Numero 65 Settembre 2008 - Eco della Brigna

che quelle tracce mantenessero un
legame fra me e Maria. Ma presto
ricominciò a nevicare e, mentre le mie
orme diventavano sempre più profonde
sulla neve fresca per poi sparire
alle mie spalle, le rotaie lasciate dal
carro andavano via via sbiadendosi,
fino a non vedersi più.
La notte sopraggiunse inaspettata e
mi sorprese impreparato. Ero su un
sentiero sconosciuto senza riparo e la
neve gelava le mie forze.
Coso si allontanò bruscamente e pensai
di avere perso anche lui. Ma aveva soltanto preso in
mano la situazione. Tornò dopo pochi minuti abbaiando
e saltando. Capii che voleva che lo seguissi.
Correva veloce e io non riuscivo a stargli dietro, ma di
tanto in tanto si fermava ad aspettarmi.
Mi condusse davanti ad un albero gigantesco ai piedi del
quale la natura aveva scolpito un incavo sufficientemente
ampio per ospitare una persona. Mi abbassai e strisciando
riuscii ad entrare e trovare riparo. Coso si acquattò fuori,
ma non sarebbe sopravvissuto al freddo della notte.
“Coso, vieni qua”, dissi.
Non aspettava altro: si infilò nella cavità del grande albero
e mi si accucciò vicino. Ci coprimmo con il mio
pastrano e ci addormentammo anestetizzati dal gelo.
Mi avvicinai a loro e presi
a camminare nella loro
stessa direzione.
“Dove andate?” chiesi ad
un vecchio curvo sul
bastone.
“Verso Sud.”
“Che cercate?” replicai.
“Pace.”
I suoi occhi
I sogni si affollarono nella mia mente,
quella notte.
Sogni di guerra e di morte.
L’alba mi svegliò con un rossore
caldo ed un odore di pigne bruciate.
Coso era uscito prima di me e rincorreva,
divertito, una foglia spostata
dal vento.
Uscii dal ventre dell’albero e raddrizzai
la schiena per rimettere al loro
posto le vertebre anchilosate dalla
cattiva postura della notte.
Lontano, all’orizzonte, fra il fitto
colonnato d’alberi del bosco intravidi un lungo filo di
fumo chiaro.
Ci incamminammo, io e Coso, uno accanto all’altro,
come due vecchi amici, verso quello che sembrava essere
il fuoco di un accampamento.
Camminavamo tranquilli, la guerra era finita.
Mi resi conto che la sera prima, confusi dalla neve che uniformava
il paesaggio, ci eravamo allontanati di poco dal
sentiero principale, quello che collegava l’uno con l’altro
una miriade di paesini, e ci spostammo per seguirlo.
Uomini e donne camminavano parallelamente, in fila
indiana, lungo i bordi del largo sentiero.
Con i visi ossuti e stanchi si muovevano all’unisono
verso la stessa direzione. Gli avevano detto che più a Sud
la guerra non era stata così cattiva.
Avevano poche e povere vettovaglie, zaini sulle spalle,
scatole di cartone, carriole di legno improvvisate; qualche
mulo scheletrico; bambini aggrappati al collo, vecchi
trascinati, donne piangenti, uomini sconfitti.
Mi avvicinai a loro e presi a camminare nella loro stessa
direzione.
“Dove andate?” chiesi ad un vecchio curvo sul bastone.
“Verso Sud.”
“Che cercate?” replicai.
“Pace.”
Al centro del sentiero, fra le due file di uomini, lo spazio
sufficiente per far passare lentamente camion e mezzi di
soccorso.
Cominciai a camminare, in fila indiana, uniformando la
cadenza del mio passo a quella degli altri.
La guerra era andata via, ma non aveva portato con sé la
sua desolazione.
La mattina era assolata e le montagne, lontane, dorate
sulla cresta.
La neve, riscaldata dal sole, si scioglieva velocemente in
mille rivoli d’acqua cristallina.
Gli alberi, aiutati dal vento, si scrollavano di dosso il
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