rocce, un po’ più a destra o un po’ più a sinistra, era passato tanto tempo... La coincidenza era strana. Possibile che nel medesimo tratto di mare in cui era affondata la “Torre del Oro” fosse naufragato anche un bastimento antico? E sempre a due passi da casa? Tutto poteva succedere. Però, che cosa trasportava la “Torre del Oro”? Spinti da un presentimento siamo andati a scartabellare fra i manifesti di carico. E lì, su quei documenti ingialliti dal tempo, c’era scritto in maniera ancora ben leggibile che il mercantile nel suo ultimo viaggio trasportava barili di uva e di olive. E cinquecento tonnellate di lingotti di piombo provenienti dalla fonderia basca Penarroya. Altro che nave romana, fra quegli scogli c’erano proprio i resti della “Torre del Oro”! Ma bisognava trovarli. Abbiamo passato giorni e giorni immergendoci in apnea e nuotando per lunghi tratti con maschera e pinne in superficie, da dove potevamo avere una visione panoramica del fondo e quindi maggiori probabilità di avvistare ciò che ci interessava. La scoperta è avvenuta alla fine dell’estate. Eravamo rimasti soli, con Pera in barca, quando in una zona di macigni caduti dalla montagna, che avevamo lasciato per ultima ritenendola meno interessante, abbiamo notato qualcosa di inconsueto: su un ripido fondale di 12 - 13 metri che terminava in un pianoro di sabbia a 23 metri di profondità i sassi e le rocce erano ricoperti da una densa nebbia giallognola che impediva alla vegetazione di crescere normalmente. Siamo scesi per esaminare il fenomeno da vicino e ci siamo resi conto che sotto gli scogli e la sabbia c’era uno spesso strato di metallo che stava marcendo e riempiva l’acqua di ruggine. Probabilmente si trattava delle piastre di chiglia lasciate sul fondo dopo il recupero parziale del piroscafo e nel corso degli anni rimaste sepolte dalle frane staccatesi dalla parete a stra- piombo della scogliera, in quel punto alta più di ottanta metri. Ecco perché il relitto sembrava scomparso nel nulla e nessuno ne sapeva niente: il tempo e la consunzione naturale degli elementi ne avevano pietosamente protetto e nascosto i resti martoriati dalle benne e dalle I subacquei del team PDD della nostra rivista al lavoro per recuperare un grosso lingotto di piombo servito per l’identificazione certa della nave. fiamme ossidriche dei palombari. Da quel momento in poi con Alejandro Fernandez e Jordi Moya abbiamo concentrato le ricerche su una delimitata aerea del fondale e abbiamo cominciato a esplorare gli anfratti grandi e piccoli che si aprivano tra un macigno e l’altro. La “Torre del Oro”, praticamente invisibile dall’alto, era ancora là. Era sufficiente infilarsi tra un masso e l’altro e nelle numerose grotticelle della frana per vedere ogni genere di materiale appartenuto alla nave: tubi, valvole, volantini, ingranaggi, paratie, centine, leveraggi, oblò, cavi d’acciaio, maniglie e altro. Schiacciata sotto un enorme sasso abbiamo anche trovato la rivestitura dorata della torre del fumaiolo che aveva ispirato il nome e dietro uno scoglio abbiamo riconosciuto una parte ancora in buono stato della intelaiatura di plancia. Mancava, però, una prova certa che quei resti fossero veramente della “Torre del Oro” e non di un mercantile anonimo. In quello sfacelo disperavamo di trovarla, invece in una delle ultime immersioni Jordi ha attirato la nostra attenzione e passando attraverso uno stretto pertugio ci ha portati in una cavità che si apriva sotto un colossale macigno: uno vicino all’altro c’erano tre grossi 76 77

catastrofe lo conoscevamo<br />

ed era a circa quattro miglia<br />

da Cala Morell. Sembrava<br />

improbabile che il carbone<br />

provenisse da lì. Doveva esserci<br />

qualcos’altro.<br />

Diverse navi, specialmente<br />

negli anni a cavallo del 1900,<br />

erano colate a picco nella zona,<br />

oltre al “General<br />

Chanzy”, e così abbiamo ricominciato<br />

a scartabellare<br />

negli archivi in cerca di date,<br />

luoghi e nomi che per noi<br />

potessero avere un significato.<br />

E ancora una volta sono<br />

stati preziosi gli elenchi dei sinistri<br />

marittimi messici a disposizione<br />

da Alfonso Buenaventura.<br />

Il 26 ottobre 1921<br />

a Minorca c’era stata un’altra<br />

grave sciagura: il mercantile<br />

“Torre del Oro”, di milletrecentoventuno<br />

tonnellate, era<br />

finito sugli scogli del Cul de<br />

sa Ferrada. Due erano stati i<br />

superstiti, ventotto i morti.<br />

Detta così, la notizia non ci<br />

coinvolgeva più di tanto.<br />

Dov’era il Cul de sa Ferrada?<br />

Nessuno lo sapeva con precisione,<br />

perciò ci siamo armati<br />

di pazienza e abbiamo<br />

cominciato a esaminare centimetro<br />

per centimetro una<br />

vecchia carta nautica scritta<br />

in minorchino e scovata casualmente<br />

in una polverosa<br />

libreria. E ci siamo accorti,<br />

con stupore, che il Cul de sa<br />

Ferrada non era altro che la<br />

parte terminale, e quindi più<br />

chiusa, della Baia Morell, da<br />

dove si accedeva nell’omonima<br />

cala. Insomma, il Cul de<br />

sa Ferrada potevamo vederlo<br />

semplicemente affacciandoci<br />

al terrazzo di casa, era<br />

la scogliera alta e a picco, impressionante<br />

per la sua maestosità,<br />

che con un arco pronunciato<br />

univa la Punta dell’Elefante<br />

alla Punta de s’Escullar.<br />

Da tanti anni eravamo<br />

nel teatro di una tragedia<br />

e non lo sapevamo.<br />

Per prima cosa abbiamo cercato<br />

di avere qualche conferma.<br />

Un evento così drammatico,<br />

benché risalisse a ottantatré<br />

anni prima, non poteva<br />

essere stato completamente<br />

dimenticato. Infatti,<br />

qualcuno che si ricordava lo<br />

abbiamo trovato, ma, forse<br />

per l’età avanzata, forse perché<br />

a quell’epoca non era ancora<br />

nato, le notizie che ci<br />

dava erano molto confuse e<br />

spesso contraddittorie. Chi<br />

diceva che una nave si era infilata<br />

proprio là, dove si ve-<br />

deva l’imboccatura di una gigantesca<br />

caverna che chiamavano<br />

La Cattedrale, chi<br />

diceva che invece il punto del<br />

naufragio era a metà della<br />

scogliera. Non restava altro<br />

da fare che andare a guardare.<br />

Sulle carte c’era scritto<br />

che il relitto era stato recuperato<br />

pochi anni dopo il<br />

naufragio, ma qualche resto<br />

doveva per forza essere rimasto<br />

sul fondo. Ci lasciava<br />

perplessi il fatto che quel<br />

tratto di mare l’avevamo già<br />

percorso in lungo e in largo<br />

moltissime volte e non avevamo<br />

mai visto niente che attirasse<br />

l’attenzione, a parte i<br />

pesci e una coreografia molto<br />

suggestiva, fatta di canaloni,<br />

grotte passanti e acuminati<br />

pinnacoli di pietra che si<br />

levavano dal fondo come le<br />

guglie di un castello.<br />

La prima esplorazione l’abbiamo<br />

fatta con il PDD quasi<br />

al completo: oltre a noi, c’erano<br />

Maurizio con la moglie<br />

Teia, Enrico, Alejandro, Jordi,<br />

Claudio Corti, presidente<br />

della TSA Europa, e Pera Calafat<br />

Torres, che ci assisteva<br />

rimanendo sul “Pegaso 3”, la<br />

nostra barca appoggio. Avevamo<br />

deciso di visitare per<br />

primi i punti che ci erano stati<br />

indicati e ci eravamo divisi a<br />

coppie per esplorare un tratto<br />

di fondale più vasto. Abbiamo<br />

esaminato bene la fascia<br />

dei 10 metri, quella dei<br />

15 e quella dei 20 metri. Ci<br />

aspettavamo di notare lamiere<br />

incrostate e corrose<br />

dalla ruggine, qualcosa, insomma,<br />

che facesse pensare<br />

al relitto, invece abbiamo visto<br />

solo scogli ricoperti di alghe.<br />

Era chiaro che così la ricerca<br />

sarebbe stata lunghissima<br />

ed esasperante.<br />

José Almagro, anche lui<br />

membro del nostro gruppo,<br />

ci era già stato molto utile in<br />

altre occasioni per la sua approfondita<br />

conoscenza dei<br />

fondali minorchini. Della<br />

“Torre del Oro” aveva sentito<br />

parlare vagamente e non<br />

sapeva esattamente dove<br />

fosse naufragata, ma si ricordava<br />

che più o meno là dove<br />

stavamo cercando c’era una<br />

nave romana. Non l’avevamo<br />

vista? Era contro le rocce,<br />

a non più di una quindicina<br />

di metri di profondità. Tutto<br />

ciò non stava in piedi, laggiù<br />

c’erano solo scogli, avevamo<br />

passato ore a perlustrare<br />

la zona e se ci fosse<br />

stato qualche reperto antico<br />

lo avremmo sicuramente individuato.<br />

Ma José insisteva:<br />

anni prima lui stesso aveva<br />

prelevato parecchi pani di<br />

piombo da quel relitto, che<br />

tutti supponevano fosse romano.<br />

Si trovavano abbandonati<br />

sul fondo e parecchi<br />

subacquei del posto andavano<br />

lì a far provviste quando<br />

avevano bisogno di una zavorra.<br />

Dov’erano esattamente?<br />

Più o meno sotto<br />

quelle rocce, un po’ più a destra<br />

o un po’ più a sinistra,<br />

era passato tanto tempo...<br />

La coincidenza era strana.<br />

Possibile che nel medesimo<br />

tratto di mare in cui era<br />

affondata la “Torre del Oro”<br />

fosse naufragato anche un<br />

bastimento antico? E sempre<br />

a due passi da casa? Tutto poteva<br />

succedere. Però, che<br />

cosa trasportava la “Torre<br />

del Oro”? Spinti da un presentimento<br />

siamo andati a<br />

scartabellare fra i manifesti di<br />

carico. E lì, su quei documenti<br />

ingialliti dal tempo, c’era<br />

scritto in maniera ancora<br />

ben leggibile che il mercantile<br />

nel suo ultimo viaggio trasportava<br />

barili di uva e di olive.<br />

E cinquecento tonnellate<br />

di lingotti di piombo provenienti<br />

dalla fonderia basca<br />

Penarroya. Altro che nave<br />

romana, fra quegli scogli c’erano<br />

proprio i resti della<br />

“Torre del Oro”! Ma bisognava<br />

trovarli.<br />

Abbiamo passato giorni e<br />

giorni immergendoci in<br />

apnea e nuotando per lunghi<br />

tratti con maschera e pinne<br />

in superficie, da dove potevamo<br />

avere una visione panoramica<br />

del fondo e quindi<br />

maggiori probabilità di avvistare<br />

ciò che ci interessava.<br />

La scoperta è avvenuta alla fine<br />

dell’estate. Eravamo rimasti<br />

soli, con Pera in barca,<br />

quando in una zona di macigni<br />

caduti dalla montagna,<br />

che avevamo lasciato per ultima<br />

ritenendola meno interessante,<br />

abbiamo notato<br />

qualcosa di inconsueto: su un<br />

ripido fondale di 12 - 13 metri<br />

che terminava in un pianoro<br />

di sabbia a 23 metri di<br />

profondità i sassi e le rocce<br />

erano ricoperti da una densa<br />

nebbia giallognola che impediva<br />

alla vegetazione di crescere<br />

normalmente. Siamo<br />

scesi per esaminare il fenomeno<br />

da vicino e ci siamo resi<br />

conto che sotto gli scogli e<br />

la sabbia c’era uno spesso<br />

strato di metallo che stava<br />

marcendo e riempiva l’acqua<br />

di ruggine. Probabilmente si<br />

trattava delle piastre di chiglia<br />

lasciate sul fondo dopo il<br />

recupero parziale del piroscafo<br />

e nel corso degli anni<br />

rimaste sepolte dalle frane<br />

staccatesi dalla parete a stra-<br />

piombo della scogliera, in<br />

quel punto alta più di ottanta<br />

metri. Ecco perché il relitto<br />

sembrava scomparso nel nulla<br />

e nessuno ne sapeva niente:<br />

il tempo e la consunzione<br />

naturale degli elementi ne<br />

avevano pietosamente protetto<br />

e nascosto i resti martoriati<br />

dalle benne e dalle<br />

I subacquei del team PDD della nostra<br />

rivista al lavoro per recuperare un<br />

grosso lingotto di piombo servito per<br />

l’identificazione certa della nave.<br />

fiamme ossidriche dei palombari.<br />

Da quel momento in poi con<br />

Alejandro Fernandez e Jordi<br />

Moya abbiamo concentrato<br />

le ricerche su una delimitata<br />

aerea del fondale e abbiamo<br />

cominciato a esplorare gli anfratti<br />

grandi e piccoli che si<br />

aprivano tra un macigno e<br />

l’altro. La “Torre del Oro”,<br />

praticamente invisibile dall’alto,<br />

era ancora là. Era sufficiente<br />

infilarsi tra un masso e<br />

l’altro e nelle numerose grotticelle<br />

della frana per vedere<br />

ogni genere di materiale appartenuto<br />

alla nave: tubi, valvole,<br />

volantini, ingranaggi, paratie,<br />

centine, leveraggi, oblò,<br />

cavi d’acciaio, maniglie e altro.<br />

Schiacciata sotto un<br />

enorme sasso abbiamo anche<br />

trovato la rivestitura dorata<br />

della torre del fumaiolo<br />

che aveva ispirato il nome e<br />

dietro uno scoglio abbiamo<br />

riconosciuto una parte ancora<br />

in buono stato della intelaiatura<br />

di plancia.<br />

Mancava, però, una prova<br />

certa che quei resti fossero<br />

veramente della “Torre del<br />

Oro” e non di un mercantile<br />

anonimo. In quello sfacelo disperavamo<br />

di trovarla, invece<br />

in una delle ultime immersioni<br />

Jordi ha attirato la<br />

nostra attenzione e passando<br />

attraverso uno stretto<br />

pertugio ci ha portati in una<br />

cavità che si apriva sotto un<br />

colossale macigno: uno vicino<br />

all’altro c’erano tre grossi<br />

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