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SUB241@68-81 TORRE DEL ORO

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STORIE DI MARE<br />

IL 26 OTTOBRE 1921 UN MERCANTILE<br />

IN BALÌA <strong>DEL</strong> MARE, AL CULMINE DI UNA<br />

TEMPESTA DA NORD, SI SCHIANTÒ CONTRO<br />

L’ALTA SCOGLIERA <strong>DEL</strong>LA BAIA MORELL<br />

DOPO ESSERE ANDATO PER DUE GIORNI<br />

ALLA DERIVA. DEI TRENTA UOMINI DI<br />

EQUIPAGGIO, SOLO DUE RIUSCIRONO<br />

MIRACOLOSAMENTE A SALVARSI. LA<br />

TRAGEDIA EBBE MOLTA RISONANZA PERCHÉ<br />

MISE IN DISCUSSIONE LA SICUREZZA <strong>DEL</strong>LA<br />

NAVIGAZIONE <strong>DEL</strong>L’EPOCA. POI UNA FRANA<br />

CADUTA DALLA MONTAGNA SEPPELLÌ I<br />

RESTI <strong>DEL</strong>LO SCAFO FACENDOLO<br />

RICOSTRUITA<br />

DIMENTICARE. FINCHÉ...<br />

UNA <strong>DEL</strong>LE PIÙ TERRIBILI<br />

CATASTROFI MARINARE<br />

DI MINORCA<br />

IL NAUFRAGIO <strong>DEL</strong>LATOR TOR RE <strong>DEL</strong> <strong>ORO</strong><br />

Testo e foto di GUIDO PFEIFFER e FLORY CALO’ - Illustrazione di GIOVANNI PAULLI


Ernesto Borràs era un uomo<br />

forte, basso, ma con le<br />

spalle e la schiena larghe e<br />

muscolose di chi lavora all’aria<br />

aperta tagliando la legna.<br />

Viveva in una casetta nella<br />

campagna vicino a Ciudadela,<br />

nella costa nord ovest di Minorca.<br />

Ma la maggior parte<br />

del tempo la passava a Cala<br />

Morell, una baietta solitaria a<br />

una decina di chilometri di distanza,<br />

dove i pini marittimi<br />

e i lecci crescevano duri e<br />

contorti a causa del salino e<br />

del forte vento di tramontana<br />

che lì arrivava direttamente<br />

dal mare. Quel legno,<br />

una volta tagliato in misura,<br />

veniva poi accatastato a forza<br />

di braccia in una delle tante<br />

grotte naturali che si aprivano<br />

dietro i bassi cespugli della<br />

macchia mediterranea, in<br />

un barranco che a levante<br />

serpeggiava su, fino in cima<br />

alla scogliera. I rami e i tronchi<br />

venivano incendiati ancora<br />

freschi di resina e quindi<br />

Borràs chiudeva la cavità con<br />

pietre e terra, in modo che<br />

la fiamma, dopo aver consumato<br />

la maggior parte dell’ossigeno,<br />

non potesse divampare<br />

e consumasse il legno<br />

lentamente, trasforman-<br />

dolo in carbone. Quello, infatti,<br />

era il suo mestiere: faceva<br />

il carbonaio.<br />

Periodicamente, una piccola<br />

nave gettava l’ancora nella<br />

cala, caricava il carbone riposto<br />

in sacchi, che venivano<br />

portati a spalla fino alla riva, e<br />

salpava per fare rotta su Tarragona<br />

o Barcellona, dove<br />

aspettavano i compratori.<br />

Era da tempo immemore<br />

che a Cala Morell e nel circondario<br />

si produceva carbone.<br />

Pare che avessero cominciato<br />

a farlo, con i pini<br />

seccati dal sale, addirittura i<br />

romani quando colonizzarono<br />

l’isola. Ernesto Borràs non<br />

faceva altro che continuare<br />

una tradizione di famiglia. L’unico<br />

vero problema era che<br />

la cala non era affatto sicura<br />

come sembrava. Tranquilla e<br />

idilliaca quando c’era bel<br />

tempo, rappresentava un<br />

buon ridosso solo con i venti<br />

da sud e diventava una<br />

trappola infernale con quelli<br />

da nord. Un bastione alto e<br />

brullo la riparava a settentrione<br />

e una punta più piccola,<br />

con in cima una pietra bucata<br />

e intarsiata dalla salsedine,<br />

la chiudeva a ponente.<br />

Quella roccia, che assomi-<br />

gliava alla scultura di un pachiderma,<br />

aveva finito per<br />

dare il nome al posto, che infatti<br />

sulle mappe era indicato<br />

come Sa Punta de s’Elefant,<br />

la Punta dell’Elefante. Chi<br />

non era pratico del luogo<br />

avrebbe potuto pensare che<br />

quei due bracci naturali protesi<br />

verso il mare aperto come<br />

una tenaglia sarebbero<br />

stati sufficienti a fermare la<br />

furia degli elementi. Invece le<br />

grandi ondate del nord riuscivano<br />

a superarli e aggirarli<br />

trasformando uno specchio<br />

d’acqua solitamente placido<br />

in una impressionante bolgia<br />

di gorghi. La superficie diventava<br />

bianca di schiuma e<br />

qualsiasi barca fosse stata<br />

sorpresa al suo interno sarebbe<br />

sicuramente finita sugli<br />

scogli.<br />

Ernesto Borràs lo sapeva,<br />

perché era già successo, tanti<br />

anni prima. Glielo aveva<br />

raccontato suo padre: un<br />

motoveliero che si era fermato<br />

per caricare carbone<br />

non era scappato in tempo e<br />

una burrasca di tramontana<br />

lo aveva affondato proprio lì,<br />

in mezzo alla cala. E non era<br />

stata nemmeno la prima nave<br />

a fare quella fine, almeno a<br />

giudicare dai cocci di anfore<br />

che si intravedevano sul fondo<br />

quando l’acqua era trasparente<br />

e azzurra. Non per<br />

niente la costa settentrionale<br />

di Minorca era temutissima<br />

dai naviganti sin dall’antichità:<br />

bassa sul mare e immersa in<br />

una impenetrabile foschia,<br />

spesso si vedeva solo quando<br />

era ormai troppo tardi<br />

per correggere la rotta mentre<br />

le onde e il vento incalzavano<br />

da poppa.<br />

Il 25 ottobre 1921 era una di<br />

quelle giornate in cui si sarebbe<br />

fatto meglio a non<br />

uscire di casa. L’inverno era<br />

arrivato in anticipo e all’improvviso.<br />

Faceva freddo, pioveva<br />

a dirotto, la tramontana<br />

superava i cento chilometri<br />

all’ora e si scagliava sull’isola<br />

sibilando e portando con<br />

sé la spuma delle onde, alte<br />

più di dieci metri e lunghissime.<br />

Vere e proprie montagne<br />

d’acqua. I pini e i lecci di<br />

Cala Morell gemevano e si<br />

piegavano sotto la furia del<br />

vento. Il frastuono era esasperante<br />

e la visibilità quasi<br />

nulla. A renderla ancora più<br />

precaria ci si mettevano anche<br />

banchi di nebbia che a<br />

folate arrivavano turbinando<br />

dal mare.<br />

Ernesto era lì già da un paio<br />

di giorni assieme al figlio<br />

maggiore, Miguel, che aveva<br />

dodici anni. Quando aveva<br />

molto da fare, per risparmiare<br />

tempo non andava a casa,<br />

che si poteva raggiungere solo<br />

percorrendo un angusto<br />

sentiero tra i rovi e una tortuosa<br />

strada sterrata che univa<br />

la proprietà dei marchesi<br />

Hesquella di La Val a Ciudadela,<br />

ma si fermava a dormire<br />

in un rifugio fatto alla maniera<br />

delle vecchie capanne<br />

minorchine: una buca scavata<br />

sotto una roccia e ricoperta<br />

da una grossa lastra di<br />

pietra, con una sola apertura<br />

per entrare e uscire. Quelle<br />

abitazioni le facevano gli antichi<br />

abitanti di Minorca già<br />

nell’Età del Bronzo e ce n’erano<br />

ancora molte nella campagna.<br />

Venivano adoperate,<br />

per lo più, come magazzini<br />

dove riporre gli attrezzi agricoli,<br />

come stalle e, in certi casi,<br />

anche per dormire nelle<br />

situazioni di emergenza. Avevano<br />

il vantaggio che, essendo<br />

scavate nella terra, nel<br />

tufo o nell’arenaria, non potevano<br />

essere abbattute dall’impeto<br />

del vento.<br />

Borràs aveva letto nel cielo<br />

i segni premonitori della tramontana,<br />

ma, data la stagione,<br />

non poteva prevedere<br />

che sarebbe stata così forte<br />

e che sarebbe stata accompagnata<br />

da tutta quella piog-<br />

gia. Così aveva interrotto il<br />

lavoro e passato la giornata<br />

chiuso nel rifugio con suo figlio.<br />

All’imbrunire aveva acceso<br />

un fuoco, che saturava<br />

l’ambiente di fumo ma permetteva<br />

di stare al caldo nonostante<br />

l’umidità. Le ore<br />

della notte erano passate su<br />

un pagliericcio, tra il sonno<br />

e la veglia. Il ragazzo dormiva,<br />

ma lui non poteva fare a<br />

meno di sentire il sibilo<br />

del vento, che nelle raffiche<br />

sembrava quasi un fischio<br />

modulato. Di tanto<br />

in tanto si udiva qualche<br />

rumore più forte: un ramo<br />

spezzato, uno schianto<br />

misterioso, il battere<br />

furioso della pioggia sui<br />

sassi. E sotto, come la sinfonia<br />

di un’orchestra, il ruggito<br />

del mare.<br />

D’un tratto Ernesto Borràs<br />

ebbe la sensazione che in<br />

mezzo a quel frastuono assordante<br />

ci fosse qualcos’altro.<br />

Una sirena? Si raddrizzò<br />

a sedere, ascoltò con attenzione<br />

e... sì, sembrava che oltre<br />

all’urlo ossessionante della<br />

tramontana ci fosse il suo-<br />

Dall’alto,<br />

l’ampia<br />

insenatura<br />

della Baia<br />

Morell, a<br />

Minorca, e il<br />

Cul de Sa<br />

Ferrada. A<br />

sinistra, un<br />

pezzo della<br />

coperta della<br />

Torre del Oro.<br />

no lacerante di una sirena,<br />

che andava e veniva con il<br />

vento. Saranno state le cinque<br />

o al massimo le sei del<br />

mattino del 26 ottobre, fuori<br />

era ancora buio. R accomandò<br />

al figlio di non muoversi,<br />

prese una lampada e<br />

uscì sotto la pioggia. Il freddo<br />

lo paralizzava e si incuneava<br />

sotto la giacca di panno,<br />

l’acqua gelata gli colava<br />

giù per il collo. Sembrava<br />

proprio di sentire una sirena.<br />

Si diresse verso il mare,<br />

salì in cima a una roccia e<br />

cercò di scrutare nell’oscurità<br />

che si stava appena appena<br />

diradando. Non vide<br />

niente. Ma nemmeno la sirena<br />

si sentiva più. Sarà stata<br />

la tempesta, pensò, e<br />

tornò alla capanna.<br />

Era passata un’ora. Il vento<br />

71


lasciava qualche secondo di<br />

tregua tra una raffica e l’altra,<br />

ma non diminuiva la sua forza.<br />

Pioveva, ma meno intensamente<br />

di prima. Ed ecco<br />

ancora il suono disperato, lamentoso,<br />

della sirena. Questa<br />

volta più distinto, più vicino.<br />

Fuori albeggiava, Ernesto<br />

si coprì di nuovo e fece<br />

per uscire, perché non capiva<br />

che cosa stesse succedendo.<br />

Il giovane Miguel questa<br />

volta insistette per accompagnarlo<br />

e così padre e figlio si<br />

diressero verso la scogliera<br />

che sovrastava la cala a nord<br />

est. In basso il mare ribolliva<br />

e l’aria era satura di schiuma.<br />

Le onde superavano la Punta<br />

dell’Elefante, passavano sopra<br />

la spiaggia di sassi che<br />

c’era sul fondo, dove una volta<br />

sfociava un fiumiciattolo, e<br />

lambivano una folta macchia<br />

di canne stretta in una gola di<br />

roccia. La sirena era continua,<br />

insistente e struggente<br />

come un grido di dolore. Ernesto<br />

e Miguel Borràs si arrampicarono<br />

quasi correndo<br />

e quando furono in alto, al di<br />

sopra delle piante, la videro:<br />

a qualche decina di metri dal-<br />

l’Elefante, tra l’imboccatura<br />

della cala e Sa Punta de s’Escullar,<br />

che chiudeva a ponente<br />

l’ampio anfiteatro della<br />

Baia Morell, c’era una<br />

grande nave in balia delle onde.<br />

Lo scafo, senza governo,<br />

appariva malconcio ed era inclinato<br />

su un lato, probabilmente<br />

per lo sbandamento<br />

del carico, mentre la prua<br />

era rivolta verso la scogliera,<br />

una parete verticale alta più<br />

di ottanta metri resa quasi invisibile<br />

dal salino in sospensione<br />

nell’aria, tanto fitto e<br />

denso da essere scambiato<br />

per nebbia. Un uomo gesticolava<br />

sulle alette di plancia;<br />

in coperta, tenendosi saldamente<br />

ai corrimano per non<br />

cadere in mare mentre le<br />

ondate la spazzavano, si<br />

muovevano convulsamente<br />

parecchi marinai, che correvano<br />

da una fiancata all’altra<br />

senza sapere che cosa fare<br />

per mettersi in salvo. Istanti<br />

terribili. Le onde di ritorno,<br />

dopo essersi schiantate contro<br />

le rocce, rallentarono la<br />

corsa del piroscafo, che a<br />

quel punto sembrava in bilico<br />

tra due forze contrastanti.<br />

Pareva che il tempo si fosse<br />

fermato. Ma dal largo arrivò<br />

una montagna d’acqua spumeggiante<br />

più alta e possente<br />

delle altre che sollevò la<br />

poppa e la scagliò in avanti<br />

come se non pesasse niente.<br />

Si udì un tremendo clangore<br />

di lamiere spezzate, la prua<br />

finì dritta sugli scogli mentre<br />

la poppa cadde di schianto<br />

nell’incavo dell’onda. Lo<br />

scafo, lungo più di ottanta<br />

metri, si torse e si ruppe in<br />

due tronconi. La metà poppiera<br />

affondò subito, travolta<br />

dai frangenti, quella prodiera<br />

la seguì poco dopo, scivolò<br />

all’indietro e scomparve a<br />

sua volta nei flutti. Quella nave<br />

si chiamava “ Torre del<br />

Oro”, batteva bandiera spagnola,<br />

era adibita al trasporto<br />

delle merci e aveva trenta<br />

uomini di equipaggio. Soltanto<br />

due di loro si salvarono.<br />

<br />

Cala Morell oggi ha meno alberi<br />

di una volta, abbattuti<br />

per far posto alle bianche casette<br />

di una urbanizzazione<br />

turistica che si riempie di<br />

gente soltanto in luglio e agosto.<br />

Per il resto dell’anno non<br />

c’è anima viva e il suo basso<br />

Il fondo sabbioso di Cala Morell, che<br />

nasconde ancora i resti di una nave<br />

carbonera affondata nel 1897. A destra,<br />

alcune ordinate della Torre del Oro.<br />

fondale, un misto di sabbia,<br />

posidonie e sassi, diventa un<br />

grande acquario dove si possono<br />

incontrare i rappresentanti<br />

di quasi tutte le forme<br />

di vita minuta del Mediterraneo<br />

occidentale. Si entra in<br />

acqua da un comodo scivolo<br />

un tempo adoperato dai pescatori<br />

per varare e salpare<br />

le barche e ora fuori uso, ci<br />

si allontana qualche metro da<br />

riva e si vaga per ore fra i 3 e<br />

i 15 metri di profondità in<br />

cerca di animaletti strani da<br />

fotografare. Sono immersioni<br />

divertenti e rilassanti, che<br />

noi del PDD (Pfeiffer’s Deep<br />

Divers), il gruppo di subacquei<br />

tecnici di SUB, facciamo<br />

soprattutto quando il mare è<br />

troppo mosso per spingerci<br />

al largo o quando ci imponiamo<br />

di fare una pausa tra una<br />

discesa impegnativa e l’altra.<br />

Ed è stato così, frugando con<br />

la macchina fotografica fra le<br />

alghe e le pietre, che ci siamo<br />

accorti che un po’ da per<br />

tutto, sul fondo, c’erano<br />

grossi sassi neri con gli spigoli<br />

arrotondati e levigati dalla<br />

risacca. In principio abbiamo<br />

pensato che si trattasse addirittura<br />

di bitume, perché, nonostante<br />

i divieti e le multe<br />

salate, molte petroliere lavano<br />

ancora in alto mare i serbatoi<br />

vuoti e le scorie vengono<br />

trasportate ovunque dalle<br />

correnti. Poi ci siamo resi<br />

conto che quei sassi dalle forme<br />

diverse pesavano meno<br />

di quanto ci saremmo aspettati<br />

dalla loro mole. Ne abbiamo<br />

recuperati alcuni e a<br />

Maurizio Macori, il geologo<br />

del team, è bastata un’occhiata<br />

per capire che avevamo<br />

tra le mani semplici pezzi<br />

di carbone lisciati e scolpiti<br />

dal mare.<br />

Ma che cosa ci faceva lì tutto<br />

quel carbone? Se ne trovava<br />

ovunque: nella sabbia, fra le<br />

radici delle posidonie, sugli<br />

scogli. E persino fuori dalla<br />

cala, sotto la Punta dell’Elefante<br />

e sotto la punta più a<br />

nord, dove, ormai saldata<br />

nella roccia, c’era anche<br />

un’ancora ammiragliato, che<br />

però, in considerazione dell’età<br />

presunta, dovrebbe appartenere<br />

all’epoca dei grandi<br />

velieri e non a quella delle<br />

navi a vapore. Il quesito cominciava<br />

a diventare appassionante<br />

e assieme a Maurizio,<br />

Enrico Guidi, Alejandro<br />

Fernandez e Jordi Moya, tutti<br />

validi membri del PDD, abbiamo<br />

fatto molte immersioni<br />

invernali nella speranza di<br />

trovare la soluzione.<br />

Il primo indizio serio lo abbiamo<br />

avuto al termine di


una forte mareggiata di grecale.<br />

Le onde erano entrate<br />

nella cala e con il loro movimento<br />

vorticoso avevano<br />

spostato tonnellate di sabbia,<br />

che si erano accumulate in<br />

un versante lasciando allo<br />

scoperto l’altro. Ed è stato<br />

fra le rocce messe a nudo<br />

dalla corrente che abbiamo<br />

visto i resti di una piccola nave<br />

di legno, fino allora rimasti<br />

sepolti nel fondo: un albero<br />

spezzato, diverse ordinate,<br />

qualche coccio, giunti e lastre<br />

di rame trafitti da chiodi a testa<br />

quadra.<br />

Dunque c’era stato un naufragio,<br />

che i reperti recuperati<br />

indicavano avvenuto intorno<br />

al diciannovesimo secolo.<br />

Ma non era eccessivo<br />

tutto quel carbone per una<br />

piccola unità che probabilmente<br />

aveva affidato la maggior<br />

parte della sua propulsione<br />

alla vela? Le ricerche<br />

storiche che avevamo da poco<br />

terminato per dare un<br />

contorno e un senso ai resti<br />

di una nave erariale romana<br />

carica di bronzo individuata<br />

a non molta distanza da Cala<br />

Morell (SUB n. 210 del mese<br />

di marzo 2003) ci avevano<br />

già messo a conoscenza del<br />

fatto che fino a pochi decenni<br />

prima in tutta questa parte<br />

dell’isola si produceva carbone<br />

di legna. C ’era un nesso<br />

fra il materiale sparso sul fondo<br />

e il relitto? Probabilmente<br />

sì, ma bisognava indagare più<br />

a fondo.<br />

Dopo aver consultato gli archivi<br />

comunali di Ciudadela,<br />

i registri della Capitaneria di<br />

Porto e la biblioteca, abbiamo<br />

coinvolto nelle ricerche<br />

anche il massimo esperto di<br />

naufragi di Minorca, il giornalista<br />

e scrittore Alfonso Buenaventura,<br />

con il quale avevamo<br />

già collaborato in passato.<br />

Alfonso aveva la casa<br />

piena di appunti e di vecchie<br />

scritture riguardanti gli affondamenti<br />

avvenuti intorno all’isola<br />

negli ultimi duecento<br />

anni e così, facendo confron-<br />

74<br />

ti di date e di nomi, piano<br />

piano siamo riusciti a risalire<br />

a una storia attendibile.<br />

“Margaret” era un’imbarcazione<br />

inglese con la matricola<br />

di Sunderland e trecentoquattordici<br />

tonnellate di dislocamento.<br />

Era stata varata<br />

nel 1860 ed era stata costruita<br />

particolarmente robusta<br />

per consentirle di fare<br />

molta navigazione costiera<br />

anche nei luoghi più fuori<br />

mano, dove sarebbe dovuta<br />

entrare in baie e insenature<br />

anguste, magari irte di scogli<br />

affioranti, per caricare il carbone<br />

di legna comprato a<br />

buon mercato direttamente<br />

dagli artigiani sparsi nei piccoli<br />

centri. Lo scafo era di legno,<br />

ma solido. P er proteggerla<br />

dai bassi fondali in cui si<br />

sarebbe spinta, la chiglia era<br />

stata completamente ricoperta<br />

con spesse lastre di rame<br />

inchiodate in modo da<br />

formare una corazza nella<br />

parte più vulnerabile dello<br />

scafo.<br />

Il 3 giugno 1867, “Margaret”<br />

era ancorata a Cala Morell.<br />

Nonostante il tempo minacciasse<br />

di cambiare, si era fermata<br />

per caricare una partita<br />

di carbone, che, una volta<br />

venduto in Inghilterra, sarebbe<br />

servito per la produzione<br />

di gas. Le operazioni di carico,<br />

fatte a mano passando i<br />

sacchi colmi e pesanti dagli<br />

scogli alla barca appoggio e<br />

da questa alla nave, portarono<br />

via più tempo del previsto<br />

e quando arrivò impetuoso<br />

il nordest il capitano<br />

William Smart, che era al comando,<br />

si rese conto che era<br />

ormai troppo tardi per uscire<br />

dal ridosso.<br />

Il mare continuava ad aumentare<br />

e dopo qualche ora<br />

era diventato pericoloso.<br />

Smart fece mettere due ancore<br />

a V di prua e fece legare<br />

la poppa agli scogli subito<br />

sotto la Punta dell’Elefante.<br />

Poi sperò nella buona sorte.<br />

Ma non fu abbastanza. Le<br />

creste delle onde superaro-<br />

no l’Elefante e piombarono<br />

sulla nave che, presa sul fianco,<br />

cominciò a tirare sulle cime<br />

e a urtare con la poppa<br />

gli scogli affioranti della riva.<br />

Prima di sera, affondò in poco<br />

più di 10 metri d’acqua,<br />

ma, grazie al carico pesante<br />

che aveva a bordo, rimase in<br />

assetto di navigazione, senza<br />

rovesciarsi.<br />

La nave aveva solamente sette<br />

anni di vita, era piena di<br />

carbone, che poteva essere<br />

asciugato e venduto ugualmente<br />

come se niente fosse<br />

avvenuto, e la profondità era<br />

irrisoria. Così, i suoi armatori<br />

decisero di tentarne il recupero<br />

e mandarono a Cala<br />

Morell, allora selvaggia, deserta<br />

e fuori mano, un esperto<br />

sommozzatore, il quale visitò<br />

lo scafo, si rese conto<br />

che i danni erano riparabili e<br />

sovrintese ai lavori per riportare<br />

tutto a galla. Nella cala,<br />

approfittando delle calme<br />

estive, venne ancorata una<br />

piattaforma galleggiante su<br />

cui si avvicendarono molte<br />

squadre di operai.<br />

Nei primi giorni di settembre<br />

“Margaret” galleggiava con il<br />

carbone ancora nella stiva,<br />

ma il destino delle navi è un<br />

po’ come quello degli uomini:<br />

è già scritto, e non si può<br />

cambiare. Qualche giorno<br />

dopo, mentre i carpentieri<br />

stavano finendo gli ultimi lavori<br />

di allestimento per permetterle<br />

di riprendere la na-<br />

vigazione, “Margaret” venne<br />

investita da un’altra burrasca<br />

che flagellò la costa nord di<br />

Minorca. Erano le prime avvisaglie<br />

delle intemperie autunnali,<br />

ma il piccolo bastimento<br />

da trasporto, non ancora<br />

in grado di rimettersi in<br />

mare, fu nuovamente sopraffatto<br />

dai marosi. Affondò<br />

per la seconda volta quasi<br />

nello stesso punto della prima.<br />

E lì rimase disfacendosi<br />

lentamente e sparpagliando<br />

il suo carico nella cala.<br />

<br />

Sembrava che il mistero del<br />

carbone di Cala Morell fosse<br />

risolto quando un giorno,<br />

esaminando i pezzi recuperati<br />

e lasciati ad asciugare al<br />

sole nella sede minorchina<br />

della PDD, a Maurizio Macori<br />

è venuto un dubbio: il carbone<br />

non era tutto della medesima<br />

qualità. Alcuni reperti<br />

erano grezzi e si vedeva<br />

chiaramente che provenivano<br />

dal legno consunto, di cui<br />

si notavano ancora i cerchi<br />

concentrici, mentre altri, più<br />

grandi e squadrati, avevano<br />

un aspetto compatto e una<br />

Teia Macori<br />

mostra i pezzi<br />

di carbone che<br />

ancora si<br />

trovano sui<br />

fondali di Cala<br />

Morell e hanno<br />

messo i sub<br />

sulle tracce<br />

della Torre del<br />

Oro. Le lunghe<br />

esplorazioni<br />

sono state<br />

fatte con il Ccr<br />

Buddy<br />

Inspiration.<br />

consistenza notevolmente<br />

superiore. Uno di questi era<br />

addirittura tondo come una<br />

boccia e levigato come una<br />

lastra di marmo passata sotto<br />

una mola. Doveva aver<br />

fatto un sacco di strada per<br />

ridursi così. Data la sua peculiarità,<br />

ci ricordavamo che<br />

non l’avevamo trovato dentro<br />

la cala, bensì fuori, sulla<br />

punta, a una ventina di metri<br />

di profondità. Certamente<br />

questo carbone non era stato<br />

fatto bruciando empiricamente<br />

i tronchi di pino e di<br />

leccio, ma era un carbone di<br />

ottima qualità e più raffinato,<br />

che doveva produrre molte<br />

calorie durante la combustione.<br />

Da dove proveniva se<br />

non era di Cala Morell?<br />

Una domanda tira l’altra e alla<br />

fine ci siamo convinti che<br />

le nostre indagini non erano<br />

ancora terminate. Un carbone<br />

di quel tipo poteva stare<br />

bene nella fornace di una<br />

grande fabbrica metallurgica<br />

del continente, su una locomotiva<br />

a vapore, oppure nella<br />

caldaia di una grande nave.<br />

Visto che eravamo su un’isola<br />

priva di industrie e di ferrovie,<br />

abbiamo tutti concordato<br />

che l’ipotesi della nave<br />

fosse la più verosimile. Ma<br />

come poteva finire fuori bordo<br />

un pezzo di carbone che<br />

normalmente sta nella sala<br />

macchine, e quindi ben sottocoperta?<br />

Certo, qualcuno<br />

avrebbe potuto gettarlo in<br />

mare per una ragione o l’altra,<br />

ma la sfera non era unica.<br />

Nei paraggi c’erano altri<br />

blocchi della stessa qualità,<br />

sebbene di forme diverse. E<br />

non riuscivamo a immaginarcelo<br />

un marinaio che si divertisse<br />

a trasportare i pezzi<br />

di carbone uno per uno dalla<br />

stiva al ponte per poi buttarli<br />

in acqua. Era più facile<br />

pensare che il carbone fosse<br />

finito sul fondo con tutta la<br />

nave.<br />

Di naufragi importanti nella<br />

zona ce n’erano stati parecchi<br />

in passato. A Ciudadela la<br />

gente si ricordava ancora bene<br />

della terribile tragedia del<br />

“General Chanzy”, un postale<br />

francese lungo centonove<br />

metri e dislocanteduemilanovecentoventi<br />

tonnellate<br />

che il 9 febbraio<br />

1910<br />

si schiantò<br />

contro la<br />

scogliera del<br />

Codolar de<br />

Sa T orre<br />

Nova. Vi erano imbarcati ottantasette<br />

marinai e settanta<br />

passeggeri. Uno soltanto si<br />

salvò miracolosamente, centocinquantasei<br />

furono i morti<br />

e i dispersi. Il posto della<br />

75


catastrofe lo conoscevamo<br />

ed era a circa quattro miglia<br />

da Cala Morell. Sembrava<br />

improbabile che il carbone<br />

provenisse da lì. Doveva esserci<br />

qualcos’altro.<br />

Diverse navi, specialmente<br />

negli anni a cavallo del 1900,<br />

erano colate a picco nella zona,<br />

oltre al “General<br />

Chanzy”, e così abbiamo ricominciato<br />

a scartabellare<br />

negli archivi in cerca di date,<br />

luoghi e nomi che per noi<br />

potessero avere un significato.<br />

E ancora una volta sono<br />

stati preziosi gli elenchi dei sinistri<br />

marittimi messici a disposizione<br />

da Alfonso Buenaventura.<br />

Il 26 ottobre 1921<br />

a Minorca c’era stata un’altra<br />

grave sciagura: il mercantile<br />

“Torre del Oro”, di milletrecentoventuno<br />

tonnellate, era<br />

finito sugli scogli del Cul de<br />

sa Ferrada. Due erano stati i<br />

superstiti, ventotto i morti.<br />

Detta così, la notizia non ci<br />

coinvolgeva più di tanto.<br />

Dov’era il Cul de sa Ferrada?<br />

Nessuno lo sapeva con precisione,<br />

perciò ci siamo armati<br />

di pazienza e abbiamo<br />

cominciato a esaminare centimetro<br />

per centimetro una<br />

vecchia carta nautica scritta<br />

in minorchino e scovata casualmente<br />

in una polverosa<br />

libreria. E ci siamo accorti,<br />

con stupore, che il Cul de sa<br />

Ferrada non era altro che la<br />

parte terminale, e quindi più<br />

chiusa, della Baia Morell, da<br />

dove si accedeva nell’omonima<br />

cala. Insomma, il Cul de<br />

sa Ferrada potevamo vederlo<br />

semplicemente affacciandoci<br />

al terrazzo di casa, era<br />

la scogliera alta e a picco, impressionante<br />

per la sua maestosità,<br />

che con un arco pronunciato<br />

univa la Punta dell’Elefante<br />

alla Punta de s’Escullar.<br />

Da tanti anni eravamo<br />

nel teatro di una tragedia<br />

e non lo sapevamo.<br />

Per prima cosa abbiamo cercato<br />

di avere qualche conferma.<br />

Un evento così drammatico,<br />

benché risalisse a ottantatré<br />

anni prima, non poteva<br />

essere stato completamente<br />

dimenticato. Infatti,<br />

qualcuno che si ricordava lo<br />

abbiamo trovato, ma, forse<br />

per l’età avanzata, forse perché<br />

a quell’epoca non era ancora<br />

nato, le notizie che ci<br />

dava erano molto confuse e<br />

spesso contraddittorie. Chi<br />

diceva che una nave si era infilata<br />

proprio là, dove si ve-<br />

deva l’imboccatura di una gigantesca<br />

caverna che chiamavano<br />

La Cattedrale, chi<br />

diceva che invece il punto del<br />

naufragio era a metà della<br />

scogliera. Non restava altro<br />

da fare che andare a guardare.<br />

Sulle carte c’era scritto<br />

che il relitto era stato recuperato<br />

pochi anni dopo il<br />

naufragio, ma qualche resto<br />

doveva per forza essere rimasto<br />

sul fondo. Ci lasciava<br />

perplessi il fatto che quel<br />

tratto di mare l’avevamo già<br />

percorso in lungo e in largo<br />

moltissime volte e non avevamo<br />

mai visto niente che attirasse<br />

l’attenzione, a parte i<br />

pesci e una coreografia molto<br />

suggestiva, fatta di canaloni,<br />

grotte passanti e acuminati<br />

pinnacoli di pietra che si<br />

levavano dal fondo come le<br />

guglie di un castello.<br />

La prima esplorazione l’abbiamo<br />

fatta con il PDD quasi<br />

al completo: oltre a noi, c’erano<br />

Maurizio con la moglie<br />

Teia, Enrico, Alejandro, Jordi,<br />

Claudio Corti, presidente<br />

della TSA Europa, e Pera Calafat<br />

Torres, che ci assisteva<br />

rimanendo sul “Pegaso 3”, la<br />

nostra barca appoggio. Avevamo<br />

deciso di visitare per<br />

primi i punti che ci erano stati<br />

indicati e ci eravamo divisi a<br />

coppie per esplorare un tratto<br />

di fondale più vasto. Abbiamo<br />

esaminato bene la fascia<br />

dei 10 metri, quella dei<br />

15 e quella dei 20 metri. Ci<br />

aspettavamo di notare lamiere<br />

incrostate e corrose<br />

dalla ruggine, qualcosa, insomma,<br />

che facesse pensare<br />

al relitto, invece abbiamo visto<br />

solo scogli ricoperti di alghe.<br />

Era chiaro che così la ricerca<br />

sarebbe stata lunghissima<br />

ed esasperante.<br />

José Almagro, anche lui<br />

membro del nostro gruppo,<br />

ci era già stato molto utile in<br />

altre occasioni per la sua approfondita<br />

conoscenza dei<br />

fondali minorchini. Della<br />

“Torre del Oro” aveva sentito<br />

parlare vagamente e non<br />

sapeva esattamente dove<br />

fosse naufragata, ma si ricordava<br />

che più o meno là dove<br />

stavamo cercando c’era una<br />

nave romana. Non l’avevamo<br />

vista? Era contro le rocce,<br />

a non più di una quindicina<br />

di metri di profondità. Tutto<br />

ciò non stava in piedi, laggiù<br />

c’erano solo scogli, avevamo<br />

passato ore a perlustrare<br />

la zona e se ci fosse<br />

stato qualche reperto antico<br />

lo avremmo sicuramente individuato.<br />

Ma José insisteva:<br />

anni prima lui stesso aveva<br />

prelevato parecchi pani di<br />

piombo da quel relitto, che<br />

tutti supponevano fosse romano.<br />

Si trovavano abbandonati<br />

sul fondo e parecchi<br />

subacquei del posto andavano<br />

lì a far provviste quando<br />

avevano bisogno di una zavorra.<br />

Dov’erano esattamente?<br />

Più o meno sotto<br />

quelle rocce, un po’ più a destra<br />

o un po’ più a sinistra,<br />

era passato tanto tempo...<br />

La coincidenza era strana.<br />

Possibile che nel medesimo<br />

tratto di mare in cui era<br />

affondata la “Torre del Oro”<br />

fosse naufragato anche un<br />

bastimento antico? E sempre<br />

a due passi da casa? Tutto poteva<br />

succedere. Però, che<br />

cosa trasportava la “Torre<br />

del Oro”? Spinti da un presentimento<br />

siamo andati a<br />

scartabellare fra i manifesti di<br />

carico. E lì, su quei documenti<br />

ingialliti dal tempo, c’era<br />

scritto in maniera ancora<br />

ben leggibile che il mercantile<br />

nel suo ultimo viaggio trasportava<br />

barili di uva e di olive.<br />

E cinquecento tonnellate<br />

di lingotti di piombo provenienti<br />

dalla fonderia basca<br />

Penarroya. Altro che nave<br />

romana, fra quegli scogli c’erano<br />

proprio i resti della<br />

“Torre del Oro”! Ma bisognava<br />

trovarli.<br />

Abbiamo passato giorni e<br />

giorni immergendoci in<br />

apnea e nuotando per lunghi<br />

tratti con maschera e pinne<br />

in superficie, da dove potevamo<br />

avere una visione panoramica<br />

del fondo e quindi<br />

maggiori probabilità di avvistare<br />

ciò che ci interessava.<br />

La scoperta è avvenuta alla fine<br />

dell’estate. Eravamo rimasti<br />

soli, con Pera in barca,<br />

quando in una zona di macigni<br />

caduti dalla montagna,<br />

che avevamo lasciato per ultima<br />

ritenendola meno interessante,<br />

abbiamo notato<br />

qualcosa di inconsueto: su un<br />

ripido fondale di 12 - 13 metri<br />

che terminava in un pianoro<br />

di sabbia a 23 metri di<br />

profondità i sassi e le rocce<br />

erano ricoperti da una densa<br />

nebbia giallognola che impediva<br />

alla vegetazione di crescere<br />

normalmente. Siamo<br />

scesi per esaminare il fenomeno<br />

da vicino e ci siamo resi<br />

conto che sotto gli scogli e<br />

la sabbia c’era uno spesso<br />

strato di metallo che stava<br />

marcendo e riempiva l’acqua<br />

di ruggine. Probabilmente si<br />

trattava delle piastre di chiglia<br />

lasciate sul fondo dopo il<br />

recupero parziale del piroscafo<br />

e nel corso degli anni<br />

rimaste sepolte dalle frane<br />

staccatesi dalla parete a stra-<br />

piombo della scogliera, in<br />

quel punto alta più di ottanta<br />

metri. Ecco perché il relitto<br />

sembrava scomparso nel nulla<br />

e nessuno ne sapeva niente:<br />

il tempo e la consunzione<br />

naturale degli elementi ne<br />

avevano pietosamente protetto<br />

e nascosto i resti martoriati<br />

dalle benne e dalle<br />

I subacquei del team PDD della nostra<br />

rivista al lavoro per recuperare un<br />

grosso lingotto di piombo servito per<br />

l’identificazione certa della nave.<br />

fiamme ossidriche dei palombari.<br />

Da quel momento in poi con<br />

Alejandro Fernandez e Jordi<br />

Moya abbiamo concentrato<br />

le ricerche su una delimitata<br />

aerea del fondale e abbiamo<br />

cominciato a esplorare gli anfratti<br />

grandi e piccoli che si<br />

aprivano tra un macigno e<br />

l’altro. La “Torre del Oro”,<br />

praticamente invisibile dall’alto,<br />

era ancora là. Era sufficiente<br />

infilarsi tra un masso e<br />

l’altro e nelle numerose grotticelle<br />

della frana per vedere<br />

ogni genere di materiale appartenuto<br />

alla nave: tubi, valvole,<br />

volantini, ingranaggi, paratie,<br />

centine, leveraggi, oblò,<br />

cavi d’acciaio, maniglie e altro.<br />

Schiacciata sotto un<br />

enorme sasso abbiamo anche<br />

trovato la rivestitura dorata<br />

della torre del fumaiolo<br />

che aveva ispirato il nome e<br />

dietro uno scoglio abbiamo<br />

riconosciuto una parte ancora<br />

in buono stato della intelaiatura<br />

di plancia.<br />

Mancava, però, una prova<br />

certa che quei resti fossero<br />

veramente della “Torre del<br />

Oro” e non di un mercantile<br />

anonimo. In quello sfacelo disperavamo<br />

di trovarla, invece<br />

in una delle ultime immersioni<br />

Jordi ha attirato la<br />

nostra attenzione e passando<br />

attraverso uno stretto<br />

pertugio ci ha portati in una<br />

cavità che si apriva sotto un<br />

colossale macigno: uno vicino<br />

all’altro c’erano tre grossi<br />

76 77


lingotti di piombo del peso di<br />

venticinque chili ciascuno e<br />

su due di essi, alla luce delle<br />

lampade, abbiamo potuto<br />

vedere che c’era stampigliata<br />

una scritta, al momento indecifrabile.<br />

Tirando, sollevando<br />

e spingendo siamo riusciti<br />

a portare con molta fatica<br />

i pani di piombo all’aperto<br />

e quindi a sollevarli con un<br />

paio di palloni fino in superficie,<br />

dove Pera, grazie alla<br />

prestanza fisica di un maestro<br />

di karaté di quinto dan, li<br />

ha afferrati e messi a bordo<br />

senza tante storie. Più tardi,<br />

e all’asciutto, siamo riusciti a<br />

leggere la parola scritta in<br />

bassorilievo: Penarroya, il nome<br />

della fonderia indicata sui<br />

documenti di carico. Non<br />

c’erano più dubbi, si trattava<br />

proprio della “ Torre del<br />

Oro”. Ne abbiamo ricostruita<br />

la storia con l’aiuto di<br />

Alfonso Buenaventura e del<br />

nostro collaboratore Pietro<br />

Faggioli, che i lettori ormai<br />

conoscono per i suoi bellissimi<br />

servizi sui relitti, accostando<br />

l’una vicino all’altra le<br />

tessere di un mosaico che<br />

man mano diventava sempre<br />

più chiaro e leggibile. Ma anche<br />

più drammatico.<br />

<br />

La “Torre del Oro” era un<br />

solido mercantile costruito<br />

nel cantiere inglese Craig,<br />

Taylor & Co. per la Compagnia<br />

Sivigliana di Navigazione.<br />

Varata nel 1888, aveva un<br />

dislocamento di milletrecentonovantuno<br />

tonnellate, era<br />

lunga settantaquattro metri<br />

e larga nove metri e mezzo.<br />

Caldaie a triplice espansione<br />

alimentate con carbone di<br />

ottima qualità le conferivano<br />

una potenza più che sufficiente<br />

per affrontare le dure<br />

rotte del Mediterraneo occidentale<br />

anche nei mesi invernali,<br />

notoriamente burrascosi.<br />

Ma non fu mai una nave<br />

fortunata.<br />

Per abbattere i costi, gli armatori<br />

la facevano passare da<br />

un nolo all’altro tenendola<br />

ferma in porto il meno possibile,<br />

anche a scapito della<br />

manutenzione e della sicurezza<br />

di navigazione. Una<br />

volta, per un errore di rotta<br />

o per un guasto alla timoneria,<br />

finì in secca su un basso<br />

fondale di La Nouvalle, in<br />

Francia, dove rimase arenata<br />

per circa sei mesi in uno<br />

stato di semi abbandono. Rimessa<br />

in grado di navigare,<br />

dopo poco tempo ebbe un<br />

incendio a bordo, che per<br />

fortuna venne domato senza<br />

gravi conseguenze. Pochi anni<br />

dopo, nel 1896, in mezzo<br />

all’estuario del Guadalquivir<br />

entrò in collisione con il vapore<br />

“ Aznalfarache”, che<br />

affondò trascinando con sé<br />

numerosi passeggeri. Nel<br />

1918 i proprietari ne ebbero<br />

abbastanza e la vendettero<br />

alla società armatrice catalana<br />

Figlio di José Tayà, che la<br />

impiegò soprattutto sulla rot-<br />

ta mercantile Siviglia - Barcellona<br />

- Marsiglia.<br />

La mattina del 23 ottobre<br />

1921 la “Torre del Oro” era<br />

attraccata a uno dei moli del<br />

porto di Barcellona. Il suo<br />

comandante, il capitano Antonio<br />

Palmer Carbonell, originario<br />

di Palma di Maiorca,<br />

e il primo ufficiale Luis Aparicio<br />

Alarcòn stavano controllando<br />

gli ultimi documenti di<br />

carico sull’aletta di plancia.<br />

Cinquecento tonnellate di<br />

piombo e un alto numero di<br />

barili di uva e di ulive destinati<br />

al mercato francese erano<br />

stati appena stivati e solidamente<br />

rizzati in previsione<br />

della traversata del Golfo del<br />

Leone, raramente tranquilla.<br />

Palmer era un uomo sui quarantacinque<br />

anni dal volto<br />

abbronzato e segnato dal<br />

vento che faceva il marinaio<br />

da quando era ragazzo. Nell’ambiente<br />

era stimato, conosceva<br />

il mare e le sue insidie.<br />

Il tempo, sulla rotta per<br />

Marsiglia, era ancora bello,<br />

La <strong>TORRE</strong> <strong>DEL</strong> <strong>ORO</strong> nei registri dei Lloyd’s<br />

Nave: Torre del Oro;<br />

Armatore: Hijos de José Tayàt di Barcellona;<br />

Anno di costruzione: 1888;<br />

Cantiere: Craig, Taylor & Co., Gran Bretagna;<br />

Stazza: 1.321 tonnellate;<br />

Misure in piedi: 243.8 x 31.3 x 17.2;<br />

Potenza: 138 n.h.p.;<br />

Caldaie: a triplice espansione;<br />

Comandante: Antonio Palmer Carbonell, di<br />

Palma di Maiorca;<br />

Equipaggio: 30 uomini compreso il comandante;<br />

Data dell’affondamento: 26 ottobre 1921;<br />

Luogo dell’affondamento: Baia Morell, costa<br />

nord di Minorca, Isole Baleari, Spagna;<br />

Vittime: 28;<br />

Superstiti: 2.<br />

anche se non lo sarebbe stato<br />

per molto. Per il giorno<br />

dopo i bollettini meteo annunciavano<br />

mistral in aumento.<br />

Ma a quel punto,<br />

pensava il comandante, lui e<br />

la sua nave sarebbero stati<br />

ormai in prossimità del porto<br />

di destinazione e non ci sarebbero<br />

stati problemi.<br />

Dopo aver espletato le formalità<br />

doganali e firmato l’ultimo<br />

registro, alle due e<br />

mezza del pomeriggio Antonio<br />

Palmer Carbonell diede<br />

L’unica foto d’epoca della Torre<br />

del Oro, varata nel 1888 e<br />

affondata il 26 ottobre 1921.<br />

l’ordine di levare gli ormeggi<br />

e lasciò momentaneamente<br />

il comando al pilota del porto,<br />

che aveva la responsabilità<br />

di condurre la nave al di<br />

fuori della diga foranea. Solo<br />

quando fu in acque libere,<br />

riprese possesso del suo<br />

ruolo e si apprestò a fare<br />

quella che si augurava fosse<br />

una tranquilla navigazione di<br />

routine. La speranza, però,<br />

durò poco. Dopo appena<br />

sette miglia il capo macchinista<br />

lo avvisò con l’interfono<br />

che il motore aveva un problema<br />

e che avrebbero dovuto<br />

procedere al minimo<br />

dei giri mentre tentavano di<br />

ripararlo.<br />

Le ore passavano e finalmen-<br />

te il guasto fu aggiustato.<br />

Non era il caso di tornare indietro,<br />

si poteva andare<br />

avanti, sostennero i meccanici.<br />

E così la “ Torre del<br />

Oro”, sebbene zoppicante,<br />

si inoltrò nel Golfo del Leone.<br />

Le prime ore del 24 ottobre<br />

la colsero ancora in alto<br />

mare e all’alba cominciò a<br />

soffiare rabbioso il mistral,<br />

che in breve sollevò onde alte,<br />

ripide e frangenti. I colpi<br />

arrivavano al traverso e ogni<br />

volta erano montagne d’acqua<br />

che si riversavano in coperta.<br />

La nave<br />

procedeva a fatica<br />

per via del<br />

carico pesante<br />

e i fuochisti, tra<br />

i quali c’era il<br />

ventitreenne Severiano Vàzquez<br />

Miròn, di Boiro, vicino a<br />

La Corugna, non si concedevano<br />

tregua per mantenere<br />

le caldaie in pressione.<br />

Luis Aparicio Alarcòn, il primo<br />

ufficiale, scendeva spesso<br />

nella stiva per controllare<br />

che il carico di piombo e di<br />

barili fosse sempre ben legato<br />

e nella perlustrazione si faceva<br />

accompagnare da un<br />

marinaio di coperta, Manuel<br />

Rodriguez Dominguez, di<br />

vent’anni, originario di Palmeira,<br />

un’altra cittadina nei<br />

pressi di La Corugna. Manuel<br />

non aveva molta esperienza<br />

di burrasche, era in ansia e<br />

Aparicio cercava di minimizzare<br />

il pericolo. E’ la solita<br />

storia, diceva per calmarlo e<br />

dargli coraggio, nel Leone si<br />

balla sempre, ma poi ci si abitua.<br />

La nave rollava, beccheggiava<br />

e avanzava sempre più con<br />

fatica. Il vento la stava portando<br />

fuori rotta e forse poteva<br />

essere conveniente assecondarlo<br />

per poter diminuire<br />

un po’ la pressione nelle<br />

caldaie. Ma non ce ne fu il<br />

tempo. Il guasto riparato<br />

provvisoriamente si ripresentò<br />

e la macchina smise di<br />

rombare. A nulla valsero gli<br />

sforzi di rimetterla in moto.<br />

79


In balìa del mare, la “ Torre<br />

del Oro” girava su se stessa<br />

senza governo e intanto andava<br />

alla deriva abbattendosi<br />

su un fianco e poi sull’altro,<br />

sempre più al largo, sempre<br />

più in mezzo al Mediterraneo,<br />

spinta da un vento di<br />

nord ovest che a un certo<br />

punto girò decisamente a<br />

nord e divenne ancora più<br />

forte e violento.<br />

Antonio Palmer Carbonell,<br />

chiuso in plancia accanto al timoniere,<br />

ordinò al marconista<br />

di lanciare l’Sos, ma anche<br />

la radio non funzionava.<br />

Non è chiaro se si ruppe in<br />

quel momento o se era già in<br />

avaria. Nessuno sapeva perciò<br />

in quale drammatica situazione<br />

si trovasse la nave,<br />

squassata dalle possenti ondate<br />

di tramontana che la incalzavano<br />

senza tregua.<br />

Passò il giorno 24 e all’alba<br />

del 25 la “Torre del Oro” era<br />

ancora a galla. Parte delle sue<br />

strutture apparivano deformate<br />

dai tremendi colpi di<br />

mare, i trenta uomini di equipaggio<br />

erano terrorizzati, ma<br />

stavano bene. Nonostante<br />

l’impossibilità di manovrare,<br />

qualcuno cominciava a sperare<br />

che la nave sarebbe riuscita<br />

a superare la tempesta.<br />

Bisognava stringere i denti e<br />

resistere. Improvvisamente,<br />

però, uno stridìo sinistro si<br />

udì provenire dalla stiva e poi<br />

ci fu una serie di schianti e di<br />

rumori assordanti: le cime<br />

che assicuravano il carico si<br />

erano rotte, una parte dei<br />

lingotti di piombo si era spostata<br />

e i barili rotolavano da<br />

un lato all’altro dello scafo. La<br />

“Torre del Oro” si inclinò su<br />

un bordo, minacciando di rovesciarsi,<br />

ma non si arrese.<br />

Arrivò anche la notte del 25<br />

ottobre. Il vento era sempre<br />

più impetuoso, la schiuma<br />

strappata via dai cavalloni saturava<br />

l’aria, il fragore delle<br />

creste che franavano era ossessionante,<br />

così come lo era<br />

il sibilo continuo e lamentoso<br />

della tramontana. Fu allora,<br />

80<br />

probabilmente, che il comandante,<br />

guardando le carte<br />

e calcolando l’abbrivio e la<br />

rotta stimata, si accorse che il<br />

mercantile veniva spinto inesorabilmente<br />

dai marosi contro<br />

la costa settentrionale di<br />

Minorca, laggiù sottovento<br />

da qualche parte, invisibile<br />

nella densa foschia. Ne parlò<br />

con il primo ufficiale. Che fa-<br />

re? E cosa si poteva mai fare<br />

con quel mare? Mettersi su<br />

una scialuppa di salvataggio<br />

nemmeno a parlarne, era più<br />

sicuro rimanere sulla nave. E<br />

poi, chissà, con un po’ di fortuna<br />

la “Torre del Oro”, spinta<br />

dalla burrasca, avrebbe<br />

potuto scapolare l’isola e<br />

passare a est della Mola di<br />

Mahon o a ovest di Capo<br />

Bajoli, le due punte estreme.<br />

E allora sottovento ci sarebbe<br />

stato solo mare e nient’altro<br />

sino alle coste africane. A<br />

un certo momento il peggio<br />

sarebbe passato e con calma<br />

si sarebbe potuto pensare al<br />

da farsi.<br />

Ma poco prima dell’alba del<br />

26 ottobre la vedetta in plancia<br />

vide nell’oscurità le luci<br />

dei fari di Capo Cavalleria e<br />

di Capo Nati che spazzavano<br />

l’orizzonte. Inesorabile, il<br />

vento stava spingendo la nave<br />

proprio contro la zona più<br />

impervia e selvaggia della costa<br />

settentrionale di Minorca.<br />

Antonio Palmer Carbonell<br />

la conosceva, si rese conto<br />

che il disastro era vicino e<br />

spinto dalla disperazione<br />

tentò l’unica cosa che poteva<br />

fare per chiedere soccorso:<br />

si attaccò alla sirena, che lacerò<br />

l’aria e si mischiò all’urlo<br />

del vento. Se qualcuno l’avesse<br />

udita forse sarebbe riuscito<br />

a dare l’allarme e, chissà,<br />

magari un miracolo si sarebbe<br />

compiuto.<br />

Verso le sei e mezza il cielo<br />

cominciava a schiarirsi da est<br />

e la visione che si presentò<br />

all’equipaggio atterrito fu tremenda:<br />

le montagne d’acqua<br />

spumeggianti che incalzavano<br />

da poppa stavano spingendo<br />

la nave dentro l’ansa<br />

di una baia rocciosa circondata<br />

da una parete alta e ripida<br />

come una muraglia. Una<br />

trappola infernale. Le onde vi<br />

si schiantavano contro con<br />

tanta forza che la schiuma arrivava<br />

fin quasi sul ciglio del<br />

burrone e ricadeva scrosciando<br />

come una cascata.<br />

L’aria era intrisa di sale e il<br />

Parte dello scafo della Torre<br />

del Oro venne recuperato. Il<br />

resto venne sepolto, nel<br />

corso degli anni, dalle frane<br />

cha caddero dalla scogliera.<br />

mare un’unica e tormentata<br />

superficie bianca. Mentre i<br />

marinai in preda al panico<br />

correvano disordinatamente<br />

sul ponte in cerca di una impossibile<br />

via di salvezza, sull’aletta<br />

di plancia il comandante<br />

non si staccava dalla sirena,<br />

guardando inorridito le<br />

rocce che si avvicinavano. Poi<br />

ci fu l’impatto. La prua della<br />

“Torre del Oro” si avventò<br />

contro la parete strisciando<br />

sugli scogli affioranti. L’urto fu<br />

tremendo, lo scafo si torse e<br />

si ruppe in due tronconi, la<br />

poppa si riempì subito d’acqua<br />

e affondò, seguita poco<br />

dopo anche dalla metà prodiera,<br />

che scivolò all’indietro<br />

e sparì sotto le onde.<br />

Nello schianto, tutti gli uomini<br />

caddero in mare e vennero<br />

risucchiati dai flutti e dalle<br />

correnti di risacca. Anche il<br />

fuochista Severiano Vàzquez<br />

Miròn fu preso da un frangente,<br />

che prima lo trascinò<br />

sott’acqua e poi lo scagliò<br />

con forza in alto, contro la<br />

scogliera. Severiano era talmente<br />

terrorizzato che non<br />

sentì quasi il duro contatto<br />

con le rocce e, quando l’acqua<br />

si ritirò, si aggrappò con<br />

le unghie a qualsiasi appiglio<br />

per non farsi trascinare via.<br />

Sospeso nel vuoto, graffiato<br />

e sanguinante, si rese conto<br />

che doveva far presto per<br />

mettersi in salvo e prima che<br />

arrivasse l’ondata successiva<br />

riuscì ad arrampicarsi fino a<br />

un balconcino di pietra dove<br />

la forza delle onde non arrivava.<br />

Era ferito alla testa, alle<br />

braccia e alle gambe, ma era<br />

vivo.<br />

Si guardò attorno, cercando i<br />

compagni. Il mare era cosparso<br />

di relitti: barili, pezzi<br />

di legno, cordame, materassi.<br />

C’era di tutto. Alcuni corpi<br />

irriconoscibili e inanimati si<br />

intravedevano affiorare qua<br />

e là, poi si accorse che a pochi<br />

metri di distanza da lui,<br />

nella spuma che ribolliva, c’era<br />

qualcuno che tentava di<br />

mantenersi a galla. Lo riconobbe,<br />

era il suo compaesano<br />

Manuel Rodriguez Dominguez,<br />

marinaio di coperta.<br />

Gli urlò di resistere, vide<br />

una cima agganciata a un sasso<br />

e gliela tirò. Anche Rodriguez<br />

era giovane e agile, l’afferrò<br />

e non la mollò più, nonostante<br />

fosse ricoperto di<br />

tagli ed escoriazioni. Quando<br />

fu anche lui al sicuro, una<br />

terza persona comparve nell’acqua.<br />

Era un uomo più anziano,<br />

che annaspava. I due<br />

ragazzi tentarono di aiutarlo,<br />

ma non ci riuscirono. Lo videro<br />

scomparire in un gorgo.<br />

Poi gli unici rumori furono<br />

il frastuono della tempesta,<br />

il sibilo del vento e le grida<br />

irritate dei gabbiani che<br />

avevano il nido sulla parete.<br />

Il carbonaio Ernesto Borràs<br />

e suo figlio Miguel erano dall’altra<br />

parte della baia e avevano<br />

assistito impotenti alla<br />

tragedia. Avevano visto la nave<br />

fracassarsi sulle rocce, il<br />

capitano agitarsi in plancia, gli<br />

uomini cadere in mare e<br />

affogare trascinati sul fondo<br />

dalla furia degli elementi o<br />

morire dopo essere stati ripetutamente<br />

scagliati contro<br />

la scogliera. Benché sopraffatti<br />

dall’orrore, avevano anche<br />

visto i due superstiti arrampicarsi<br />

sulla parete e si<br />

misero a correre per aiutarli.<br />

La strada, però, era lunga.<br />

Bisognava scendere giù sino<br />

al mare, attraversare Cala<br />

Morell, risalire dalla parte opposta<br />

e seguire un sentiero<br />

appena percettibile tra i rovi<br />

e le piante selvatiche che<br />

conduceva in cima allo strapiombo,<br />

verso la Punta de<br />

s’Escullar. Quando arrivarono<br />

sul posto, non trovarono<br />

nessuno.<br />

Severiano e Manuel si erano<br />

resi conto di essere gli unici<br />

superstiti della “ Torre del<br />

Oro” e che il posto del naufragio<br />

era disabitato. Non sapevano<br />

che tutta la catastrofe<br />

era stata seguita da due testimoni<br />

e così avevano deciso<br />

di muoversi. Severiano lasciò<br />

Manuel, che non riusciva<br />

a reggersi in piedi, al sicuro,<br />

raggiunse la vetta della scogliera<br />

e si inoltrò nella bassa<br />

vegetazione della macchia<br />

mediterranea finché scorse<br />

una fattoria. Era la Curniola,<br />

il cui guardiano gli prestò i<br />

primi soccorsi e poi, venuto<br />

a conoscenza della catastrofe,<br />

corse verso il mare per<br />

aiutare l’altro superstite. Ma<br />

Manuel, atterrito e con i nervi<br />

a pezzi, non ce l’aveva fatta<br />

a rimanere solo in quel posto<br />

maledetto, era riuscito a<br />

sua volta a raggiungere la<br />

sommità della scogliera arrampicandosi<br />

con le sole mani<br />

e alla fine era stato trovato<br />

dal carbonaio e da suo figlio<br />

mentre in preda al delirio<br />

strisciava piangendo fra i cespugli.<br />

Della tragedia della “Torre<br />

del Oro” si parlò a lungo,<br />

perché per giorni e giorni il<br />

mare continuò a restituire i<br />

cadaveri irriconoscibili dei<br />

marinai, che dall’alto si vedevano<br />

galleggiare nella baia<br />

senza poter far niente per<br />

recuperarli a causa delle pessime<br />

condizioni meteorologiche.<br />

Dopo qualche mese<br />

una parte dello scafo e del<br />

carico di piombo venne recuperata<br />

e negli anni seguenti,<br />

come se la natura volesse<br />

nascondere tutto il male che<br />

aveva fatto, le frane che cadevano<br />

dalla montagna ricopersero<br />

gli ultimi resti della<br />

nave. E una delle più terribili<br />

disgrazie marinare di Minorca<br />

finì nell’oblìo, presente solo<br />

nei ricordi di qualche vecchio<br />

che non riusciva a dimenticare.<br />

Guido Pfeiffer<br />

& Flory Calò<br />

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