T 11 – Jacques Le Goff Il corpo nel Medioevo (Prefazione) - Studio ...

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T 11 Jacques Le Goff Il corpo nel Medioevo (Prefazione) La dinamica della società e della civiltà medievali e il risultato di diverse tensioni: tra Dio e l’uomo, tra uomo e donna, tra città e campagna, alto e basso, ricchezza e povertà, ragione e fede, violenza e pace. Ma una delle tensioni principali è quella che si instaura fra il corpo e l’anima, e ancor più all’interno del corpo stesso. Da un lato il corpo è disprezzato, condannato, umiliato. La salvezza, nel mondo cristiano, passa attraverso la penitenza corporale. Agli albori del Medioevo, papa Gregorio Magno definisce il corpo «abominevole rivestimento dell’anima». Il modello umano della società dell’alto Medioevo, il monaco, mortifica il proprio corpo. Portare il cilicio sulle carni è segno di alta spiritualità. Astinenza e continenza sono tra le virtù primarie. Gola e lussuria sono tra i più gravi peccati capitali. Il peccato originale, fonte dell’umana disgrazia, che nella Genesi è presentato come un peccato di orgoglio e di sfida lanciato dall’uomo a Dio, diviene nel Medioevo un peccato sessuale. Il corpo diventa il grande sconfitto del peccato di Adamo ed Eva rivisitato in questa chiave. Il primo uomo e la prima donna sono condannati al lavoro e alla sofferenza, lavoro manuale o travaglio del parto accompagnato da sofferenze fisiche, ed essi devono celare la nudità dei loro corpi. Da tali conseguenze del peccato originale sul corpo il Medioevo ha desunto conclusioni estreme. (...) D’altro canto, nel cristianesimo medievale si assiste a una glorificazione del corpo. L’evento capitale della storia l’Incarnazione di Gesù Cristo è stato il riscatto dell’umanità attraverso il gesto salvifico di Dio, del figlio di Dio, che ha assunto un corpo di uomo. E Gesù, Dio fatto carne, ha vinto la morte: la resurrezione di Cristo fonda il dogma cristiano della resurrezione dei corpi, credenza inaudita nel mondo delle religioni. Nell’aldilà, uomini e donne ritroveranno un corpo, per soffrire all’inferno, per gioire legittimamente grazie ad un corpo glorioso in paradiso, ove i cinque sensi saranno appagati al massimo grado: la vista con la pienezza della visione di Dio e della luce celeste, l’odorato con il profumo dei fiori, l’udito con la musica dei cori angelici, il gusto con il sapore dei nutrimenti celesti e il tatto con il contatto dell’aria quintessenziale di Dio. (...) Il corpo cristiano medievale è attraversato da parte a parte da questa tensione, questo altalenare, questa oscillazione tra rimozione ed esaltazione, umiliazione e venerazione. Il cadavere, ad esempio, è ripugnante materia putrida, immagine della morte causata dal peccato originale, e insieme materia da onorare: il cadavere di ogni cristiano e di ogni cristiana asperso di incenso durante la liturgia funebre nei cimiteri riportati dall’esterno all’interno delle città o in prossimità delle chise nei villaggi, e soprattutto i corpi venerabili dei santi che compiono miracoli nelle loro tombe e attraverso le loro reliquie corporali. I sacramenti santificano i corpi, dal battesimo all’estrema unzione. L’eucarestia, fulcro del culto cristiano, è il corpo e il sangue di Cristo. La comunione è un pasto. Sul paradiso, una tensione, un interrogativo inquieta i teologi medievali, le cui risposte e opinioni in materia divergono. I corpi degli eletti ritroveranno la nudità della primitiva innocenza o conserveranno, del passaggio attraverso la storia, quel pudore che li ricoprirà di una veste in grado di dissimulare un residuo di vergogna, sebbene sicuramente immacolata? T 12 Innocenzo III De contemptu mundi (cap. XXI: De carcere animae, quod est corpus) Me, uomo infelice, chi mi libererà da questo corpo di morte?» (Rm 7, 24). Certo non vuole essere tratto fuori dal carcere chi non vuole uscire dal corpo; infatti il corpo è il carcere dell’anima. Perciò scrive il Salmista: «Fa’ uscire dal carcere l’anima mia» (Sal 142, 8). Nessuna quiete e tranquillità, nè mai pace e sicurezza dovunque ci sono timore e tremore, dolore e fatica. La carne, finchè vive, proverà dolore e l’anima piangerà su se stessa. T 13 Jole Agrimi, Chiara Crisciani Malato medico e medicina nel Medioevo (pp. 33-34) Tramite le sue procedure (e affinché queste funzionino) il malato deve diventare oggetto di studio e d’intervento tecnico: un corpo cioè distanziato i cui dati sesso, età, sofferenza sono tutti visti come sintomi e come condizioni scientificamente neutre di equilibrio/squilibrio: su di esso si può dirigere un esame depotenziato sessualmente e affettivamente che produce dunque non coinvolgimento ma teoria e diagnosi. Il presupposto per una definizione medica del malato istituzione della distanza necessaria perchè lo scienziato interpreti come oggetto di teoria l’infermo comporta che tra medico e paziente s’instauri un rapporto di asimmetrica dipendenza: il medico, detentore di sapere, controlla,

T <strong>11</strong> <strong>–</strong> <strong>Jacques</strong> <strong>Le</strong> <strong>Goff</strong> <strong>Il</strong> <strong>corpo</strong> <strong>nel</strong> <strong>Medioevo</strong> (<strong>Prefazione</strong>)<br />

La dinamica della società e della civiltà medievali e il risultato di diverse tensioni: tra Dio e l’uomo,<br />

tra uomo e donna, tra città e campagna, alto e basso, ricchezza e povertà, ragione e fede, violenza e<br />

pace. Ma una delle tensioni principali è quella che si instaura fra il <strong>corpo</strong> e l’anima, e ancor più<br />

all’interno del <strong>corpo</strong> stesso. Da un lato il <strong>corpo</strong> è disprezzato, condannato, umiliato. La salvezza, <strong>nel</strong><br />

mondo cristiano, passa attraverso la penitenza <strong>corpo</strong>rale. Agli albori del <strong>Medioevo</strong>, papa Gregorio<br />

Magno definisce il <strong>corpo</strong> «abominevole rivestimento dell’anima». <strong>Il</strong> modello umano della società<br />

dell’alto <strong>Medioevo</strong>, il monaco, mortifica il proprio <strong>corpo</strong>. Portare il cilicio sulle carni è segno di alta<br />

spiritualità. Astinenza e continenza sono tra le virtù primarie. Gola e lussuria sono tra i più gravi<br />

peccati capitali. <strong>Il</strong> peccato originale, fonte dell’umana disgrazia, che <strong>nel</strong>la Genesi è presentato come un<br />

peccato di orgoglio e di sfida lanciato dall’uomo a Dio, diviene <strong>nel</strong> <strong>Medioevo</strong> un peccato sessuale. <strong>Il</strong><br />

<strong>corpo</strong> diventa il grande sconfitto del peccato di Adamo ed Eva rivisitato in questa chiave. <strong>Il</strong> primo<br />

uomo e la prima donna sono condannati al lavoro e alla sofferenza, lavoro manuale o travaglio del<br />

parto accompagnato da sofferenze fisiche, ed essi devono celare la nudità dei loro corpi. Da tali<br />

conseguenze del peccato originale sul <strong>corpo</strong> il <strong>Medioevo</strong> ha desunto conclusioni estreme. (...) D’altro<br />

canto, <strong>nel</strong> cristianesimo medievale si assiste a una glorificazione del <strong>corpo</strong>. L’evento capitale della<br />

storia <strong>–</strong> l’Incarnazione di Gesù Cristo <strong>–</strong> è stato il riscatto dell’umanità attraverso il gesto salvifico di<br />

Dio, del figlio di Dio, che ha assunto un <strong>corpo</strong> di uomo. E Gesù, Dio fatto carne, ha vinto la morte: la<br />

resurrezione di Cristo fonda il dogma cristiano della resurrezione dei corpi, credenza inaudita <strong>nel</strong><br />

mondo delle religioni. Nell’aldilà, uomini e donne ritroveranno un <strong>corpo</strong>, per soffrire all’inferno, per<br />

gioire legittimamente grazie ad un <strong>corpo</strong> glorioso in paradiso, ove i cinque sensi saranno appagati al<br />

massimo grado: la vista con la pienezza della visione di Dio e della luce celeste, l’odorato con il<br />

profumo dei fiori, l’udito con la musica dei cori angelici, il gusto con il sapore dei nutrimenti celesti e il<br />

tatto con il contatto dell’aria quintessenziale di Dio. (...) <strong>Il</strong> <strong>corpo</strong> cristiano medievale è attraversato da<br />

parte a parte da questa tensione, questo altalenare, questa oscillazione tra rimozione ed esaltazione,<br />

umiliazione e venerazione. <strong>Il</strong> cadavere, ad esempio, è ripugnante materia putrida, immagine della<br />

morte causata dal peccato originale, e insieme materia da onorare: il cadavere di ogni cristiano e di<br />

ogni cristiana asperso di incenso durante la liturgia funebre nei cimiteri riportati dall’esterno<br />

all’interno delle città o in prossimità delle chise nei villaggi, e soprattutto i corpi venerabili dei santi<br />

che compiono miracoli <strong>nel</strong>le loro tombe e attraverso le loro reliquie <strong>corpo</strong>rali. I sacramenti santificano<br />

i corpi, dal battesimo all’estrema unzione. L’eucarestia, fulcro del culto cristiano, è il <strong>corpo</strong> e il sangue<br />

di Cristo. La comunione è un pasto. Sul paradiso, una tensione, un interrogativo inquieta i teologi<br />

medievali, le cui risposte e opinioni in materia divergono. I corpi degli eletti ritroveranno la nudità<br />

della primitiva innocenza o conserveranno, del passaggio attraverso la storia, quel pudore che li<br />

ricoprirà di una veste in grado di dissimulare un residuo di vergogna, sebbene sicuramente<br />

immacolata?<br />

T 12 <strong>–</strong> Innocenzo III De contemptu mundi (cap. XXI: De carcere animae, quod est corpus)<br />

Me, uomo infelice, chi mi libererà da questo <strong>corpo</strong> di morte?» (Rm 7, 24). Certo non vuole essere<br />

tratto fuori dal carcere chi non vuole uscire dal <strong>corpo</strong>; infatti il <strong>corpo</strong> è il carcere dell’anima. Perciò<br />

scrive il Salmista: «Fa’ uscire dal carcere l’anima mia» (Sal 142, 8). Nessuna quiete e tranquillità, nè<br />

mai pace e sicurezza dovunque ci sono timore e tremore, dolore e fatica. La carne, finchè vive, proverà<br />

dolore e l’anima piangerà su se stessa.<br />

T 13 <strong>–</strong> Jole Agrimi, Chiara Crisciani Malato medico e medicina <strong>nel</strong> <strong>Medioevo</strong> (pp. 33-34)<br />

Tramite le sue procedure (e affinché queste funzionino) il malato deve diventare oggetto di studio e<br />

d’intervento tecnico: un <strong>corpo</strong> cioè distanziato i cui dati <strong>–</strong> sesso, età, sofferenza <strong>–</strong> sono tutti visti come<br />

sintomi e come condizioni scientificamente neutre di equilibrio/squilibrio: su di esso si può dirigere<br />

un esame depotenziato sessualmente e affettivamente che produce dunque non coinvolgimento ma<br />

teoria e diagnosi. <strong>Il</strong> presupposto per una definizione medica del malato <strong>–</strong> istituzione della distanza<br />

necessaria perchè lo scienziato interpreti come oggetto di teoria l’infermo <strong>–</strong> comporta che tra medico e<br />

paziente s’instauri un rapporto di asimmetrica dipendenza: il medico, detentore di sapere, controlla,


perchè lo definisce, il suo oggetto. Con un sistema ordinato di gesti esplorativi e di interrogazioni egli<br />

trasforma dolore e disagio in malattia, lamenti confusi in diagnosi, sofferenza soggettivamente subita<br />

in discorso medico oggettivamente organizzato e comunicabile. È il medico, rector salutis, che impone<br />

le regole del suo linguaggio scientifico al paziente, altrimenti costretto al silenzio o al lamento; con ciò<br />

egli controlla e domina anche le malattie perchè le classifica in un repertorio nosologico e dà loro, oltre<br />

che un nome, un tempo scandito non in termini religiosi ma regolato secondo i ritmi della patologia e<br />

della terapia. All’istante dell’intervento divino che provoca l’infermità o la guarigione subitanea<br />

subentra dunque la durata della malattia e della cura, rispettivamente prevista e programmata dal<br />

medico.<br />

T 14 <strong>–</strong> Concilio Lateranense IV Costituzioni<br />

L’infermità del <strong>corpo</strong> dipende talora dal peccato, come disse il Signore all’ammalato che aveva<br />

sanato: Va’ e non voler più peccare, perchè non debba accaderti di peggio. Col presente decreto pertanto<br />

stabiliamo e condanniamo severamente ai medici dei corpi che quando sono chiamati presso gli<br />

infermi, prima di tutto li ammoniscano e li inducano a chiamare i medici delle anime, cosicchè dopo<br />

che è stato provvisto alla salute spirituale degli infermi, si proceda al rimedio della medicina <strong>corpo</strong>rale<br />

con maggior efficacia: cessando infatti la causa, cessa anche l’effetto. Questo decreto è motivato dal<br />

fatto che alcuni, quando soffrono, e i medici cercano di persuaderli alla salute della loro anima, cadono<br />

in una estrema disperazione, da cui segue più facilmente il pericolo di morte. I medici che<br />

trasgredissero, dopo la sua pubblicazione da parte dei prelati locali, questa nostra costituzione, siano<br />

esclusi dall’ingresso in chiesa fino a quando non abbiano soddisfatto <strong>nel</strong> debito modo per questa<br />

trasgressione. Del resto, poichè l’anima è molto più preziosa del <strong>corpo</strong>, proibiamo ai medici sotto<br />

minaccia di anatema di consigliare all’ammalato per la salute del <strong>corpo</strong> qualche cosa che si risolva in<br />

un danno per l’anima.<br />

T 15 <strong>–</strong> Coluccio Salutati De saeculo et religione<br />

Io so che molti sono giunti a Dio per vie diverse; costoro scelgono una vita segreta e solitaria come<br />

leggiamo degli eremiti, degli anacoreti e dei cenobiti, ma non ignoro che molti sono giunti alla gloria di<br />

Dio anche attraverso una vita socievole e attiva (...). La santa rusticità giova solo a se stessa, come dice<br />

S. Girolamo, mentre invece la santità attiva è ragione di edificazione per molti, perchè è evidente a<br />

molti; e porta molti con sè all’accesso al cielo perchè porge ad essi un esempio.<br />

T 16 <strong>–</strong> Coluccio Salutati <strong>Le</strong>ttera a Pellegrino Zambeccari<br />

Non credere che fuggire la folla, evitare la vista delle cose belle, chiudersi in un chiostro o<br />

segregarsi in un eremo, siano la via della perfezione. Credi tu veramente che a Dio sia stato più caro<br />

Paolo solitario e inattivo di Abramo operoso? Non pensi tu che al Signore sia stato ben più diletto<br />

Giacobbe con dodici figli, con due mogli, con tante greggi, dei due Macari, di Teofilo, di <strong>Il</strong>arione?<br />

Fuggendo dal mondo tu puoi precipitare dal cielo in terra, mentre io, rimanendo tra le cose terrene,<br />

potrò alzare il mio cuore dalla terra al cielo. Provvedendo, servendo, preoccupandoti della famiglia, dei<br />

figli, dei parenti, degli amici, della patria che tutto riabbraccia, non puoi non elevare il tuo cuore al cielo<br />

e non piacere a Dio.<br />

T 17 <strong>–</strong> Cosma Raimondi Difesa di Epicuro<br />

Egli [Epicuro] pose il bene supremo <strong>nel</strong> piacere, avendo visto più a fondo la forza della natura,<br />

avendo compreso che siamo nati e siamo stati formati dalla natura in modo che nulla ci fosse più<br />

appropriato del mantenere sane ed integre tutte le membra del nostro <strong>corpo</strong>, conservandole <strong>nel</strong> loro<br />

stato, senza essere affetti da alcun male dell’animo o del <strong>corpo</strong>. (...)<br />

Costoro [gli Stoici], infatti, anche chi sia esausto dalla fame e sia storpio e sia colpito da ogni altro<br />

danno del <strong>corpo</strong> e della fortuna, anche costui, se virtuoso, ritengono con tutto ciò felicissimo. Io, invece,


Marco Regolo nei tormenti, che tanto esaltano e celebrano nei loro libri, o chiunque di egregia virtù,<br />

fede, innocenza, integrità, venga bruciato <strong>nel</strong> toro di Falaride o vada in esilio o sia colpito da più grave<br />

sventura; io tutti questi, non solo non credo si debbano ritenere felici, ma anzi disgraziati; e tanto più<br />

disgraziati in quanto caddero in calamità sì grandi mentre la loro tanto egregia ed eccellente virtù<br />

meritava sorte più felice e più fortunati eventi. Ché se fossimo fatti di puro spirito, chiamerei beato<br />

Regolo e seguirei gli Stoici e riterrei che solo <strong>nel</strong>l’anima va posta la felicità. Ma poichè siamo fatti di<br />

anima e di <strong>corpo</strong>, perchè trascurano essi, <strong>nel</strong>la felicità dell’uomo, qualcosa che è dell’uomo e lo<br />

riguarda? Perchè curano l’anima e trascurano il <strong>corpo</strong>, che è la dimora dell’anima e una delle due parti<br />

dell’uomo? Tutto ciò, infatti che è composto, se se ne cerca la compiutezza, quando manchi qualcosa,<br />

non credo che sia perfetto e del tutto completo. Quindi, poichè chiamiamo uomo, mi sembra, ciò che ha<br />

<strong>corpo</strong> ed anima, come non si deve giudicare sano il <strong>corpo</strong>, se una parte di esso è malata, così l’uomo<br />

stesso non può più esser ritenuto felice, quando una parte di lui è colpita. Infatti costoro ripongono la<br />

felicità solo <strong>nel</strong>l’anima, perchè essa è <strong>nel</strong>l’uomo quasi regina e comanda al <strong>corpo</strong>, ma in verità è del<br />

tutto assurdo non tenere alcun conto del <strong>corpo</strong> là dove l’anima spesso ne segue la natura e la<br />

costituzione e non può far nulla senza il <strong>corpo</strong>. E come non potrei non ridere di chi, seduto sul trono, si<br />

chiamasse re e non avesse compagni, non servi; come non potrei ritenere un bel principe colui che<br />

avesse servi disordinati e deformi; così bisogna derider questi che, <strong>nel</strong> concepire la felicità dell’uomo,<br />

separano il <strong>corpo</strong> dall’anima, e chiamano tuttavia beato colui il cui <strong>corpo</strong> è sgraziato e torturato. (...)<br />

Infatti, poichè vediamo sì grande e sì ricca moltitudine di cose in terra e in mare, di cui molte sono<br />

necessarie alla vita, ma moltissime voluttuarie e tali che nulla ne può derivare tranne il piacere,<br />

(possiamo concludere) che la natura, senza dubbio, non avrebbe prodotto quelle piacevoli, se non<br />

avesse voluto che l’uomo ne godesse e se ne compiacesse.<br />

T 18 <strong>–</strong> Lorenzo Valla De voluptate<br />

[1] Ora, intanto, facciamo ciò che sappiamo essere il solo bene umano, serviamo il piacere. E anche<br />

se ci promettono i campi Elisi, stimo cosa stoltissima lasciare le cose certe per le incerte, specialmente<br />

quando sono di questa specie; e poichè affermano che i beni del <strong>corpo</strong> non ci sono per i defunti, perchè<br />

dobbiamo ascoltarli? (...) Non lasciamo dunque perdere questi beni del <strong>corpo</strong>, che sono indubitati, che<br />

non possono mai essere ricuperati in un’altra vita; finchè si può, e almeno si potesse più a lungo! E per<br />

quanto possiamo, e possiamo molto, accontentiamo con la massima benignità gli occhi occhi, le<br />

orecchie, il palato, le narici, le mani, i piedi e le altre membra. (...)<br />

[2] La nostra sembianza non può essere liberata dall’inviluppo che è il <strong>corpo</strong>. Si dice infatti: “Nè<br />

occhio vide, nè orecchio udì, nè giunse al cuore umano ciò che Dio ha preparato a coloro che lo amano”<br />

[1 Cor 2, 9]. Queste cose, secondo la mia opinione, non solo perchè sono fuori dal <strong>corpo</strong> non hanno una<br />

natura tale da essere percepite da coloro che sono <strong>nel</strong> <strong>corpo</strong>, ma, anche se potessero essere percepite,<br />

sono tanto grandi e tanto sublimi che l’anima chiusa e immersa <strong>nel</strong>le tenebre e <strong>nel</strong> cieco carcere non<br />

può aspirare a intenderle. Come si vede nei raggi del sole che non possiamo contemplare non perchè<br />

esso sia oscuro, come accade <strong>nel</strong>le altre cose, ma perchè è troppo splendente. (...)<br />

[3] Per le cose che si riferiscono alla sensibilità del <strong>corpo</strong>, o fruiremo delle cose che ora godiamo, o,<br />

se alcune cesseranno, avremo in dono in loro vece altre molto migliori. Che significherebbe infatti la<br />

restituzione dei corpi se non dovessimo avere poi nulla di più di quanto avremmo senza di essi?<br />

L’anima infatti sarebbe per se stessa sufficiente ad agire e bastante ornamento. Oltre a ciò forse che gli<br />

occhi <strong>corpo</strong>rei non vedranno nulla di <strong>corpo</strong>reo e gli altri sensi perderanno la loro funzione? Chi<br />

crederebbe ciò, essendo sano di mente? Dunque, ripresi i corpi, verranno restituiti i godimenti<br />

intermessi, tuttavia più santi e, come ho detto, con molta usura, ma non subito dopo la morte. Poichè<br />

prima verranno i godimenti dell’anima, mentre quelli del <strong>corpo</strong> sono riservati da ultimo. A questo<br />

punto quelli potrebbero dire: Se è così, perchè, come il <strong>corpo</strong> viene prima dello spirito (si dice infatti<br />

che è prima l’animale e poi lo spirituale), non vengono anche prima i premi del <strong>corpo</strong>, quali sono i<br />

piaceri che proviamo qui? Quelli dell’anima sono infatti assai diversi e, poichè non li conosciamo, non<br />

possiamo amarli. <strong>–</strong> Certamente, per dire ciò che penso, voi che parlate così, per usare le parole di<br />

Paolo, “siete ancora carnali”; non date forse, in questo modo, maggior valore ai beni del <strong>corpo</strong> che a


quelli dell’anima? Se avete conquistato le cose che sono infinitamente migliori, perchè, o stolti, siete<br />

solleticati dal desiderio di quelle meno importanti? Perchè, forniti di tanti beni, non aspettate un po’,<br />

per il resto? Vi giuro, per gli stessi eterni gaudi delle anime, che non pensereste così se foste arrivati a<br />

quella beatitudine spirituale. Forse che non sono pienamente beati quelli che sono già stati accolti nei<br />

divini tabernacoli? O si vive forse meglio in terra di come si viva nei cieli? Ma voi parlate così poichè<br />

avete poca fede, e ciò vi spinge anche a formulare delle domande impudenti. Che altro volete infatti,<br />

chiedendo così, se non vedere i cadaveri portati in alto dagli angeli, o trascinati all’inferno dai diavoli,<br />

attraverso una voragine aperta in terra? E questa sarebbe la fede, questa la speranza? Se queste cose si<br />

potessero vedere, non capiterebbe mai di vederle. Nessuno infatti peccherebbe vedendo così<br />

manifestamente la pena e il premio. Ignorate forse che da ciò viene la ragione dei vostri premi?<br />

concessi affinchè quando vedete dei morti crediate che essi vivano altrove e che le membra già dissolte<br />

in polvere torneranno di nuovo al pristino stato. (...)<strong>Il</strong> nostro <strong>corpo</strong> sarà dunque più splendente dello<br />

stesso sole meridiano, non tuttavia tale da abbagliare gli occhi ma da essere visto tanto più<br />

evidentemente e soavemente. Comprendi ora quale sarà lo splendore dell’anima? E come il <strong>corpo</strong><br />

stesso e, per così dire, il tronco, avrà la sua dignità, così pure le singole membra avranno i loro propri<br />

ornamenti. Né lo splendore è l’unico genere di ornamento, né c’è un genere solo di splendore, ma ci<br />

sarà così una varietà di splendori, di ornamenti, di godimenti, in modo che gli occhi di ciascuno si<br />

pasceranno <strong>nel</strong> vedere la maestà del <strong>corpo</strong> proprio e di quello altrui. (...) Anche gli orecchi saranno<br />

allietati dalle voci, dai discorsi, dai canti soavissimi. (...) Che dirò dell’odorato? Se qui i fiori, le erbe e<br />

altre cose inanimate olezzano con tanta fragranza, possiamo dubitare che le cose del genere colà si<br />

troveranno molto più numerose? I nostri corpi stessi, come si vede <strong>nel</strong>le ossa e <strong>nel</strong>la cenere dei santi,<br />

esaleranno un odore immortale. Ho detto i nostri corpi, ossia quelli dei singoli uomini, affinché, come<br />

l’aspetto e la voce, così pure la fragranza dei corpi felici dia gioia a sè e agli altri. Molte cose si possono<br />

pensare quanto al cibo e al bere, tuttavia a me piace pensare soprattutto, e mi sia lecito dirlo, che in<br />

quel tanto onorato, celebrato e veramente divino convito ci sarà somministrato il <strong>corpo</strong> e il sangue<br />

dello stesso re e Signore nostro Gesù Cristo, e dalle sue mani stesse. Cibo e bevanda saranno tanto<br />

soavi che, direi quasi, da questo senso gli altri saranno superati: questo nutrimento non sazierà mai,<br />

non permetterà che torni la fame o la sete, ma lascerà <strong>nel</strong>la nostra bocca una dolcezza permanente, e<br />

non solo la dolcezza <strong>nel</strong>la bocca, ma lascerà pure forza e soavità in tutte le nostre membra, e tale<br />

soavità sarà così diffusa per tutto il <strong>corpo</strong> sino alle stesse midolla che, anche se le altre cose<br />

mancassero, potresti restare soddisfatto di ciò. Quanto piacere infatti si trova tutte le volte che ci<br />

ristoriamo e ci ricreiamo, o all’ombra o al rezzo dell’ardentissima calura, o al fuoco, dopo esser stati<br />

bruciati dalle nevi e dal vento? cosa, a mio avviso, la più gradita di tutte. Con le altre si dilettano le<br />

singole parti, come il palato col cibo, le narici con la rosa e la viola: con questa tutto il <strong>corpo</strong> partecipa<br />

al piacere. C’è inoltre un genere di godimento che non è sentito da un solo ma da più sensi: ne parliamo<br />

assai brevemente poichè dipende dai precedenti, come i tuoi conviti, o Maffeo, le danze, i giochi, e in<br />

quell’eterna felicità cose di questo genere si avranno ben più ricche.<br />

T 19 <strong>–</strong> Giannozzo Manetti De dignitate et excellentia hominis<br />

Quale composizione di membra, quale conformazione di lineamenti, quale figura, quale specie può<br />

esistere, dunque, o essere immaginata che sia più bella dell’umana? Essendo ben consapevoli di ciò,<br />

quegli uomini antichi e sapientissimi osavano confessare di essere dei in forma umana: moltissimi dei<br />

nostri hanno seguito le loro orme; in alcune basiliche degli apostoli, dei martiri e degli altri santi volero<br />

perciò rappresentare Dio in forma di uomo, per porgere aiuto fino ad un certo punto sulla via della<br />

contemplazione ad uomini rozzi e ignari: per la qual cosa non mancarono uomini dottissimi e<br />

sapientissimi che, considerando diligentemente ed accuratamente tutte le cose anzidette e altri<br />

meccanismi di simil genere del <strong>corpo</strong> umano, giudicarono che una tale fabbrica fosse stata fatta ad<br />

immagine del mondo. Donde stimarono che l’uomo fosse stato chiamato dai Greci Microcosmo, quasi<br />

piccolo mondo. (...)<br />

Egli [Innocenzo] si esprime così: Nudo nasce, nudo ritorna. Povero viene, povero si parte. Ma noi<br />

rispondiamo ch’era necessario che l’uomo nascesse così proprio per la sua grazia e bellezza (...). La<br />

natura non avrebbe mai lasciato nascosto sotto un diverso indumento il <strong>corpo</strong> umano, la più bella di


tutte le sue opere, e senza dubbio quella più mirabilmente da essa compiuta, onde non venissero celate<br />

le sue bellezze con velami deformi e sconvenienti.<br />

T 20 <strong>–</strong> Tommaso Moro Utopia (libro II)<br />

Chiamano piacere ogni moto o stato del <strong>corpo</strong> o dell’anima, in cui, guidati da natura, sentiamo<br />

diletto a trovarci; e a ragione aggiungono che esso è un’inclinazione della natura. Infatti tutto ciò che è<br />

naturalmente lieto e cui ci si volge, ma non per mezzo di ingiustizia, e non ci fa perdere altra gioia<br />

maggiore, nè gli succede affanno, vien cercato non soltanto dal sentimento ma anche dalla retta<br />

ragione (...). Dei piaceri che ammettono come veri formano varie specie, giacchè alcuni ne<br />

attribuiscono all’anima, altri al <strong>corpo</strong>. All’anima danno l’intelligenza e la dolcezza che genera la<br />

contemplazione del vero; a cui va aggiunto il dolce ricordo della vita ben vissuta e la speranza non<br />

dubbia di un bene futuro. I piaceri fisici son divisi in due specie (...). Una terza forma di piacere fisico<br />

vogliono che sia quello consistente <strong>nel</strong>lo stato di quiete e di equilibrio del <strong>corpo</strong>, che è evidentemente<br />

la buona salute per ognuno, senza malattie che disturbino, giacché questa, quando non sia attaccata da<br />

alcun dolore, è di per se stessa un godimento, anche se non è influenzata dall’intervento di un piacere<br />

dal di fuori. Infatti, sebbene meno si mostri e meno conceda al senso che lo stimolo selvaggio a<br />

mangiare e a bere, pure, malgrado ciò, molti la ritengono il più grande dei piaceri, e in generale tutti gli<br />

Utopiani mostrano che è grande e come fondamento e base di tutti i piaceri, come quella che sola<br />

rende tranquilla e desiderabile la vita umana, e senza di cui non resta in nessun luogo posto alcuno per<br />

nessun piacere. (...) Tra i piaceri che accorda il <strong>corpo</strong> danno la palma alla salute. Infatti il bere e il<br />

mangiare con le loro attrattive, e tutto ciò che produce lo stesso genere di diletto, vanno cercati, a<br />

parer loro, ma solo in vista della buona salute; infatti non danno di per sè gioia, ma in quanto si<br />

oppongono all’insinuarsi sotto sotto del male. (...) Però coltivano volentieri la bellezza, la forza, l’agilità,<br />

come doni particolari della natura e fonti di gioia; anzi anche quei piaceri che penetrano attraverso le<br />

orecchie, gli occhi e il naso, e che la natura volle come propri e peculiari dell’uomo (infatti nessun’altra<br />

specie di viventi solleva lo sguardo alla forma e alla bellezza del mondo, né è sensibile alla leggiadria<br />

dei profumi, se non per scegliere i cibi, nè distinguere fra i diversi suoni armonici o disarmonici), sono,<br />

dicevo, ricercati anch’essi come balsami soavi della vita. In tutti però osservano il criterio che il piacere<br />

minore non ne impedisce uno maggiore o che generi talora dolore, conseguenza necessaria, pensano<br />

essi, se è disonesto. Ma non apprezzare la bellezza <strong>nel</strong> suo splendore, ma logorar le proprie forze<br />

fisiche e mutare l’agilità in abbandono, o estenuare il <strong>corpo</strong> a via di digiuni o rovinarsi la salute<br />

respingendo gli altri allettamenti della natura (tranne il caso che uno trascuri questi suoi vantaggi per<br />

procurar più appassionatamente il bene altrui o dello Stato e si aspetti da Dio, in luogo di queste sue<br />

pene, un piacere maggiore), e insomma tribolar se stessi per una vana ombra di virtù, col vantaggio di<br />

nessuno, ovvero allo scopo di avvezzarsi a sopportare con più coraggio avversità che forse non<br />

capiteranno mai, tutto ciò è l’estremo della pazzia, a loro modo di vedere, e segno di animo spietato<br />

verso se stessi e del tutto ingrato verso la natura, ai cui benefizi si rinuncia, come per disdegno di<br />

esserle in nulla debitori. Tale è il loro modo di vedere sulla virtù e sul piacere, e non se ne può trovare<br />

un altro più vero, essi credono, per mezzo della ragione umana; solo una religione mandata dal cielo<br />

potrebbe istillare <strong>nel</strong>l’uomo qualcosa di più santo.<br />

T 21 <strong>–</strong> Montaigne Saggi (I, 20: Filosofare è imparare a morire)<br />

Cicerone dice che filosofare non è altro che prepararsi alla morte. Questo avviene perchè lo studio e<br />

la contemplazione traggono in certa misura la nostra anima fuori di noi, e la occupano separatamente<br />

dal <strong>corpo</strong>, e questo è come un saggio e una sembianza di morte; oppure, perchè tutta la saggezza e i<br />

ragionamenti del mondo si riducono infine a questo, di insegnarci a non temere di morire. Invero, o a<br />

ragione si fa beffe di noi, o non deve mirare che alla nostra soddisfazione, e tutto il suo sforzo deve<br />

tendere in conclusione a farci vivere bene e a nostro agio, come dice la Sacra Scrittura. Tutte le<br />

opinioni del mondo concordano in questo, che il piacere è il nostro scopo, anche se esse scelgono<br />

mezzi diversi; altrimenti le si caccerebbero sul nascere, giacchè chi ascolterebbe colui che si ponesse<br />

per fine la nostra pena e la nostra angustia? (...) Checchè se ne dica, anche <strong>nel</strong>la virtù lo scopo ultimo<br />

della nostra mira è la voluttà. Mi piace romper loro i timpani con questa parole che va loro così poco a<br />

genio. E se essa vuole esprimere l’idea di un piacere supremo e di una soddisfazione eccessiva, questo


si addice alla virtù più che a qualsiasi altra cosa. Questa voluttà, per il fatto di esser più vigorosa,<br />

nervosa, robusta, virile, non è che più profondamente voluttuosa. E dovremmo darle il nome del<br />

piacere, che è più favorevole, dolce e naturale: non quello della forza, col quale l’abbiamo chiamata. (...)<br />

Ora, fra i principali benefici della virtù c’è il disprezzo della morte, mezzo che fornisce alla nostra vita<br />

una placida tranquillità, che ne rende il gusto puro e gradevole, senza il quale ogni altra voluttà è<br />

spenta.<br />

T 22 <strong>–</strong> Montaigne Saggi (II, 2: Dell’ubriachezza)<br />

Alcuni hanno dimenticato perfino il loro nome per la violenza di una malattia, e ad altri una leggera<br />

ferita ha sconvolto la mente. Sia pur saggio quanto vuole, ma infine è un uomo: che cosa c’è di più<br />

caduco, di più miserabile e di più insignificante? La saggezza non modifica le nostre condizioni<br />

naturali. (...) Deve chiudere gli occhi davanti al colpo che lo minaccia; se si trova sull’orlo di un<br />

precipizio deve fremere come un fanciullo; la natura infatti ha voluto riservarsi questi leggeri segni<br />

della sua autorità, invincibili dalla nostra ragione e dalla virtù stoica, per insegnargli la sua mortalità e<br />

la nostra fragilità. (...) Gli basti frenare e moderare le sue inclinazioni, perchè sopprimerle non è in suo<br />

potere. Perfino il nostro Plutarco, giudice tanto perfetto ed eccellente delle azioni umane, vedendo<br />

Bruto e Torquato uccidere i loro figli, è stato preso dal dubbio se la virtù potesse arrivare fin là, e se<br />

quei personaggi non fossero stati agitati piuttosto da qualche altra passione. Tutte le azioni che<br />

oltrepassano i limiti ordinari sono soggette a sinistre interpretazioni, dato che il nostro gusto non si<br />

confà nè a ciò che è al di sopra di esso nè a ciò che è al di sotto.<br />

T 23 <strong>–</strong> Montaigne Saggi (III, 13: Dell’esperienza)<br />

<strong>Il</strong> frutto supremo della mia salute è il piacere (...). Io evito la costanza in queste regole di digiuno”<br />

(...). Io che sto attaccato alla realtà, detesto quell’inumana sapienza che ci vuol rendere sprezzanti e<br />

nemici della cura del <strong>corpo</strong>. Ritengo eguale ingiustizia avere in antipatia i piaceri naturali come averli<br />

in troppa simpatia. (...) Non bisogna nè seguirli, nè fuggirli, bisogna accettarli. Io li accolgo un po’ più<br />

liberamente e liberalmente, e mi lascio andar più volentieri per la china naturale (...). Ci sono alcuni<br />

che (...) ne sono disgustati; ne conosco di quelli che lo fanno per ambizione; perchè non rinunciano<br />

anche a respirare? (...) Detesto che ci si ordini di avere lo spirito sulle nuvole mentre abbiamo il <strong>corpo</strong><br />

a tavola (...). Aristippo non difendeva che il <strong>corpo</strong>, come se non avessimo l’anima; Zenone non<br />

abbracciava che l’anima, come se non avessimo <strong>corpo</strong>. Tutti e due in errore. Pitagora, dicono, ha<br />

seguito una filosofia tutta di contemplazione, Socrate tutta di costumi e d’azione. Platone ha trovato<br />

una misura media. Ma lo dicono per parlare, e la vera misura si trova in Socrate (...). La natura,<br />

maternamente, ha stabilito che le azioni che ci ha imposto per il nostro bisogno fossero anche piacevoli<br />

per noi, e ci invita ad esse non solo con la ragione, ma anche col desiderio: è un’ingiustizia alterare le<br />

sue regole (...). <strong>Il</strong> nostro grande e glorioso capolavoro è vivere come si deve (...). La gente s’inganna: si<br />

procede molto più facilmente agli estremi, dove l’eccesso serve di limite d’arresto e di guida, che per la<br />

via di mezzo, larga e aperta, e più secondo arte che secondo natura, ma anche assai meno nobilmente e<br />

meno onorevolmente. La grandezza d’animo non è tanto andare in alto e in avanti, quanto sapersi<br />

limitare e circoscrivere. Essa ritiene grande tutto ciò che è sufficiente, e dimostra la sua elevatezza<br />

<strong>nel</strong>l’amar più le cose medie di quelle eminenti. Non c’è nulla di così bello e di così legittimo come far<br />

bene e dovutamente l’uomo, nè scienza tanto ardua quanto quella di saper viver bene e con<br />

naturalezza questa vita; e la più bestiale delle nostre malattie è disprezzare il nostro essere. Chi vuol<br />

mettere da parte la propria anima lo faccia arditamente, se può, quando il <strong>corpo</strong> starà male, per<br />

liberarla da questo contagio; in altri casi, invece, lo assista e lo favorisca e non rifiuti di partecipare ai<br />

suoi piaceri naturali e di compiacervisi congiuntamente ad esso, portandovi, se è più saggia, la<br />

moderazione, per paura che per immoderatezza, essi non si confondano col dispiacere. L’intemperanza<br />

è la peste della voluttà, e la temperanza non è il suo flagello: è il suo condimento (...). Non vado<br />

desiderando che non abbiamo necessità di bere e di mangiare (...). Sono lagnanze ingrate e inique. Io<br />

accetto di buon cuore, e con riconoscenza, quel che la natura ha fatto per me, e me ne compiaccio e<br />

sono contento. Si fa torto a quel grande e onnipotente donatore rifiutando il suo dono, annullandolo e<br />

sfigurandolo. Buono in tutto egli ha fatto buono tutto (...). Perchè smembriamo in divorzio un edificio<br />

costruito su una così stretta e fraterna corrispondenza? Al contrario, ricongiungiamolo con mutui


offici. Che lo spirito risvegli e vivifichi la pesantezza del <strong>corpo</strong>, il <strong>corpo</strong> freni la leggerezza dello spirito<br />

e la fissi. (...) Non c’è parte indegna della nostra cura in questo dono che Dio ci ha fatto; dobbiamo<br />

renderne conto fino all’ultimo capello (...). <strong>Il</strong> nostro spirito non ha probabilmente altre ore bastanti per<br />

fare le sue faccende, senza separarsi dal <strong>corpo</strong> per quel po’ che gli occorre per il suo bisogno. Essi<br />

vogliono mettersi fuori di se stesso e sfuggire all’uomo. É follia; invece di trasformarsi in angeli, si<br />

trasformano in bestie; invece d’innalzarsi, si abbassano. Questi umori trascendenti mi spaventano,<br />

come i luoghi elevati e inaccessibili (...). É perfezione assoluta, e quasi divina, saper godere lealmente<br />

del proprio essere. Noi cerchiamo altre condizioni perchè non comprendiamo l’uso delle nostre, e<br />

usciamo fuori di noi perchè non sappiamo che cosa c’è dentro. Così, abbiamo un bel montare sui<br />

trampoli, ma anche sui trampoli bisogna camminare sulle nostre gambe. E anche sul più alto trono del<br />

mondo non siamo seduti che sul nostro culo. <strong>Le</strong> vite più belle sono, secondo me, quelle che si<br />

conformano al modello comune e umano, con ordine, ma senza eccezionalità e senza stravaganza.

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