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SUB241@68-81 TORRE DEL ORO

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una forte mareggiata di grecale.<br />

Le onde erano entrate<br />

nella cala e con il loro movimento<br />

vorticoso avevano<br />

spostato tonnellate di sabbia,<br />

che si erano accumulate in<br />

un versante lasciando allo<br />

scoperto l’altro. Ed è stato<br />

fra le rocce messe a nudo<br />

dalla corrente che abbiamo<br />

visto i resti di una piccola nave<br />

di legno, fino allora rimasti<br />

sepolti nel fondo: un albero<br />

spezzato, diverse ordinate,<br />

qualche coccio, giunti e lastre<br />

di rame trafitti da chiodi a testa<br />

quadra.<br />

Dunque c’era stato un naufragio,<br />

che i reperti recuperati<br />

indicavano avvenuto intorno<br />

al diciannovesimo secolo.<br />

Ma non era eccessivo<br />

tutto quel carbone per una<br />

piccola unità che probabilmente<br />

aveva affidato la maggior<br />

parte della sua propulsione<br />

alla vela? Le ricerche<br />

storiche che avevamo da poco<br />

terminato per dare un<br />

contorno e un senso ai resti<br />

di una nave erariale romana<br />

carica di bronzo individuata<br />

a non molta distanza da Cala<br />

Morell (SUB n. 210 del mese<br />

di marzo 2003) ci avevano<br />

già messo a conoscenza del<br />

fatto che fino a pochi decenni<br />

prima in tutta questa parte<br />

dell’isola si produceva carbone<br />

di legna. C ’era un nesso<br />

fra il materiale sparso sul fondo<br />

e il relitto? Probabilmente<br />

sì, ma bisognava indagare più<br />

a fondo.<br />

Dopo aver consultato gli archivi<br />

comunali di Ciudadela,<br />

i registri della Capitaneria di<br />

Porto e la biblioteca, abbiamo<br />

coinvolto nelle ricerche<br />

anche il massimo esperto di<br />

naufragi di Minorca, il giornalista<br />

e scrittore Alfonso Buenaventura,<br />

con il quale avevamo<br />

già collaborato in passato.<br />

Alfonso aveva la casa<br />

piena di appunti e di vecchie<br />

scritture riguardanti gli affondamenti<br />

avvenuti intorno all’isola<br />

negli ultimi duecento<br />

anni e così, facendo confron-<br />

74<br />

ti di date e di nomi, piano<br />

piano siamo riusciti a risalire<br />

a una storia attendibile.<br />

“Margaret” era un’imbarcazione<br />

inglese con la matricola<br />

di Sunderland e trecentoquattordici<br />

tonnellate di dislocamento.<br />

Era stata varata<br />

nel 1860 ed era stata costruita<br />

particolarmente robusta<br />

per consentirle di fare<br />

molta navigazione costiera<br />

anche nei luoghi più fuori<br />

mano, dove sarebbe dovuta<br />

entrare in baie e insenature<br />

anguste, magari irte di scogli<br />

affioranti, per caricare il carbone<br />

di legna comprato a<br />

buon mercato direttamente<br />

dagli artigiani sparsi nei piccoli<br />

centri. Lo scafo era di legno,<br />

ma solido. P er proteggerla<br />

dai bassi fondali in cui si<br />

sarebbe spinta, la chiglia era<br />

stata completamente ricoperta<br />

con spesse lastre di rame<br />

inchiodate in modo da<br />

formare una corazza nella<br />

parte più vulnerabile dello<br />

scafo.<br />

Il 3 giugno 1867, “Margaret”<br />

era ancorata a Cala Morell.<br />

Nonostante il tempo minacciasse<br />

di cambiare, si era fermata<br />

per caricare una partita<br />

di carbone, che, una volta<br />

venduto in Inghilterra, sarebbe<br />

servito per la produzione<br />

di gas. Le operazioni di carico,<br />

fatte a mano passando i<br />

sacchi colmi e pesanti dagli<br />

scogli alla barca appoggio e<br />

da questa alla nave, portarono<br />

via più tempo del previsto<br />

e quando arrivò impetuoso<br />

il nordest il capitano<br />

William Smart, che era al comando,<br />

si rese conto che era<br />

ormai troppo tardi per uscire<br />

dal ridosso.<br />

Il mare continuava ad aumentare<br />

e dopo qualche ora<br />

era diventato pericoloso.<br />

Smart fece mettere due ancore<br />

a V di prua e fece legare<br />

la poppa agli scogli subito<br />

sotto la Punta dell’Elefante.<br />

Poi sperò nella buona sorte.<br />

Ma non fu abbastanza. Le<br />

creste delle onde superaro-<br />

no l’Elefante e piombarono<br />

sulla nave che, presa sul fianco,<br />

cominciò a tirare sulle cime<br />

e a urtare con la poppa<br />

gli scogli affioranti della riva.<br />

Prima di sera, affondò in poco<br />

più di 10 metri d’acqua,<br />

ma, grazie al carico pesante<br />

che aveva a bordo, rimase in<br />

assetto di navigazione, senza<br />

rovesciarsi.<br />

La nave aveva solamente sette<br />

anni di vita, era piena di<br />

carbone, che poteva essere<br />

asciugato e venduto ugualmente<br />

come se niente fosse<br />

avvenuto, e la profondità era<br />

irrisoria. Così, i suoi armatori<br />

decisero di tentarne il recupero<br />

e mandarono a Cala<br />

Morell, allora selvaggia, deserta<br />

e fuori mano, un esperto<br />

sommozzatore, il quale visitò<br />

lo scafo, si rese conto<br />

che i danni erano riparabili e<br />

sovrintese ai lavori per riportare<br />

tutto a galla. Nella cala,<br />

approfittando delle calme<br />

estive, venne ancorata una<br />

piattaforma galleggiante su<br />

cui si avvicendarono molte<br />

squadre di operai.<br />

Nei primi giorni di settembre<br />

“Margaret” galleggiava con il<br />

carbone ancora nella stiva,<br />

ma il destino delle navi è un<br />

po’ come quello degli uomini:<br />

è già scritto, e non si può<br />

cambiare. Qualche giorno<br />

dopo, mentre i carpentieri<br />

stavano finendo gli ultimi lavori<br />

di allestimento per permetterle<br />

di riprendere la na-<br />

vigazione, “Margaret” venne<br />

investita da un’altra burrasca<br />

che flagellò la costa nord di<br />

Minorca. Erano le prime avvisaglie<br />

delle intemperie autunnali,<br />

ma il piccolo bastimento<br />

da trasporto, non ancora<br />

in grado di rimettersi in<br />

mare, fu nuovamente sopraffatto<br />

dai marosi. Affondò<br />

per la seconda volta quasi<br />

nello stesso punto della prima.<br />

E lì rimase disfacendosi<br />

lentamente e sparpagliando<br />

il suo carico nella cala.<br />

<br />

Sembrava che il mistero del<br />

carbone di Cala Morell fosse<br />

risolto quando un giorno,<br />

esaminando i pezzi recuperati<br />

e lasciati ad asciugare al<br />

sole nella sede minorchina<br />

della PDD, a Maurizio Macori<br />

è venuto un dubbio: il carbone<br />

non era tutto della medesima<br />

qualità. Alcuni reperti<br />

erano grezzi e si vedeva<br />

chiaramente che provenivano<br />

dal legno consunto, di cui<br />

si notavano ancora i cerchi<br />

concentrici, mentre altri, più<br />

grandi e squadrati, avevano<br />

un aspetto compatto e una<br />

Teia Macori<br />

mostra i pezzi<br />

di carbone che<br />

ancora si<br />

trovano sui<br />

fondali di Cala<br />

Morell e hanno<br />

messo i sub<br />

sulle tracce<br />

della Torre del<br />

Oro. Le lunghe<br />

esplorazioni<br />

sono state<br />

fatte con il Ccr<br />

Buddy<br />

Inspiration.<br />

consistenza notevolmente<br />

superiore. Uno di questi era<br />

addirittura tondo come una<br />

boccia e levigato come una<br />

lastra di marmo passata sotto<br />

una mola. Doveva aver<br />

fatto un sacco di strada per<br />

ridursi così. Data la sua peculiarità,<br />

ci ricordavamo che<br />

non l’avevamo trovato dentro<br />

la cala, bensì fuori, sulla<br />

punta, a una ventina di metri<br />

di profondità. Certamente<br />

questo carbone non era stato<br />

fatto bruciando empiricamente<br />

i tronchi di pino e di<br />

leccio, ma era un carbone di<br />

ottima qualità e più raffinato,<br />

che doveva produrre molte<br />

calorie durante la combustione.<br />

Da dove proveniva se<br />

non era di Cala Morell?<br />

Una domanda tira l’altra e alla<br />

fine ci siamo convinti che<br />

le nostre indagini non erano<br />

ancora terminate. Un carbone<br />

di quel tipo poteva stare<br />

bene nella fornace di una<br />

grande fabbrica metallurgica<br />

del continente, su una locomotiva<br />

a vapore, oppure nella<br />

caldaia di una grande nave.<br />

Visto che eravamo su un’isola<br />

priva di industrie e di ferrovie,<br />

abbiamo tutti concordato<br />

che l’ipotesi della nave<br />

fosse la più verosimile. Ma<br />

come poteva finire fuori bordo<br />

un pezzo di carbone che<br />

normalmente sta nella sala<br />

macchine, e quindi ben sottocoperta?<br />

Certo, qualcuno<br />

avrebbe potuto gettarlo in<br />

mare per una ragione o l’altra,<br />

ma la sfera non era unica.<br />

Nei paraggi c’erano altri<br />

blocchi della stessa qualità,<br />

sebbene di forme diverse. E<br />

non riuscivamo a immaginarcelo<br />

un marinaio che si divertisse<br />

a trasportare i pezzi<br />

di carbone uno per uno dalla<br />

stiva al ponte per poi buttarli<br />

in acqua. Era più facile<br />

pensare che il carbone fosse<br />

finito sul fondo con tutta la<br />

nave.<br />

Di naufragi importanti nella<br />

zona ce n’erano stati parecchi<br />

in passato. A Ciudadela la<br />

gente si ricordava ancora bene<br />

della terribile tragedia del<br />

“General Chanzy”, un postale<br />

francese lungo centonove<br />

metri e dislocanteduemilanovecentoventi<br />

tonnellate<br />

che il 9 febbraio<br />

1910<br />

si schiantò<br />

contro la<br />

scogliera del<br />

Codolar de<br />

Sa T orre<br />

Nova. Vi erano imbarcati ottantasette<br />

marinai e settanta<br />

passeggeri. Uno soltanto si<br />

salvò miracolosamente, centocinquantasei<br />

furono i morti<br />

e i dispersi. Il posto della<br />

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