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Padre padrone - Sardegna Cultura

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Gavino Ledda<br />

<strong>Padre</strong> <strong>padrone</strong><br />

Il Maestrale


Tascabili . Narrativa


Cura editoriale<br />

Giancarlo Porcu<br />

Grafica e impaginazione<br />

Nino Mele<br />

Imago multimedia<br />

In copertina:<br />

Simonetta Secci, Senza titolo, 2002<br />

ceramica smaltata, fil di ferro e filo kantal<br />

Per gentile concessione del<br />

MAN _ Museo Arte Provincia Nuoro<br />

Foto di copertina<br />

Donato Tore<br />

© 2003, Edizioni Il Maestrale<br />

Redazione: via Monsignor Melas 15 - 08100 Nuoro<br />

Telefono e Fax 0784.31830<br />

E-mail: redazione@edizionimaestrale.com<br />

Internet: www.edizionimaestrale.com<br />

ISBN 88-86109-71-7<br />

Gavino Ledda<br />

<strong>Padre</strong> <strong>padrone</strong><br />

Il Maestrale


Il 7 gennaio 1944 mi trovai per la prima volta sui<br />

banchi di scuola, con tre mesi di ritardo rispetto ai<br />

miei compagni. Entravo nei sei anni legali mentre<br />

compivo solo i cinque anni biologici. Gli anni, però, li<br />

compivo entro il ’44 e la maestra mi dovette accettare.<br />

I primi giorni i compagni mi prendevano in giro e sghignazzavano<br />

sulla mia ignoranza. Tutti, maschi e femmine,<br />

erano più grandi di me. Molti erano ripetenti. E<br />

nei miei confronti erano spavaldi: sapevano già far bene<br />

le aste, scrivere e leggere le vocali e le consonanti.<br />

Per fortuna come compagno di banco mi toccò Pizzènte,<br />

che avendo la mia stessa età si era presentato in<br />

classe nello stesso giorno. Per noi la maestra fu costretta<br />

a ritornare alle aste. E almeno con lui per un po’ potei<br />

condividere la mia soggezione e timidezza, cui lui<br />

ben presto reagì con aria quasi di sfida: da alunno scapestrato<br />

che avrebbe voluto apprendere tutto fuorché<br />

a leggere e scrivere.<br />

Del mio compagno di banco ricordo che era sempre<br />

in disordine: non portava mai né cartella né quaderni<br />

e non stava mai attento alle lezioni. Spesso, anzi, con<br />

caute contorsioni mentre la maestra scandiva agli altri<br />

il suono delle lettere accompagnandolo con i movi-<br />

7


menti della bocca, e io in silenzio facevo le aste, si<br />

sbraghettava e esibiva ai compagni più vicini il suo uccellino<br />

(sa mariòla). Per lui era un gesto di coraggio<br />

col quale voleva dimostrare di non aver soggezione di<br />

nessuno. Tutta la classe ne veniva sconvolta. E la maestra<br />

quando non ne poteva fare a meno lo picchiava,<br />

lo rimproverava e lo metteva in castigo. Preferiva invece<br />

ignorarlo quando lo notavano soltanto alcuni e<br />

l’attenzione della classe non ne veniva compromessa.<br />

Era allora che Pizzènte si sentiva veramente il più forte.<br />

Se accadeva che la maestra si assentasse, saliva sul<br />

banco e stimolava apertamente la nostra curiosità commentando<br />

l’esibizione con risate più spavalde di quelli<br />

che facevano già bene le lettere. Allora alcuni compagni<br />

reagivano imitandolo. Le ragazze pur dimostrandosi<br />

pudicamente scandalizzate non riuscivano a nascondere<br />

il loro interesse. La maggior parte dei compagni,<br />

fra i quali io, si vergognavano e si scandalizzavano<br />

di ciò che accadeva. Io addirittura me ne sentivo colpevole<br />

come se fossi stato l’autore di quelle bravate. Succedeva<br />

che la spavalderia di questo mio compagno non<br />

solo scuoteva la mia timidezza, ma la ingigantiva paurosamente.<br />

Inoltre io dovevo recuperare il tempo perduto,<br />

colmare le lacune che, senza colpa mia, mi separavano<br />

dai compagni e non potevo farmi distrarre da<br />

Pizzènte. Durante gli intervalli pregavo le compagne e i<br />

compagni di classe di aiutarmi a compitare le vocali e le<br />

consonanti che loro incominciavano a scrivere con una<br />

certa speditezza.<br />

La mia esperienza scolastica, contrariamente alla vo-<br />

8<br />

lontà mia e della maestra, durò poco più di un mese e<br />

cessò molto prima che io divenissi propriamente un<br />

alunno. La maestra mi si era molto affezionata e già<br />

molti compagni e compagne che mi avevano preso in<br />

giro nei primi giorni, li avevo conquistati a furia di rubare<br />

loro aste, consonanti e vocali. La storia, però, stava<br />

tramando ai miei danni inesorabilmente come lo<br />

scorrere del tempo. E una mattina di febbraio, mentre<br />

la maestra si sforzava di farmi scrivere alla lavagna, mio<br />

padre, sorretto dalla convinzione morale di essere il<br />

mio proprietario, con lo sguardo terrificante di un falco<br />

affamato (de unu astòre famìdu) dalla strada fulminò<br />

la scuola. La raggiunse con impeto fragoroso piombando<br />

in classe. Avanzò fino alla cattedra senza far parola e<br />

salutò la maestra con un secco buongiorno. – Buongiorno,<br />

– gli rispose la maestra mentre lui le s’impalò<br />

davanti irrigidito e seccato dalla situazione.<br />

Alla sua vista gli scolari zittirono tutti sui banchi. Mio<br />

padre venne subito al sodo.<br />

La sua fierezza e la sua imponenza dominavano nell’abbigliamento<br />

pastorale: pantaloni di fustagno, giacca<br />

di velluto liscio, scarponi e berretto rigido (craccas e<br />

zizìa).<br />

Inizialmente, però, non riuscì a nascondere una forte<br />

impazienza. I suoi occhi lampeggiarono.<br />

– Sono venuto a riprendermi il ragazzo. Mi serve a<br />

governare le pecore e a custodirle... È mio. E io sono<br />

solo. Non posso continuare a lasciare il gregge incustodito<br />

quando vengo qui a Sìligo a portare il latte in caseificio<br />

o a portarmi via le provviste. Io non faccio solo il<br />

pastore. Per tirare avanti onestamente e senza deruba-<br />

9


e il vicino, mi tocca coltivare una parte della tanca a<br />

grano per il fabbisogno di casa (pro su fittu de domo).<br />

Gavino, anche se è piccolo, custodirà le pecore mentre<br />

io marrerò il grano o poterò la vigna o lavorerò all’oliveto<br />

che ho già cominciato a piantare... Come vede da<br />

solo non posso fare tutte queste cose stando dietro alle<br />

pecore. Incustodite, potrebbero assalirmi la vigna o il<br />

grano, e non possiamo stare un anno senza pane... Insomma,<br />

lui mi custodirà le pecore mentre io farò tutte<br />

le altre cose per procacciare il sostentamento ai suoi<br />

fratelli più piccoli... Io non ne ho di soldi per comprare<br />

loro i mezzi di sussistenza. I liquidi che ricavo dal latte<br />

delle pecore bastano a stento per comprare i vestiti e altre<br />

cose che noi pastori non possiamo produrre. Le patate,<br />

il grano, le cipolle, le fave le debbo produrre io<br />

stesso... Mi spiace riprenderglielo, ma senza di lui non<br />

potrei più andare avanti. Questa è stata sempre la storia<br />

di noi pastori. Ci sono banditi dappertutto e lei lo sa<br />

benissimo, signora maestra.<br />

– Gavino è ancora troppo piccolo! Come potrà custodire<br />

le pecore e far paura ai banditi? La sua presenza<br />

sarà inutile... Qui imparerà a vivere prima di esporsi<br />

alla vita. Gli mancano ancora le penne per prendere il<br />

volo.<br />

– Cosa ne sa lei della pastorizia? I pastori volano tutti<br />

senza ali. – Il tono si fece risoluto.<br />

– Non è necessario che il ragazzo sia grande per custodire<br />

le pecore. Quanto ai banditi, poi, basta un respiro<br />

umano. Avrà fiato sufficiente per chiamarmi da<br />

una vallata all’altra, se sarà il caso. La mia tanca non è<br />

molto grande. Le pecore, però, si spostano rapidamen-<br />

10<br />

te litigandosi i pochi steli d’erba e le ghiande migliori<br />

(sos pagos runcos de erba e sa mezzus landhe). Spesso<br />

s’inforrano per le vallate per ripararsi dal vento e improvvisamente<br />

scompaiono. Così quando io sto da una<br />

parte della tanca a lavorare ed esse scompaiono verso<br />

l’altra, i banditi e la volpe allora fanno man bassa... La<br />

volpe! Sì! La volpe! Anche questa è una minaccia terribile<br />

e continua. Soprattutto nel periodo in cui le pecore<br />

figliano... Azzanna gli agnelli. E un agnello per un pastore<br />

povero come me non è poca cosa. Pensi che noi<br />

pastori contrariamente a quanto si dice, siamo condannati<br />

dalla povertà a non mangiare carne d’agnello...<br />

Quelli che ne mangiano molta la rubano. Con un agnello<br />

trasformato in denaro posso sfamare la famiglia dieci<br />

giorni con pane e pasta... È necessario che me li tenga<br />

cari quelli che figlia il mio gregge... Non sarà né il primo<br />

né l’ultimo... Anch’io ho trascorso la mia infanzia in<br />

questo modo. Infanzia! Puh! Sono dovuto diventare<br />

adulto prima del tempo e gli anziani mi hanno usato come<br />

guardiano contro gli assalti della volpe in pieno inverno...<br />

E le pecore le ho custodite lo stesso anche se<br />

avevo bisogno più del capezzolo della mamma che di<br />

quello della pecora.<br />

A questo punto seguì un momento di silenzio come<br />

se in aula non vi fosse nessuno al di fuori della sua volontà.<br />

La maestra e gli alunni, anzi, sembravano volerselo<br />

ascoltare, quel silenzio terribile.<br />

– Saprò fare di lui un ottimo pastore capace di produrre<br />

latte, formaggio e carne. Lui non deve studiare.<br />

Ora deve pensare a crescere. Quando sarà grande la<br />

quinta elementare la farà come fanno molti prima di ar-<br />

11


uolarsi. Lo studio è roba da ricchi: quello è per i leoni e<br />

noi non siamo che agnelli.<br />

I miei compagni ascoltavano questo irruente e focoso<br />

discorso, quasi fosse il primo fulmine ed il primo tuono<br />

del ciclone che tra breve si sarebbe scatenato sulla loro<br />

futura esistenza vegetale.<br />

Io me ne stavo lì, paralizzato, davanti alla lavagna come<br />

se quel discorso mi avesse inchiodato i piedi alla<br />

predella. Di colpo però di fronte al terribile “discorso<br />

della realtà”, non ho potuto far altro che piangere e aggrapparmi<br />

alla maestra quasi per lasciar smorzare nell’orizzonte<br />

della nuova realtà la terribile luce del fulmine<br />

ed il boato del tuono esplosi sugli occhi e sulla bocca<br />

di mio padre, dilagando per l’aula e tempestando la<br />

mente degli scolari come un oscuro presentimento.<br />

Così appoggiato alla maestra con la faccia affossata<br />

sul mio braccio destro, quella luce terribile scomparve<br />

subito ed il tuono che nella mia mente sembrava annunciare<br />

cose tremende, si ammutolì scorrendo sul cielo<br />

e sui boschi delle campagne che io mi stavo già immaginando.<br />

La maestra mi lasciò sfogare un po’ nel<br />

pianto e subito cominciò a prepararmi anche lei alla triste<br />

realtà, persuadendo la mia innocenza.<br />

– Diventerai un grande pastore. Tuo padre ti insegnerà<br />

a mungere le pecore e le mucche. Sono molto<br />

belle, sai! In campagna, poi, ci sono tanti fiori, molta<br />

erba e tanti alberi pieni di uccelli che pigolano e cantano.<br />

Fanno i nidi nei cespugli, per terra, sugli alberi e tu<br />

ne potrai prendere quanti ne vorrai. Qui a Sìligo non<br />

c’è nulla!<br />

Mi sussurrò queste cose lisciandomi i capelli, cercan-<br />

12<br />

do di calmare il mio pianto, asciugandomi le lacrime<br />

con il suo fazzoletto. Mio padre stava lì, rigido nel suo<br />

abbigliamento pastorale, aspettando che mi adattassi<br />

alla verità, giunta troppo in fretta. Ma dalla sua rigidezza<br />

traspariva un insopportabile imbarazzo. E come per<br />

vincere il suo stato di disagio, mentre si allontanava<br />

spingendomi verso la porta, non poté fare a meno di<br />

cercare ulteriori giustificazioni di fronte alla maestra e<br />

agli scolari, storditi dal discorso.<br />

– Io ho bisogno di lui, in campagna... diversamente<br />

non riuscirò a mandare avanti la famiglia. Ecco! Se il governo<br />

mi pagasse un uomo per custodirmi le pecore o<br />

mi aiutasse in altro modo, io, glielo lascerei... a studiare.<br />

Il ragazzo è mio. Cosa vuole questo governo? Che per<br />

mandare lui a scuola, gli altri miei figli muoiano di fame?<br />

No. No. Io, il ragazzo me lo prendo e lo uso perché<br />

non ne posso fare a meno. E voglio vedere la barba di<br />

questa legge vigliacca, che cosa sarà in grado di farmi.<br />

Mi sento tranquillo! È la legge che non è tranquilla.<br />

Vuole rendere la scuola obbligatoria. La povertà! Quella<br />

è obbligatoria.<br />

Con le lacrime agli occhi e con quel tuono che stava<br />

ancora rintronandomi nella testa diedi così l’ultimo<br />

sguardo, penetrante, a tutta l’aula, quasi me la volessi<br />

portar via passando in rassegna frettolosamente tutti i<br />

banchi. Nel mio silenzio salutai tutti i compagni imprimendoli<br />

nella mente per non scordarli più. Ancora una<br />

volta fissai i particolari dell’aula che avevano colpito di<br />

più la mia fantasia: la lavagna, la cattedra e le carte geografiche.<br />

– Beh! Buongiorno, signora maestra.<br />

13


– Coraggio, Gavino, – sussurrò la maestra facendo<br />

scomparire pian piano il suo volto sorridente, accostando<br />

i battenti della porta.<br />

Uscito dall’aula, improvvisamente, mi sentii come la<br />

lepre snidata dal covo (iscovàda dae sa tana), messa in<br />

fuga dal cane e sparata da cacciatori che non potevo vedere<br />

anche se i loro spari mi stavano già ferendo. Scendendo<br />

le scale del municipio, nel cervello mi rimbombavano<br />

le parole, le frasi del discorso del babbo: – Mi<br />

custodirà le pecore mentre io marrerò il grano... poterò<br />

la vigna... per i suoi fratelli più piccoli... Lui è il fratello<br />

maggiore e deve aiutare gli altri a farli grandi e a non<br />

farli morire di fame...<br />

Io volevo bene ai miei fratelli e non volevo che morissero<br />

di fame. Per un attimo, nella mia fantasia, vidi i<br />

miei fratellini in pericolo che mi esortavano a seguire<br />

mio padre. Per questo, dopo i primi pianti mi rassegnai<br />

a seguirlo senza che mi divenisse odioso. E il tempo che<br />

trascorse tra l’uscita dall’aula e l’arrivo in casa, bastò a<br />

prepararmi alla partenza.<br />

– Mariantòò!! Mintòò!! – fece mio padre una volta in<br />

casa.<br />

– Eccomi, – rispose preoccupata la mamma dal solaio<br />

dove stava preparando le provviste per il babbo e per il<br />

cane mettendole nella bisaccia di lana (in sa bértula).<br />

– Prepara Gavino. Subito! Lo porto in campagna<br />

con me, – urlò furiosamente. La mamma non fece storie.<br />

Forse era già al corrente della cosa. Così in meno di<br />

mezz’ora fui trasformato: pantaloni di fustagno, scar-<br />

14<br />

poni e cappotto. Un vero pastore! Nel frattempo, lui di<br />

fuori aveva imbastato il somaro. Spalancò le imposte<br />

ed entrò in casa frettolosamente. – Sei pronto? – Risposi<br />

con il mio silenzio, dirigendomi verso la porta d’ingresso.<br />

Il somaro era pronto alla partenza, con il suo carico.<br />

Era ancora legato all’anello affisso al muro di casa<br />

(a sa lóriga) scalpitando: dandosi gli zoccoli sulla pancia<br />

lanuta e scodinzolando, quasi si preparasse alla partenza.<br />

Con gesto abituale slegò il somaro dalla lóriga.<br />

Fermò la bestia. Lasciò andare a terra per un attimo il<br />

capestro (su murràle) e mi scaraventò in groppa, mentre<br />

lui, subito dopo aver messo la mano sinistra sulla<br />

criniera, cavalcò con un solo lancio, affossando il culo<br />

sul basto. Con le gambe penzoloni scrollandole addosso<br />

alla bestia, irrigidendosi sul tronco e agitando la fune<br />

mise in moto il nostro veicolo verso la strada che<br />

portava all’ovile (a su cuìle).<br />

In silenzio, in groppa, ascoltavo il trotterellare della<br />

bestia e oscillavo al passo dell’animale che mi sbatteva<br />

ritmicamente contro le spalle di mio padre, che, dentro<br />

la sua giacca di velluto, per la prima volta mi apparve<br />

robusto e massiccio. Ripassammo subito davanti alla<br />

scuola. Tanti pensieri mi turbinavano nella mente in<br />

quel momento. Ma io non ero più un alunno. Ero già<br />

un pastore. E il somaro, nel suo trotto, lasciava indietro<br />

la scuola con i compagni che mi ero impresso nella<br />

mente. Io, rivoltato indietro, guardavo la scuola dalla<br />

groppa del somaro il cui passo me la faceva vedere tremolante,<br />

quasi fosse ancora scossa dal terremoto del<br />

discorso. E subito scomparve dalla mia vista l’apice del<br />

suo tetto, dietro il rinculo della groppa. Così la mia<br />

15


scuola sprofondò per sempre nel buio vivo del ricordo.<br />

E lasciate alle spalle le ultime case di Sìligo, solo dopo<br />

un po’ di trotto, fummo in aperta campagna.<br />

La bestia andava veloce sulla strada polverosa e cosparsa<br />

di ghiaia, e posando gli zoccoli tra una pietra e<br />

l’altra, in fretta, si allontanava da Sìligo: mi trasportava<br />

come spesso aveva trasportato le provviste per il cane,<br />

il mangime per i maiali e le sementi che mio padre seminava<br />

sempre sul maggese. Ora anch’io ero una semente<br />

e dovevo nascere e germogliare (nàschere e tuddhìre)<br />

solo sul nostro campo e seguire le leggi del regno vegetale<br />

sul maggese della solitudine, come tutti i pastorelli<br />

della <strong>Sardegna</strong>.<br />

La giornata comunque era bella e la passeggiata mi<br />

stava piacendo. Le valli e le montagne lontane, dalla<br />

groppa, le vedevo mosse dal passo della bestia, quasi<br />

fossero in preda alla danza per la mia accoglienza. Tutto<br />

questo mi stava divertendo. Subito però Sìligo mi ritornò<br />

alla mente. Le parole della maestra ed il discorso di<br />

mio padre mi risuonarono nel cervello. Ora però avevano<br />

un senso diverso: mi davano conforto e coraggio.<br />

Per strada, di tanto in tanto, incontravamo altri pastori<br />

che salutavano mio padre con le solite frasi, spesso<br />

anche senza senso, con un saluto di maniera, tanto per<br />

non passare l’uno di fronte all’altro senza farsi parola.<br />

La strada li obbligava a incontrarsi e l’incontrarsi a distanza<br />

ravvicinata vinceva, almeno per un attimo, tutta<br />

quella diffidenza che, di solito, l’uno nutriva per l’altro.<br />

Spesso così nasceva l’amicizia. Qualcuno però faceva<br />

eccezione, dicendo qualcosa che usciva fuori dal comune<br />

saluto, quasi imposto dalla circostanza.<br />

16<br />

– Finalmente potrai lavorare la tanca con tranquillità,<br />

– diceva uno. – Ora che siete in due le cose andranno<br />

meglio: l’unione fa la forza... E poi il ragazzo, abituandolo<br />

da piccolo, non contrae vizi e impara bene il<br />

nostro lavoro.<br />

– Bah! Incominci presto a domare il puledro. Speriamo<br />

sia docile, – fece un altro allontanandosi sul suo somaro<br />

in senso opposto e parlando fino a scomparire.<br />

– Ma come fai a portarti Gavino in campagna a questa<br />

età? – interloquì ancora un terzo. – Te lo porti via a<br />

svezzare (ti che lu giùghes a istittàre)?<br />

Mio padre tutto preso dai suoi propositi, sul basto,<br />

non dava peso a queste dicerie e quasi posseduto dall’angoscia<br />

del lavoro incitava il somaro al passo scrollandogli<br />

gli scarponi sulle spalle e sui fianchi (in sos armos<br />

e in sos costàzos).<br />

Un’ora e mezza di trotto e giungemmo alla nostra tanca.<br />

Subito, nella immobilità del suo comignolo di stoppie<br />

ci si presentò la capanna (sa pinnètta) attorniata dagli<br />

alberi frondosi che la accarezzavano mossi dal vento.<br />

Il cane, Rusigabèdra (rosicchiapietra), salutò il nostro<br />

arrivo abbaiandoci e venendoci incontro, saltando e<br />

scodinzolando. Si reggeva sulle zampe posteriori annusando<br />

le provviste. Finalmente il nostro veicolo si fermò<br />

sullo spiazzo dell’ovile. Mio padre scese dal somaro e mi<br />

pose per terra. La capanna, che fino ad allora avevo visto<br />

solo occasionalmente, mi parve bella. Corsi a rivederla<br />

meglio, ad osservarla e a conoscerla. Entrai per la<br />

porta rivolta a mezzogiorno e il mio sguardo si posò sul<br />

tetto e sull’impalcatura interna incrostati di fuliggine.<br />

Dalla pietra centrale, dal focolare (dae su foghìle) in di-<br />

17


ezione della sua cuspide (de su colomìnzu) si alzava il<br />

fumo. C’era ancora il fuoco che vi aveva lasciato il babbo:<br />

brace e cenere accesa (bràgias e faddhìgia). Lui la<br />

squartò con il soffietto (cun su suladòre) e ci riscaldammo<br />

le mani cancrenate dal freddo.<br />

– Ora facciamo il fuoco e mangiamo subito, – disse il<br />

babbo. – Andiamo a prendere la legna.<br />

Uscimmo e rientrammo con la legna mentre Rusigabèdra<br />

ci seguiva in tutto. Il babbo uscì fuori di nuovo a<br />

scaricare la bestia, che aveva lasciata legata a una quercia.<br />

La alleggerì del basto e la mise in libertà. Diè di piglio<br />

alla bisaccia delle provviste e tenendola tra le mani<br />

sull’addome la portò dentro la capanna. La mise per<br />

terra. Il cane gli faceva festa. Mio padre gli buttò un pane<br />

di crusca che Rusigabèdra non mancò di agguantare<br />

al volo tra le mandibole ergendosi in piedi. Il babbo tirò<br />

fuori anche le nostre provviste. Scaldò il pane sul<br />

fuoco e alla meglio improvvisò il nostro pranzo.<br />

Al primo pranzo nella capanna seguì la prima esplorazione<br />

per il campo. Incominciava così la scuola pastorale.<br />

Nella prima perlustrazione si preoccupò di impartirmi<br />

le nozioni sull’orientamento in campagna e<br />

nel bosco. Mentre avanzavamo, lui si industriava a fissarmi<br />

nella mente i punti caratteristici del terreno, le<br />

querce che spiccavano in modo particolare, per la loro<br />

forma, per la loro grandezza, curvature varie o per i loro<br />

difetti: buchi e gibbosità (tuvas e thoccas). Oppure i<br />

macigni e i cespugli (crastos e barrasòlos). Con tutta la<br />

sua esperienza mi aiutava a vederli nel loro insieme con<br />

18<br />

le cose: a farmi un quadro della loro disposizione naturale<br />

in modo da avere dei punti fissi di riferimento nel<br />

caso mi fossi trovato da solo o mi fossi smarrito.<br />

– Devi imparare a conoscere il campo e il bosco punto<br />

per punto, fissandoti nella mente i particolari degli<br />

alberi, dei rovi, delle querce, del terreno e delle sue scoscesità<br />

(de su terrìnu e de sos iscamèddhos). D’ora in<br />

poi, qui resterai da solo e devi imparare ad orientarti in<br />

qualsiasi punto e da qualsiasi parte. La vedi quella<br />

grossa quercia, giù in fondo? Si chiama s’àvure manna.<br />

Questa valle qui la chiamano su addhìju de su palòne.<br />

Quella collina boscosa lassù la chiamano su montìju de<br />

su carràsu. E quella piccola radura lì, si chiama su piànu<br />

de su aladérru. Il monte che ci sovrasta è Monte Santu.<br />

Quelle due rocce ai suoi piedi si chiamano sa rocca de<br />

Thiantìna (...) e sa rocca de su nidu de s’untùsu (la rocca<br />

del nido dell’avvoltoio). La località si chiama Baddhevrùstana.<br />

Come vedi tutte le parti del campo sono state<br />

così denominate dagli anziani (dae sos antìgos). Tutti<br />

questi punti ti serviranno, oltre che per orientarti, anche<br />

per sapermi dire in quale punto del campo si troverà<br />

il gregge, il somaro (s’ama e s’àinu) e le nostre bestie<br />

quando te lo chiederò. Ora, per esempio, il nostro<br />

gregge si trova in issu addhìju de s’ampìddha e l’asino è<br />

in sa tuppa de sos suèsos.<br />

Ascoltavo attentamente le sue descrizioni e la sua<br />

“matematica naturale” come rapito, quasi la sua bocca<br />

fosse la fucina in cui le cose divenivano realtà e io le vedessi<br />

nascere per incanto. Mio padre mi appariva il creatore<br />

di quel mondo che lui per me creava con le parole.<br />

Con la sua prima “lezione” giungemmo a issu addhìju<br />

19


de issa ampìddha, al nostro gregge: 19 pecore e un cane.<br />

Così grande era allora la nostra mandria. C’era anche<br />

qualche agnellino. Mio padre ne prese uno per farmelo<br />

toccare e lisciare. La sua lana era soffice e arricciata. Il<br />

suo respiro ansimante. Il cuore gli picchiava alle costole.<br />

La sua bocca belava e sbuffava. Una pecora, mentre<br />

io me lo tenevo al petto tra le mani, lisciandolo, ci si<br />

profilò davanti belando a singhiozzo e dimenandosi<br />

preoccupata.<br />

– È la madre, – disse mio padre che non si lasciava<br />

sfuggire l’occasione per completare la sua lezione. Ad<br />

un cenno di mio padre, lasciai sgattaiolar via l’agnello<br />

dalle braccia che appena raggiunse la madre le infilò il<br />

muso sotto le mammelle scuotendole rigidamente con<br />

il muso (cun su muzzighìle).<br />

La punzecchiò con forza succhiandola avidamente e<br />

schiacciandole il capezzolo avvinghiato nella sua lingua.<br />

La madre gli accarezzava il culetto con le labbra.<br />

L’agnello allora si eccitò nella lattazione turbinando la<br />

sua piccola coda. – Sta poppando.<br />

Nel primo periodo, mio padre quando andava a Sìligo<br />

per portarvi il latte o a fare provviste, non mi lasciava<br />

mai in campagna da solo, ma mi portava sempre con<br />

sé in groppa e spesso mi lasciava in paese per uno o due<br />

giorni. E questo per adattarmi in modo più graduale e<br />

meno violento alla solitudine del pastore. Per me erano<br />

giorni di sollievo. In quei due giorni rinfrescavo l’amicizia<br />

con i miei compagni di Sìligo ma per mio padre,<br />

dopo, diventava più difficile ricondurmi all’ovile.<br />

20<br />

– Ci vieni oggi in campagna?<br />

– No.<br />

– Ho trovato un nido di merla a quattro uova, dentro<br />

un cespuglio.<br />

– E come sono le uova? Me lo dici?<br />

– Verdognole, a chiazze nocciola.<br />

– Me le fai vedere?<br />

– Sì! Se vieni, stasera, ci andiamo a vederle. Il nido è<br />

grosso e molto bello.<br />

– E come è fatto?<br />

– All’esterno è di fieno; all’interno è rivestito di peli e<br />

di lana che le pecore lasciano tra i rovi e i cespugli al loro<br />

passaggio... Poi ne ho trovato un altro di allodola per<br />

terra: ci sono già gli uccellini (est già a puzzonèddos).<br />

Cose che mi incuriosivano al punto che i compagni di<br />

Sìligo per quel giorno non esistevano più. E così mio<br />

padre con questi accorgimenti mi riconduceva in campagna<br />

senza che me ne accorgessi.<br />

Per qualche mese mio padre non applicò completamente<br />

il rigore dell’educazione alla vita dei campi.<br />

Quando ritornava a Sìligo, dopo due o tre giorni, per le<br />

provviste, mi riportava a casa per farmi lavare da mia<br />

madre e per farmi riprendere fiato. Così alternavo la vita<br />

campestre a quella paesana. Però in campagna ci riandavo<br />

sempre più a malincuore. Ben presto i nidi delle<br />

allodole dei merli e delle piche (de issas chilàndras, de<br />

issas mérulas e de issas pigas) con le loro uova chiazzate<br />

e variopinte, che il babbo trovava casualmente pascendo<br />

le pecore, non bastavano più ad allettare la mia fantasia<br />

e a farmi contento e curioso.<br />

Era il tempo dei nidi, ma ormai me ne aveva fatto ve-<br />

21


dere abbastanza e conoscevo già quasi tutte le varietà<br />

degli uccelli del posto. E lui non poteva crearne degli<br />

altri per intrappolarmi dolcemente. Inoltre razionava<br />

sempre più la mia permanenza a Sìligo e naturalmente<br />

non poteva trovare né inventare nuovi zuccherini per<br />

attirarmi in campagna. Se nel primo periodo la curiosità<br />

della campagna e della natura mi distoglieva dalle<br />

distrazioni che mi offriva Sìligo, ora la monotonia della<br />

vita agreste suscitava in me la nostalgia del mondo che<br />

avevo lasciato.<br />

Così si attuarono il distacco dall’ambiente paesano,<br />

l’allontanamento forzato dalla scuola e la conseguente<br />

“deportazione” a Baddhevrùstana a otto chilometri da<br />

Sìligo anche se tra uno zucchero e l’altro li stavo accettando<br />

per amore dei miei fratelli, che avrebbero corso<br />

il rischio di morire di fame. Ma non potei seguire mio<br />

padre passivamente. Anche se non possono far niente<br />

contro i grandi, i bambini protestano. Magari soltanto<br />

con il loro querulo pianto. Certo io non ne avevo colpa<br />

se ormai gli zuccherini del babbo non ottenevano più<br />

l’effetto desiderato. Lui, però, doveva pure svezzarmi.<br />

Già al terzo mese l’educazione divenne più severa. Mio<br />

padre passò al secondo stadio. Incominciò a lasciarmi<br />

solo con il gregge anche quando si recava a Sìligo. Ma<br />

per non farmi pesare troppo il distacco dai miei fratelli<br />

e da mia madre, continuava a portarmi in paese una<br />

volta la settimana. Ora, però, non mi rilasciava più a Sìligo<br />

e nello stesso giorno quasi sempre nella stessa mattinata,<br />

mi riconduceva all’ovile. In questo modo la mia<br />

permanenza con i miei fratelli o con qualche vecchia<br />

amicizia si riduceva a una o a due ore al massimo. Ep-<br />

22<br />

pure quel tempo bastava per rinsaldare con loro un legame<br />

di inseparabilità, per cui io non ripartivo mai senza<br />

piangere.<br />

Il babbo purtroppo ad una certa ora doveva imbastare<br />

il somaro e mi chiamava alla partenza. Dalla gioia e<br />

dal gioco, allora, passavo subito al pianto di protesta,<br />

con la vana speranza di convincere il babbo a lasciarmi<br />

a Sìligo. Io però ero un agnello da svezzare (fio un anzòne<br />

de istittàre) che mio padre doveva portare in un<br />

gregge estraneo perché non poppasse più la mamma.<br />

Era venuta l’ora che la mamma la mungesse il pastore<br />

tutta per sé e che l’agnello si nutrisse solo di erbe e di<br />

arbusti. Come un agnello anch’io belavo il mio dolore.<br />

Ma mio padre applicò tutto il rigore dell’educazione<br />

che conosceva e che anche lui forse aveva subito. Il mio<br />

pianto e i miei belati non avrebbe potuto sentirli. Una<br />

volta riuscii ad eluderlo con l’astuzia. Restai nascosto.<br />

E quando all’ora della partenza sentii il suo richiamo<br />

non uscii dal mio covo come il somaro al richiamo del<br />

<strong>padrone</strong> che lo deve imbastare. Mio padre aveva fretta<br />

di ritornare tra le pecore e non poteva spendere molto<br />

tempo a cercarmi. Allora ripartì da solo e io per tutta la<br />

sera e fino al suo ritorno potei scorrazzare con i miei<br />

compagni per Sìligo, imparare i giochi che loro conoscevano.<br />

Fu durante una di queste evasioni che mi aggregai a<br />

una combriccola di compagni più grandi di me. Mio<br />

padre non esisteva più. E mentre si scorrazzava con<br />

quegli scapestrati che quasi tutti avevano marinato la<br />

scuola come io l’ovile, ci imbattemmo nella capanna di<br />

Tore.<br />

23


– O compà! – fece Antonio.<br />

– Che c’è?<br />

– Entriamo dentro la capanna e vediamo chi fa prima<br />

a farsi una sega. L’altra volta aveva vinto Baìngio, ma<br />

ora voglio vedere!<br />

– Andiamo, – disse Juànne, – oggi vi sfido tutti.<br />

Si entrò nella capanna con tutta la combriccola. Ci<br />

mettemmo a culo per terra disponendoci a cerchio attorno<br />

il muro circolare della capanna! Tutti i più grandi<br />

si sbraghettarono tra lo stupore dei più piccoli che come<br />

me non sapevano ancora cosa stessero per fare.<br />

Io feci lo spettatore imbarazzato come altri due o tre<br />

della mia età o anche più piccoli. La stessa soggezione,<br />

però, ci impediva di allontanarci. Così dovemmo assistere<br />

alla gara che stava incominciando.<br />

– Siamo pronti... Che nessuno parta prima.<br />

– Non ci giuoco... Tu sei partito prima... Fermati!<br />

– Va bene! Incominciamo da capo!<br />

– Via!<br />

Tutti si masturbarono a gara in quella scomoda posizione<br />

almeno per un mezzo minuto. Poi si levarono<br />

delle grida contrastanti.<br />

– Ho vinto io...<br />

– Cosa hai vinto tu? Io ho fatto prima! Ho alzato la<br />

mano prima di te!<br />

Due giorni dopo il babbo fece ritorno a Sìligo e mi<br />

picchiò, sonoramente. Mi riportò all’ovile e rimasto solo<br />

tra le pecore volli fare l’esperimento che Tore e compagni<br />

mi avevano messo in testa. Mi accasciai dietro un<br />

cespuglio al riparo dal vento e incominciai a giocolarmi<br />

la bestiolina. Con mio grande piacere subito mi venne<br />

24<br />

un dolce pruritino, tanto che mi distesi per terra a pancia<br />

all’aria quasi svenuto. Beato in mezzo all’erba. Ripetei<br />

l’esperimento dopo tre o quattro minuti: la stessa<br />

beatitudine in quel silenzio profondo dove solo le sonaglie<br />

delle pecore mi ricordavano di tanto in tanto che<br />

ero un pastorello. In tutto il pomeriggio ho ripetuto la<br />

faccenda almeno venti volte, ammacchiato qua e là, a<br />

seconda del pascere delle pecore. Finalmente a meno<br />

di sei anni e solo dopo tre mesi di pastorello avevo trovato<br />

l’unico vero sollazzo della solitudine. Da quel giorno<br />

fu sempre la solita storia. Quando non avevo null’altro<br />

da fare, entravo nei cespugli prediletti e le mie trenta<br />

quaranta seghettine al giorno non me le toglieva nessuno.<br />

Il babbo continuava comunque a ricondurmi a<br />

Sìligo almeno una volta la settimana. Ne approfittavo<br />

per mettermi con la solita combriccola. Una volta, stavamo<br />

facendo un gioco molto bello, sentii il richiamo<br />

del babbo all’ora della partenza. Allora scoppiai nel<br />

pianto più dirotto e belai più del solito sbattendo i piedi<br />

per terra. Ancora non avevo contratto la soggezione<br />

alla patriarcalità. Ma mio padre, quella volta, forse perché<br />

stufo di ricorrere ai suoi zuccherini o perché convinto<br />

che fosse venuta l’ora di attuare il massimo rigore<br />

nell’educazione selvaggia ed agreste, passò improvvisamente<br />

dal paterno al patriarcale. Mi rincorse e mi<br />

picchiò, alternando gli schiaffi ai colpi di bastone e ai<br />

calci che tirava alla rinfusa, finché nella disperazione<br />

del dolore mi uscì di bocca: – Non piangerò più... Vengo<br />

con te...<br />

Tutto trafelato, con il livore in faccia, afferrò la fune<br />

del somaro. Mi aggavignò e mi sbatacchiò in groppa<br />

25


come aveva sempre lanciato la bisaccia o i sacchi di biada.<br />

Saltò sul basto anche lui. Scrollò nervosamente le<br />

gambe addosso alla bestia e via in silenzio.<br />

Nonostante avessi rimediato una buona dose di colpi<br />

e di rimproveri, appena ci lasciammo dietro le ultime<br />

case del paese, alla vista dei primi campi, la paura, anzi il<br />

terrore di restare di nuovo solo in campagna mi turbinarono<br />

nel cervello, mi rivoltarono le viscere. Subito mi<br />

pervase uno stato d’animo misto di sentimenti contrastanti,<br />

instabili e fugaci: l’uno in preda all’altro. La paura<br />

della solitudine. Il terrore quasi incontenibile della<br />

furia di mio padre (che ora già conoscevo) e il piacere di<br />

giocare con i miei coetanei di Sìligo che io stavo sognando<br />

in groppa. Era un brutto stato d’animo sollecitato da<br />

tanti pensieri in lotta furibonda. Incominciai così a piagnucolare.<br />

Non sapevo come fare dato che lui mi minacciava<br />

e mi picchiava solo perché piangevo. Seduto<br />

sul basto si rivoltava e mi scandiva qualche schiaffo di<br />

ammonizione. Il somaro, come sempre, trottava sulla<br />

strada bianca. Io però volevo scappare. Improvvisamente<br />

smisi di piangere e mi preparai per scivolare giù.<br />

Il ritmo degli zoccoli della bestia sembrava potesse confondere<br />

i miei movimenti ed eludere la sorveglianza di<br />

mio padre. Scivolai di groppa. Caddi a culo per terra,<br />

come un oggetto. Morendo dal dolore mi sollevai subito<br />

in silenzio! Mi misi a correre senza fiatare con tutte le<br />

forze, disperatamente, verso Sìligo. Il tonfo che feci nella<br />

caduta, purtroppo, avvertì il babbo. Io, poi, avevo le<br />

gambe corte ed il mio tentativo di fuga finì lì. Dopo una<br />

breve rincorsa, mi scaldò la faccia di schiaffi e di pugni.<br />

Mi lanciò di nuovo in groppa con tutte le mie urla e le<br />

26<br />

mie proteste e via di nuovo. Quel giorno però evidentemente<br />

ero risoluto a tutto e ostinato. Certo, ero terrorizzato<br />

al pensiero di stare solo in quel bosco pieno di cose<br />

e di animali di cui allora avevo ancora paura. E poi quella<br />

solitudine mi sembrava un silenzio interminabile:<br />

ascoltarlo mi stordiva l’esistenza. Un nuovo attacco di<br />

pensieri in lotta, bastò a farmi fare un altro tentativo.<br />

Così mi gettai per terra una seconda volta. Sgusciai<br />

giù, ma senza ottenere nient’altro che un uragano di<br />

percosse. Il mio corpicino, però, doveva resistere alle<br />

torture educative. Io ero ribelle e indocile. Ma la mia<br />

ora era giunta e il babbo doveva svezzarmi e domarmi.<br />

Però ero ostinato come uno di quegli agnelli terribili<br />

che immersi improvvisamente nel gregge estraneo in<br />

cui svezzano, si turbano e belano paurosamente assordando<br />

tutti. Saltano il recinto in cerca della mamma<br />

finché il pastore è costretto ad impastoiarli. Io ancora<br />

non ero impastoiato e potevo continuare a belare e a<br />

saltare. E mi gettai a terra per una terza volta. E mio padre<br />

allora mi impastoiò.<br />

Come senz’altro aveva visto fare ai ragazzi ribelli in casi<br />

analoghi, decise di legarmi. Spiegò la fune del basto. E<br />

dopo avermela fatta assaggiare a duri colpi, me la cinse<br />

alla vita: ero prigioniero della sua volontà. E tuonando<br />

una fiumana di improperi, mi lasciò per terra. Cavalcò<br />

su tutte le furie e ripartì sbraitando. Quasi per recuperare<br />

il tempo che gli avevo fatto perdere, scrollava continuamente<br />

le gambe addosso alla bestia facendola correre<br />

più del solito anche per farmi paura. Per non rischiare<br />

di essere trascinato, allora, io dovevo seguire meticolosamente<br />

il trotto e cercare di non inciampare.<br />

27


In quel modo feci molta strada. Per mia fortuna con<br />

quel trotto sfrenato raggiungemmo altri pastori che<br />

conversavano animosamente sui loro somari. I loro<br />

rimproveri decisero mio padre a cedere. E costretto<br />

dall’imbarazzo di aver applicato la massima punizione,<br />

mi slegò e mi rimise in groppa. Per quel giorno il supplizio<br />

era finito. Ma mi guardai bene dal piangere ancora.<br />

Il mio divagamento ferino era iniziato.<br />

A Baddhevrùstana non passava quasi mai nessuno al<br />

di fuori di banditi in transito verso o dalla Barbagia, o<br />

cacciatori in cerca di selvaggina di cui io diffidavo sempre.<br />

Naturalmente il babbo non pretendeva ancora che<br />

io sbrigassi le cose in modo inappuntabile: era già molto<br />

che dopo soli tre mesi rimanessi solo ad aspettarlo<br />

con il cane. Era già maggio e per sentito dire sapevo che<br />

le serpi (sas colòras) stavano per destarsi dal loro letargo.<br />

Non ne avevo mai viste, ma di esse avevo paura.<br />

Avevo sentito cose strane sul loro conto durante l’infanzia<br />

a Sìligo.<br />

Tutto ora era diventato più rigido. Le lezioni si facevano<br />

sempre più severe e più rigorose. Era ormai tempo<br />

di passare alla pratica. Il periodo introduttivo richiedeva<br />

ancora molto tempo. E almeno in certe cose<br />

mio padre volle passare subito ai fatti.<br />

La prima prova che mi fece sostenere fu quella di<br />

condurre le pecore (de jùghere sas bivèghes) da un punto<br />

ad un altro del pascolo.<br />

Un pomeriggio di maggio, poco prima della mungitura,<br />

senz’altro perché voleva una prova concreta di<br />

28<br />

quello che sapevo fare e di quello che lui mi aveva insegnato,<br />

mi ordinò energicamente di condurre le pecore<br />

al recinto per mungerle (a sa mandra pro las mùrghere).<br />

Tutto scosso dai suoi ordini non trasgredibili, infilai la<br />

prima mulattiera che mi capitò tra i piedi verso il gregge,<br />

che pasceva in una collinetta, in lontananza (in d’una<br />

palìnza, lontàna).<br />

Come al solito, ero scalzo. Nella bella stagione i ragazzi<br />

ne facevano a meno degli scarponi, per risparmiarli<br />

per l’inverno (a su iérru). I miei piedi però, a furia<br />

di camminare tra gli sterpi e sul fieno arido e secco si<br />

erano insuolati con una striscia callosa quasi impenetrabile.<br />

La mulattiera, nonostante si snodasse a zig-zag,<br />

polverosa, senza sterpi né macigni, di tanto in tanto,<br />

era sbarrata dall’invadente rigoglio dei rovi che per l’esuberanza<br />

primaverile irrompevano dappertutto. Inoltre<br />

i cardi e gli altri arbusti (sos baldos e issos àtteros arrasòlos)<br />

ai lati, vi lasciavano cadere le loro spine che poi<br />

il vento e l’andirivieni delle pecore confondevano nella<br />

polvere su cui io frettolosamente e incurante affossavo<br />

i piedi. Così di tanto in tanto dovevo interrompere il<br />

mio trotto. Mi fermavo. Poggiavo il piede punto sul ginocchio<br />

della gamba su cui mi reggevo ed estraevo la<br />

spina che aveva passato la suola dei miei piedi. Con uno<br />

strappo secco cercavo che la spina venisse fuori senza<br />

rompersi. E prima di buttarla fuori dalla mulattiera per<br />

evitare che mi pungesse una seconda volta, guardavo se<br />

ne era uscita fuori intera con tutta la sua punta, come<br />

mi aveva insegnato il babbo.<br />

Tra una spina e l’altra, tra una puntura e un’estrazione<br />

spesso zoppicando (toppi toppi), raggiunsi il gregge<br />

29


che era sommerso dall’erba, dalla ferula e dall’asfodelo<br />

(dae sa férula e dae s’ammùttu). Le pecore si vedevano a<br />

stento. L’erba era più alta di loro. I rampolli e le foglie<br />

(sos siriònes e sas fozas) si piegavano al loro passaggio<br />

sotto le loro pance lanute e piene (lanòsas e chìbberas).<br />

Le aggirai dalla parte opposta alla direzione del recinto<br />

come mi aveva insegnato mio padre. Le pecore si<br />

raccolsero e si misero in movimento.<br />

Improvvisamente però per terra vidi strisciare una<br />

serpe (una colòra) color verdognolo a chiazze nere. Mi<br />

veniva in senso opposto sulla mulattiera. Sfortunatamente<br />

non trovò nessuna tana o buca che la inghiottisse.<br />

Aveva il passaggio obbligato e avanzava strisciando<br />

in modo orripilante. Io non avevo mai visto una serpe,<br />

né sapevo che lì ce ne sarebbero potute essere. Lo spavento<br />

fu grande al punto di andare quasi in delirio.<br />

Uscii fuori dalla mulattiera sui rovi e sui cardi, irrompendo,<br />

senza sentirli né vederli anche se mi stavano solcando<br />

e sfregiando le gambe e pungendo i piedi.<br />

Allora le spine non le sentivo più. Quasi per istinto,<br />

mi diressi verso mio padre che già alle mie urla stava venendomi<br />

incontro, per la macchia.<br />

– Che c’è? (E ite bada?) – mi disse meravigliato.<br />

– C’era una serpe! (bi aìada una colòra!)... Ho visto<br />

una serpe tra le pecore!<br />

Mio padre che non volle farsi sfuggire l’occasione per<br />

insegnarmi come mi sarei dovuto comportare in simili<br />

circostanze, mi raggiunse e mi impartì la sua lezione. E<br />

anziché consolarmi si slacciò la cintura di cuoio (sa<br />

chintòsa dae chintu) e me ne diede a non finire sulle<br />

gambe nude e già sanguinanti dall’inciampare sulle fra-<br />

30<br />

sche spinose, in modo che avessi più paura della cintola<br />

che delle serpi.<br />

– Non devi aver paura delle serpi! Non fanno nulla<br />

quelle! E anche se facessero molto male sarebbe la stessa<br />

cosa. Questo pascolo è nostro e ce lo dobbiamo difendere:<br />

sfruttare, mangiare.<br />

Dopo questa introduzione di staffilate e di sentenze<br />

furiose, si calmò un po’. E spingendomi verso il gregge<br />

continuò con tono più moderato la sua lezione.<br />

– Quando le incontri devi armarti di un bastone o di<br />

quello che trovi per caso (anzi dovresti andare sempre<br />

armato e non come si va a cacare... qui bisogna stare a<br />

bastone in mano anche cacando) e ucciderle, se non se<br />

ne scappano o ti danno fastidio... Staremmo freschi se<br />

lasciassimo tutto per una serpe!... Anche il diavolo<br />

dobbiamo cacciar via se venisse nel nostro campo a<br />

darci fastidio con il suo seguito. Sì, anche il diavolo! (fina<br />

su diàulu!) E perché non si presenta? Che venga<br />

qui! Il gregge dovrai sempre ricondurlo all’ovile anche<br />

se andasse a finire all’inferno.<br />

– Dove l’hai vista, questa serpe?<br />

– Laggiù (in cuddhàne josso!).<br />

– Andiamoci!<br />

In un baleno piombammo lì. Mio padre aveva in mano<br />

un enorme bastone e avanzava, <strong>padrone</strong> di tutto,<br />

come se volesse divorare anche le pietre, per dimostrarmi<br />

che quel luogo era solo nostro.<br />

La serpe non c’era più. Io ero ancora terrorizzato e al<br />

pensiero che l’avrei potuta incontrare ancora da solo<br />

trasalii.<br />

– Se la incontrassi di nuovo quando lui va a Sìligo?<br />

31


Quella serpe è lì! Chissà quante altre ce ne saranno?<br />

Chissà quante amiche avrà sparse per il campo, sotto le<br />

pietre o per i covi!<br />

Erano le frasi che mi martellavano il cervello. Il babbo<br />

mentre ci spingevamo verso il gregge mi diede una<br />

letta con il suo sguardo penetrante. E intuì subito la cosa.<br />

Continuò la lezione fino in fondo per distruggere<br />

con l’esperienza e la verità questo mostro che ormai era<br />

penetrato nel mio essere con dimensioni paurose: io lo<br />

avevo visto al di là della sua natura e solo come una chimera<br />

che già mi ero creato per sentito dire.<br />

Da esperto della situazione, senza perdere tempo, mi<br />

fiutò. Ustò la paura che avevo della serpe, lasciò perdere<br />

il gregge e mi portò in una forra (in d’una duppa): in<br />

un serpaio.<br />

Come una forza della natura scatenata, si mise a<br />

scuotere i cespugli e a rivoltar sassi (a istrutinàre mattas<br />

e a bostulàre crastos dae bare) da tutte le parti. Con molta<br />

naturalezza perlustrava frettolosamente ogni buco e<br />

ogni punto laddove la sua esperienza gli suggeriva potevano<br />

essercene, quasi ne sentisse l’usta, così come<br />

fanno i cani inseguendo la selvaggina. Io, impalato, ma<br />

incuriosito, osservavo la scena. I cespugli oscillavano<br />

tutti, quasi si fosse scatenata una bufera di vento e i sassi<br />

rotolavano verso la valle (sos crastos loddhuraìana a<br />

s’addhe), quasi la collina se li volesse scrollare di dosso.<br />

Io stavo dietro la sua tempesta. Così erano gli ordini.<br />

Finché, a un certo punto mi si presentò l’orribile vista<br />

di una serpe come quella di prima, attorcigliata sotto<br />

un masso che mio padre stava rivoltando con tutte le<br />

sue forze.<br />

32<br />

– Eccola! Uccidila! (Milla! Bócchila!).<br />

La serpe, trovatasi all’improvviso a ciel sereno, spiegò<br />

la spirale tortuosa del suo corpo. Si ritrasse in se<br />

stessa. Si allungò di colpo e sgusciò fuori dalla sua tana.<br />

Mio padre teneva sempre il bastone tra le mani ma non<br />

la colpì subito. Non voleva perdere l’occasione per<br />

darmi una lezione dal vero, ora che aveva la serpe di<br />

fronte. Mi fece cenno di avvicinarmi al suo teatro pastorale.<br />

La serpe, contorcendosi e dispiegandosi continuamente,<br />

cercava di scappare ma lui la tratteneva sbarrandole<br />

il passo con il bastone in ogni direzione.<br />

– Non la vedi che non fa nulla? La puoi uccidere<br />

quando vuoi o lasciarla alla sua vita... Col bastone sei<br />

<strong>padrone</strong>. Basta metterglielo davanti... Lo vedi, eh?<br />

Guarda! Cosa ti fa? Nulla ti fa!<br />

Lui sembrava si volesse divertire e quasi si compiaceva<br />

di prolungare la scena. Mi scagliò tra le mani un<br />

altro bastone e sotto il suo sguardo attento mi affidò il<br />

rettile.<br />

Lo toccavo, come faceva lui, col bastone e subito imparai<br />

a tenerlo prigioniero. Il babbo da una parte e io<br />

dall’altra si faceva a gara a sbarrare il passo alla serpe<br />

che provava e riprovava a sgusciar via. Il rettile però era<br />

esasperato. E spinto dalla forza della disperazione e<br />

dall’istinto di conservazione, si contrasse più del solito,<br />

tutto in se stesso dimezzando la sua lunghezza, disponendosi<br />

in una terribile sinusoide: era all’ultima mossa.<br />

Il collo gli si ingrossò accorciandosi in proporzione.<br />

La bocca sbuffò e spruzzò bava, tirando fuori ripetutamente<br />

la sua lingua biforcuta.<br />

Io, impaurito di nuovo, uscii di scena, lasciando a<br />

33


mio padre la serpe che indietreggiò ancora nell’ultimo<br />

scampo. Ma quando mio padre le precluse ancora una<br />

volta la strada con il bastone, la serpe tentò il tutto per<br />

tutto. Passò all’attacco. Avanzò impetuosamente scagliandosi<br />

contro di lui: fingendo, nella sua innocuità, di<br />

produrre un terrore che per nulla avrebbe potuto imbarazzare<br />

un pastore già temprato. Mio padre però forse<br />

non se la sentiva più di scherzare con una serpe, di<br />

servirsi ancora di un pericoloso rettile per educarmi al<br />

coraggio. La lezione era durata abbastanza. E la trasformazione<br />

iraconda e brutale della serpe così contratta,<br />

turgida nel collo e tesa nella bocca sanguigna,<br />

suscitò in mio padre, per riflesso, un’ira altrettanto<br />

brutale così da coinvolgerlo nell’aggressione e nella<br />

violenza. Fu lo scontro. Irrigiditosi di colpo, mio padre<br />

la colpì col bastone in piena testa, schiacciandogliela<br />

infine col tallone del suo scarpone destro mentre la serpe<br />

gli si avvinghiava alla gamba in una spirale disperata<br />

con tutto il resto del corpo morente, quasi gliela volesse<br />

strozzare. La lanciò lontano con la punta del suo scarpone<br />

e poi la raccolse soddisfatto. Quindi librandola<br />

con il bastone mi venne incontro con il mostro distrutto.<br />

– Hai visto come si fa... E guai a te, se avrai ancora<br />

paura di una serpe o di altro qui... – E come per riepilogare<br />

la sua lezione, me la scagliò addosso, sul petto, ancora<br />

sanguinante.<br />

– Prendila con il bastone e portatela dietro: la daremo<br />

al gatto... Andiamo a mungere ora...<br />

– Ahi! Ahi! – gli gridai dietro.<br />

– Che c’è?<br />

34<br />

– Sono tutto graffiato... oih!... oih!<br />

– Eh! Hai visto che ti succede?... Cosa ti fa la paura?<br />

Ti sei messo a fuggire all’impazzata in mezzo ai rovi e ai<br />

cardi escoriandoti le gambe e i piedi. Fermati. Bisogna<br />

medicare le ferite...<br />

– Con che cosa?<br />

– Con l’urina. Quando non c’è altro è la medicina!<br />

– Io non ho voglia adesso, – gli dissi. Avevo vergogna<br />

di pisciare davanti a lui. – E, poi, non mi viene bene... a<br />

medicarmi le ferite...<br />

Anche a lui si presentò il solito problema che risolse<br />

subito.<br />

– Aspetta, – mi disse, anche lui imbarazzato.<br />

Si fece dietro un macchione. Si pisciò, dandomi le<br />

spalle, sulla mano destra raccolta e mi mise la sua urina<br />

sulle ferite più grosse.<br />

– Mi frigge.<br />

– Lo so! Ora lo farai anche tu quando ne avrai voglia,<br />

– mi disse dopo che ripeté la scena due tre volte. – Andiamo!<br />

Su!<br />

Mio padre, come al solito, continuava ad andare presto<br />

a Sìligo a portarci il latte dopo la mungitura. Io restavo<br />

solo in quel serpaio, nel bosco, in compagnia delle<br />

piche che sulle querce modulavano i loro interminabili<br />

canti. In compagnia degli astori e delle volpi (de<br />

sos astòres e de sos groddhes). Spesso al suo ritorno mi<br />

portava i vestiti lavati dalla mamma e potevo cambiarmi.<br />

Ricordo che i vestiti quando me li toglievo non erano<br />

solo sporchi di sudore e di untume, ma anche di<br />

35


sangue. Le pulci che avevo addosso imbrattavano i miei<br />

indumenti con il loro sterco: era la misera fine del mio<br />

sangue succhiato digerito e cacato beatamente dagli<br />

insetti.<br />

Così ogni volta che mi cambiavo, nei miei indumenti<br />

a chiazze di sangue, si poteva leggere il loro bivacco e<br />

l’ematografia stercoraria del mio martirio notturno e<br />

quotidiano. E nel nostro mondo civile mentre ai pastori<br />

mancava il pane quotidiano, le pulci avevano anche<br />

quello notturno.<br />

La notte, quando ci si distendeva sulla stuoia (in sa<br />

udijèdda), le pulci uscivano a pascere le loro valli e le loro<br />

pianure più ubertose. Scorrazzavano nel mio corpo<br />

contendendosi i punti in cui la pelle era più vulnerabile<br />

e il sangue usciva più facilmente e più gustoso.<br />

Prendere sonno in tali condizioni era difficile. Addosso<br />

sentivo i morsi, le succhiature, le loro gambuzze<br />

e i loro turbinosi spostamenti per cambiar “pastura”.<br />

Ora sul petto, ora sulle spalle, sotto le ascelle o alle costole,<br />

a seconda del loro capriccio e del loro appetito.<br />

Mi rivoltavo continuamente e nel buio della capanna<br />

me le immaginavo succhiare e mi dibattevo quasi me le<br />

volessi scuotere di dosso. Le pulci però conoscevano<br />

bene i loro prati fioriti e le mie contorsioni, forse, non<br />

facevano altro che stuzzicare la loro fame insaziabile.<br />

Disteso sulla stuoia tra il buio che vinceva la debole luce<br />

del fuoco morente della capanna, mi immaginavo le<br />

loro cene, i loro brindisi, e i loro sollazzi: i loro giochi<br />

amorosi.<br />

Era una cosa disgustosa e spesso scattavo in brividi di<br />

repulsione. E ogni sera prima che il sonno vincesse<br />

36<br />

questo abominevole martirio, mi sentivo a un tempo<br />

mensa e pastura di questi intrusi luridi ghiottoni, che<br />

nonostante li nutrissi mi pagavano cacandomi a gettito<br />

continuo. Per fortuna ero ancora piccolo e appena mi<br />

coricavo il sonno mi avvinceva subito. Spesso, anzi, la<br />

sera ero molto stanco e quando mio padre mi stendeva<br />

la stuoia e mi copriva con una coperta logora, mai lavata<br />

e con i panni che metteva sotto il basto del somaro<br />

(cun sos bàttiles de s’àinu), il sonno mi vinceva di colpo<br />

e le pulci uscivano dalle loro tane e potevano così spassarsela<br />

sul mio corpo addormentato. Finché mio padre,<br />

quando aveva già munto le pecore ed era già pronto<br />

per partire a Sìligo, mi svegliava all’alba e mi dava le<br />

sue disposizioni.<br />

Questo era il supplizio che dovevamo subire ogni<br />

notte, io e mio padre. A questa situazione si cercava di<br />

reagire in qualche modo. Il babbo metteva in luce tutta<br />

la sua esperienza e si richiamava ai suoi anziani. Quando<br />

c’erano le belle giornate, sin dalla mattina, stendeva<br />

le coperte, la stuoia e gli stracci vari con cui ci si copriva,<br />

sui muri o sui cespugli vicini alla capanna e li sbattevamo<br />

con i bastoni, alla meglio. Le lasciavamo al sole<br />

per gran parte del giorno. La sera, prima che il giorno<br />

morisse, iniziavamo l’operazione anti-pulce. Le coperte<br />

le passavamo punto per punto: maglia per maglia e<br />

piega per piega, dove si riparavano.<br />

– Stai attento prima di acchiapparle. Saltano e si nascondono<br />

tra le pieghe (brìncana e si costóini in sas pijas).<br />

Sono furbe, – mi diceva, – e appena smuovi la co-<br />

37


perta sgusciano e si nascondono... E quelle che ti sfuggono<br />

ora, ti pungeranno stanotte... Devi cacciarle ben<br />

bene.<br />

Era molto bravo. Le prendeva e le schiacciava fra le<br />

unghie dei pollici rovesciati. E certo, quando si dava<br />

la caccia a queste sanguisughe silenziose, ma scattanti,<br />

la notte la trascorrevamo più tranquilla e si dormiva<br />

meno punzecchiati. Malauguratamente mio padre<br />

non aveva il tempo di dar loro la caccia tutti i giorni.<br />

L’oliveto era la sua selvaggina e l’unico campo di caccia.<br />

Le pulci, poi, si riproducevano rapidamente, specie<br />

al caldo della primavera e dell’estate, e dopo due<br />

tre giorni facevano di nuovo strage sui nostri corpi addormentati.<br />

Quando, raramente, il babbo mi riportava a Sìligo,<br />

una volta ogni due tre mesi, e gli indumenti me li cambiavo<br />

in paese, la mamma per non farsi infestare la casa<br />

ricorreva a certe sue precauzioni. Mi teneva vicino al<br />

fuoco su cui aveva già messo a bollire un grande paiuolo<br />

d’acqua. Mi toglieva gli abiti possibilmente tutti assieme<br />

e avvolti li metteva a cuocere. A me faceva il bagno<br />

in un’altra bacinella. Quell’operazione, tanto triste<br />

quanto salutare, mi riportava nell’ambiente della mia<br />

breve infanzia di Sìligo. E da quella bacinella sotto lo<br />

sfregamento nervoso delle mani della mamma, rivedevo<br />

e rivivevo la spidocchiatura che le mamme durante<br />

la guerra facevano ai propri figli. In tre o in quattro ci<br />

catturavano e ci sottoponevano al torchio. Ci distendevano<br />

per terra con la testa tenuta per il collo su un foglio<br />

di giornale e la spidocchiatrice incominciava a sfregare<br />

le teste. I pidocchi grandinavano tonfando sul<br />

38<br />

giornale insieme al lendine. Ora i miei indumenti mi<br />

apparivano come uno di quei fogli di carta che arrotolati<br />

venivano tempestivamente gettati sul fuoco.<br />

– Queste pulci non hanno nulla da invidiare ai pidocchi<br />

della guerra, – diceva la mamma. – Succhiano avidamente.<br />

– Eh, non è che ora me li attaccano i ragazzi che non<br />

vengono puliti dalle loro mamme, come mi dicevi allora.<br />

Io ora non ci vado più a giocare con ragazzi pieni<br />

di pidocchi come allora. Magari! Ora sono solo...<br />

Eppure sono pieno di pulci più di allora... Più di<br />

quando andavo a giocare con i figli di thia Franzisca,<br />

che non aveva il petrolio da mettere sulla testa spidocchiata<br />

dei loro figli.<br />

L’unica cosa confortante nella spulciatura che ora mi<br />

faceva la mamma era che la testa non me la sentivo<br />

sgraffignata e dolorante come nella spidocchiatura e la<br />

testa non puzzava di petrolio. Mi rivestivo e sentivo<br />

odore di pulito. Gli abiti finalmente mi solleticavano<br />

piacevolmente.<br />

Venne così il cuore dell’estate, periodo in cui i pastori<br />

nel Logudoro effettuano la transumanza estiva (l’unica<br />

in questa zona rendendosi inutile quella invernale<br />

per la dolcezza del clima, al contrario di quanto avviene<br />

nelle zone dell’interno dell’isola) verso le pianure cerealicole:<br />

nelle stoppie mietute (in sas istùlas).<br />

Baddhevrùstana così rimase sola con le sue volpi e i<br />

suoi uccelli a caccia di cavallette. L’unico gregge che vi<br />

rimase fu il nostro. Mio padre non volle affittare pascolo<br />

estivo. Voleva risparmiare. Quell’anno per pagare<br />

l’affitto di una tanca a Baddhevrùstana ci rimise quasi<br />

39


tutto il latte che aveva prodotto. Le cavallette l’avevano<br />

completamente rosicchiata. Il <strong>padrone</strong> volle però l’affitto<br />

pattuito. A stento il babbo riuscì a farmi gli scarponi<br />

nuovi.<br />

Il nostro piccolo gregge comunque poteva star bene<br />

anche a Baddhevrùstana purché abbeverato due volte al<br />

giorno. Durante la notte, come si fa d’estate, con il babbo<br />

conducevamo il gregge a pascere il fieno ammorbidito<br />

dalla rugiada: quel poco che le cavallette avevano risparmiato.<br />

Si dormiva all’aperto, sotto gli alberi, per evitare<br />

la rugiada mattutina. A me piaceva molto, quando<br />

c’era la luna piena in mezzo al cielo. Vedermela spuntare<br />

all’orizzonte però era tutt’altro spettacolo. Mi sembrava<br />

rialbeggiasse.<br />

L’unico imprevisto per la nostra salute erano le zanzare<br />

(sa thìnthula).<br />

Il babbo era sempre provvisto di chinino e la sera il<br />

più delle volte me lo somministrava al tramonto dopo<br />

la nostra cena con pane e pere rosse e mature. Molti pastorelli<br />

incauti morivano sul campo. Lui me lo diceva:<br />

ne aveva visti tanti.<br />

Verso la fine di settembre rientrarono dalle stoppie<br />

tutti i pastori della contrada. E la notte in compagnia<br />

del babbo tra i canti delle volpi in lontananza potevo risentire<br />

lo sferragliare dei vari greggi. Lui mi faceva notare<br />

la differenza delle diverse sonaglie e il suono d’insieme<br />

di ciascun gregge. Io dovevo riconoscerlo. Era<br />

importante. Dal suono avrei potuto individuare il gregge<br />

di uno o dell’altro, nel caso fosse saltato nei nostri<br />

chiusi o fosse stato messo in fuga dai banditi. Ogni pastore<br />

doveva essere in grado di conoscere il gregge al-<br />

40<br />

trui dalle sonaglie, diceva il babbo, per difendersi o<br />

proteggersi reciprocamente.<br />

Finita l’estate si ritornò a dormire nella capanna. Meglio<br />

le pulci che il freddo dell’inverno. La notte, a parte<br />

le prime ore, il bestiame veniva immandrato dopo che<br />

se ne faceva scrupolosamente la conta mentre entrava<br />

nel varco delle diverse mandrie. Io e il babbo dormivamo<br />

a orecchio leggero, pronti a scattare al primo abbaiare<br />

del cane.<br />

Con le prime acque scomparve il colore dell’estate e<br />

venne anche per me il primo autunno pastorale. La<br />

campagna si rivestì di verde, mentre le pecore incominciarono<br />

a figliare. Il nostro gregge nel giro di dieci giorni<br />

si riempì con mio grande piacere di agnelli. Allora la<br />

mattina mi svegliavo presto insieme al babbo per rivedere<br />

gli agnelli che già conoscevo o quelli che eventualmente<br />

erano nati durante la notte. In questo periodo<br />

lui si alzava due o tre volte per notte per assistere gli<br />

agnelli appena nati e per farli poppare. Spesso il freddo<br />

impediva loro di suggere le poppe della mamma e potevano<br />

smammolarsi e morire. Allora lui li portava dentro<br />

la capanna, li riscaldava al fuoco e quando davano<br />

segno di vitalità li imboccava. Apriva loro la bocca e vi<br />

spremeva il capezzolo della loro mamma o di altra pecora<br />

se la mamma malauguratamente non portava latte.<br />

Operazioni che lui faceva con molta cura.<br />

Gli agnelli crebbero subito e mentre le madri placavano<br />

di giorno la loro fame, si radunavano in un punto<br />

e si mettevano a correre sulle mulattiere come se faces-<br />

41


sero le gare. Disposti in fila indiana o in più file partivano<br />

da un punto ad un altro percorrendolo varie volte<br />

nella loro gioiosa corsa. Quasi per intesa di tanto in tanto<br />

si spandevano, poi si riordinavano stringendosi l’uno<br />

all’altro e si sollevavano tutti insieme con uno scatto<br />

simultaneo, guizzando per l’erba. Sembravano uno<br />

stormo di uccelli. Io durante le belle giornate al riparo<br />

dietro un mucchio di pietre o un rovo (accuccàdu a isségus<br />

de una moridìna o de unu ru) mi ascoltavo lo sferragliare<br />

del gregge e mi godevo la corsa degli agnelli finché<br />

non sentivano il desiderio del capezzolo. Ognuno<br />

allora si tuffava nel gregge (si ch’ettaìada in s’ama) per<br />

succhiarsi avidamente la mamma inginocchiato sotto<br />

le poppe sbatacchiate fortemente con il muso.<br />

Novembre passava con le sue poche giornate di sole.<br />

Il freddo si faceva sempre più intenso. La notte, quando<br />

il cielo era stellato, scendeva la rugiada. La fredda<br />

brezza del cuore della notte la raggelava e si formava la<br />

brina (su lentòre si elaìada e biddhiaìada).<br />

Così la mattina quando il babbo partiva per Sìligo mi<br />

lasciava all’ovile con le pecore ancora rinchiuse nel recinto<br />

con l’incarico di farle uscire soltanto quando il<br />

sole era alto e aveva disciolto lo strato bianco e luccicante<br />

della brina. Il pascolo gelato causa dissenteria al<br />

bestiame e spesso anche la morte. La capanna era dentro<br />

il recinto stesso. Seduto accanto al fuoco, allora potevo<br />

osservare le mandibole delle pecore ruminanti<br />

sdraiate di fronte alla siepe e Rusigabèdra che si attorcigliava<br />

con il muso in culo per farsi caldo. Tra una brinata<br />

e l’altra, venne per me anche il primo inverno da<br />

trascorrere nell’abituale capanna sulla stuoia e sulle<br />

42<br />

pelli di pecora. Il freddo della notte spesso ci costringeva<br />

a buttarci addosso le coperte, anche i cappotti e i<br />

sacchi con cui durante il giorno ci si riparava dal freddo<br />

e dalla pioggia. Perfino i panni che si mettono sotto il<br />

basto del somaro (sos bàttiles), facevano o da materasso<br />

o da coperta. Poco importava se questi aggeggi fossero<br />

bagnati o meno. L’importante era creare, sopra le coperte,<br />

un certo peso che ci separasse dal freddo. Il caldo<br />

veniva da sé.<br />

L’inverno si faceva sentire con le sue giornate piovose<br />

e mio padre era sempre più preoccupato di lasciarmi<br />

solo mentre lui necessariamente doveva recarsi a Sìligo<br />

per il latte. Era il periodo dell’abigeato. E ogni mattina<br />

mentre si allontanava dall’ovile più per snidare le volpi<br />

dalla tanca che per ricordarmi le sue disposizioni che<br />

mi aveva ripetuto più volte, sulla mulattiera che lo immetteva<br />

sulla via verso Sìligo a gran voce mi ripeteva le<br />

“solite”, per due o tre volte, finché non scompariva<br />

verso il bosco che se lo inghiottiva e la sua voce non si<br />

sperdeva nella folta selva delle ginestre spinose e dei<br />

rovi rugiadosi (de sa terìa e de sos ruos saurràdos).<br />

Per intimorire i banditi, anzi, ricorreva a uno stratagemma.<br />

Tutti sapevano che thiu Juànne spesso capitava<br />

da noi. Nelle giornate piovose, quando non si poteva lavorare<br />

la terra durante i temporali (in sas temporàdas),<br />

quando la terra, pregna d’acqua, non si poteva zappare,<br />

quest’uomo veniva nel nostro campo per farsi legna, e<br />

ad estirpare i ceppi e le radici degli alberi tagliati dal<br />

babbo (a bogàre truncos bezzos). Mio padre sfruttava la<br />

circostanza. E a quelli del vicinato andava dicendo che<br />

pagava thiu Juànne perché gli custodisse il gregge e an-<br />

43


che perché mi facesse compagnia e mi istruisse in sua assenza.<br />

Tutto questo era naturalmente una commedia. Di comune<br />

accordo, mio padre e thiu Juànne la recitavano<br />

anche alle pietre. Mio padre sempre, thiu Juànne solo<br />

quando capitava da noi per farsi legna.<br />

Così la mattina, quando mio padre partiva per Sìligo,<br />

riempiva la tanca di ordini e di grida che si spandevano<br />

dappertutto e che tutti sentivano. Prima che<br />

scomparisse dall’orizzonte, mi gridava con quanto<br />

aveva in canna il suo abituale richiamo: – Oh! oh! oh!<br />

Gavì? – almeno per due o tre volte, anche se io gli rispondevo<br />

già dal primo richiamo. Urlavo altrettanto<br />

forte: – Oh! oh! oh! e itéeee! – prolungando la e finale,<br />

la cui eco rimbombava nelle valli. L’importante era far<br />

baccano e ululare. Mio padre, allora, in modo che sentissero<br />

i banditi, i loro informatori locali e il vicinato,<br />

fingeva di essersi dimenticato di darmi le sue disposizioni:<br />

– Ricordati di fare quella faccenda quando arriva<br />

thiu Juànne! Digli che io ritorno presto.<br />

– Ehi... eheeeee! – riecheggiavo io, concludendo la<br />

nostra commedia quotidiana.<br />

Molti ci credevano nonostante per lo più io continuassi<br />

a rimanere solo anche quando pioveva. Thiu<br />

Juànne veniva solo quando gli pareva e solo quando<br />

aveva bisogno di legna.<br />

Quando capitava, la sua compagnia allora era la cosa<br />

più bella che mi si potesse offrire in quel bosco. Era un<br />

uomo simpatico. Mi raccontava storielle e bagatelle della<br />

sua infanzia lontana che io ascoltavo con molto interesse,<br />

mentre agitava il piccone per estirpare le radici.<br />

44<br />

Spesso mi narrava anche episodi che erano successi a<br />

Baddhevrùstana, i cui protagonisti erano stati i miei<br />

avi, e io ci tenevo. Lui li aveva sentiti dagli anziani e soprattutto<br />

dal mio nonno paterno, che non ho conosciuto<br />

(lasciò orfano mio padre sin dall’età di dodici anni).<br />

Naturalmente non tralasciava di raccontarmi qualche<br />

scapricciata infantile su mio padre.<br />

– L’antenato più interessante della tua famiglia era<br />

thiu Giommarìa Ledda. Un uomo molto coraggioso e<br />

bisnonno di tuo nonno paterno. In forze intorno al<br />

1850. Era temuto da tutta la contrada ed era una specie<br />

di capogruppo. Nessuno a Sìligo osava contraddirlo a<br />

parte i ricchi e i nobili che non potevano associarsi con<br />

un pastore e un porcaro come lui era. Tra i pastori e gli<br />

agricoltori era quello che aveva più autorità. Allora la<br />

legge, la giustizia, era molto lontana dalle campagne.<br />

Era a Sassari e a Cagliari, ma la dominava e la manovrava<br />

l’ingordigia dei nobili. I don, i conti, i marchesi e i<br />

cavalieri.<br />

– I pastori si univano in più famiglie e uno difendeva<br />

l’altro. E thiu Giommarìa era il capo del suo gruppo<br />

che non solo era il più forte di Sìligo ma anche dei paesi<br />

vicini. Come ogni capo era temuto, amato e odiato. Allora<br />

c’erano molti grassatori: pastori che si facevano<br />

ricchi con le ruberie. Certi grassatori di Mores che thiu<br />

Giommarìa aveva ripetutamente costretto a restituire il<br />

bestiame rubato, una notte lo assalirono in località su<br />

Colomìnzu nella sua capanna. Era solo con i maiali che<br />

aveva in mezzadria con un cavaliere di Bànari. All’abbaiare<br />

dei cani lui tolse il cespuglio (su càlamu) con cui<br />

si chiudeva la capanna. Allora nella capanna non ce<br />

45


n’era di porta, no! Si precipitò fuori per non farsi cogliere<br />

in trappola. Non era un uomo da nulla, no... La<br />

mosca se la sapeva scacciar via... I moresi erano tanti:<br />

tra servi e padroni erano più di dieci, erano. E si fecero<br />

su di lui per ucciderlo a colpi di mallo. La notte era<br />

molto buia. E quest’uomo non poté fare altro che prendere<br />

i colpi che gli piovvero da tutte le parti. Era una<br />

volpe, però. E riuscì a infilare la testa sotto una radice<br />

di un albero di lentischio. Allora c’erano anche alberi<br />

di lentischio... Ora sono rari... Quelli al buio non se ne<br />

accorsero. Picchiarono e colpirono sul suo corpo servi<br />

e padroni finché qualcuno non disse: “Basta! Sarà<br />

morto già tre volte. Controllatelo.” Lui allora da quel<br />

momento si finse veramente morto. Uno dei grassatori<br />

allora fattoselo rizzare, gli ha suonato le mandibole e<br />

quando ha visto e sentito che si muovevano come le tabelle<br />

della settimana santa, ha detto: “È morto!”<br />

– “Non è morto,” fece un altro dei grassatori.<br />

– “Sì, che è morto.”<br />

– “No! Io prendo il pugnale e lo squarto!”<br />

– “Tu non squarti nulla: non è giusto sfregiare un cadavere!”<br />

– “Se vuoi porta la lesina e lo pungi dove vuoi, ma<br />

non voglio che siano sfregiati i cadaveri freddati da<br />

me.”<br />

– Quel terribile grassatore, allora, afferrata la lesina<br />

tolse gli scarponi a thiu Giommarìa e con la furia di una<br />

belva lo morse al piede tagliandogli il mignolo di un<br />

piede. Gli dette alcune stoccate con la lesina e se lo<br />

guardò. Thiu Giommarìa non si mosse: “È morto,” disse.<br />

“Possiamo andare. È morta l’anima dannata!”<br />

46<br />

– I grassatori allora fecero uscire i maiali dal porcile e<br />

s’incamminarono verso Mores: il loro ovile.<br />

– Thiu Giommarìa, che aveva riconosciuto i suoi attentatori<br />

dalla voce, si alzò dolorante, più morto che vivo.<br />

E scalzo com’era, si recò a Paulubeddhàri all’ovile<br />

del fratello. Sembra impossibile, ma ci devi credere.<br />

Chi me lo disse lo ha visto.<br />

– “Avete scarponi?” Fu la sua prima preoccupazione.<br />

– “Sì! Che è successo? Che è successo?”<br />

– “Mi hanno rubato i maiali e mi hanno lasciato per<br />

morto!”<br />

– “Ti hanno rubato i maiali? Chi sono stati? Li hai riconosciuti?”<br />

– “Dammi gli scarponi, dammi. Sella due cavalli che<br />

andiamo a Banari. Subito. Voglio avvertire il mio mezzadro.”<br />

– Sellati i cavalli, trottarono verso Banari. Avvertito il<br />

mezzadro, gli ordinò di recarsi a Mores con loro. La<br />

mattina a sole alto si presentarono all’ovile dei grassatori<br />

che presero thiu Giommarìa veramente per un’anima<br />

dannata. Il cavaliere di Banari prese per primo la<br />

parola.<br />

– “Bella robba siete.”<br />

– “Siamo disposti a ridarvi tutti i maiali.”<br />

– “Certo che li voglio tutti,” fece il cavaliere.<br />

– “Certo! Ve li diamo tutti! Quello che manca lo abbiamo<br />

ucciso per mangiare e fare a salsicce, ve li paghiamo<br />

come volete.”<br />

– “Al mio mezzadro li date,” fece thiu Giommarìa.<br />

“La mia parte ve la potete anche tenere.”<br />

– Voltò le spalle ai grassatori che rimasero di merda, e<br />

47


se ne andò con il suo mezzadro dietro la sua terribile<br />

minaccia.<br />

– Quando guarì dalle ferite e si mise in buona salute,<br />

thiu Giommarìa radunò i suoi amici più fidi scegliendoli<br />

tra quelle famiglie di cui lui era l’autorità indiscussa<br />

e s’incamminò con loro verso Mores. Giunti all’ovile<br />

dei moresi i cani fecero avvertiti i grassatori di quanto<br />

stava per accadere. Thiu Giommarìa piombò con i suoi<br />

sulle capanne. I capi erano due fratelli e vi erano due famiglie<br />

e due capanne. Sullo spiazzo uscirono le donne<br />

in delirio con i figlioletti in braccio. Uno dei grassatori<br />

allora si nascose sotto una caldaia rovesciata dentro la<br />

stessa capanna. L’altro riuscì a fuggire. Non avendo<br />

trovato nessuno dei responsabili thiu Giommarìa si infuriò.<br />

– “Mettiamo fuoco alle capanne. Subito,” ordinò ai<br />

suoi.<br />

– “Per le creature che vi giacciono dentro... in nome<br />

di Dio! Abbiate misericordia almeno delle creature,”<br />

gridarono le donne piangendo.<br />

– Allora thiu Giommarìa e i suoi uomini si recarono<br />

alla mandria dei vitelli e li sgozzarono tutti. Al muggito<br />

dei vitelli accorsero anche le mucche che uccisero una<br />

dopo l’altra non appena si facevano loro davanti. Spari<br />

a non finire. Sangue e bestiame stramortito anche per i<br />

cani di mezza <strong>Sardegna</strong>.<br />

– Finita la strage, se ne ritornarono a Sìligo, ognuno<br />

ai propri ovili.<br />

– E quei due fratelli e i loro amici che fine fecero? –<br />

gli chiesi.<br />

– Con il passare del tempo thiu Giommarìa e compa-<br />

48<br />

gni li fecero fuori tutti. Nemmeno uno riuscì a scampare.<br />

Con quell’uomo chi sbagliava pagava con la pelle,<br />

pagava! E faceva bene!<br />

– Raccontatemi qualche altro episodio di thiu Giommarìa.<br />

– Eh, ce ne sono tanti, ce ne sono. A Sìligo allora dominava<br />

un certo don Peppe Mannu. Un prepotente e<br />

un dissoluto come tutti i don... hummm! La Giustizia<br />

se li avesse portati via tutti... E questo signore andava a<br />

caccia delle figlie di thiu Giommarìa... Erano molto<br />

belle. Le migliori ragazze del paese. Il tuo antenato, che<br />

seppe subito le intenzioni di don Peppe, non ebbe paura<br />

di mostrargli i denti. E da qui seguì tutta una serie di<br />

vendette che durarono almeno due tre anni. Chi pagò<br />

per primo fu naturalmente thiu Giommarìa. Era un<br />

semplice porcaro, anche se dominava e amministrava<br />

la giustizia di mezzo Sìligo tra la gente di campagna.<br />

– Una sera sull’imbrunire thiu Giommarìa si stava recando<br />

a casa sua a Sìligo e passò davanti alla casa di don<br />

Peppe. Sull’uscio della casa del don c’era un suo leccapiatti<br />

che con spavalderia si mise a fare il gradasso.<br />

– “Che ne fai di quel laccio di cuoio,” fece rivolto a<br />

thiu Giommarìa.<br />

– “Potrebbe anche affogare il tuo collo.”<br />

– “Eh! vai vai! Verrà presto la tua ora,” fece il lecchino<br />

sicuro della protezione del don.<br />

– Thiu Giommarìa non dimenticò mai più quella minaccia<br />

di morte. Venne il carnevale. E una notte si mascherò<br />

da gentildonna. Dietro la sala da ballo c’era un<br />

albero di melograno e thiu Giommarìa vi si appostò e<br />

vi stette finché non gli venne a tiro il lecchino di don<br />

49


Peppe e lo freddò con una fucilata. Sorpresa dei danzatori!<br />

– Don Peppe, che sapeva ciò che passava tra i due,<br />

forte della sua autorità sulla Giustizia, fece chiamare i<br />

carabinieri di Banari e sul sospetto fece arrestare thiu<br />

Giommarìa. Certo! non lo aveva visto nessuno, no.<br />

– I carabinieri mentre lo portavano in caserma passarono<br />

davanti alla casa del don che era sull’uscio.<br />

– “Ora don Pè può stare tranquillo: ha fatto arrestare<br />

Giommarìa Ledda.”<br />

– “Certo! Guardateli bene gli alberi di Monte Santu.<br />

Quando tu sarai libero saranno già alberi fatti.”<br />

– “Ho l’animo che io ritorno.” Fece thiu Giommarìa<br />

tra le braccia dei gendarmi. “E credo che lei non ci sarà<br />

più qui.”<br />

– Quello che diceva quell’uomo era una sentenza,<br />

era. Non parlava mai all’aria.<br />

– Don Peppe era un uomo senza scrupoli e faceva<br />

razzia delle donne dei paesi vicini, specie delle mogli<br />

dei pastori suoi dipendenti e delle loro figlie. Più volte<br />

avevano tentato di eliminarlo, ma riuscì sempre illeso<br />

dagli assalti. Correva fama che le palle non lo passassero.<br />

Era fatturato.<br />

– Una notte lo appostarono in Parruogliàri, tra Banari<br />

e Sìligo, dove sarebbe passato di ritorno. Allo scalpitìo<br />

del suo cavallo i suoi attentatori lo presero di mira e<br />

lo spararono a palle d’oro. L’oro passa qualsiasi fattura,<br />

anche se viene fatta dallo stesso demonio. Lo crivellarono<br />

di colpi e lo ridussero a colabrodo.<br />

– E chi erano?<br />

– Indubbiamente amici di thiu Giommarìa.<br />

50<br />

– Lui non c’era?<br />

– Lui era ancora in prigione in attesa del dibattimento.<br />

Uscì poco dopo: assolto per insufficienza di prove,<br />

dopo oltre due anni di carcere.<br />

Thiu Juànne raccontava sempre senza interruzione<br />

estirpando le radici senza tregua tra una scorreggia e<br />

l’altra che tuonavano nel silenzio del bosco. Quando<br />

c’era lui la giornata mi passava senz’accorgermene.<br />

Purtroppo se non faceva brutto tempo lui non veniva.<br />

Io pregavo che piovesse e spesso l’inverno mi dava retta.<br />

Così mi rivedevo thiu Juànne spuntare all’orizzonte.<br />

– Ciao! Gaviné! Come va? Hai freddo?<br />

– No. Oggi me ne raccontate di storie di thiu Giommarìa?<br />

– Sì. Ora però mangiamo alla capanna. Poi mentre io<br />

farò la legna...<br />

Così come al solito thiu Juànne si sceglieva un ceppo<br />

e incominciava a sterrarlo praticando delle gore per recuperare<br />

anche le radici. Al mio invito non si tirava mai<br />

indietro e raccontava.<br />

– Per dimostrarti quanta stima e rispetto avesse thiu<br />

Giommarìa a Sìligo e nei paesi vicini ti racconto questa.<br />

Un suo amico, thiu Jonbattìsta, durante l’inverno aveva<br />

affidato il gregge minuto e non figliato, montoni<br />

compresi (sa laghìnza), al suo servo, qui, in Bestìa. Era<br />

costui un semplicione, senza spirito. Solo un buon pastore.<br />

Thiu Jonbattìsta se ne stava a Baccattìna con il<br />

gregge da latte (cun su madrigàdu) dove aveva anche un<br />

allevamento di cavalli (unu asòne de caddhos). Una volta<br />

la settimana si recava a Bestìa per portare le provviste<br />

e il vino al servo e per perlustrare il suo pascolo. Un<br />

51


giorno, mentre lui era in visita al servo e tastava il bestiame<br />

sulla schiena per vedere se erano grassi o meno,<br />

come si fa, si vide piombare uno di questi grassatori a<br />

cavallo con in groppa il proprio servo. Erano di Mores<br />

anche costoro. Era uno dei Magàri. Uno di quelli che<br />

andavano per gli ovili e dicevano: “Tu mi devi dare una<br />

vitella.”<br />

– “Mi devi dare un castrato, se no ti uccido tutto il bestiame.”<br />

– “Tu mi devi dare questo, tu mi devi dare quello”<br />

Eh! Allora era così, era.<br />

– “O Jonbattì!” fece il grassatore. “Mi dovresti dare<br />

il castrato. Debbo fare un bel pranzo. A casa domani<br />

vengono persone di riguardo... Sai com’è!”<br />

– “Il castrato serve a me! Prenditi quell’agnellone<br />

(cuddhu saccàju),” fece thiu Jonbattìsta per non inimicarsi<br />

simile gentaglia.<br />

– Il grassatore allora confidò al proprio servo la sua<br />

vendetta. “Domani mattina all’alba veniamo qui, gli<br />

uccidiamo il servo e ci prendiamo castrato e agnelloni.<br />

Tanto lui se ne torna a Baccattìna.”<br />

– Thiu Jonbattìsta che si stava compiacendo dei suoi<br />

agnelloni si era un po’ allontanato, non poté sentire<br />

nulla. Ma il servo di thiu Jonbattìsta sentì la sentenza.<br />

– “Allora Jonbattì, ritorneremo un altro giorno per<br />

l’agnellone. Ora vado in cerca di un castrato.”<br />

– “Va bene! Va bene.”<br />

– Il servo di thiu Jonbattìsta si mise subito a piangere<br />

preoccupato per la sua vita.<br />

– “Perché stai piangendo?” fece thiu Jonbattìsta.<br />

“Parla.”<br />

52<br />

– Il servo aveva paura di parlare e continuò a piangere<br />

tremante e pieno di paura.<br />

– “Parla ti ho detto,” insisté il suo <strong>padrone</strong>.<br />

– Non c’era verso! Thiu Jonbattìsta allora si cacciò il<br />

suo pugnale e glielo pressò sul ventre.<br />

– “Parla, se no ti uccido subito. Parla e basta! Cosa<br />

vuol dire il tuo silenzio?”<br />

– “Ma non lo avete sentito?”<br />

– “No.”<br />

– “Domani mattina all’alba uccidono me e si prendono<br />

il castrato e il resto.”<br />

– “Ah! Così eh?...”<br />

– “Vai di corsa a Sìligo e di’ a mia moglie che ti dia<br />

quella polvere. Ci sta facendo danno la volpe.”<br />

– Il servo per avere salva la vita la strada verso Sìligo<br />

se la inghiottì dalla paura e subito fu di ritorno.<br />

– “Tu te ne vai a Baccattìna. Stanotte ci sto io qui,” fece<br />

thiu Jonbattìsta.<br />

– Era uomo che aveva fegato: si proteggevano a vicenda<br />

con thiu Giommarìa, come era costume.<br />

– La mattina prima dell’alba, ecco il Magàri con il<br />

servo. Visto che non c’era nessuno (thiu Jonbattìsta si<br />

era nascosto a tiro utile) il grassatore ordinò al suo servo<br />

di prendere il castrato.<br />

– Thiu Jonbattìsta anziché far fuoco sul servo, sparò il<br />

Magàri che aspettava e osservava ancora sul suo cavallo<br />

e cadde a terra morto. Il cavallo si dette alla fuga. Il servo<br />

del grassatore si avventò allora su thiu Jonbattìsta,<br />

che si mise a correre: era già avanzato negli anni e aveva<br />

forse paura di uno scontro fisico con il servo morese,<br />

che era giovane e robusto. Ma pratico del posto rag-<br />

53


giunse la palude. C’era l’acqua alta e ci si mise dentro<br />

cercando di dileguarsi. Il servo morese ostinato lo inseguiva.<br />

Thiu Jonbattìsta, scaltro, si mise a gridare con<br />

quanto aveva in canna: “O Giommarìa Ledda! Vieni a<br />

salvarmi! Vieni a salvarmi! Aiutoòòò!”<br />

– Il morese non appena sentì il nome di Giommarìa<br />

Ledda, voltò le spalle e cercò di svignarsela. Thiu Jonbattìsta<br />

ne approfittò. Uscì come un lampo dalla palude<br />

caricò il fucile (era un fucile a avancarica, a un solo<br />

colpo), sparò il morese e gli spaccò l’osso della spalla.<br />

– Come vedi Thiu Giommarìa era temuto. Certo non<br />

meritava di fare la fine che ha fatto.<br />

– Perché? Che fine ha fatto?<br />

– Degli amici lo invitarono a un ovile per la tosatura<br />

delle pecore. È un invito che non si rifiuta mai. E lui ci<br />

volle andare. In famiglia non volevano. Avevano sentito<br />

qualcosa... qualche sospetto...<br />

– Lui però non temeva nemmeno il demonio. Il suo<br />

servo fidato insieme alla cognata cercò di dissuaderlo<br />

per tutta la notte a Paulubeddhàri. Due ore prima dell’alba<br />

cercò di mettersi in viaggio alla volta di Coròna<br />

Majòre.<br />

– “Non andateci,” dicevano le donne, avvinghiate al<br />

suo gabbano nero.<br />

– “Non andateci, vi uccidono. Non andateci, vi uccidono.”<br />

– Lui però era ostinato. Le donne gli tennero dietro<br />

per oltre un chilometro fino a Riu Ruzzu. Poi si allontanò<br />

e non tornò più.<br />

– Arrivato a Coròna Majòre un certo Francesco Rassu<br />

di Thiesi, sicario di thiu Antóni Luìsi di Banari, riuscì a<br />

54<br />

introdursi nella compagnia. E siccome i soldi hanno<br />

sempre accecato molta gente, invitarono thiu Giommarìa<br />

a confettare gli agnelli per il pranzo. Alla fine lo pregarono<br />

di mantenere la testa di un agnello su un ceppo.<br />

Francesco Rassu che teneva la scure, anziché colpire la<br />

testa dell’agnello, colpì la testa di thiu Giommarìa, che<br />

cadde cadavere. Per Sìligo fu un dolore grande. Thiu<br />

Giommarìa era stato sempre una spina per i signorotti<br />

dei paesi vicini. Difendeva i deboli e soffocava le brame<br />

dei ricchi.<br />

– Ma i carabinieri non li arrestavano quelli che uccidevano<br />

la gente? Ora se succedesse una cosa del genere<br />

li arresterebbero! Ma come? Tutti questi cadaveri? La<br />

Giustizia dov’era?<br />

– Te l’ho già detto l’altra volta. La Giustizia allora dormiva.<br />

Certo, c’era, ma era come se non ci fosse. I ricchi<br />

e perfino gli stessi grassatori la corrompevano con l’oro<br />

e col denaro. L’unica Giustizia che c’era allora erano le<br />

compagnie barracellari che, insieme a uomini come thiu<br />

Giommarìa, e spesso anche banditi divenuti banditi<br />

per casi particolari, proteggevano, dietro compenso, il<br />

bestiame dei vari comuni.<br />

– Che cosa erano queste compagnie barr...<br />

– Era un’istituzione autorizzata dallo stesso governo<br />

su richiesta del popolo. Era formata dai barracelli, specie<br />

di guardiani che hanno l’obbligo di custodire il bestiame<br />

del comune cui appartengono. Se viene rubato<br />

lo pagan loro al proprietario. Eh, ne avrai visti aggirarsi<br />

qua e là.<br />

– Non mi è capitato mai.<br />

– Prima o poi ti capiterà.<br />

55


– E i soldi a loro chi glieli dà?<br />

– Ogni proprietario dà loro un tanto. Poi sta a loro<br />

sorvegliare.<br />

Questi racconti mi esaltavano e stuzzicavano la mia<br />

fantasia. Spesso riuscivo a vedere thiu Giommarìa nelle<br />

sue gesta con i suoi nemici. Don Peppe... Thiu Jonbattìsta.<br />

Erano degli eroi per me ormai: io che non sapevo<br />

leggere dovevo imprimermi nella mente le gesta di quei<br />

personaggi giganteschi che osavano tutto perché tutto<br />

erano in grado di affrontare. Erano gli uomini e la legge<br />

stessa degli uomini.<br />

Mio padre a Sìligo non si tratteneva molto. Come i<br />

pastori autentici, non si crogiolava con la moglie più di<br />

tanto. E sbrigate le sue faccenduole, nel giro di quattro<br />

ore era sempre di ritorno. Aveva paura che i banditi ci<br />

rubassero il gregge, nonostante ci fossimo io e il cane.<br />

Molti pastori che nel paese ogni giorno si godevano<br />

la propria moglie, al loro ritorno trovavano amare sorprese.<br />

Le pecore non c’erano più e le riserve dei loro<br />

pascoli spesso devastate dai greggi del vicinato.<br />

Una volta i banditelli ci tentarono con me. E siccome<br />

pastorelli come me ce n’erano dappertutto, essi si comportavano<br />

più o meno nello stesso modo per raggirare i<br />

ragazzini che durante l’assenza dei padri custodivano<br />

le pecore. Si trattava di distrarre il bambino in qualche<br />

modo.<br />

Uno di loro, in genere, piombava nella capanna o dove<br />

si trova il bambino, mentre gli altri fugavano il bestiame.<br />

56<br />

Così un giorno sullo spiazzo antistante la capanna, si<br />

presentò un giovanotto. All’abbaiare di Rusigabèdra,<br />

mi proiettai fuori dalla capanna. Il giovanotto aveva<br />

tutta l’aria di essere uno dei tanti cacciatori che di tanto<br />

in tanto scorrazzavano per la macchia.<br />

– Hai visto lepri da queste parti? È tutta la mattina, –<br />

continuò con tono arrabbiato e senza darmi il tempo<br />

della risposta, – che oggi vado in giro e non riesco a scovarne<br />

una... Ci devono essere passati altri cacciatori, da<br />

poco... Ne hai visto ieri o stamattina?<br />

– No. Lepri ne vedo sempre saltar fuori dai cespugli.<br />

Anzi l’altro giorno per poco non ne calpestavo una.<br />

Spesso mi escono quasi di sotto i piedi... Solo che il mio<br />

cane corre di meno e non ne prende mai. Sono troppo<br />

veloci. E poi quelle si dirigono sempre in alto verso la<br />

collina... Hanno le gambe di dietro più lunghe e in salita<br />

corrono più che in pianura. Non le batte nessuno...<br />

Solo lo sparviero riesce a prenderle se non trovano<br />

scampo nella macchia o nei loro covi (in sos majònes o<br />

in sas quilèttas).<br />

– E tu ne hai visto, di sparvieri prendere le lepri? –<br />

continuò lui cogliendo la palla al balzo per continuare a<br />

distrarmi.<br />

– Sì. Una volta per il campo, con mio padre ne abbiamo<br />

trovato uno, intento a divorarsela. Al nostro arrivo<br />

casuale lo sparviero cercò scampo con la lepre appena<br />

agguantata. Spiccò il volo, ma la lepre era grossa e pesante.<br />

Gli cadde dal rostro e dagli artigli e per mettersi<br />

in salvo se ne dovette volar via, a bocca asciutta. La lepre<br />

la prendemmo noi. Era ancora calda... Fu molto<br />

buona e saporita...<br />

57


La cosa era bell’e riuscita, al giovanotto. Rusigabèdra<br />

però, che era legato ad un alberello sullo spiazzo,<br />

continuava ad abbaiare incessantemente in direzione<br />

del gregge. Sull’istante, io credetti che volesse essere<br />

soltanto slegato. E così lo sguinzagliai e lo misi in libertà.<br />

Ma nell’ovile chi aveva veramente capito quanto<br />

stava accadendo era proprio il cane che, una volta<br />

sguinzagliato, si proiettò velocemente verso il gregge.<br />

Come una palla di fucile, ululando a testa china tra i<br />

cespugli, con i peli irti sulla schiena. Con furiosi latrati<br />

si avventò contro altri due giovanotti che avevano già<br />

raggiunto le nostre pecore e riuscì a scacciarli via.<br />

– Ma guarda questa gente! Ti volevano fregare qualche<br />

capo (calchi fiàdu), – fece il giovane cacciatore. E<br />

scomparve fingendo di riprendere la sua caccia.<br />

Le pecore non erano molto distanti dalla capanna:<br />

erano sotto i miei occhi. E così ho potuto vedere questi<br />

banditelli che una volta smascherati dal cane non osarono<br />

più far preda nel “mio” gregge e scomparvero anche<br />

loro dietro le querce. Certo per procurarsi una pecora<br />

da un’altra parte presso qualche ovile dove c’era<br />

un altro pastorello come me, che, forse, non aveva la<br />

fortuna di avere un cane come Rusigabèdra.<br />

Di solito banditelli di tal fatta erano servi pastori mal<br />

nutriti, a pane e acqua e raramente formaggio, brodaglie<br />

varie e latte, che in assenza del loro <strong>padrone</strong> si industriavano<br />

a procacciarsi una pecora tra i pastori del<br />

vicinato, a rotazione, per alternare il loro cibo abituale<br />

con una bella scorpacciata di carne arrosto. Il tutto dovevano<br />

fare con molta cautela. Questi servi pastori (custos<br />

teràccos pastòres), non potevano permettersi di es-<br />

58<br />

sere scoperti. La cosa avrebbe messo in cattiva luce l’onore<br />

del <strong>padrone</strong> di fronte alla gente, e avrebbe suonato<br />

come una inconfutabile testimonianza del fatto che<br />

li nutriva male. Spesso era proprio la condotta irreprensibile<br />

dei servi, a garantire al <strong>padrone</strong> il proprio<br />

prestigio sociale, che poi lui sfruttava come “copertura”<br />

quando compiva qualche grassazione. Inoltre i servi<br />

che venivano “scoperti” venivano “licenziati” e messi<br />

al bando dal loro <strong>padrone</strong>.<br />

L’episodio mi scosse. E in cerca di compagnia, una<br />

volta che il giovane “cacciatore” si dileguò anche lui<br />

dietro i cespugli, chiamai il cane che accorse veloce leccandomi<br />

le mani. Mi saltò addosso. E rizzatosi sulle<br />

gambe posteriori, mi avvinghiò e mi abbracciò con<br />

quelle anteriori. Mi leccò la faccia e le orecchie in segno<br />

di contentezza. Non riuscii però a reggere il suo peso e<br />

le sue impennate, sicché mi rovesciò a terra sull’erba.<br />

Andammo insieme quindi a fare un giro per il campo.<br />

Rusigabèdra ustava per i sentieri e i cespugli bagnati. Io<br />

lo seguivo. Di tanto in tanto gettavo un urlo nel silenzio<br />

interminabile e pauroso del bosco. Le mie urla e il fischio<br />

che modulavo, incitavano il cane a scovare le volpi<br />

dalle grotte, dalle forre e dalle macchie. Poi di quel<br />

silenzio, allora, avevo paura e il fatto che lo rompessi io<br />

stesso, anche se lo rompevo con un urlo in parte prodotto<br />

dalla paura, mi metteva coraggio. Così accadeva<br />

che la stessa paura che avevo di quel silenzio generava<br />

tramite le urla una costante di coraggio con cui riuscivo<br />

a vincere il terrore che quel silenzio mi incuteva con la<br />

sua interminabile monotonia.<br />

Ora ho appreso, per averlo vissuto, che un simile<br />

59


comportamento è proprio anche degli animali quando<br />

si smarriscono dietro il <strong>padrone</strong> per le fratte. Così per<br />

esempio, si comportava un mio cucciolo quando si<br />

smarriva per qualche vallata, dietro le mie spalle a causa<br />

della vegetazione.<br />

Senza che lui mi potesse vedere, allora, se io lo richiamavo,<br />

avanzava, sommerso dall’erba e dagli sterpi in<br />

direzione della mia voce ululando per farsi coraggio,<br />

proprio come facevo io con Rusigabèdra.<br />

Ad un tratto quel silenzio fosco e impenetrabile si dileguò<br />

come per incanto. In lontananza si avvertì il potente<br />

raglio primaverile (su órriu eranìle) del nostro somaro.<br />

Rusigabèdra mi lasciò all’improvviso per farsi fedelmente<br />

incontro al <strong>padrone</strong> che ritornava con le provviste. Mi<br />

diressi verso la capanna in attesa che mio padre spuntasse<br />

all’orizzonte dei cespugli sotto gli alberi, scrollando<br />

come al solito le gambe sulle spalle del somaro.<br />

Rusigabèdra gli faceva strada e mi raggiunse sullo<br />

spiazzo leccandomi le mani quasi anch’io dovessi condividere<br />

con lui una comune contentezza che non poteva<br />

esprimersi altrimenti, ma che tradiva un evidente<br />

compiacimento per il ritorno di mio padre e per i cibi<br />

che ci portava nella solita bisaccia. I suoi salti giocosi e<br />

le sue energiche leccate mi dicevano che dovevamo<br />

partecipare insieme alla gioia per l’arrivo del babbo,<br />

del <strong>padrone</strong>, del pane.<br />

– Come è andata oggi? È successo nulla? – Mi fece<br />

come al solito, seduto ancora sul basto non appena<br />

giunse sullo spiazzo a distanza di voce.<br />

Gli raccontai l’accaduto e tutto preoccupato mi ricordò<br />

che le sue lezioni erano sempre utili.<br />

60<br />

– Hai visto quanto è importante seguire quello che ti<br />

dico io? Devi stare sempre attento alle mosse del cane,<br />

che si accorge di tutto. Sente più di noi e ha il fiuto (lèada<br />

su seru) che gli permette di accorgersi anche di quello<br />

che non vede.<br />

– Thiu Juànne mi ha detto che i barracelli custodiscono<br />

il bestiame di tutti, come mai i banditi si fidano così<br />

apertamente?<br />

– Prima di tutto i barracelli non ce li hanno tutti i comuni.<br />

Sìligo ora non li ha. Dipende dalla amministrazione<br />

comunale. In secondo luogo i banditi non hanno<br />

paura dei barracelli. Terzo, quelli saranno stati dei servi<br />

del nostro vicinato in cerca di qualche pecora per cuocersela.<br />

I loro padroni li lasciano morire di fame. Tu in<br />

tutti i casi devi stare sempre attento. Devi sempre ululare,<br />

sempre gridare in modo che tutti sentano che il<br />

nostro ovile è animato.<br />

– Poco fa è passato zio Salvatore. Mi ha detto che stanotte<br />

al servo gli hanno rubato il gregge minuto. Lo<br />

hanno legato a fil di ferro e lo hanno trovato stamattina<br />

a sole alto ancora pieno di brina e tutto intirizzito in un<br />

angolo dell’ovile.<br />

– L’ho già sentito. Bisogna stare molto attenti, bisogna<br />

stare!<br />

La sera quando il babbo ritornava dal paese, mi sentivo<br />

più tranquillo, anche se mi toccava seguire i capricci<br />

del gregge per la tanca, per dove cresceva l’erba migliore<br />

e verso gli alberi che portavano le ghiande più dolci.<br />

Lui lavorava all’oliveto bonificando il terreno, rivoltando<br />

zolle ed estirpando la gramigna ed il cisto (su ràmine<br />

e su mudéju).<br />

61


Spesso anche senza vederlo né notarlo, da lontano,<br />

sentivo il ritmo scatenato del suo lavoro dal continuo<br />

rumore della zappa che lui affossava sulla terra dura e<br />

soprattutto dal tipico frastuono che spesso gli zappatori<br />

producono quando con la loro zappa inavvertitamente<br />

cozzano su una pietra nascosta oppure quando<br />

per pulirla ne sbattono il rovescio contro il primo masso<br />

che capita.<br />

Si era già in febbraio e l’inverno imperversava con<br />

neve e gelo. Thiu Juànne non veniva più con frequenza<br />

come aveva fatto in dicembre e in gennaio. Era malato.<br />

Soffriva di reumatismi. E io dovevo cercare compagnia<br />

con le sbuffate del vento. La capanna di notte, esposta<br />

a tutti i venti, che la filtravano attraverso i pertugi dei<br />

muri rudimentali a secco, quasi in stile nuragico, era divenuta<br />

la mia dimora.<br />

Purtroppo la mia amica capanna non poteva ripararmi<br />

del tutto dal vento gelido e per tutta la notte le raffiche<br />

del vento ululavano tanto che minacciavano di<br />

portarsi via il suo tetto di stoppie. Il freddo spesso mi<br />

svegliava nonostante il ceppo vi rimanesse acceso ininterrottamente<br />

facendo danzare con la sua tremula<br />

fiamma gli arnesi che di giorno ci facevano compagnia<br />

nel lavoro.<br />

I primi freddi di quel terribile febbraio mi regalarono<br />

un tremendo raffreddore che mi accese di febbre. Per<br />

qualche giorno, acceso dal male, mio padre mi lasciò<br />

disteso sulla stuoia al coperto, a pancia a fuoco, in attesa<br />

di segni di miglioramento sotto le sue cure con cui mi<br />

62<br />

aveva guarito l’autunno precedente. Anche in tale circostanza<br />

mi somministrò i rimedi che conosceva: latte<br />

caldo zuccherato, un po’ di chinino. Ma solo il mattone<br />

ardente, avvolto di carta e di stracci che mi cambiava<br />

ogni ora da mettere sul petto dolorante, avrebbe dovuto,<br />

secondo lui, essere la medicina migliore. La mamma<br />

in paese si preoccupava, ma lui era sicuro di guarirmi<br />

nella capanna, così come c’era riuscito in autunno. A<br />

Sìligo una vecchia, thia Fiorentìna, come aveva fatto altre<br />

volte, mi fece gli scongiuri contro il malocchio e il<br />

babbo mi portò degli amuleti (sas pungas) da tenere attaccati<br />

al vestito. Purtroppo né la pietra filosofale del<br />

babbo né gli amuleti riuscirono a guarire i miei bronchi<br />

infiammati. Solo con il respiro emettevano i rauchi<br />

suoni del catarro più acuto. Il mattone mi faceva sudare,<br />

ma non sfebbrare. La fronte scottava sempre e i polsi<br />

pulsavano come percorsi da un fiume in gran tempesta.<br />

In capo ad una settimana, il babbo, quando vide<br />

che le cure non davano alcun segno di miglioramento,<br />

decise di portarmi a Sìligo.<br />

Una sera, munte le pecore, sull’imbrunire (ass’interighinàda),<br />

tutto avvolto di giacche logore e di cenci con<br />

cui avevo trascorso tante fredde giornate, mi mise sul<br />

basto e via in paese.<br />

Faceva molta attenzione a non farsi notare dal vicinato.<br />

Guidava attentamente la bestia perché, come al solito,<br />

per disfarsi del carico, non sfregasse contro i cespugli<br />

o i muri del sentiero (in sos muros de s’ottorìnu).<br />

Bisognava eludere le orecchie dei cani vicini. Era preoccupato<br />

per il gregge, che aveva affidato alla sola custodia<br />

di Rusigabèdra. Ed era meglio passare inosservati.<br />

63


Il vento tirava gelido, mentre io bollivo dalla febbre<br />

dentro gli stracci che il babbo mi rimboccava perché<br />

non rimanessi scoperto. Sudavo e deliravo e bisognava<br />

tenermi perché non cadessi dal basto mentre la bestia<br />

s’industriava a valicare i punti più scoscesi del sentiero.<br />

Le orecchie mi rimbombavano e alle tempie sentivo<br />

l’afflusso del sangue al cervello dove ad ogni battito del<br />

cuore avveniva un’esplosione che mi stordiva continuamente.<br />

Il somaro andava forte incitato dalle gambe<br />

di mio padre che seduto in groppa gliele scrollava dalla<br />

pancia alle cosce.<br />

La notte ormai era già piombata. Sìligo si stava avvicinando.<br />

Le sue fosche e rade lampadine ce lo annunciarono<br />

nel suo silenzio.<br />

Giunti a casa, legò la bestia all’anello. Mi scese dal basto<br />

e mi spinse dentro. Ero esausto. E ricordo solamente<br />

che mi accasciai sul pavimento non appena entrai.<br />

Agitai le gambe e il sonno mi calò con la fronte sul dorso<br />

delle mani, che avevo istintivamente poggiato per terra.<br />

Subito mi ritrovai a letto. In camera entrò il dottore.<br />

Mi levò le coperte e mi aiutò a sollevarmi sul letto. Mi fece<br />

dire trentatre un paio di volte. Mi appoggiò l’orecchio<br />

alle spalle. Auscultò e si allontanò dal letto. Mentre<br />

mi sdraiavo di nuovo notai che sgranò gli occhi e sporgendo<br />

il suo labbro inferiore espresse tutta la sua meraviglia<br />

e la preoccupazione ai miei.<br />

– Questa è una gravissima polmonite doppia, – disse.<br />

– Solo un miracolo potrà salvarlo. Speriamo che ce la<br />

faccia, – continuò allontanandosi per non farsi sentire<br />

da me.<br />

– Ha oltre 41 di febbre. È preoccupante. Tentiamo. –<br />

64<br />

Il dottore aprì la sua borsa. Mi fece una grossa iniezione<br />

alla natica. E mi disse di dormire.<br />

La febbre durò per qualche giorno. Ai polmoni sentivo<br />

dolori atroci e lancinanti come se si stessero dilatando.<br />

Nella disperazione tentavo di chiamare qualcuno.<br />

Ma non ce la facevo. Finivo sempre per sfogarmi nel<br />

pianto solitario della stanza, contorcendomi tra le coperte.<br />

Mia sorella Vittoria un giorno mi sentì gridare e<br />

si avvicinò al letto.<br />

– Hai la broncopolmonite doppia! L’ha detto il dottore.<br />

– Ma... io non guarirò?<br />

– La broncopolmonite non guarisce.<br />

– Ma allora si muore?<br />

– Sì.<br />

– Io, non voglio morireeeee! Non voglio morire! Io<br />

non ho fatto nullaaa... Se muoio, mi portano al cimitero!<br />

Io non ci vado! Ho paura!... Ma io non mi addormento!<br />

Così la morte non potrà portarmi via.<br />

Tre giorni dopo, il dottore come al solito mi rivisitò e<br />

mi misurò la febbre. Lesse il termometro come faceva<br />

tutte le mattine. Si alzò di scatto dalla sedia e mi riauscultò<br />

smaniosamente le spalle.<br />

– Di’ trentatre.<br />

– Trentatre... trentatre... trentatre.<br />

– Ce l’abbiamo fatta. Non c’ha più la febbre! I polmoni<br />

rispondono bene. È tutto cicatrizzato. Che portento!<br />

Non sarei più morto, allora. Potevo dormire.<br />

La convalescenza a Sìligo durò oltre un mese. Fu<br />

65


l’occasione per riallacciare le amicizie perdute e farne<br />

delle nuove. Mi accodavo alle combriccole come avevo<br />

fatto durante la mia infanzia, ma i giochi con i compagni<br />

non mi dicevano più nulla. Essi avevano un’altra<br />

fantasia. Io ero già diverso da loro. Un solo anno di<br />

campagna mi aveva maturato di almeno dieci anni rispetto<br />

a loro. Alla scuola del babbo si imparavano cose<br />

ben più profonde di quelle aste e di quelle consonanti<br />

che loro ora sapevano a memoria. I loro giochi non me<br />

li ricordavo più e non mi attiravano. Solo il silenzio della<br />

campagna e scoprire la natura mi incuriosiva. Volevo<br />

ritornarvi al più presto.<br />

Ero stato fortunato. Avevo superato quel febbrone e il<br />

primo anno di svezzamento che molti pastorelli non riuscivano<br />

a finire. Molti miei coetanei morivano come<br />

agnelli invernali (comènte anzònes berrìles) nati in gelida<br />

notte che i loro padri non riuscivano a imboccare tempestivamente<br />

mentre sbucavano dall’utero della madre. Il<br />

primo anno di campagna era veramente il banco di prova.<br />

Chi lo superava poteva poi sperare di non morire giovane.<br />

Questa volta il mio ritorno, quasi desiderato, coincideva<br />

con la volontà di mio padre. Confesso che non<br />

vedevo l’ora di ritornare in campagna. Ormai mi ero<br />

affezionato a tutto ciò che vi avevo lasciato e mi ero<br />

abituato a sentire e a capire quel silenzio che un anno<br />

prima mi faceva paura. Sulla terra ormai non esisteva<br />

più nulla di tanto apprezzabile e amabile quanto il nostro<br />

campo con i suoi alberi e le sue scoscesità; Rusigabèdra<br />

e le pecore. La natura tutta del nostro campo era<br />

qualcosa di cui ormai io facevo parte. Ero rinato con<br />

66<br />

essa. Ero entrato e ricresciuto nel mondo animale, minerale<br />

e vegetale e non potevo più sentirmene fuori. La<br />

solitudine del bosco e il silenzio profondo dell’ambiente,<br />

interrotto solo dal vento, dai tuoni o dallo<br />

scoppio del temporale in lontananza d’inverno, orchestrato<br />

dal canto degli uccelli e dal crogiolarsi della natura<br />

in primavera, ora per me non era più silenzio. A<br />

furia di ascoltarlo avevo imparato a capirlo e mi era divenuto<br />

un linguaggio segreto per cui tutto mi sembrava<br />

animato, parlante e in movimento. E almeno al livello<br />

affettivo della mia fantasia potevo comprenderlo<br />

e parlarci. Quasi conoscessi tutti i dialetti della natura<br />

e li parlassi correttamente al punto da impostare con<br />

essa, nel mio silenzio raccolto, le uniche conversazioni<br />

che mi erano possibili.<br />

Il discorso sulla matematica naturale di mio padre,<br />

ormai, era divenuto una cosa normale e spontanea. Non<br />

solo avevo imparato a conoscere i nomi dei punti e dei<br />

particolari del campo come avevano fatto gli anziani.<br />

Ero andato oltre. Sulla loro scia, senza che me ne accorgessi,<br />

anch’io denominavo la natura.<br />

A ogni albero, a ogni macigno, a ogni pecora, a ogni<br />

punto o conformazione del terreno del “nostro” campo<br />

o dei monti circostanti e dell’orizzonte, avevo appioppato<br />

un nomignolo affettivo che tenevo segretamente<br />

nascosto in quel silenzio con cui, in un certo modo,<br />

ogni cosa mi parlava e per me era viva.<br />

La mia fantasia trasferiva nomi e figure, vissute durante<br />

la breve infanzia sociale di Sìligo, nelle cose o nella<br />

realtà fisica del nostro campo o dell’orizzonte che osservavo<br />

vivendolo dalla capanna o dal bosco.<br />

67


Tutta la realtà, dagli alberi ai picchi delle montagne,<br />

dalle rocce alle grotte, dalle pecore alle bestie, la rassomigliavo<br />

a persone o cose che io, occasionalmente, avevo<br />

visto altrove. A causa della solitudine, la natura per<br />

me rappresentava un “tu” indefinito: l’unico “tu” amico<br />

con cui poter comunicare senza vergogna né soggezione.<br />

Ogni particolare della realtà circostante mi evocava<br />

un nome che la animava e me la rendeva parlante.<br />

Thiu Pulinàri (un vecchio pastore del vicinato che vedevo<br />

occasionalmente mentre si abbeverava le pecore)<br />

era una roccia lontana che spiccava all’orizzonte su un<br />

monte. Su Gobbe (un povero gobbo che avevo conosciuto<br />

nella mia infanzia di Sìligo e che era divenuto tale<br />

sin da bambino a causa di una incornata di un montone)<br />

ora per me era un albero gobbo del nostro campo.<br />

Questa lingua intima tra me e la natura che, in fondo,<br />

era la lingua del silenzio, mi era divenuta naturale e<br />

familiare quasi la realtà fosse il silenzio e le cose fossero<br />

le sue parole. I nomignoli ed il “taglio” della realtà che<br />

io creavo o facevo all’unisono con quel silenzio, li usavo<br />

anche quando parlavo con mio padre. Gli denominavo<br />

le nostre bestie e le cose come esse parlavano a me<br />

nel loro silenzio.<br />

Così mio padre nei nostri discorsi si immedesimava<br />

nella mia fantasia creatrice senza difficoltà. Non aveva<br />

ancora dimenticato quella della sua infanzia solitaria<br />

vissuta negli stessi luoghi e nelle stesse condizioni. Anche<br />

lui forse aveva denominato persone e cose a furia di<br />

guardarle, ascoltandone il silenzio. La facilità con cui<br />

recepiva i nomignoli che io ingenuamente davo alle cose<br />

ed il modo con cui poi anche lui li usava con me, era-<br />

68<br />

no il segno di come aveva trascorso una infanzia simile<br />

alla mia e che ancora si trascinava nel suo intimo, nella<br />

sua mentalità di pastore temprato.<br />

Spesso facevo dei soliloqui. E a furia di star solo e di<br />

parlare con il mio intimo o con la natura tramite il silenzio,<br />

la parola per me stava perdendo importanza. La<br />

lingua e la gola (sa limba e sa ula), il fiato e le corde vocali,<br />

le usavo solo per emettere gridi ed urla contro le<br />

volpi. Così se all’improvviso mi capitava di dovermi<br />

esprimere nella “lingua sociale” con mio padre e peggio<br />

ancora con altri, mi trovavo impacciato. Non parlavo<br />

quasi mai. E anche se nelle vicinanze c’erano altre<br />

capanne ed altri ovili con i rispettivi pastorelli, non ci<br />

potevo andare. Mio padre me lo impediva. La tradizione<br />

lo proibiva. I padri non permettevano che i loro figli<br />

si incontrassero tra di loro. Avevano paura che si scambiassero<br />

i vizi e si distraessero lasciando il gregge incustodito.<br />

Se talvolta accadeva che noi pastorelli ci si incontrasse<br />

tramite sotterfugi o per caso e i genitori venivano a<br />

saperlo, erano botte furiose. Si aveva paura di incontrarci.<br />

E se casualmente l’uno doveva cadere sotto l’occhio<br />

dell’altro ci si metteva in fuga scappando lungo i<br />

muri di confine.<br />

La paura dell’incontro veniva alimentata anche dal<br />

fatto che quasi sempre tra i pastori del vicinato non<br />

correva buon sangue. Per un motivo o per un altro, si<br />

era sempre in briga. Di solito il motivo principale che<br />

ci inaspriva era il fatto che le pecore di uno sconfinavano<br />

o saltavano nel chiuso dell’altro (in su cunzàdu de<br />

s’àtteru). E per paura dei grandi, i piccoli dovevano<br />

69


ignorare gli ovili vicini o per lo meno ricordarli come<br />

focolai nemici.<br />

D’estate, però, qualcosa cambiava. Le squadre antizanzara<br />

battevano dappertutto le campagne per spruzzare<br />

con il DDT paludi, canali, case e ovili.<br />

Noi che non si faceva mai la transumanza estiva, stavamo<br />

sempre a Baddhevrùstana e così io potevo notare<br />

questi strani visitatori e le loro macchine e attrezzi vari<br />

con cui effettuavano la disinfestazione e si accertavano<br />

della presenza delle zanzare maligne sulle paludi.<br />

Ciò che cambiava l’ambiente d’estate, però, era altro.<br />

Il nostro campo come tutti gli altri, allora, si popolava<br />

e si riempiva di cavallette che allagando pascoli e seminati<br />

(pàsculos e laòres) irrompevano dappertutto come<br />

una fiumana inarrestabile. Nel primo periodo della<br />

mia vita campestre, non esistevano provvedimenti contro<br />

di esse. Nella mia beata ignoranza, questa loro invasione<br />

che per gli altri suonava fame e morìa, per me era<br />

quasi un trastullo e una compagnia. Per le strade e per i<br />

sentieri non si poteva passare né irrompere. Erano letteralmente<br />

gremite e ammantate dalle locuste: un vero<br />

strato di sabbia o di polvere ghiaiosa. Durante certe ore<br />

mi si presentava puntualmente uno spettacolo che mi<br />

attraeva. Il cielo cambiava colore. Da azzurro diveniva<br />

opaco affumicato. L’orizzonte si oscurava di una nebbia<br />

strana. L’atmosfera cambiava e nuvole di cavallette<br />

si addensavano a ciel sereno. Senza tuoni né lampi, subito,<br />

scoppiava il più terribile dei temporali. Le cavallette<br />

fioccavano dall’alto a miriadi, atterrando una sul-<br />

70<br />

l’altra nel vortice delle loro ali. Il sole si eclissava e per<br />

due tre ore non si intravvedeva più, come se sovrastasse<br />

il fumo di un violento incendio. Molti pastori legavano<br />

agli alberi o al grano gli amuleti per esorcizzarle, ma<br />

non c’era nulla da fare.<br />

Tra le pecore sotto la merìa all’ombra di una quercia<br />

allora io mi divertivo a seguire questa ondata devastatrice<br />

che calava in piena estate sotto il sole. Con lo<br />

sguardo fisso mi veniva spontaneo seguire fino al suo<br />

atterraggio una cavalletta così come d’inverno seguivo<br />

un fiocco di neve. E questa “nevicata estiva” me la gustavo<br />

come in inverno mi ero spesso gustato la neve,<br />

dalla finestra della casa di Sìligo, fissandomi con lo<br />

sguardo un punto del terreno o la tegola di un tetto vicino<br />

e aspettando, ansioso, che venisse sommersa da altri<br />

fiocchi giocati e mulinati dal vento.<br />

Così quei meriggi li trascorrevo guardando massi e<br />

cespugli mentre venivano “cavallettati” dal cielo e ne<br />

seguivo la lenta sommersione come quando venivano<br />

coperti dalla neve d’inverno. Le cavallette però fioccavano<br />

a grappoli (a budrònes), e molto più intense e più<br />

veloci di quanto non scendesse la neve. Ma come la neve<br />

dava un aspetto diverso alle vallate ed al terreno,<br />

confondendo tutto nel suo manto uniforme, così le cavallette<br />

riempivano solchi e fossati con la loro turbinosa<br />

ed inarrestabile grandine. La sola differenza che colpiva<br />

la mia fantasia era che il manto della neve rimaneva<br />

immobile e bianco nella sua lucentezza, mentre<br />

quello che si formava quando il cielo “cavallettava”,<br />

ondeggiava come la distesa di un campo di grano spigoso<br />

al soffiare del vento, a seconda del capriccio fre-<br />

71


netico di questi insetti voraci. Il terreno appariva mosso<br />

e danzante. Era come se fosse coperto da una neve<br />

animata che si muoveva e si spostava seguendo la sua<br />

danza affamata.<br />

Quando un campo veniva così “cavallettato”, il primo<br />

giorno appariva un suggestivo tappeto privo dei cespugli<br />

e dei sassi. Due o tre giorni dopo sassi ed arbusti<br />

spiccavano sopra quel manto divoratore, spogli e rosicchiati<br />

(isfozìdos e rozzigàdos). Resti di un terribile incendio<br />

e di un vorace bivacco. Dopo una settimana<br />

quel manto si sprofondava sempre di più, affossandosi<br />

sulla superficie creando delle piazzuole enormi, una<br />

confinante con l’altra. Il campo sembrava arato, pronto<br />

per la semina. Le radici del pascolo e del fieno scomparse.<br />

E si intravvedeva solo la terra polverosa e corrosa<br />

dalla devastazione, come un maggese erpicato. Alla<br />

fine anche i robusti tronchi dei rovi, dei sugheri (de sos<br />

chercos e de sos suèsos), i massi e i muri avevano cambiato<br />

aspetto. Così anche i macigni potevano cambiare i<br />

loro “vestiti” e farsi la “barba”. La loro antica lanugine<br />

veniva completamente rosicchiata. I sugheri che si stagliavano<br />

con i loro tronchi sanguigni (quasi a testimoniare<br />

la sofferenza e la povertà dell’ambiente) e gli alberi<br />

tutti sulla loro scorza riportavano le cicatrici di<br />

questa fame dilagante. Insomma questi insetti divoravano<br />

tutto: per essi non esisteva nulla di velenoso tra le<br />

erbe e le piante. Era una pulizia generale. La visita della<br />

fame doveva lasciare tutto ripulito.<br />

La furia era proporzionale al caldo. Solo al crepuscolo<br />

la loro devastazione veniva meno, anche se non cessava<br />

la loro fame. Il fresco e la brezza della sera impac-<br />

72<br />

ciavano le loro ali e le rattrappivano, togliendo loro la<br />

forza di mangiare. Così trascorrevano tutta la notte accavallate<br />

una sull’altra in silenzio e immobili fino alla<br />

tarda mattinata.<br />

All’alba, specie se durante la notte scendeva la rugiada,<br />

quella distesa mi appariva inanimata. E se per caso<br />

ne prendevo un pugno osservavo che le locuste potevano<br />

muovere a stento solo le gambe e la bocca.<br />

In queste ore i maiali di ogni ovile (e così cani, volpi<br />

e rapaci) uscivano a cavallettare (a tilibiscàre). La mattina<br />

presto in due ore si saziavano (s’azzibbaìana e si<br />

faghìana a boe) senza faticare né correre, quasi le locuste<br />

le bevessero dal terreno senza ricorrere alla caccia.<br />

Se però ai maiali veniva l’uzzolo durante le ore calde<br />

(il loro <strong>padrone</strong> non aveva molto mangime), uscivano<br />

lo stesso. Prenderne allora non era facile. Si affidavano<br />

all’istinto. Quelli più bravi e più abili nella corsa,<br />

riuscivano a catturarne ugualmente. Correvano all’impazzata.<br />

Senza sosta. Avanzavano senza una direzione<br />

precisa e senza meta con la bocca spalancata come<br />

una trappola in agguato. La corsa costringeva le cavallette<br />

a levarsi in volo capitando spesso tra le fauci affamate<br />

che quasi istintivamente si alternavano in un<br />

ritmo incessante. Si aprivano e si chiudevano ora per<br />

inghiottire le malcapitate, ora per rimettersi in agguato<br />

e cacciarne altre. Così i pastori per uno strano<br />

scherzo della situazione a onta della carestia in quegli<br />

anni, almeno nel periodo estivo, avevano grassi i maiali.<br />

Certo per le altre bestie era un problema. Le pecore<br />

a mala pena riuscivano a portare avvolto dalla loro<br />

pelle slanata lo scheletro del loro corpo per gli inter-<br />

73


stizi tra un’aiuola e l’altra che le cavallette quasi come<br />

limite di confine risparmiavano e dimenticavano di divorare.<br />

Spesso te le vedevi arrampicare e cadere per le<br />

colline dove di solito le locuste non si calavano. Comunque,<br />

spinti da una fame che lentamente li stava<br />

portando alla morte, spesso gli erbivori si trasformavano<br />

in insettivori. Una vera tragedia che li poneva come<br />

esseri altri da sé. Spesso mi capitava di vedere Pacifico<br />

farsi scorpacciate di cavallette che divorava insieme<br />

al poco fieno che la mattina trovava ammorbidito<br />

dalla rugiada. Più impressionante era vedere le<br />

pecore in quell’inesorabile lotta contro la morte. A testa<br />

bassa e chine la mattina non trovando altro sul loro<br />

campo mangiavano un pascolo animato: la neve<br />

estiva terribile e vorace. E mentre masticavano le locuste,<br />

sembrava esprimessero quasi una sfida contro<br />

la stessa natura, contro le locuste quasi a dire: “tu mi<br />

mangi il fieno e io mi mangio te.”<br />

La gente era disperata dalla fame e i rimedi rudimentali<br />

riuscivano inefficaci contro questo flagello. Gli ortolani<br />

circoscrivevano i loro orti con paglia o fieno misto<br />

a frasche che facevano bruciare lentamente. Il fumo<br />

era un rimedio abbastanza efficace. Ma dove c’era<br />

il bestiame, questo sistema non si poteva applicare.<br />

Non restava che intervenire fisicamente. La mattina i<br />

pastori approfittando della immobilità e della fiacchezza<br />

delle locuste, imitando i maiali, cavallettavano<br />

anch’essi.<br />

Provvisti di teloni, di sacchi logori e di scope di asfo-<br />

74<br />

delo o di erica (de ischeréu o de cantentàsu), assalivano i<br />

loro campi per debellare il nemico. Dispiegavano i teloni.<br />

Agitavano le scope ululando con contorsioni nervose<br />

dei corpi. Strisciavano i piedi per terra e con azioni<br />

di disturbo vi facevano capitare le cavallette con la<br />

loro marcia lenta e con il loro volo incerto ed inceppato.<br />

Quando il telone veniva sommerso dagli insetti, lo<br />

prendevano per le cocche e avvicinandole, buttavano<br />

tutto nei sacchi, che una volta legati e caricati sui loro<br />

somari, portavano nei rispettivi comuni, dove l’amministrazione<br />

comunale per incentivarne la caccia retribuiva<br />

questi “cacciatori” in ragione dei chili che vi portavano.<br />

Tristi aurore (tristes avvéschidas). Sempre il solito<br />

spettacolo. Maiali, cani e tanti altri animali, bisce,<br />

cornacchie e volpi (colòras, corróncias e groddhes) scorrazzavano<br />

in cerca di cavallette.<br />

La risposta dei pastori, però, era una nota dolente.<br />

Gareggiavano con le bisce e le cornacchie anch’essi<br />

nella caccia riempiendo e legando, tragicamente pieni<br />

di cavallette, quegli stessi sacchi che per tante annate<br />

avevano riempito di grano o d’avena. E tutti presi dalla<br />

caccia se li lasciavano ritti dietro le spalle quasi fossero i<br />

covoni del loro raccolto sui campi dove magari avrebbero<br />

potuto mietere il grano ormai “tosato”: mietuto e<br />

trebbiato dagli insetti. Le strade erano animate dall’andirivieni<br />

dei somari che in continuazione trasportavano<br />

i sacchi ai comuni. L’opera purtroppo riusciva inutile.<br />

L’assalto dei maiali, degli altri animali, imitato ad arte<br />

dai pastori si risolveva nel nulla. Come togliere un<br />

secchio d’acqua dal mare. Le cavallette si riproducevano<br />

in modo pauroso. La terra le pullulava dappertutto.<br />

75


Migliaia e migliaia di uova si schiudevano giorno per<br />

giorno sotto l’azione del sole. Tutta la terra sembrava<br />

un’immensa sorgente di locuste, turbinata dall’interno<br />

dallo schiudersi delle uova e bombardata e crivellata<br />

dall’esterno dalle cavallette che vi piombavano e vi<br />

grandinavano durante i lunghi meriggi. E come quando<br />

durante i lunghi temporali è costretta a pullulare<br />

d’acqua e di polle oltre che a subire gli scrosci continui<br />

del cielo, la terra similmente traboccava di locuste per<br />

ogni dove. Così i pastori senza saperlo venivano a trovarsi<br />

in un mare e non nella palude di cavallette che essi<br />

credevano di prosciugare con i secchi della loro costanza<br />

e della loro rabbia svuotandoli nello stesso mare.<br />

I pastori si preoccupavano sempre di più. Non si sapeva<br />

come fare. Si ricorse agli esorcismi. Le vecchie facevano<br />

per i singoli campi la formula contro il malocchio<br />

e molti amuleti, come per qualsiasi altra disgrazia<br />

capitasse, si disseminavano per i campi o si appendevano<br />

agli alberi. Le cavallette misero in crisi tutta quella<br />

superstizione antica: con o senza amuleti esse avanzavano<br />

travolgendo tutto e spesso arrivavano anche a<br />

mangiarsi gli amuleti appesi al grano o alle viti, quasi<br />

volessero dimostrare che erano <strong>padrone</strong> di tutto. In occasione<br />

delle feste patronali il parroco pregava incitando<br />

i fedeli a fare altrettanto.<br />

Alcuni tra i più ferventi portavano ripetutamente il<br />

loro parroco addirittura nei propri pascoli o nei propri<br />

seminati. Il parroco, sempre pronto a soddisfare i fedeli,<br />

non si faceva aspettare. Si avviava con il suo seguito<br />

(cun sa cufarìa) a fare le processioni per i boschi e per le<br />

pianure. La processione sostava presso un seminato o<br />

76<br />

un pascolo. Tutti si mettevano a pregare con gli occhi<br />

raccolti e le mani rivolte al cielo, mentre per terra le cavallette<br />

pascevano.<br />

Le ragazze e i chierichetti intonavano canti adeguati<br />

alla circostanza insieme alle mogli e alle sorelle del proprietario.<br />

Il parroco, anche lui assorto nel canto, con<br />

gesto abituale riconduceva tutti al silenzio. Pronunciava<br />

gli scongiuri in latino, accompagnandoli con spruzzate<br />

di acqua santa, prima che si sperdessero nel silenzio<br />

del campo. Alla fine i chierichetti avevano l’incarico<br />

di prendere per lui e per la parrocchia i doni del pastore<br />

o dell’agricoltore che aveva chiesto la benedizione. E<br />

via verso un altro campo.<br />

Si racconta che in un paese dei dintorni, alla festa di<br />

San Narcisio, dopo la processione per il paese, i credenti<br />

portarono per i campi vicini il santo. Ultimate le<br />

preghiere di rito e la dovuta benedizione, alla fine lo<br />

deposero con lo scopo di fugare le cavallette su una collina<br />

che dominava una ubertosa e fertile valle cerealicola.<br />

Il parroco, dopo aver benedetto la vallata, data una<br />

ennesima benedizione con abbondanti spruzzate di acqua<br />

santa, si mise alla testa del corteo per fare ritorno in<br />

paese. Il giorno era caldo. E nel primo pomeriggio, a<br />

onta di San Narcisio, le cavallette grandinarono sullo<br />

spiazzo e sul suo simulacro di legno. In capo a due giorni<br />

i fedeli andarono a riportarlo in chiesa e con grande<br />

stupore lo trovarono monco di un braccio e rosicchiato<br />

da per tutto.<br />

Finalmente vennero provvedimenti più efficaci e più<br />

organizzati. Le varie amministrazioni comunali ingaggiarono<br />

apposite squadre anticavallette che durante<br />

77


l’estate battevano ed animavano le campagne. Il loro<br />

intervento, però, anche se tempestivo, si rivelò inefficace<br />

sin dall’inizio. Era sempre un intervento localizzato<br />

come quello dei teloni dei pastori. Si trattava infatti di<br />

squadre fornite di lanciafiamme a benzina da usare sui<br />

punti dove le cavallette si ammassavano. Ma le uova<br />

che la terra conteneva e fecondava erano inesauribili e<br />

nonostante i campi fossero ridotti a piazzuole nere e<br />

sparse di roghi, continuamente, il giorno successivo<br />

erano sempre zeppi di nuove locuste più affamate,<br />

giunte in volo o sbucate dalla terra.<br />

La stessa cosa accadde più tardi con la “crusca avvelenata”<br />

che i pastori erano obbligati a spargere per il<br />

proprio campo, ma sempre in maniera localizzata. Succedeva<br />

che la benzina si esauriva, la crusca avvelenata<br />

finiva, ma le cavallette aumentavano sempre quasi per<br />

incanto. Calavano dal cielo o spuntavano dal suolo,<br />

dalle uova dell’anno precedente.<br />

Il loro ciclo vitale durava da maggio a luglio. Ma<br />

quanta strage. Negli ultimi giorni della loro vita covavano<br />

nel suolo, crivellandolo letteralmente con il loro<br />

culo acuminato per deporvi le uova. Io osservavo questa<br />

operazione con curiosità. La femmina si disponeva<br />

in un punto del terreno (duro e possibilmente solido).<br />

Lentamente con il culo appuntito cercava di far breccia<br />

sforzandosi sulle zampe. Una volta che il suo culo era<br />

indirizzato verso il suolo, quattro compagni le si affiancavano<br />

e la sorreggevano ritta dirigendola e spingendola<br />

verso il basso perché la coda penetrasse più profondamente<br />

possibile. Così sorretta, con il culo allungato<br />

dallo sforzo e per metà sprofondato nella terra, secer-<br />

78<br />

neva dei succhi e in breve fabbricava una specie di capsula<br />

impenetrabile all’acqua invernale e al freddo comune<br />

e vi deponeva le uova senza mai muoversi. Finita<br />

questa operazione, i compagni che avevano solo il compito<br />

di spingere e sorreggere la femmina mentre avveniva<br />

la deposizione delle uova, si allontanavano uno alla<br />

volta lasciando che la femmina completasse il proprio<br />

compito.<br />

Lungo i sentieri quando passavo con il gregge dietro<br />

il suo nembo di polvere, io potevo osservare l’ultima<br />

operazione delle cavallette prima che morissero. Ai lati<br />

del sentiero o dove si passava, questi gruppi a cinque si<br />

sperdevano a vista d’occhio. Qualcuno, anzi, lo segnalavo<br />

per rivedermelo a due o tre ore di distanza. Quando<br />

ci ripassavo potevo notare che il culo della femmina,<br />

ben sorretta dai compagni, era sprofondato sempre di<br />

più. Spesso il gruppo lo trovavo già disciolto. Qualche<br />

volta mi divertivo a scavare per estrarre la capsula delle<br />

uova, e spesso a schiacciare questi gruppi in azione finché<br />

non mi stancavo.<br />

Un’operazione più efficace venne però nel quarantasei<br />

tramite l’irrorazione periodica dei pascoli, a rotazione,<br />

con l’arsenico. I pascoli venivano completamente<br />

avvelenati più volte, a turno e per contrade, in tutto il<br />

territorio del comune (a cussòsas, in s’aidattòne), in modo<br />

da consentire ai pastori di sfamare il proprio gregge<br />

senza che corresse il rischio di morire avvelenato. I<br />

chiusi divenivano pascolabili dopo una leggera pioggia<br />

o dopo un determinato periodo. Il veleno era potente.<br />

79


Terribile. Nessuna cavalletta che si trovasse sul campo<br />

o vi sopraggiungesse in volo o vi sgusciasse dalle capsule<br />

poteva sopravvivere. Finalmente la campagna a poco<br />

a poco cambiò aspetto al punto da sembrare un campo<br />

nevicato da una grandine vulcanica e rossiccia. Da una<br />

“neve” di insetti morti e bruciati dal veleno, che non<br />

ondulava né giocava più il terreno nell’orgia della sua<br />

danza famelica.<br />

Con queste squadre feci alcune conoscenze. Era quasi<br />

tutta gente di Sìligo e spesso anche parenti. Solo che<br />

io non potevo godere della loro fugace e transitoria<br />

compagnia. Ormai l’annosa solitudine mi aveva contratto<br />

la soggezione verso gli altri. E solo da lontano e<br />

spesso dall’interno dei cespugli, ben nascosto per non<br />

essere notato, riuscivo ad osservare il loro comportamento,<br />

i loro scherzi e le loro azioni.<br />

Nonostante stessi quasi sempre lontano da loro e li<br />

osservassi quasi sempre da lontano, qualcosa riuscii a<br />

imparare. E quando ero da solo, cercavo di imitarli.<br />

Passata la stagione anticavallette, la mia vita ritornò ad<br />

essere quella di prima. Mi rinchiusi di nuovo nel silenzio.<br />

Quando passava qualche cacciatore facevo di tutto<br />

per scomparire. Se non me ne davano il tempo, mi infrattavo<br />

nella macchia o mi abbassavo dietro i macigni<br />

o i mucchi di pietra (a isségus de sos crastos o de sas moridìnas)<br />

o mi rintanavo dentro le cavità delle querce (intro<br />

de sas tuvas de sos chercos). Spesso correvo il rischio<br />

addirittura di essere scambiato per selvaggina da parte<br />

dei cani. Io, però, non potevo comportarmi altrimenti.<br />

Non ero in grado di parlare con nessuno. Mi vergogna-<br />

80<br />

vo e avevo soggezione della presenza altrui. Conoscevo<br />

solo le pecore, le cose del nostro campo e il suo silenzio<br />

che nella sua parola segreta non poteva gabbarmi né<br />

burlarsi di me, come spesso facevano i ricchi cacciatori<br />

che non sfuggivo in tempo e che conoscevano bene la<br />

mia condizione.<br />

Compiuti i sette anni, dopo quasi due anni di divagamento,<br />

nella mia vita avvenne una rivoluzione. Ero già<br />

in grado, una volta che mi ci si metteva, di tenermi sul<br />

somaro ed avevo imparato quasi a trovare da solo la<br />

strada da Baddhevrùstana a Sìligo.<br />

Mio padre poteva già rischiare di farmi fare il percorso<br />

per portare il latte in caseificio. Fu una grande conquista<br />

per me. Avevo la possibilità di rivedere spesso i<br />

miei fratelli e mia madre. Almeno per qualche ora, potevo<br />

godere della loro compagnia e mangiare qualcosa<br />

di caldo a tavola. Di questa mia conquista anche mio<br />

padre era contento e fiero. Per lui era una cosa grande.<br />

Poteva starsene tutto il giorno all’oliveto come voleva,<br />

una volta che aveva munto le pecore e mi aveva messo<br />

sul somaro e me lo aveva immesso nel sentiero verso Sìligo.<br />

Mi ricordo bene il grande giorno. Una mattina, quando<br />

il somaro era già pronto con il carico (i bidoni del<br />

latte, la bisaccia e un po’ di legna per casa), mio padre<br />

mi adagiò sul basto. Mi mise in mano la fune di guida e<br />

via. – Stai attento a non cadere, la strada la troverà l’asino<br />

da solo, se tu non la ricordi. Tu lascialo andare, – mi<br />

disse mentre mi allontanavo dalla capanna. – Tieniti<br />

81


forte al basto e stringilo bene con le gambe. Se l’asino<br />

cercherà di correre tira la fune e non cadere.<br />

Il somaro camminava affossandosi nel sentiero senza<br />

che io lo guidassi. Uscire dal bosco per imboccare la<br />

strada maestra per Sìligo, ora, mi sembrava ancora più<br />

difficile del solito. Quanti saliscendi stavo notando!<br />

Ma ero contento. Stavo andando a Sìligo. Mi dondolavo<br />

sulla bestia e per la prima volta mi sentii un uomo di<br />

campagna. Mi sembrava che fossi veramente io a guidare<br />

il somaro. Finalmente l’asino imboccò la strada<br />

bianca. Lì era più facile anche perché in caso di difficoltà<br />

avrei sempre trovato pastori o agricoltori di passaggio.<br />

Il giorno era bello ed il sole mi stava scaldando<br />

dentro il mio cappotto.<br />

Giunto così nelle vicinanze di Sìligo, mi fu possibile<br />

riconoscere posti che già conoscevo: sa cheja de Mesu<br />

Mundhu su riu de Iddha Noa e issa iscia. Sìligo lo avrei<br />

trovato. Esultante giunsi al caseificio (a sa casàra). Solo<br />

che non sapevo come scendere dal basto. Mi sembrava<br />

di essere collocato in un punto non scendibile. Alcuni<br />

pastori amici del babbo, però, mi presero la fune di<br />

mano. Legarono la bestia e mi tirarono giù dal basto.<br />

Mi scaricarono i bidoni del latte e me li portarono dentro<br />

l’edificio. Misurarono il latte e mi ricaricarono di<br />

nuovo i bidoni con il siero sulla bestia. Mi rimisero a<br />

cavallo e via a casa. Per me fu una gioia immensa. Mia<br />

madre mi ridiscese dal basto. Legò il somaro e finalmente<br />

entrai in casa a scaldarmi. C’era un grande fuoco.<br />

Mia madre mi rifocillò. Mi fece il solito bagno antipulce.<br />

Mi cambiò e per un’ora potei scorrazzare per<br />

Sìligo.<br />

82<br />

Purtroppo non andava sempre così. L’asino era vecchio<br />

e faceva le bizze. Andare a Sìligo era sempre più<br />

difficile. In dicembre la mattina presto (chitto chitto)<br />

faceva molto freddo. E quando il babbo, dopo la mungitura,<br />

mi metteva in groppa, il sole spesso non era ancora<br />

sorto. Quando la notte faceva sereno e brinava, all’ora<br />

della partenza i campi sembravano nevicati. Per<br />

me era un martirio fare un’ora e mezzo di trotto su un<br />

somaro “arrogante e vizioso”.<br />

Immobile in groppa, il freddo era insopportabile. Io<br />

non potevo rischiare di scendere per scaldarmi sui passi.<br />

Mi sarebbe toccato fare tutto il cammino a piedi. E<br />

questo sarebbe stato ancora il meno.<br />

Se per caso cadevo dal basto o cadeva la bestia o me<br />

ne scendevo disperato tutto intirizzito dal freddo, una<br />

volta a terra, il somaro si fermava: non camminava più e<br />

si metteva di traverso per la strada. Mi toccava quindi<br />

affrontare la situazione in groppa. Già dopo un quarto<br />

d’ora di strada, il freddo mi prendeva ai piedi e alle<br />

gambe pendenti e nude fuori dai pantaloni arrotolati.<br />

A metà strada, a Riu Ruzu, i piedi li avevo già cancrenati<br />

al punto che mi mettevo a strillare e a piangere disperatamente<br />

dentro il cappotto del babbo. Il volto livido,<br />

con il corpo rattrappito e curvo sul basto in balia del<br />

passo della bestia, quasi per forza di inerzia mi tenevo<br />

con le mani nude e screpolate dal freddo.<br />

Le mie urla e il mio pianto riempivano le vallate ora<br />

brinate e ora annebbiate lungo la strada maestra e spesso<br />

impietosivano qualche pastore che veniva, umanamente,<br />

a soccorrermi. Una mattina di brina (de astràdu),<br />

mentre ululavo per il dolore ai piedi congelati, al-<br />

83


l’improvviso dal suo chiuso sulla strada balzò un pastore.<br />

Era Tonni. Mi sbarrò la strada. Fermò il mio somaro<br />

e mi portò nella sua capanna. Mi fece scaldare a distanza.<br />

Gradatamente. Mi offrì un bicchiere di latte tiepido<br />

con un po’ di sale. – Non avvicinare molto le mani e i<br />

piedi gelati al fuoco, se no sentirai un dolore tremendo...<br />

Bisogna disgelarli pian piano, anzi... anzi, infila le<br />

mani dentro il paiuolo, nel siero (intro su labiólu, in sa<br />

jotta). Stavo proprio facendo la ricotta quando ti ho<br />

sentito ululare come un cane smarrito... Come te le senti?<br />

– Ora ho caldo alle mani, ma, i piedi...<br />

– Tra un po’ non sentirai più nulla. Mah!... Non poteva<br />

andarci tuo padre a portare il latte? – mi disse chino<br />

attizzando il fuoco.<br />

– Sta potando la vigna e deve lavorare all’oliveto (est<br />

illistrènde sa inza e dèvede trabagliàre in issu oliàriu), –<br />

feci io rinvenendo dal freddo.<br />

– E già! Dèvede illistrìre sa inza! – continuò muovendosi<br />

per la capanna. Ben riscaldato, Tonni mi rimise in<br />

groppa sulla strada per Sìligo, mentre dalla bocca sbuffavo<br />

una striscia di vapore quasi palpabile. Questo per<br />

me fu un giorno fortunato. Quasi sempre mi toccava<br />

fare tutta una tappa. Arrivavo al caseificio congelato,<br />

tutto di un pezzo. Non ero in grado nemmeno di scivolare<br />

giù di groppa. I pastori lo sapevano. E appena arrivavo<br />

mi scendevano e mi portavano al fuoco dove si<br />

scaldavano le caldaie del latte (a issa furràzza).<br />

Spesso il viaggio andava anche peggio. Al congelamento<br />

in groppa, si aggiungevano altre complicazioni:<br />

le bizzarrie della vecchiaia della bestia. Il somaro era<br />

84<br />

“vizioso” e con me ne approfittava. Per sbarazzarsi del<br />

carico sfregava i cespugli e le piante dove passava.<br />

Spesso si coricava per terra nonostante mi aggrappassi<br />

disperatamente al basto e alla cavezza, o cadeva apposta<br />

per liberarsi del mio gelido peso. Io allora ruzzolavo<br />

per la strada e non mi restava che rimettermi in piedi.<br />

Piangere e urlare nella speranza che mi sentisse<br />

qualcuno. In tali circostanze, mentre la bestia si riposava<br />

sdraiata per la strada, ad aiutarmi era thiu Zirómine,<br />

il cantoniere. Per me allora era divenuto un protettore.<br />

Sulla strada lo incontravo sempre e mi aiutava<br />

per qualsiasi cosa.<br />

Un giorno sul rettilineo di Capiàna mi capitò una cosa<br />

di cui avevo avuto sempre paura. I carabinieri a cavallo<br />

che mi venivano incontro. La bestia andava piano<br />

piano di contro al ritmo sfrenato dei loro cavalli. Colto<br />

all’improvviso mi sentii come qualcosa che dovevo essere<br />

necessariamente catturato e preso da loro. Sulla<br />

groppa della bestia mi venne in mente un episodio di<br />

cui mi ero dimenticato o credevo di aver dimenticato.<br />

E quasi non fossi più sul somaro, le immagini di quel ricordo<br />

che andava affiorando mi assalirono. Durante la<br />

guerra, quando non avevo più di quattro anni, in base a<br />

un ordine di requisizione, i carabinieri irruppero in casa<br />

e senza chiedere né permesso né niente si misero a<br />

perquisire la casa.<br />

– Dove tiene le provviste, signora? – chiese il brigadiere.<br />

– Nel solaio, – rispose la mamma.<br />

Il brigadiere salì con i gendarmi e guardò la roba.<br />

– Prendete mezzo maiale. Qui ce n’è uno intero.<br />

85


– Per carità, – fece la mamma. – Io sono sola. Mio marito<br />

è soldato. I miei figli debbono mangiare!<br />

– Eh... signora! Non è colpa mia... Io sto facendo il<br />

mio dovere. Lei, però, può star tranquilla: gliene stiamo<br />

lasciando la metà proprio perché suo marito è dove<br />

è. C’è gente però che di maiale non ne mangia più da<br />

anni. Questa roba va al fronte... A quei poveretti che ci<br />

stanno difendendo con il loro sangue. Prendete anche<br />

un po’ di grano, – continuò il brigadiere. – Signora!<br />

Non è che ne ha nascosto dell’altro in qualche parte,<br />

come fanno molti, per le grotte in campagna o sotto<br />

terra dentro le damigiane? C’è una contravvenzione salata.<br />

Il sequestro del grano...!<br />

– È tutto qui.<br />

– Che sia la verità. Ci può andar di mezzo suo marito.<br />

Mi ritornò in mente l’immagine dei carabinieri con<br />

mezzo maiale tra le mani e la paura aumentava sempre<br />

di più. Il rettilineo era lungo, ma la distanza diminuiva<br />

continuamente. E quando me li vidi a cinquanta metri<br />

non seppi resistere. Scivolai di groppa. Abbandonai il<br />

somaro con i bidoni e mi misi a correre scappando sulla<br />

strada ghiaiosa verso Baddhevrùstana. Thiu Zirómine,<br />

che veniva appunto da Sìligo in bicicletta lungo la sua<br />

strada, una volta sorpassati i gendarmi, mi raggiunse<br />

quasi in preda al delirio che mi aveva sbloccato dal gelo.<br />

– Perché stai correndo? Perché stai scappando e<br />

piangendo? Cos’hai?<br />

– Ci sono i carabinieri, – feci disperato.<br />

– Ma... hai fatto nulla? Hai combinato qualcosa?<br />

– Noooo! Noooo! No! Io non ho fatto nulla!<br />

86<br />

– E allora di che hai paura?<br />

– Quelli si prendono tutto. Mi prendono e mi mettono<br />

in prigioneeee... Una volta sono entrati in casa in<br />

paese e si sono presi mezzo maialeee!<br />

– Cosa stai dicendo. Era tempo di guerra. Ora quelli<br />

cercano solo i banditi... Fermati! Ci sono io, no?<br />

Thiu Zirómine con i suoi ragionamenti riuscì a farmi<br />

rallentare la corsa. Mi sbarrò il passo con la bicicletta.<br />

Scese per terra. Mi prese per mano e mi fermò. I carabinieri<br />

ci passarono subito davanti. Forse capirono la cosa<br />

e per fortuna filarono dritti. Il cantoniere mi ricondusse<br />

dal somaro che profittando dell’occasione si era<br />

coricato sulla strada. Thiu Zirómine a furia di botte e di<br />

calci riuscì a metterlo in piedi con il carico che equilibrò<br />

alla meglio e mi rimise in marcia sulla bestia.<br />

La bestia però, stava invecchiando e con l’andar del<br />

tempo diveniva più bizzosa. Mio padre, subito pensò<br />

anche a questo. Si recò alla fiera del bestiame in cerca<br />

di un somaro più giovane. Prima di assentarsi, si fece<br />

sostituire da thiu Costantìnu cui affidò il gregge, il cane<br />

e me stesso.<br />

Thiu Costantìnu era molto simpatico. Sempre sorridente<br />

e rubicondo con il sigaro in bocca a fuoco dentro<br />

(per non farselo spegnere dal vento e dall’acqua e di<br />

notte anche per non farsi notare). Era di costituzione<br />

robusta e un grande bevitore. La sera che giunse all’ovile,<br />

dopo che mio padre gli diede le consegne, sull’imbrunire,<br />

ci recammo alla mandra per mungere il gregge.<br />

Io glielo condussi dal pascolo e glielo rinchiusi dentro<br />

escludendone i capi non da latte, il montone e gli<br />

agnelloni.<br />

87


Il buio scendeva dai monti confondendo tutto. E la<br />

luna piena all’orizzonte, proiettava, lunghe, le ombre<br />

degli alberi e delle cose. Il gregge nel recinto, ben disposto<br />

per la mungitura, si ruminava nel frattempo quanto<br />

aveva nel rumine (remuszaìada cantu jughìada in sa<br />

entre bizzàdile). Tra la brezza della sera, l’odore che<br />

esalava dalla bocca delle pecore, si diffondeva dominando<br />

sugli altri odori. Thiu Costantìnu assiepò l’accesso<br />

della mandra con un cespuglio (cun d’unu càlamu)<br />

e valicò la siepe con il secchio (cun sa cannàda). Entrò.<br />

Si abbassò con il secchio tra le cosce adagiandovisi<br />

quasi fosse uno sgabello. Gettò una fortissima scorreggia.<br />

Rispose alla mia risata e la sua faccia nella penombra<br />

si stagliò con le sue guance rosse. Abbassò la testa.<br />

Si fece sulla prima pecora. La prese per la mammella si<br />

sputò l’indice ed il pollice della mano destra e incominciò<br />

a scapezzolarla.<br />

Io dall’esterno mi ascoltavo lo scroscio del latte mentre<br />

usciva dalle poppe. E Thiu Costantìnu inumidendosi<br />

di tanto in tanto le dita nella schiuma del latte fece<br />

tutto il giro del recinto mungendo le pecore una per<br />

una. Con lui mi divertivo e non mi fece rimpiangere<br />

l’assenza del babbo. La notte dormivo al suo fianco.<br />

Mi copriva bene. Si metteva il suo bariletto del vino a<br />

guanciale. Si distendeva e si ricopriva scaldandomi con<br />

il suo fianco mentre fumava il suo sigaro. Spesso un<br />

glu-glu-glu concitato mi svegliava nel silenzio della capanna.<br />

Thiu Costantìnu tracannava dal suo bariletto.<br />

Dopo tre giorni, di sera, finalmente sulla radura della<br />

88<br />

capanna, spuntò mio padre con un somaro nero, grosso<br />

e lanuto. Sembrava un cavallino.<br />

Era molto alto e montarlo mi sembrava difficile. Però<br />

era ben domato e mansueto. Il suo trotto era veloce e<br />

ora potevo essere certo che il mio somaro non si sarebbe<br />

più fermato né coricato per strada. Sulla strada, anzi,<br />

ora potevo gareggiare al trotto con gli altri pastori. Il<br />

nostro Pacifico, così lo aveva denominato mio padre,<br />

allora era il somaro più grande e più forte di Sìligo. Ero<br />

orgoglioso di cavalcarlo.<br />

Anche se ora ero già “grande” e in grado di portare il<br />

latte a Sìligo con Pacifico, in paese non è che ci andavo<br />

ogni giorno. Anche il babbo doveva sbrigare le sue faccende.<br />

Vedere i miei fratelli e la moglie. Quindi era lui<br />

che spesso andava a Sìligo. Il mio divagamento, tutto<br />

sommato, veniva interrotto, per un’ora, due tre volte la<br />

settimana. Per il resto, continuavo a star solo con le pecore.<br />

Le conducevo al pascolo per il campo. I cani mi<br />

facevano sempre strada. E dietro di loro riempivo di<br />

gridi e di urli i sentieri e le valli che percorrevo per farmi<br />

coraggio e per mettere in fuga le volpi che, specie<br />

nelle giornate piovose, calavano al piano minacciose in<br />

cerca di cibo.<br />

Quando pioveva, un “ombrellone verde d’incerata”<br />

era la mia dimora, mobile, a seconda del piacere e delle<br />

abitudini del gregge che si spostava a suo piacimento<br />

in cerca di cibo o di riparo dal vento (de mànigu o de<br />

abbàrru dae isu entu). L’acqua scendeva violenta, a rovesci,<br />

sull’ombrellone che io tenevo opposto alle frecciate<br />

del vento per schivare la pioggia giocata dal turbine.<br />

Il gregge si fermava a testa bassa in una forra o in<br />

89


un bacìo e si metteva al riparo dal vento (e si ponìada a<br />

barru a bentu). Per farmi compagnia, spesso intonavo<br />

qualche canto sardo e lo accompagnavo al picchiettio<br />

delle gocce (de sos buttìos) sull’ombrellone.<br />

Acóllu fattènde die<br />

ponzènde grinas in mare<br />

e deo ancòra a tocàre,<br />

bella, su pettus a tie... 1<br />

Il canto in “re”, il più tipico canto sardo logudorese,<br />

sotto lo scatenarsi della natura con i suoi accordi che<br />

scaturivano dalle fronde in preda al vento, dai tuoni e<br />

dalla pioggia, usciva meravigliosamente e io ammazzavo<br />

il tempo. La giornata era lunga e subito ricadevo nella<br />

solitudine più profonda e mentre la natura faceva il<br />

suo fragoroso discorso dialogando con terra e cielo,<br />

punteggiandolo e apostrofandolo di lampi e di tuoni<br />

scrivendo il vento l’acqua e il gelo, io ricadevo in uno<br />

stato tale da entrare in sintonia biologica con esso. Lo<br />

scrosciare dell’acqua nel bosco, i tuoni ed il vento, erano<br />

allora le uniche parole che mi era dato di sentire e<br />

con loro stavo bene.<br />

Quando il gregge si spostava, gli tenevo dietro, sfruttando<br />

come copertura il frondoso tetto di sugheri che<br />

in alcuni punti formava un riparo quasi impenetrabile.<br />

I loro tronchi color sanguigno si stagliavano come tor-<br />

1 Eccolo! Il giorno sereno / sorgendo albori sul mare / ed io ancora<br />

toccare, / bella, non posso il tuo seno...<br />

90<br />

ri e sotto le sue branche poteva ripararsi una mandria.<br />

Sotto questi enormi fusti grinzosi e ricurvi, scalpitando<br />

i piedi per il freddo, intonavo un altro canto (unu<br />

mutu).<br />

Sos anzònes currèndhe<br />

cùrrene a totta vua<br />

poi tòrrana a s’ama.<br />

Sos anzònes currèndhe<br />

se beru chi mi ama<br />

dae intro ’e ucca dua<br />

tia chèrrere intèndhere.<br />

Cùrrene a totta vua<br />

se beru chi mi ama<br />

tia chèrrere intèndhe<br />

dae intro ’e ucca dua.<br />

Poi tòrrana a s’ama<br />

dae intro ’e ucca dua<br />

tia chèrrere intèndhe<br />

se beru chi mi ama. 2<br />

Anche nelle giornate più uggiose, però, quasi sempre<br />

presto o tardi all’orizzonte, faceva capolino il sole e ritornava<br />

la calma. La nebbia si diradava dalla cresta dei<br />

2 Gli agnelli nella corsa / corrono a tutta foga / al gregge tornan<br />

poi. / Gli agnelli nella corsa / se tu bene mi vuoi / dalla tua bocca<br />

toga / sentir vorrei con forza. / Corrono a tutta foga / se tu bene mi<br />

vuoi / sentir vorrei con forza / dalla tua bocca toga. / Al gregge tornan<br />

poi / dalla tua bocca toga / sentir vorrei con forza / se tu bene<br />

mi vuoi.<br />

91


monti e la natura ricompariva. Un altro linguaggio allora<br />

si spandeva per le distese circostanti. Quel tremendo<br />

discorso della natura si rompeva e ogni ovile riprendeva<br />

a parlar nella sua lingua abituale. L’abbaiare di un<br />

cane, i colpi di una scure che tagliava legna (sos maschéddhidos<br />

de una istràle seghèndhe linna) o il raglio di<br />

un somaro o i belati delle mandrie.<br />

Le greggi del vicinato allora incominciavano ad uscire<br />

dai ripari naturali. Si scrollavano di dosso l’acqua scuotendosi<br />

in tutte le membra e si avviavano per il pascolo<br />

emettendo il solito “concerto” con lo scampanio della<br />

loro ferraglia. Io lo sentivo e lo ascoltavo. E senza quasi<br />

pensarci mi veniva spontaneo distinguere, dai diversi<br />

“concerti”, un gregge dall’altro (sas amas de sa cussòsa).<br />

Le capanne degli ovili allora fumigavano tutte all’orizzonte.<br />

I pastori vi si stavano riscaldando e si preparavano<br />

ad affrontare un altro temporale: un’altra “arringa”<br />

della natura. Durante questi intervalli di quiete dopo<br />

la tempesta, quando la natura cessava di esprimere<br />

gelo, vento e neve, io con i cani me ne andavo a vedere i<br />

ruscelli e le polle (sos rios e sos tónchinos) che qua e là<br />

pullulavano per i campi dalla terra traboccante e inzuppata<br />

di pioggia. Alla mia fantasia ogni rivolo sembrava<br />

un fiume. Ogni pozzanghera, ogni conca, piscinetta<br />

o cavità del terreno o sui macigni, sembrava il mare<br />

che non avevo mai visto e che mi ero soltanto immaginato<br />

attraverso idee fugaci, echi di discorsi riferitimi<br />

occasionalmente.<br />

Così a ogni schiarita, percorrevo vallate e colline per<br />

osservare la metamorfosi. Nella mia rassegna spesso mi<br />

soffermavo in silenzio ad orecchie tese (a orìjas paràdas)<br />

92<br />

nella speranza di sentire un nuovo rigagnolo scorrere<br />

sull’erba. Di corsa andavo a vederlo. A metterci le mani<br />

dentro e sentire l’acqua che mi passava tra le dita trattenendone<br />

le foglie e i fuscelli che vi scorrevano. Trovarli,<br />

questi “fiumi” e questi “laghi” nel nostro campo, per<br />

me era la più grande gioia ed il più grande diletto. Spesso<br />

nutrivo invidia dei campi in cui si formavano laghetti<br />

e fiumi più grandi che nel nostro. Non li potevo raggiungere.<br />

Mi era proibito. Erano campi nemici.<br />

Questo dialogo e questo gioco con la natura, purtroppo,<br />

cessava di colpo, non appena il raglio del somaro<br />

mi annunciava l’arrivo del babbo oppure me lo<br />

vedevo spuntare all’orizzonte. La sua presenza ci zittiva<br />

e ci rendeva muti. Io e la natura. E ognuno si rinchiudeva<br />

nel guscio del proprio silenzio. Mio padre era un<br />

ostacolo improvviso che colpiva le quattro corna di<br />

due lumache nel loro gioco. Si inghiottivano rattrappite<br />

nel loro guscio, proponendosi di ri-uscire al più presto<br />

al primo temporale per pascere sul morbido fieno<br />

lungo i canali e le piscine del campo. La sua sola presenza<br />

mi staccava dal mio mondo per richiamarmi al<br />

suo. Al lavoro.<br />

Una volta tanto, capitava di astenerci dal lavoro, specie<br />

se lui non stava bene o aveva mal di testa. In tali circostanze<br />

si andava a fare una visita a qualche pastore vicino<br />

(a calchi ighinàdu). Per me era un’esperienza curiosa.<br />

Era l’occasione per conoscere gente. Sentire ed<br />

ascoltare episodi e vicende. Così una sera capitammo<br />

nella capanna di un grosso ovile.<br />

Al nostro arrivo sette cani ci vennero contro, furiosamente<br />

padroni della natura: la coda attorcigliata, la<br />

93


schiena irsuta ed abbaiando a strascico. Il <strong>padrone</strong>, che<br />

stava scaricando il cavallo, era appena arrivato dal suo<br />

paese; zittì i suoi guardiani. Salutò mio padre con fare<br />

abituale. Si conoscevano bene, e senza per nulla interrompere<br />

le sue faccende, parlottando con mio padre,<br />

afferrò la bisaccia ancora sulla sella. La mise per terra<br />

davanti ai cani e ai servi (canes e teràccos). Gli uni e gli<br />

altri scodinzolando e sbirciando la bisaccia. Il <strong>padrone</strong><br />

tolse le provviste che aveva portato disponendole in tre<br />

mucchi: uno per sé, uno per i cani, uno per i servi. La<br />

mia attenzione fu attratta, spontaneamente, dal diverso<br />

colore del pane: candido quello del <strong>padrone</strong>, cruschello-orzo<br />

quello dei servi, crusca pura quello dei cani.<br />

Alla fine il <strong>padrone</strong> fece cenno al servo più anziano di<br />

prendere la roba, il quale scodinzolando si preoccupò<br />

di vedere e sapere cosa avrebbero potuto mangiare.<br />

Portò tutto dentro la capanna e tra il fagotto trovò una<br />

pentola che conteneva una specie di brodaglia (sicuramente<br />

come di consueto avanzi racimolati giorno per<br />

giorno dai pranzi consumati in paese). La mise sulle tre<br />

pietre, al fuoco. Nel frattempo i suoi compagni spiegarono<br />

davanti al fuoco un sacco e si misero a spezzettare<br />

pane di orzo. Ne fecero un bel mucchio. Quando la<br />

brodaglia cominciò a bollire, il servo più anziano afferrò<br />

le cocche del sacco che fece roteare sulla pentola lasciandovi<br />

cadere il pane spezzettato.<br />

Io me ne stavo sull’uscio della capanna appoggiato al<br />

muro che la riparava dal maestrale (a sa pedrìssa) e osservavo<br />

la scena come un intruso obbligato. Il babbo e<br />

il <strong>padrone</strong> dell’ovile, fuori, stavano discutendo di pascoli<br />

e di bestiame. Di tanto in tanto, i servi assaggiava-<br />

94<br />

no la loro cena scambiandosi sguardi di famelico compiacimento.<br />

A fine cottura fui spettatore di una scena disperata e<br />

crudele. Il servo più anziano scese la pentola dal fuoco<br />

e la mise da una parte per la capanna. Gli altri fecero<br />

ruota intorno alla pentola da cui usciva un cilindro di<br />

fumo che sembrava un fusto d’albero che reggeva la capanna.<br />

Si disposero alla meglio aspettando che l’intruglio<br />

sfreddasse, per assalire e divorare finalmente il<br />

piatto caldo, di cui raramente usufruivano.<br />

All’improvviso tutti si fecero sui cucchiai che erano<br />

infissi su un interstizio del muro a secco della capanna.<br />

Malauguratamente risultò che c’era un cucchiaio in<br />

meno delle bocche. Uno restò escluso.<br />

I fortunati, curvi sulla pentola, aspettarono un po’ il<br />

loro compagno. La fame, però, li vinse subito. Il caposervo,<br />

per primo, immerse il cucchiaio, seguito dagli altri<br />

due che il caso e la tempestività aveva provvisto di<br />

cucchiaio. E dal semplice atteggiamento di assaggio<br />

iniziale (più apparente che reale), quasi a testimoniare<br />

un indugio di solidarietà e dar tempo al compagno che<br />

trovasse il cucchiaio si passò all’assalto. Si sprigionò la<br />

fame come una furia incontenibile. Tutti e tre si fecero<br />

sotto cozzandosi le teste ogni qualvolta immergevano il<br />

cucchiaio nella pentola, tracannando più avidamente<br />

del solito, quasi la fame ora avesse annullato la comprensione<br />

iniziale per il compagno e suggerisse di finire<br />

il pasto prima che il poveretto si fosse procurato un<br />

qualche espediente.<br />

Il loro malcapitato compagno tentò con le mani. Ma<br />

la roba un po’ perché era calda e un po’ perché era bro-<br />

95


dosa, non si lasciava prendere. L’escluso dalla preda,<br />

visto che i suoi compagni ricevevano dalla fame una<br />

spinta più grande della loro volontà e che non potevano<br />

avere più comprensione per lui, volgeva gli occhi<br />

dappertutto cercando il cucchiaio che mancava. E nella<br />

smania di sfamarsi si contorceva tutto, dimenandosi,<br />

con gli occhi sgranati, quasi tesi in uno sforzo disperato<br />

per fabbricare un cucchiaio con lo sguardo.<br />

I suoi compagni chini sulla pentola, producevano un<br />

gorgoglio da truogolo. Le loro gole ingoiavano fragorosamente<br />

senza masticare né gustare tutto quello che vi<br />

capitava, quasi ogni cosa si sciogliesse non appena entrava<br />

in bocca. Le succhiate e la rapacità dei suoi compagni<br />

gli lancinavano lo stomaco più della stessa fame.<br />

Si vedeva. Si agitava e non si dava pace. Quel fragore lo<br />

scompigliava, lo sconvolgeva.<br />

A un tratto, però, un lampo di genio istintuale! Spinto<br />

dalla disperazione dell’escluso (stare un’altra settimana<br />

o un altro mese senza gustare cibo caldo sarebbe<br />

stato poco consolante, sommato allo sconforto di andare<br />

a letto senza cena) volse gli occhi in alto verso il comignolo.<br />

Una luce si sprigionò dai suoi occhi e nella penombra<br />

della capanna gli si illuminò una sonaglia sbattagliata<br />

che pendeva dal tetto di stoppie (dae su covàccu<br />

de restùju), arrugginita e sporca dal sudore e dall’untume<br />

della pecora che l’aveva portata. Il cucchiaio era<br />

fabbricato. Stava lassù.<br />

Con un salto disperato balzò verso l’alto. Strappò la<br />

sonaglia dalle stoppie suscitando un nembo di fuliggine<br />

che lo annerì con i compagni. E come posseduto<br />

dalla smania, la immerse disperatamente in quella bro-<br />

96<br />

daglia che i suoi compagni (che in quel momento erano<br />

solo bocca cucchiaio e pentola) avevano già mezzo divorato.<br />

Se la appoggiò alle labbra e calda come era la<br />

vuotò tutta d’un fiato cercando di recuperare e di raggiungere<br />

i suoi compagni nel pasto. Così ripeté la scena<br />

fino a che il cibo non fu consumato del tutto.<br />

Al <strong>padrone</strong> che allo sghignazzo dei servi si fece sulla<br />

porta non poteva capitare di più spettacolare sotto gli<br />

occhi. Sghignazzò sarcasticamente, quasi per esprimere<br />

la sua potenza. Si sentiva il creatore della scena.<br />

– Che te ne pare? – fece rivolto a mio padre che non<br />

poté fare a meno di ridere sulla cosa, anche se dovette<br />

aver compassione di quel servo che aveva mangiato alla<br />

campana. Così dicendo il <strong>padrone</strong> si calò in un angolo a<br />

mangiare anche lui. Tolse i suoi cibi dal sacchetto. E di<br />

nuovo notai che il suo pane era bianco, confezionato ad<br />

arte dalle serve che aveva in paese. Il suo companatico<br />

era agnello arrosto. Mise in piedi un fiasco di vino e attorniato<br />

da tanta altra roba ci invitò a mangiare imperiosamente,<br />

lontano dai servi come era costume. Mio<br />

padre accettò l’invito e io quindi mangiai un pezzo di<br />

carne che mi porse quel signore.<br />

Mentre stavo mangiando i miei occhi si fissarono in<br />

un punto indefinito e incantati ed immobili vedevano<br />

quel pane nero dei servi al punto che anche il pane<br />

bianco, che tenevo con la sinistra, mi sembrava nero.<br />

Avevo sette anni. Secondo mio padre avrei già dovuto<br />

essere un pastore completo. Non potevo più starmene a<br />

pancia a sole, riparato sui cespugli del cisto o del lenti-<br />

97


schio (de su puléju o de sa chessa) come le pecore a ruminare<br />

o come gli altri animali dopo che si erano riempiti<br />

la pancia. Il mio lavoro allora, negli intervalli che mi consentiva<br />

la custodia delle pecore, consisteva nello sbrigare<br />

le faccenduole dell’ovile: asportare il letame dal porcile<br />

o dal recinto (dae s’àrula o dae su corràle), fare qualche<br />

fascio di legna per Sìligo o assiepare i muri di confine<br />

(inchesubràre sos muros de sas làccanas).<br />

Io, naturalmente, quello che potevo lo facevo quasi<br />

sempre. Traducevo sempre in lavoro le mie risorse anche<br />

perché con mio padre era inutile fingere o lavorare<br />

a mala voglia (a mala gana). Al suo ritorno controllava e<br />

stimava sempre il mio lavoro. Quasi sempre le cose filavano<br />

lisce. Ma i patriarchi erano troppo severi ed esigevano<br />

che i loro bambini divenissero uomini contro il<br />

tempo. Dovevano produrre da uomini. Le bagatelle<br />

non trovavano giustificazione. Tutto doveva essere saggezza<br />

e maturità.<br />

Una mattina, mio padre, mentre partiva per Sìligo,<br />

mi lasciò le sue disposizioni: asportare il letame delle<br />

pecore dal recinto con la carriola. Non appena scomparve<br />

all’orizzonte disseminando, come al solito, ordini<br />

ed urlando avvertimenti, mi sentii libero. Il “re” di<br />

Baddhevrùstana. E certo fino al suo ritorno lo ero veramente.<br />

Quel senso di libertà illimitata mi ingigantiva!<br />

E come un gigante, <strong>padrone</strong> della natura, divorai la solita<br />

zuppa di latte e sale. Sullo spiazzo uscii forte come<br />

un leone. Pronto a sbranare il lavoro.<br />

Ascoltai il tintinnio del gregge. Era pacato. Tutto regolare.<br />

Pasceva tranquillo. Io potevo lavorare!<br />

Diedi di piglio alla carriola e mi diressi verso il recin-<br />

98<br />

to. Ma la voce melliflua e melodiosa di Nicolàu (un pastore<br />

vicino, a duecento metri dalla nostra capanna) mi<br />

raggiunse e mi avvinse:<br />

Daghi inàsprid’ su dolòre<br />

fiòres chisco in totùe<br />

ammenténdhemi chi tue<br />

lis dedìcas tantu amore<br />

giòia! In dogni fiòre<br />

mi pared’de di miràre:<br />

appo dispòstu a passàre<br />

tristas sas dies pro de! 3<br />

Il solito canto in “re” mi appese all’incertezza e mi fece<br />

oscillare tra gli ordini del babbo e la fuga verso Nicolàu.<br />

Ero ansioso di andare a trovarlo, di parlare con lui<br />

e di sentirlo cantare. Ed ora che mio padre trottava verso<br />

Sìligo, con Pacifico, potevo spiccare il volo per dove<br />

volevo!<br />

Su dou non fid’amòre<br />

fidi néula passizzèra<br />

podes ingràta Glicèra<br />

su chi affìrmo eo negàre. 4<br />

3 Quando inasprisce il dolore / cerco fiori giù e su / ricordandomi<br />

che tu / gli dedichi tanto amore / gioia! ché in ogni fiore /<br />

sembra ti possa trovare: / ho disposto di passare / tristi giornate<br />

per te!<br />

4 Il tuo non era amore / era nebbia passeggera / puoi ingrata<br />

Glicera / ciò che affermo io negare.<br />

99


Il “re-do” di Nicolàu bastò ad aprirmi le ali e a farmi<br />

spiccare il volo. Abbandonai subito la carriola sul letame<br />

(sa carrètta subra eissu ladàmine) e in un baleno percorsi<br />

i duecento metri sull’erba bagnata e più alta di<br />

me. Saltai il muro della nostra tanca e sbucai sullo<br />

spiazzo dell’ovile di Nicolàu. Cantava col cuore, mentre<br />

con la mente sbrigava le sue faccende, come fanno i<br />

“buoni pastori”. Stava spostando il recinto della mungitura<br />

(sa mandra ’e mùlghere) e rinforzando la siepe<br />

dell’ovile (sa chesùbra de issu corràle).<br />

– Ciao, Gavinè! Come mai sei potuto venire qui?<br />

– Il babbo è andato via, a Sìligo. Oggi tocca a lui.<br />

– Ah... beh!... capisco....<br />

– Pòdese ingràta Glicèra<br />

su c’affìrmo deo negàre. 5<br />

Nicolàu, come d’abitudine, cantava e lavorava insieme.<br />

Sentirlo, ascoltare ed imparare il suo canto e i versi,<br />

era un piacere.<br />

– E tu non hai nulla da fare? Mi sembra strano che<br />

Abramo non ti abbia detto di fare qualcosa!<br />

– Sì. Debbo portar via un po’ di letame dae su corrale.<br />

– Eh, allora... non trattenerti molto.<br />

In su monte ’e Gennargéntu<br />

bogo sa robba a pàschere<br />

a sa asciàda ’e s’istèlla.<br />

5 Puoi ingrata Glicera / ciò che affermo io negare.<br />

100<br />

In su monte ’e Gennargéntu<br />

tra nois duos, bella,<br />

amòre deve nàschere<br />

dai custu moméntu... 6<br />

Per me non esisteva più nulla, né muriccioli né siepi:<br />

quel canto era tutto! Il letame poteva anche aspettare.<br />

Nella peggiore delle ipotesi avrei preso i soliti colpi.<br />

Temporale più temporale meno, ormai mi c’ero abituato.<br />

Meglio un piacere che cento malanni (mezzus unu<br />

gustu che chentu malànnos).<br />

La mattina così passò senza accorgermene, tra un<br />

canto e l’altro di Nicolàu.<br />

Sul tardi purtroppo mi venne un forte mal di testa.<br />

Gli ordini del babbo non li potei eseguire. Tentai di<br />

sforzarmi, ma le fitte alla testa mi toglievano ogni brio e<br />

dovetti accasciarmi sul letame. Quel giorno finì che<br />

avevo asportato solo cinque-sei carriole di letame. Verso<br />

le cinque del pomeriggio, il raglio poderoso di Pacifico,<br />

in lontananza, mi raggiunse agghiacciandomi e<br />

scaraventandomi nella disperazione. Cercai di reagire.<br />

Di recuperare almeno in quell’ultimo quarto d’ora. Le<br />

tempie mi stavano scoppiando. E inesorabilmente il<br />

<strong>padrone</strong> fece irruzione sullo spiazzo.<br />

Insistere era inutile. Mi trovò all’opera. Ma lavoro<br />

fatto non ce n’era.<br />

6 Sul monte Gennargentu / conduco il gregge a pascere / al sorgere<br />

della stella. // Sul monte Gennargentu / tra noi due, bella, /<br />

amore deve nascere / sin da questo momento...<br />

101


Con il suo sguardo torvo, terrificante ed esperto, lesse<br />

la mia “colpa”. Subito si accorse che a lavorare avevo<br />

incominciato solo da poco.<br />

– È inutile che ti faccia trovare al lavoro! Che incominci<br />

a lavorare quando senti il raglio del somaro (su<br />

órriu de s’àinu).<br />

– No! No! Io... ho cercato di lavorare, ma mi è venuto<br />

un forte mal di testa. Non ce l’ho fatta! Non ce la faccio<br />

più!<br />

Il mal di testa mi giustificò e calmò mio padre che mi<br />

si stava avventando. Tutto sembrava finito. L’alibi del<br />

malessere si oppose, per il momento, al decalogo pastorale.<br />

Sul tardi però il babbo capitò da Nicolàu e il giubbino<br />

che, in seguito al raglio del somaro, mi ero dimenticato<br />

lì, fu il segno inconfutabile che io vi ero stato. Nicolàu<br />

cercò di giustificarmi, ma non convinse il patriarca.<br />

E in mio padre si scatenò l’uragano punitivo. Il mal<br />

di testa, ora, era una scusa, non esisteva più. In un baleno,<br />

lui si spiegò la mia disubbidienza tutta a modo suo.<br />

– Mi hai mentito. Sei stato da Nicolàu, – mi disse<br />

sbattendomi il giubbino addosso. – La cosa è grave,<br />

ora la paghi. – Ed afferrato il primo cespuglio che gli<br />

capitò sotto mano (unu arrasólu de mattisùja), mi aggredì<br />

urlando come una furia e mi tempestò di colpi<br />

senza guardare dove andassero a finire, come si faceva<br />

con le bestie. Io mi misi a correre disperatamente, cercando<br />

di schivare i suoi attacchi in attesa che si sfogasse.<br />

Ma lui mi veniva dietro colpendomi continuamente.<br />

Uno dietro l’altro si correva forsennatamente intorno<br />

all’ovile.<br />

102<br />

E mentre io correvo per schivare i suoi colpi, non appena<br />

avevo un margine di sicurezza, mi voltavo disperatamente<br />

per vedere se finalmente la tempesta fosse finita.<br />

Dietro di me, purtroppo, vedevo sempre i nembi e<br />

i lampi della sua rabbia. Come un cane idrofobo e privo<br />

della serenità della ragione, mi raggiungeva continuamente<br />

e mi colpiva di nuovo. Preso dal fantasma della<br />

violenza educativa, non guardava. Colpiva e basta.<br />

Mi sbatteva ritmicamente il cespuglio in faccia. Il<br />

suo braccio era divenuto il pendolo della sua rabbia.<br />

Ogni volta che mi voltavo lo prendevo in faccia netto.<br />

Questa “aia cruenta” si protrasse per oltre dieci minuti<br />

sgattaiolando tra i rovi, i cespugli e i massi dei dintorni<br />

della capanna. E durò più del solito per una ragione<br />

che allora non conoscevo. Perché cercavo scampo<br />

nella corsa. Io non lo sapevo che avrei dovuto subire<br />

la punizione e i colpi stando fermo. L’istinto mi<br />

suggeriva la fuga. Non conoscevo quelle regole! Così<br />

si verificò il tragico paradosso, che tanto più cercavo<br />

scampo tanto più subivo la violenza e tanto più lui mi<br />

s’aizzava contro.<br />

Finalmente dopo dieci minuti di “aia cruenta”, quando<br />

mi vide sanguinante in faccia, con gli occhi gonfi e<br />

arrossati (cun sos ojos rujos dae su sàmbene), il ciclone<br />

pedagogico cessò. Il “maestrale” fugò quei nembi come<br />

per incanto. Il ruggito educativo ammutolì nella<br />

schiarita, ma era troppo tardi.<br />

Lì per lì, non si rese conto della gravità della cosa. Mi<br />

lasciò al pianto desolato appoggiato a un macigno.<br />

Sbraitò. Mi spruzzò le sue bestemmie che riepilogavano<br />

la lezione e andò a portare la mucca per mungerla.<br />

103


Dopo un quarto d’ora mi passò davanti trascinandosi<br />

dietro la bestia con la fune alle corna. Mi gettò uno<br />

sguardo frettoloso, e quando mi vide sfregiato nel volto,<br />

deformato dal gonfiore, si spaventò. Il leone si mutò<br />

in agnello. Il suo ruggito in belato.<br />

– Ci vedi? – fu la sua domanda preoccupata.<br />

– Ci vedo! Ma gli occhi... gli occhi mi friggono. Mi<br />

fanno molto male. Il volto mi brucia, – gli dissi con<br />

paura.<br />

Di corsa abbandonò la mucca. Entrò nella capanna e<br />

prese la tintura di iodio. Mi medicò le ferite e i solchi<br />

scavati dal continuo sbattere del cespuglio e mi lasciò<br />

con il volto quasi arroventato e giallognolo.<br />

– Oh, Nicolà! Oh, Nicolààà!<br />

– Oh! Ehi... Abrà!<br />

– Avvicinati!!<br />

– Che c’è?!!<br />

– Debbo portare il ragazzo in paese, subito. Ho esagerato.<br />

Gli occhi... gli occhi mi preoccupano. Non mi<br />

capiterà più di usare i cespugli. Basterà una verga o la<br />

cintola.<br />

– Lo hai capito... finalmente!<br />

– Ti prego di mungermi la mucca. Le pecore le mungerò<br />

domattina. Per una sera non succederà nulla. Dài<br />

uno sguardo all’ovile. Io tornerò subito.<br />

Così mise il basto a Pacifico. Mi infilò nel suo cappotto.<br />

Mi imbavagliò di altri cenci e via.<br />

– Ci vedi? Ci vedi?<br />

– Sì. Sì.<br />

– Chiudi il destro.<br />

104<br />

– Sì.<br />

– Chiudi il sinistro.<br />

– Sì.<br />

– Tu non dovevi correre! Guai a te se scapperai un’altra<br />

volta che meriterai una punizione!<br />

– Ma io non lo sapevo.<br />

Era già buio. Le tenebre della notte ci assalirono calando<br />

dai monti mentre la bestia ci trasportava a casa<br />

entrambi addolorati.<br />

Giunti a Sìligo fu una tragedia. La mamma mi riconobbe<br />

a stento. Più dal corpo e dall’abbigliamento che<br />

dall’aspetto.<br />

Si mise a piangere. – Che hai fatto? Io vado in caserma.<br />

Ti denuncio.<br />

– Lo so! Questa volta ho sbagliato io! Chiama il dottore<br />

per ora. Poi si vedrà cosa fare. Corri... il dottore! Il<br />

dottore!<br />

– Il dottore! – fece la mamma infilandosi lo scialle nero<br />

e precipitandosi nel buio della strada.<br />

Tornò col dottor Ruju, quello stesso che mi aveva<br />

guarito dalla broncopolmonite.<br />

– Che è successo?<br />

La sua domanda non ebbe risposta. Mi guardò stizzito<br />

e preoccupato dentro gli occhi, sgranandomeli con<br />

le dita.<br />

– Siete fortunati! Fortunati: gli occhi sono salvi, – fece<br />

quasi con un respiro di sollievo. – Il resto guarirà da<br />

solo. Col tempo. Ma come si fa a fare queste cose! È<br />

pazzesco!<br />

– È caduto in un burrone. Dentro un macchione di<br />

rovi e di sterpi, – disse la mamma, cercando di salvare la<br />

105


faccia del marito una volta che sentì che gli occhi erano<br />

salvi.<br />

– In un macchione? Queste sono percosse! Sono colpi!<br />

Il babbo stava lì al focolare. Voleva quasi sprofondare<br />

nel pavimento dalla vergogna. E rannicchiato in silenzio<br />

subì, senza smentire, la tirata violenta del medico.<br />

– Voi vi mettete a educare i figli come le bestie che<br />

educate alla soma o al giogo! Usate sempre la frusta e il<br />

bastone! Educare è difficile e non si educa col bastone<br />

o coi cespugli, ma con la parola. Ti dovrei denunciare,<br />

caro Abramo! Non lo faccio perché mi rendo conto<br />

della vostra condizione e non voglio aggiungere miseria<br />

alla miseria che vi sta addosso da tutte le parti. Ma ti<br />

serva da lezione!<br />

Il dottore uscì di casa lasciando mio padre mogio mogio<br />

come un cane picchiato dal <strong>padrone</strong>.<br />

– Beh, il gregge è incustodito. Io me ne ritorno all’ovile.<br />

– E uscì di casa per non subire oltre il peso della<br />

sua situazione.<br />

Mia madre mi riportò a letto e mi mise sul materasso<br />

e sul guanciale che non ricordavo più. Il volto e le ferite<br />

mi prudevano ancora. E nel silenzio della stanza tra il<br />

dormiveglia rivissi i brani salienti dell’attacco iracondo.<br />

Sul guanciale mi veniva quasi spontaneo contorcermi,<br />

scrollare il capo e chiudere gli occhi in tempo, prima<br />

che il cespuglio mi si sbrandellasse in faccia e mi accecasse.<br />

Ero stanco e indolenzito. E il sonno mi avvinse<br />

e mi tolse dall’episodio mentre schivavo il cespuglio<br />

che mi stava tempestando ancora le tempie.<br />

La mattina, sul dormiveglia, “ero” all’ovile. Mi sem-<br />

106<br />

brava strano però il fatto che non sentissi il linguaggio<br />

dell’alba di Baddhevrùstana (che ascoltavo sulla stuoia,<br />

mentre il babbo mungeva le pecore). Lo ascoltavo tra le<br />

coperte e non sentivo l’abbaiare dei cani, lo scampanio<br />

delle greggi del vicinato. Quella mattina la natura non<br />

rideva. Le upupe non cantavano, i cucculi e le piche<br />

non modulavano il loro canto. Eppure io “ero” sulla<br />

stuoia, nella capanna. Non appena mi rivoltai, le ferite<br />

strisciando sul guanciale mi richiamarono alla realtà e<br />

mi piombarono sull’aia della sera prima. Mia madre si<br />

avvicinò al letto con una tazza di latte zuccherato.<br />

– Ora non devi uscire con questa faccia! È vergogna.<br />

Finché non sarai guarito resterai in casa. – Mi tenne<br />

chiuso in casa per una settimana. Doveva salvare la reputazione<br />

del marito. La cosa agli occhi della gente sarebbe<br />

stata uno scandalo. Una sera il babbo mi ridette<br />

la libertà. Al buio mi ricondusse all’ovile. E la mia faccia<br />

turgida, abbrucciacchiata dalla tintura di iodio, riacquistò<br />

il colore e le proporzioni normali all’aria di<br />

Baddhevrùstana. È rimasta solo qualche traccia ancora<br />

visibile agli zigomi, e nell’animo il ricordo dolente che<br />

mi prude ancora.<br />

Fino ad allora mio padre non aveva mai preteso che<br />

producessi materialmente. Gli bastava che io lo guardassi<br />

con attenzione mentre svolgeva le sue faccende.<br />

Anche quando mungeva me ne ero stato sempre fuori e<br />

avevo sempre ascoltato lo scrosciare del latte nel suo<br />

secchio. Di solito avevo sempre fatto la guardia sul varco<br />

del chiuso in modo che le pecore non scappassero.<br />

107


Gli avevo sempre condotto le pecore alla mandra fugandole<br />

come mi aveva insegnato. Spesso, anzi avevo<br />

imparato a farle venire attirandole con dei versi tipici. E<br />

ai miei eh, eh!eh, lè, lè!lè, lè!lè, lè!dààà!ddddd!eh,eh!<br />

eh, eh!beh!lè, lè!lè, se erano sazie mi venivano fino ai<br />

piedi e compiaciute dalle mie modulazioni fatte ad arte<br />

e accompagnate dai tipici fischi, si raccoglievano spontaneamente.<br />

E brucando gli ultimi steli d’erba si introducevano<br />

nella mandra da sole. Il babbo si metteva al<br />

varco e faceva scrupolosamente la computa giornaliera.<br />

Nella mandra le pecore si disponevano in maniera abitudinaria<br />

quasi ognuna avesse il proprio posto, parallele<br />

a se stesse: l’una a fianco all’altra e perpendicolari alla<br />

siepe. Il modo tipico della mungitura logudorese, tutta<br />

diversa da quella barbaricina. La mandra come in tutte<br />

le parti dell’isola era sempre di forma ellittica, ma la sua<br />

disposizione faceva sì che al centro si creasse uno spazio<br />

geometricamente simile al recinto stesso. Lo spazio su<br />

cui mio padre faceva perno passando le pecore una per<br />

una. Mi era sempre piaciuto osservare la disposizione<br />

delle pecore e mio padre che stava chino con la testa sulla<br />

coda della pecora per tapparle il culo alla maniera logudorese.<br />

Era l’unico espediente per evitare di farsi cacare<br />

nel secchio.<br />

Il cane dopo aver percorso più volte la coltre di lana<br />

che le pecore formavano con la loro disposizione, una<br />

accanto all’altra, lungo la siepe, scendeva a bersi la<br />

porzione del latte che gli spettava (come cane pastore),<br />

e risaliva sul suo trono, dove si crogiolava sdraiato sulla<br />

schiena lanuta delle sue due pecore preferite. Fuori,<br />

nel silenzio, mi ero sempre annasato l’alito del rumine<br />

108<br />

delle pecore e osservato il movimento pendolare delle<br />

loro mandibole: lo scendere e il risalire lungo il collo<br />

del bolo. Mi ero sempre sentita la beatitudine dei loro<br />

rutti sonanti e le scapezzolate delle poppe sul secchio<br />

di cui seguivo lo scrosciare sulla schiuma calda. Mi dicevano<br />

il crescere del volume del secchio attimo per<br />

attimo. Mi dicevano puntualmente quando dovevo<br />

porgere il bidone sulla siepe in cui il babbo vi versava il<br />

latte.<br />

Dal giorno di quella tremenda punizione non potevo<br />

più starmene impalato lì al varco a sentirmi e gustarmi<br />

l’odore del rumine. Mio padre pretese che anch’io<br />

svolgessi la mia parte. Dovevo ficcarmi in testa che ormai<br />

all’ovile eravamo in due e che anch’io ero un pastore<br />

fatto. E per togliere ogni dubbio mi insegnò subito<br />

l’unica cosa importante che ancora mi mancava per essere<br />

un vero pastore. Mi insegnò a mungere. Era necessario.<br />

Fece fare un secchio anche per me.<br />

La prima volta che entrai nella mandra le pecore si<br />

strinsero una all’altra. Si spaventarono. Come mungitore<br />

non mi conoscevano e alcune saltarono persino la<br />

siepe. Ci volle tutta l’esperienza del babbo per ricondurre<br />

il gregge e ricomporlo alla calma.<br />

Io avevo solo otto anni, ma la mungitura logudorese<br />

si presta anche ai bambini. Mio padre mi fece abbassare<br />

ed assumere la posizione dietro la pecora più mansueta<br />

del gregge, quella di più facile mungitura (sa pius<br />

ladìna). Mi fece incosciare il secchio con il fondale sotto<br />

il culo. E mi insegnò come si doveva tenere la mammella<br />

e come spremere i capezzoli con le dita bagnate o<br />

con la saliva o con la schiuma del latte già munto.<br />

109


La cosa non fu facile. Scapezzolavo male nei primi<br />

giorni e la pecora, Mutighèddha, rinculava e mi faceva<br />

andare a gambe all’aria.<br />

Nel primo periodo, mentre il babbo mungeva tutto il<br />

gregge, a stento riuscivo a fare un quarto di latte nel<br />

mio secchio, anche perché molte scapezzolate non cadevano<br />

nel secchio. Mi andavano a finire sulla braghetta<br />

(che ce l’avevo sempre sporca di latte) o sulle gambiere<br />

dei pantaloni o fuori completamente.<br />

In capo a due settimane, però, Mutighèddha la mungevo<br />

bene. E mio padre mi affidò anche Leperèddha<br />

(denominata così perché aveva le orecchie ritte come<br />

una lepre). In seguito mi poté affidare s’aivèghe aza (la<br />

pecora invaiata). Tutte di facile mungitura. Tutte ladìnas.<br />

Ben presto così mungevo quanto mi consentivano<br />

le forze.<br />

Nel primo periodo io, che non ero né forte né furbo,<br />

subivo le loro bizze e gli imprevisti dei loro capricci.<br />

Spesso quando avevo il secchio pieno quasi fino all’orlo,<br />

tutto bianco e parlante con il friggio della schiuma, e<br />

mi apprestavo a farlo vedere al babbo, la pecora che<br />

mungevo recalcitrava e rinculava. E nonostante mi<br />

sforzassi di tenerla alle mammelle, frenando il suo rinculo<br />

con la testa sulla coda, spesso me la faceva. Perdevo<br />

l’equilibrio. Mi metteva a gambe all’aria. Il secchio<br />

si rovesciava e il latte si spandeva sulla culata dei pantaloni<br />

(in sa culàtiga de sos cassònes). La mia prova svaniva<br />

dietro il calcio di una pecora “matta”. Allora spesso<br />

mi toccava subire gli schiaffi a man rovescio del babbo<br />

e ricominciare a mungere con il culo bagnato.<br />

La cosa più sconfortante, umiliante, però, era quando<br />

110<br />

la pecora mi cacava dentro il secchio senza che me ne<br />

accorgessi. Io continuavo a mungere e me ne accorgevo<br />

o dall’odore o dal color verdognolo del latte, una<br />

volta che lo sterco si scioglieva dentro. Bisognava buttar<br />

via tutto. Un secchio di latte equivaleva a una giornata<br />

lavorativa dell’agricoltore più bravo. Il babbo non<br />

me la perdonava. Spesso mi salvavo buttando via il latte<br />

di nascosto e tuffandomi di nuovo a mungere per recuperare.<br />

Ma lui quasi sempre se ne accorgeva. – Che<br />

hai oggi? Non hai munto nulla... Ma di pecore ne hai<br />

munto un sacco... Ahh. Ti hanno cacato, brutta bestia!<br />

Te la sei fatta la giornata, oggi! – Seguiva una scarica di<br />

schiaffi! – Tè! Tè! Miserabile! Ti fai gabbare dalle pecore...<br />

ancora non hai imparato. Te l’ho detto. Il culo<br />

glielo devi tappare con la coda pressandola con la testa.<br />

Tu hai sempre la testa fra le nuvole (jughes sempre sa<br />

conca in sas nues). – Spesso la sorte mi vendicava. Le<br />

pecore cacavano anche mio padre, lui che pur aveva<br />

sempre la “testa nel recinto”. Allora, umiliato, si scatenava<br />

contro di esse. – Una pecora cazzu! Huu! Huu!<br />

Brutta bestia merdosa. Paru gagàdu (animale cacato).<br />

Te la faccio assaggiare la tua merda, io. To’. Mangiala.<br />

Mangiala. To’, ora ti tappo anche gli occhi, le orecchie...<br />

tutto con la tua merda. To’. To’.<br />

Come era costume tormentava le pecore “viziose”.<br />

Le prendeva per le zampe posteriori (a issos aschìles).<br />

Le metteva la schiena per terra e via il piede sul collo.<br />

– Tè! tè! Ti ammazzo! Tu non mi devi prendere in giro<br />

a me... Hèè! Pecora matta (bivèghe addhinòsa).<br />

Erano scenate favolose. Chino sulla mia pecora, me<br />

le godevo crepando dalle risate. Certo, le risate le trat-<br />

111


tenevo al massimo, mentre lui parlava alle pecore come<br />

se capissero il sardo. Sapevo che ai suoi occhi dovevo<br />

anch’io partecipare alla sua rabbia. Per questo affondavo<br />

il volto tra le pecore. Se si fosse accorto che me la<br />

stavo ridendo ne avrei beccate anch’io.<br />

Gli stava bene, però. Per quel giorno lui non avrebbe<br />

potuto dirmi nulla anche se mi fosse successa la stessa<br />

cosa e potevo mungere tranquillo. Più d’una volta ne<br />

uscivamo cacati tutti e due cercando di nascondere la<br />

cosa o nel silenzio o nel fare frettoloso. Altre volte invece,<br />

il babbo non si conteneva. – Oggi ci hanno fatti belli<br />

queste bestie. Ci hanno cacati! Tutto perso! Che beffa<br />

(Ite ciònfra!).<br />

Ora che sapevo anche mungere, ero un pastore completo.<br />

Bastava solo crescere ed attendere che la biologia<br />

mi desse la forza. Il tempo idilliaco era per sempre<br />

finito.<br />

Mio padre allora passò all’educazione agricola cui fino<br />

ad allora ero rimasto estraneo. Subito mi insegnò a<br />

zappare all’oliveto e nella vigna. La sua educazione fu<br />

più fugace che mai: ciclonica come imponevano le circostanze.<br />

Lui zappava come un dannato, al punto che<br />

non sopportava di perdere un minuto per introdurmi<br />

alla nuova attività. Di tanto in tanto, e solo rapidamente,<br />

mi faceva vedere come tenere la zappa.<br />

– La destra la metti davanti, la sinistra dietro. La mano<br />

sinistra, con questo movimento... così; abbassando<br />

il manico ti aiuta a rivoltare bene le zolle. È un tocco segreto<br />

che si acquista con il tempo.<br />

112<br />

La lezione me la ripeteva due, tre volte al massimo. Al<br />

resto dovevo pensare io. Toccava a me rubargli il mestiere<br />

e i segreti osservandolo attentamente e con paura.<br />

Come avevo appreso a mungere e tutte le altre cose.<br />

E nonostante la rapidità delle sue lezioni, non ci misi<br />

molto a zappare, a rivoltare bene le zolle (a bostulàre<br />

ene sas cheves). In poco tempo, in questo modo frettoloso,<br />

con un’educazione “fuggiasca” e inesorabile, mio<br />

padre mi insegnò quanto l’agricoltura comportava.<br />

Quando potava (candho illistrìada), lo seguivo sul filare<br />

e portavo via, ricomposto in fasce, il sarmento da una<br />

parte e lo accatastavo.<br />

Nel periodo dell’innesto (in s’iffescónzu), quando innestava<br />

le viti o i peri selvatici (sas bides o issos piràstos),<br />

io lo dovevo seguire. Lo dovevo assistere cun su ajòne<br />

(una specie di catino di sughero), dove erano tutti gli<br />

arnesi: gli stracci, il rasoio, l’argilla e i giunchi. Dovevo<br />

intuire cosa volesse volta per volta senza che lui mi dicesse<br />

nulla.<br />

Si lavorava dall’alba al crepuscolo (dae s’avvéschida a<br />

iss’interighinàda). In continuazione. E durante i temporali<br />

invernali e le nevicate, quando gli agricoltori se ne<br />

stanno nei loro paesi, nelle loro cantine a gustarsi il vino,<br />

perché la terra non si può lavorare, il babbo non se ne<br />

stava a pancia a fuoco comènte ’e battu chijinéri in pagu<br />

fogu (come gatto ceneroso sul fuoco morente). Lui trovava<br />

sempre qualcosa da fare. – Andiamo a controllare i<br />

muri. Il vento di stanotte avrà tolto via la siepe da qualche<br />

varco. Il bestiame altrui (su bestiàmene anzénu) può<br />

introdursi nel pascolo ancora intatto (in su pàsculu ìnnidu).<br />

Andiamo! Tu vai da quella parte. Io da quest’altra.<br />

113


– Eh, va bene! Ci incontriamo in su addhìju, come<br />

l’altra volta.<br />

Spesso non si faceva in tempo nemmeno a fare il giro<br />

della tanca che ci si richiamava.<br />

– Ohoo Gavì! Ohoo Gavì!<br />

– Heee.<br />

– Vieni qui. Il muro ha franato. Bisogna rifarlo.<br />

– He, che tratto lungo ne è franato (nd’est ruttu).<br />

– È l’acqua di stanotte. Forza. Su!<br />

Per lui, però, questo non era lavoro. Non suonava<br />

produzione. Era un incidente.<br />

In questi periodi, l’unica cosa che per lui suonava lavoro<br />

era l’unico lavoro che si poteva fare: abbattere alberi<br />

ed estirpare ceppi nel bosco.<br />

– Appena schiarisce, prendiamo gli arnesi e andiamo<br />

ad abbattere s’àvure ’e sa codìna. Non ce ne stiamo qui<br />

tappati. Fuori, al lavoro, si fa movimento e ci si mette il<br />

sangue in moto (su sàmbene in motu). – Il suo temperamento<br />

laborioso e volitivo presto aveva fatto di me un<br />

perfetto spaccalegna prima ancora che fossi in grado di<br />

reggere al peso della scure.<br />

Nei primi tempi, abbattere gli alberi mi attraeva. Mi<br />

piaceva vederli cadere dall’alto delle loro cime. Mio padre<br />

ci metteva tutta la sua esperienza. Con la scure sulle<br />

spalle se lo squadrava bene. E già prima di farsi sotto<br />

sapeva quasi sempre da quale parte bisognava tagliarlo.<br />

Per essere più sicuro, però, lo colpiva con gli occhi<br />

alle branche ed al fusto (a sas naes e a su truncu). Lo<br />

soppesava e senza fallo stabiliva da quale parte pendesse.<br />

In base a questo, faceva un piccolo intaglio sul fusto<br />

dalla parte che doveva cadere. Poi si spostava dalla par-<br />

114<br />

te che conveniva tagliare in modo che cadesse senza arrecargli<br />

danno. Io osservavo bene tutte queste operazioni.<br />

Lui dava sul fusto con la scure. E durante le pause<br />

che faceva per prendere fiato, se lo riteneva opportuno,<br />

mi spiegava sempre qualcosa. – Abbattere un albero<br />

non è facile! La prima cosa è sapere da quale parte<br />

pende. Da quale parte cade. Tu devi tagliare sempre<br />

dall’altra parte in modo che te lo veda cadere senza pericolo!...<br />

– Ta! Ta! Ta! Ta! gli faceva la scure sul fusto,<br />

scaraventando le schegge intorno.<br />

– Una volta thiu Forìccu era venuto qui a far legna: a<br />

Thiantina... per farsi un carro di legna. Di poco senno<br />

(de pagos sentìdos) e inesperto, si tuffò subito a tagliare<br />

l’albero che il <strong>padrone</strong> gli aveva assegnato, così asinescamente<br />

(a issa ainèsca), senza guardare da quale parte<br />

l’albero sarebbe caduto. Forse non era nemmeno in<br />

grado. Per sua sfortuna l’albero era dritto dritto. Non<br />

era facile. E neanche a farlo apposta, il caso non gli fu<br />

favorevole. Si mise a tagliare proprio dalla parte sbagliata.<br />

Era un tipo che faceva di testa sua. Uno di quelli<br />

che non tornano indietro una volta che hanno incominciato,<br />

anche se hanno incominciato male. Me ne accorsi<br />

dall’oliveto di lontano. “Oh Forì!” gli gridai. “Taglia<br />

dall’altra parte. Dall’altra parte.” Macché! Lui dava<br />

e dava con la sua scure. Finché non si vide l’albero<br />

venirgli addosso. Poi, minchione, invece di indietreggiare,<br />

si è messo a correre dalla parte sbagliata, dove<br />

l’albero stava precipitando. L’albero lo raggiunse prima<br />

che si mettesse in salvo. Vista la cosa, ero lì nella collina,<br />

corsi subito. Con il suo amico, bell’altro stupido<br />

(àtteru bellu grabiòne) lo togliemmo di sotto. Lo met-<br />

115


temmo privo di senso sul carro e via a Sìligo. Era grave.<br />

Tutto fracassato (fidi tottu ibbisestràdu). Purtroppo, in<br />

capo a tre giorni morì (a issas tres dies est mortu!). Eh...<br />

stare attenti, bisogna stare. Lavorare con il cervello.<br />

Non con le calcagna (non cun issos cascànzos). Vedi, io<br />

so che l’albero cade da quella parte. Ho fatto i calcoli.<br />

Le vedi quelle branche? Eh? Fanno peso dall’altra parte.<br />

E poi basta squadrare il fusto e considerare! Certo,<br />

spesso succede che è difficile stabilire da quale parte<br />

cade. Allora devi stare attento. Appena vedi oscillare<br />

l’albero, le branche e le sue cime (sas naes e sas chimas<br />

suas), non bisogna perdere il controllo. Se il fusto ti viene<br />

addosso, basta aggirarlo. Non metterti a correre all’impazzata<br />

(a issa macconàzza) come thiu Forìccu. L’albero<br />

ruzzola a terra in fretta e se corri dalla parte sbagliata,<br />

fai la sua fine.<br />

Lui raccontava la sua lezione senza interrompere l’opera.<br />

Io ero lì, impaziente di vedere finalmente l’albero<br />

cadere. Sentirne il tonfo e lo schianto quando rovinava<br />

al suolo. Me ne stavo impalato, ma attento, finché mio<br />

padre non affondava l’ultimo colpo. La quercia oscillava<br />

sulla cima e veniva giù sfracellandosi a terra nelle sue<br />

branche. Una volta che l’albero era disteso, armato di<br />

roncola e di scure (de rustàgliu o de istràle) subentravo<br />

anch’io nel lavoro, a tagliare le fronde e le piccole branche<br />

(a ischimàre).<br />

Pulito dei rami, il grosso del fusto e delle branche si<br />

stagliava sul terreno sterposo in tutta la sua lunghezza e<br />

si procedeva con la sega.<br />

Non era facile manovrarla con la forza e il tocco dovuti.<br />

Muovere i gomiti con geometria e con ritmo. Fare<br />

116<br />

un bel taglio. Ma per non suscitare e per evitare la rabbia<br />

del babbo, per esaudire la storia, dovevo sempre resistere.<br />

Nel nostro campo continuava a non passare quasi<br />

mai nessuno. I pastori vicini (sos bighìnos), spinti dalla<br />

miseria, dovevano per necessità pensare a procacciarsi<br />

da vivere: non avevano il tempo di venirci a trovare.<br />

Inoltre, per ovvie ragioni, avevamo rotto quasi con<br />

tutti. Con i vicini ci si sentiva quasi avversari. Di notte<br />

uno cercava di rubare il pascolo all’altro, introducendo<br />

le pecore nei chiusi altrui. Di giorno, mentre pascolavo,<br />

ne sentivo le reazioni, gli effetti. I pastori si azzuffavano<br />

e litigavano scuotendo tutta la zona. – Stanotte,<br />

tu, brutto verme, ladro, delinquente, figlio di puttana,<br />

testa di cazzo, miserabile, farabutto, mi hai mangiato il<br />

pascolo, mi hai mangiato! (mi as manigàdu su bàsculu,<br />

as incujàdu in su meu!). Non ti permettere più! Se capitiamo<br />

insieme (si faghìmus paris)... ti faccio un bel giovanotto!<br />

Ti concio per le feste. Ti servo le uova sode!<br />

Mettitelo bene in testa: i coglioni ce li ho anch’io! Minchione!<br />

E in altra occasione: – L’avevo conservato per te, per<br />

le tue pecore, fin’ora, il mio chiuso! Te lo faccio vedere<br />

io quanto pesano i miei coglioni! Brutto delinquente!<br />

Traditore! Io ho i coglioni più grandi dei tuoi! Capito!<br />

Non mi fotti! (Deo jutto sos cozzònes pius mannos de<br />

isos tuos! Cumprésu asa! non mi futis pius!) Se ti trovo lì<br />

ti metto segno per i tuoi giorni! Ti flagello! Sei un vile,<br />

sei. Ne hai approfittato: ero assente. Me la pagherai...<br />

117


Ricordalo... Te lo ritornerò il piatto... non ti preoccupare.<br />

Così i pastori trascorrevano i giorni avvelenati come<br />

vespe nel vespaio scosso e le notti insonni appostati,<br />

con il fucile spianato o sul chiuso per difendersi il pascolo<br />

o il gregge mentre si ruminava la sua pastura. Di<br />

notte uno aspettava che il sonno vincesse l’altro in una<br />

gara estenuante incessante, perché potesse chiudere le<br />

pecore nel pascolo altrui.<br />

Di giorno sbrigavano i lavori agricoli per le provviste<br />

di casa. In paese non ci potevano andare quasi mai.<br />

Quelli che avevano pascoli e gregge in proprio potevano<br />

concedersi qualche capatina di giorno, ma raramente.<br />

I servi pastori o mezzadri pastori ogni quindici, venti<br />

giorni, se avevano un buon <strong>padrone</strong>. Quasi tutti erano<br />

scapoloni. Non avevano il tempo per conoscere e<br />

conquistare una ragazza.<br />

Gli sposati dopo lunghe e penose peripezie, si dovevano<br />

limitare a ustare le loro mogli solo di sfuggita. I<br />

giochi e le danze sui loro talami erano frettolosi mentre<br />

il gregge restava incustodito. I pastori in proprio, con il<br />

barbone ispido e nero, potevano concedersi almeno<br />

una volta la settimana di danzare alla svelta i loro coiti<br />

sui letti.<br />

Thiu Antonìccu, che pure era pastore in proprio,<br />

quando gli capitava, raramente, di andare a Sìligo, lasciava<br />

il suo ovile in fretta. Scrollava le gambe addosso<br />

al somaro e lo incitava alla corsa con il nodo alla gola e la<br />

libidine addosso. La bestia filava veloce sottoposta a un<br />

trotto disperato, ai sussulti e al prurito della “siccità”<br />

sessuale del suo <strong>padrone</strong>. A metà strada il trotto diveni-<br />

118<br />

va più concitato. Nell’ultimo chilometro il trotto diveniva<br />

corsa sfrenata. Finalmente giungeva sotto casa sua.<br />

Scendeva di scatto. Legava il somaro all’anello e lo abbandonava<br />

lì stanco e carico di tutto, sudato ed ansimante.<br />

Entrava in casa e cercava la moglie. Durante la<br />

danza del letto non esisteva più nulla: le pecore, i banditi,<br />

i chiusi di pascolo sparivano dalla sua mente. Si scatenava<br />

la bufera fischiando per la stanza. Grandinava e<br />

fioccava in abbondanza. La natura si sfogava e ritornava<br />

il sereno. E una volta spenta la sua sete sul letto scosso e<br />

disfatto dal ciclone di Eros, le pecore, il somaro rimasto<br />

fuori sotto il basto con i bidoni del latte, la legna e la bisaccia,<br />

gli ritornavano a comparire. – Povera bestia!... Il<br />

latte!... La legna!... Se mi hanno rubato qualcosa!...<br />

Tutto soddisfatto, sfebbrato, con il volto raggiante e<br />

ricomposto andava a scaricare la bestia, spesso tra il<br />

mormorio dei passanti: il somaro sotto carico legato all’anello<br />

parlava chiaro a tutti. Ritornato in sé, si faceva<br />

il barbone e si sentiva un uomo anche lui. Fresco, umore<br />

cristallino e cervello pronto a pensare alle cose.<br />

Non era un’eccezione. Era malattia dei pastori. Thiu<br />

Diddhìa faceva lo stesso. Lasciato l’ovile, quando veniva<br />

il suo turno per recarsi in paese, incitava il suo somaro<br />

al trotto più concitato.<br />

Anche lui arrivato in paese, soffocato dalla smania,<br />

non riusciva mai a scaricare la bestia. Si tuffava in casa.<br />

Si avventava sulla moglie. La mordeva tutta. La succhiava.<br />

La stringeva quasi la volesse strozzare. Accecato<br />

e contorto dalla smania, si scagliava contro gli abiti.<br />

Se li toglieva affannosamente con un solo gesto, come<br />

se fossero tutto un unico pezzo, scaraventandoli alla<br />

119


infusa! Con gli scarponi pieni di fanghiglia e con le<br />

gambe impastoiate dai pantaloni alle caviglie, si tuffava<br />

sulla moglie. Spesso saltando anche la spalliera: la smania<br />

non gli concedeva di fare il giro.<br />

Era la tarantella. Il letto a rete ballava quella musica<br />

lasciando cadere di tanto in tanto un oggetto che tonfava<br />

sul pavimento. La spalliera di lamiera sulla parete<br />

ballava anch’essa, esprimendosi e muovendosi a seconda<br />

della musica. Di colpo tutto si arrestava. La spalliera<br />

prendeva fiato per il prossimo ballo. Si riprendeva a suonare.<br />

Altro ritmo. Altra danza. Finalmente thiu Diddhìa<br />

impastoiato con i pantaloni alle caviglie si distendeva<br />

sulla moglie come un fiume dopo la tempesta.<br />

Spesso il frastuono della spalliera e della sua danza,<br />

tutta la battaglia con gli spari e le esplosioni, uscivano<br />

dalla finestra che thiu Diddhìa e la moglie avevano lasciato<br />

aperta.<br />

Le schioppettate colpivano i paesani sulla strada.<br />

– Bah... Thiu Diddhìa sta facendo la funzione.<br />

– Se lo sta ballando il ballo sardo!<br />

– Tu stai zitto! Abbiamo poco da dire! Noi facciamo<br />

lo stesso! Scherzi della fame!<br />

– Beh! Non perdiamo altro tempo. Quella bestia sta<br />

prudendo anche a me, ora, maledizione!<br />

– A chi lo stai dicendo...<br />

Si tuffavano sui loro somari. Si lanciavano verso le loro<br />

case a spegnere il fuoco alla fontana delle loro compagne<br />

che ardevano anch’esse, anch’esse incustodite<br />

ed incolte nella loro latitanza sessuale.<br />

Questo per quanto riguarda i pastori in proprio, già<br />

sposati.<br />

120<br />

Quanto a noi ragazzi sotto i vent’anni (forse era uno<br />

scherzo del latte o del formaggio) si sfogava la nostra<br />

esuberanza in tutte le maniere. Per le valli, le selve, il<br />

bosco e per le colline dappertutto fischiavano le seghe,<br />

rabbiose e fameliche. I cespugli come in preda alla<br />

tempesta erano scossi dalla bufera delle nostre mani.<br />

Quando si era dietro le pecore o al lavoro spesso ci venivano<br />

gli attacchi: respiro affannoso, nodo alla gola e<br />

cazzo a bastone, più duro del manico della zappa che<br />

si aveva tra le mani.<br />

Se si era soli ci si intanava nel primo cespuglio che si<br />

trovava. Ci si sbraghettava e ci si strangolava il bestione<br />

focosamente. Ci si distendeva con gli occhi chiusi per<br />

“vedere” le grazie o qualche inizio di coscia di una fanciulla<br />

che si era vista occasionalmente. Non esisteva<br />

più nulla allora, né gregge né zappa, che spesso si lasciava<br />

infissa sul terreno prima di rintanarci, né acqua<br />

né gelo così come succedeva a thiu Antonìccu e a thiu<br />

Diddhìa.<br />

E sotto il sole e nel silenzio del bosco ci si distendeva<br />

per godere di questa concessione: la distensione segale.<br />

Spesso il cespuglio, la nostra donna, oscillava a singhiozzo<br />

e subiva gli scossoni della destra inarrestabile<br />

e del corpo elettrizzato che si contorceva nelle varie riprese.<br />

Tra pastorelli, se il caso ci dava la possibilità di incontrarci,<br />

le seghe si facevano a gara. Un modo come un altro<br />

per esprimere la nostra forza e far vedere uno all’altro<br />

cosa si era in grado di fare.<br />

– Ciao compà! Oggi vi batto. Sto facendo sempre allenamento.<br />

L’altro giorno sono arrivato a otto!<br />

121


– E perché io non ci arrivo a otto? Avantieri me ne<br />

sono fatto quattro in un quarto d’ora. Anch’io mi alleno.<br />

Quando mio padre se ne va, mi sdraio sotto l’albero<br />

e non mi muovo più. Rotolo solo per seguire l’ombra<br />

quando si sposta con il sole.<br />

Quando si era sui dodici-tredici anni, con tre amici mi<br />

successe una cosa che provo quasi vergogna a confessare.<br />

Pochi giorni prima c’era stata la vendemmia nella vigna.<br />

Per tagliare l’uva il babbo aveva fatto venire alcune<br />

ragazze sui diciotto vent’anni. Tutto il giorno noi ragazzi<br />

sbirciammo le loro sottocosce. Non era ogni giorno<br />

che ne vedevamo. E naturalmente, insieme, tentammo<br />

due-tre attacchi segali, chi contro una chi contro l’altra,<br />

nella nostra fantasia ingelosita.<br />

Passati alcuni giorni piombammo sul punto dove<br />

quelle ragazze andavano a pisciare e a cacare. Quel<br />

giorno furono le seghe più violente che si potessero fare,<br />

alla vista della cacca ormai secca che ognuno si immaginava<br />

fatta da questa o da quella. Dove ci si sdraiò,<br />

ognuno pensava che quel punto fosse stato pisciato<br />

dalla sua preferita.<br />

Oppure si ricorreva ad espedienti meno frequenti,<br />

ma diffusi ugualmente: con le bestie.<br />

Un giorno, di ritorno da Sìligo, in su Tuvu io e G. fummo<br />

spettatori di una cosa del genere. Sulla strada maestra<br />

dai nostri somari che ci facevano fare capolino sui<br />

chiusi che vi si snodavano, ci capitò sotto gli occhi un<br />

pastorello alle prese con la sua somara.<br />

– Va a finire che se la fa, – fece G.<br />

Il pastorello, sui quattordici anni, provava, ma non ci<br />

arrivava da terra. Allora fece accostare la sua donna a un<br />

122<br />

mucchio di pietre. Vi salì. E finalmente le sue gambe gli<br />

permisero di congiungere il molle con il sodo. Si calò i<br />

pantaloni e cavalcò la sua bestia con un fare intraprendente<br />

come se ne avesse il diritto: era sua. Si scosse il culetto<br />

e subito si calmò abbracciandosi alla sua amante,<br />

distendendosi sopra di lei dopo averle fatta la funzione.<br />

– Tu te la faresti la somara? – chiesi a G.<br />

– Io me la sono già fatta in Capiàna. Fùria de mincra<br />

libera nos domine!<br />

Non erano i soli. La maggior parte lo faceva e tutti<br />

pensavamo di farla. Di preferenza con le pecore e con<br />

le capre.<br />

Thanne ci tentava spesso quando il padre lo mandava<br />

da solo a abbeverare il gregge, lungo il sentiero dietro il<br />

solito polverone. In genere lo faceva al cancello che<br />

sbarrava la strada al suo gregge prima di uscire dal<br />

chiuso. Le sue pecore si pressavano al varco. Lui le attraversava<br />

per raggiungere il cancello, ma non sempre<br />

riusciva ad aprirlo; veniva colto dai soliti attacchi. Allora<br />

si calava in mezzo al gregge ammassato. Si sceglieva<br />

quella che per lui era la più bella. La metteva pancia all’aria<br />

per sentire il turgore delle mammelle sul ventre e<br />

se la faceva frettolosamente coi pantaloni calati a mezza<br />

coscia mentre il gregge attendeva sotto il sole che il<br />

pastore aprisse il cancello. In quel momento neanche il<br />

cannone poteva distrarre l’amante che stava inventando<br />

la donna.<br />

Una volta degli amici mi convinsero (eravamo piccoli<br />

sui dieci anni, a Sìligo, durante una delle ore di libertà<br />

che il babbo mi concedeva di andarci) di assalire un<br />

pollaio di un amico. Eravamo in tre. Entrati dentro e<br />

123


tra lo schiamazzo delle galline ognuno se ne scelse una<br />

e si mise a fare la funzione tra le risate reciproche.<br />

– Compà, questa dal collo implume ha il culo caldissimo.<br />

È una meraviglia. – Ognuno la volle provare. Effettivamente<br />

era vero.<br />

Quanto ai servi pastori e agli scapoloni, la latitanza<br />

sessuale era completa. Molti i cespugli li continuavano<br />

a frequentare fino a che non si sposavano e qualcuno fino<br />

alla morte se la sua esuberanza gli concedeva questa<br />

beatitudine solitaria. Per i servi pastori vigeva allora<br />

una regola. Verso i diciotto anni, il <strong>padrone</strong> li portava<br />

nelle case di tolleranza almeno una volta all’anno, così<br />

potevano stuzzicare la loro fantasia per almeno molti<br />

mesi tra i cespugli del bosco.<br />

Sentivo dire dai pastori di Sìligo un fatterello curioso,<br />

ma veritiero. Il <strong>padrone</strong> aveva promesso di portare il<br />

suo bravo servo a Sassari per accoppiarlo, ma indugiava<br />

sempre, un po’ perché non trovava il tempo e un po’<br />

perché non voleva spendere soldi. Il servo insisteva<br />

sempre, mese per mese.<br />

– Thiu Antó! Ma quando mi portate lì. Eh... Me lo<br />

avete promesso!<br />

– Va bene. Domenica andiamo.<br />

E quella volta ci andarono. Per il servo Giommarìa<br />

era la prima volta.<br />

Quando il servo ritornò all’ovile, tutti gli altri servi<br />

più piccoli che aspettavano il loro grande giorno (sempre<br />

che avessero avuto un buon <strong>padrone</strong>) fecero a gara<br />

per sapere.<br />

– Beh! Giommarì, che gusto ci si prende a fare l’amore?<br />

Com’è?<br />

124<br />

– Eh! Tutt’altra cosa è. È senza coda!<br />

Agli sposati, poi, non è che bastassero i rari amplessi<br />

di turno. Spesso anch’essi dovevano ricorrere ai “lavori<br />

manuali” dentro i cespugli. Le loro mogli, nei paesi,<br />

dovevano vivere la stessa siccità; e se erano fedeli fare<br />

come i mariti.<br />

I don del paese facevano razzia di queste spose abbandonate<br />

dalle circostanze. Questi rapaci, i cui padri<br />

o avi in base alla legge delle chiudende (1824 e fino al<br />

1848) erano divenuti i più grandi latifondisti del paese,<br />

erano sempre quelli che davano le terre in affitto ai pastori.<br />

E dominavano su tutti. Aquile della situazione.<br />

Anche se non si ricordavano più come erano fatte né<br />

dove erano le loro tanche, continuavano sempre a riscuotere<br />

i tre quarti del raccolto o un fitto corrispondente<br />

senza muovere un dito. Con le ceste piene di formaggio<br />

e i granai ricolmi di biada (cun sas coves piènas<br />

de casu e sas lùscias piènas de laòre) potevano spassarsela<br />

come volevano per il paese. E quando i loro coloni<br />

pastori se ne stavano come al solito a lavorare i propri<br />

campi o al pascolo con il gregge, i don, come rapaci in<br />

pollai incustoditi, calavano sulle donne abbandonate.<br />

I don sparvieri facevano colpo su queste galline che,<br />

com’era costume, allora le accoppiava solo l’autorità<br />

del prete o quella dei loro familiari. A differenza dei loro<br />

mariti i don avevano sempre la barba fatta e le mani<br />

morbide. Non puzzavano di pecora né di cacio. E data<br />

la loro posizione non gli era difficile “sedersi” le mogli<br />

dei loro stessi pastori. Spesso, anzi, le ricattavano.<br />

– L’anno prossimo tuo marito non avrà la tanca. Se<br />

ami tuo marito, fallo, su.<br />

125


Don Juànne per vantarsi con i suoi amici sparvieri e<br />

col proprio servo addirittura diceva:<br />

– Oh, Antó!<br />

– Ei, Don Juà, comandi!<br />

– Bona ti sembra la moglie del tale?<br />

– Caspita, Don Juà!<br />

– Dille che le debbo dare un corbello di fave (una cóvula<br />

de fae) o daglielo tu stesso. Poi ci passo io.<br />

Il servo che curava i granai, sapeva già cosa doveva fare.<br />

In qualche modo cercava di dare del grano alla donna,<br />

che quasi sempre ne aveva bisogno per fare il pane<br />

ai propri figli. Don Juànne quindi aveva la scusa per capitare<br />

in casa nel pollaio incustodito. Catturare la donna<br />

con il grano coltivato dallo stesso marito della “gallina”.<br />

Thiu Laréntu, rispettato da tutti nel paese (aveva moglie<br />

e figli invidiati) un giorno si era crogiolato un po’<br />

troppo sulla sua serva e l’aveva messa incinta. Subito ricorse<br />

ai ripari in un modo abbastanza comune. – Non ti<br />

preoccupare, Luisa.<br />

– Dimmi con chi ti vuoi sposare. Quale dei miei servi<br />

ti piace?<br />

– Ma... ora sono...<br />

– Non fa nulla! Ci penso io!!!<br />

– Ma missignorì... non è...<br />

– Dimmi: Antóni, Juànne o Gavìnu?<br />

Thiu Laréntu sapeva che tra Luisa e Antóni c’era stato<br />

del tenero, ma fino ad allora lui stesso era riuscito a distoglierne<br />

la ragazza, nonostante le insistenze del ragazzo.<br />

Ormai, però, poteva finire nelle mani del servo. Sellò il<br />

cavallo e scese subito nell’ovile. Si fece chiamare Antóni.<br />

126<br />

– Senti Antó! Da domani, starai in paese fino alla fine<br />

della raccolta delle ulive. Ci vai con Luisa. Si stanno<br />

guastando: stanno cadendo in mezzo all’erba... è tempo<br />

ormai... Di te mi fido!<br />

– Sì missignorì! Va bene! Va bene! Comandi!<br />

Antóni se ne stava andando. Thiu Laréntu però lo<br />

raggiunse mentre usciva dalla capanna, con la sua voce<br />

imperiosa:<br />

– Ascolta, Antó.<br />

– Comandi, missignorì!<br />

– Prenderai la cavalla grigia (s’ebba murra). Ti metti<br />

Luisa in groppa... ehh! non toccarla, no... Hai capito?<br />

Non toccarla ehh! Tu sei un bravo ragazzo (unu teràccu<br />

onu) e mi fido. Se la tocchi, lo sai quello che succede,<br />

no? Che non ti vengano i grilli per la testa. Ti toccherebbe<br />

sposarla. Io non voglio scandali. La mia casa è<br />

onorata e rispettata da tutti.<br />

– No, missignorì! Non mi succede nulla! Eh! Non si<br />

preoccupi. Luisa con me non avrà alcun male... Raccoglieremo<br />

solo le ulive.<br />

– Eh! Così va bene! Sellati la cavalla e vai in paese.<br />

Domani potrete partire presto.<br />

Il giorno dopo, di buonora Antóni partì per l’oliveto<br />

con Luisa. Giunti sul posto, senza fare caso alle grazie<br />

della ragazzona, si arrampicò sull’albero a scuoterne le<br />

branche: ad abbacchiarle con la pertica (cun sa mazzadòsa)<br />

e a mungere i rami. Le ulive cadevano abbondantemente<br />

per terra ammassandosi sulle aiuole (in sas costìnas).<br />

Luisa per terra mungeva anche lei i rami bassi e<br />

laterali direttamente dentro il corbello. Antóni dall’alto<br />

della pianta di tanto in tanto fingeva di prendere fia-<br />

127


to e approfittava per sbirciare attraverso i fitti rami le<br />

turgide tette di Luisa, i capelli corvini e tutto quello che<br />

i suoi occhi riuscivano a prendere di sfuggita. Ad un<br />

certo punto anche Luisa si arrampicò sull’albero a<br />

mungere i rami più alti della pianta. Antóni così se la<br />

poteva squadrare meglio. Finalmente le poteva vedere<br />

il grosso delle cosce rossastre e i fianchi. La ragazza<br />

mungeva e come per rompere il silenzio, l’imbarazzo<br />

del compagno di lavoro, intonò un canto:<br />

– …unu piantòne nou / a sos campos est dendhe umbra...<br />

– Finito di abbacchiare l’albero e munti i rami<br />

bassi, presero un’aiuola ciascuno e incominciarono a<br />

raccogliere. L’aiuola di Luisa era scoscesa e più in alto<br />

Antóni poteva vedere fino in fondo e pregustava il giardino<br />

delle sue cosce dure e lisce lisce. Chino sul corbello,<br />

Antóni sembrava un ciuco in fregola. Ma Thiu<br />

Laréntu lo tratteneva.<br />

Luisa, però, istruita dal suo <strong>padrone</strong>, lo doveva provocare.<br />

Gli ordini erano questi. In mille modi quando<br />

si spostava dietro le ulive si metteva in mostra.<br />

– Antó! M’imbocchi il sacco? – diceva quando il suo<br />

corbello era pieno.<br />

E mentre si chinava per capovolgervi il corbello, opportunamente<br />

gli sfregava pudicamente le chiome sul<br />

viso. A mezzo giorno, lasciarono i sacchi ritti sotto la<br />

pianta e andarono a mangiare in una capannetta (in su<br />

pinnéttu), vicino al cancelletto d’entrata (in sa jaga). Incominciarono<br />

il pranzo. Antóni però non si contenne<br />

più di fronte a Luisa.<br />

In uno slancio di libidine si accostò a Luisa, che, benché<br />

dovesse farsi aggredire, si ritrasse. Ma Antóni or-<br />

128<br />

mai si era scoperto. Aveva incominciato. Andasse come<br />

andasse Luisa si schermiva. Antóni avanzava. Su pinnéttu,<br />

però era piccolo. Schermi schermi, le spalle di<br />

Luisa toccarono la parete. Non poteva più indietreggiare.<br />

Il momento era giunto. Antóni la ghermì sulle<br />

cosce. Ormai era sua. La ragazza si lasciò andare come<br />

succube della circostanza.<br />

Su pinnéttu, la cui impalcatura poggiava direttamente<br />

sul terreno (a fustes in terra), oscillava nella sua cuspide<br />

di stoppie e sopportò malamente la tempesta. I<br />

due amanti si sbattevano nei loro amplessi, ormai avvinti<br />

l’uno all’altra e strombazzandosi come conigli. Fu<br />

il momento più bello della vita di Antonio e forse anche<br />

di Luisa. Finalmente poteva sposarsi: le catene con cui<br />

Thiu Laréntu la teneva “zitella” si erano spezzate nello<br />

scontro con la morale comune: era libera.<br />

Nella loro foga amorosa erano andati a finire con le<br />

gambe fuori dal pinnéttu e nel frastuono più sfrenato<br />

(forse anche all’insaputa di Luisa) piombò Thiu Laréntu,<br />

che non si lasciò sfuggire l’occasione di recitare la<br />

sua parte.<br />

– Disgraziato! Delinquente! Te l’avevo detto di non<br />

toccarla... Che non avrei sopportato scandali in casa<br />

mia... Farabutto. La mia casa nello scandalo! Ora te la<br />

sposi... Sennò ti rompo le ossa!!!... Proprio con Luisa ti<br />

dovevi mettere!!!... La migliore tra le mie serve...<br />

Ehhh!!! Balle!!! Ora paghi. Preparati a sposartela...<br />

– Scusi, missignoria, io...<br />

– Io un corno!... Non c’hai visto più.<br />

– Sì, io, a Luisa le voglio bene. Ci siamo innamorati:<br />

me la sposerò. Non sarà uno scandalo, anzi, La ringra-<br />

129


zio! Sì La ringrazio ché Lei ci permette di sposarci.<br />

Grazie! Glielo prometto che non sarà uno scandalo!!<br />

– Me lo prometti? Va bene! Non te la prendere! Io<br />

sono andato in bestia! Potevate parlarmene. Non sono<br />

cose da fare di nascosto queste... Quello che ti posso fare<br />

lo farò. Metterò una buona parola con i suoi genitori...<br />

Ma la verità la dovranno sapere. Io non posso tacere.<br />

Peggio per voi! Cercherò di aiutarti per il corredo.<br />

Potrai fare il mezzadro con me... Ma è una cosa da fare<br />

subito... Prima che scoppi la grana... Stanotte stessa andrò<br />

dai suoi e vedremo di affrettare le nozze, – sentenziò<br />

Thiu Laréntu scomparendo.<br />

Mio padre era sempre desideroso di farsi onore: di<br />

accrescere il peculio familiare, di finire l’oliveto che<br />

aveva già iniziato. E si lamentava sempre del fatto che<br />

perdeva troppo tempo nell’andirivieni tra Sìligo e Baddhevrùstana<br />

per fare provviste. L’unica soluzione gli<br />

sembrava quella di ritornare all’antico: deportare tutta<br />

la famiglia all’ovile, come avevano fatto i suoi zii e suo<br />

padre.<br />

Il suo proposito si diffuse subito per il paese. E nel<br />

parentado e nella famiglia destò scalpore e sgomento<br />

insieme. Era un’abitudine antichissima far risiedere la<br />

famiglia all’ovile. Ma già nel ’49 per Sìligo e dintorni<br />

era una cosa sorpassata. I pastori, nonostante tutto, facevano<br />

il possibile perché le loro mogli rimanessero in<br />

paese con i loro figlioletti in modo che frequentassero<br />

la scuola elementare. Allora le famiglie fuori dall’ufficialità<br />

storica e segregate in campagna, erano solo sette<br />

130<br />

o otto. E quasi tutte queste famiglie erano barbaricine<br />

o dell’interno dell’isola.<br />

L’idea di mio padre quindi non poteva più trovare<br />

orecchie amiche tra gli abitanti di Sìligo. I parenti più<br />

stretti si scagliarono contro di lui.<br />

L’ultimo tentativo lo fece il nonno materno. Come<br />

tante altre volte, capitò in campagna, a Baddhevrùstana.<br />

E non mi raccontò le sue storielle né mi fece le sue<br />

battute come soleva fare scherzosamente:<br />

– Oggi sono venuto a portarmi via il pozzo che ha fatto<br />

tuo padre!<br />

– Il pozzo? E noi come facciamo... Non ci credo! E<br />

dove lo porti?<br />

– Lo metto dentro la bisaccia e me lo porto a Monte<br />

Ruju. Là, lo vedi?<br />

– Ma il pozzo è profondo e non ce la farai a toglierlo.<br />

Voglio vedere!<br />

– Lo tolgo fuori. Scavo con il piccone.<br />

Quel giorno niente di questo. Si vedeva che era venuto<br />

per qualche cosa insolita. Lui si mise a lavorare con il<br />

babbo. Fece finta di nulla. Tra una faccenda e l’altra,<br />

però trovò il modo di scivolare sull’argomento.<br />

– Ho sentito che vuoi portarti la donna qui all’ovile.<br />

Ma che ti salta in testa (ite ti pìgada a conca)? Sei geloso?<br />

Non credo sia questa la ragione.<br />

Il babbo dopo un momento d’imbarazzo e di silenzio<br />

iniziale, che superò aumentando il ritmo del suo lavoro,<br />

gli rispose con la solita foga.<br />

– Certamente! Qui, come vedi, ho molto da lavorare.<br />

Non posso perdere il mio tempo per strada. Tra Sìligo<br />

e Baddhevrùstana. Il ragazzo è ancora piccolo.<br />

131


Non può stare sempre a pane e formaggio. Io stesso<br />

quando qui ci sarà la donna, starò meglio. Lavorerò di<br />

più. Anche lei mi aiuterà in alcuni lavori. Gavino è già<br />

grande. Ha nove anni, ormai, e mi potrà aiutare nell’agricoltura,<br />

se nel gregge lo sostituisce Filippo, che<br />

ne ha già sei. Insomma quando la famiglia è qui, cambierà<br />

tutto. Il lavoro sarà in casa. Tutti produrranno.<br />

La questione è tutta qui. Ognuno si deve produrre<br />

quello che si mangia.<br />

Il discorso era concitato. Il babbo si dimenava e si<br />

sforzava per vincere l’imbarazzo e darsi più autorità.<br />

La sua foga mi ricordò il discorso che quattro anni prima<br />

aveva fatto alla maestra. Il nonno per un attimo fu<br />

travolto. Rimase allibito e mortificato. Disarmato. Si rifugiò<br />

nel silenzio e piombò in uno stato di disagio. Un<br />

attimo di attesa. Il ritmo del lavoro salì vertiginosamente<br />

sui filari della vigna. L’unico mezzo che le circostanze<br />

offrivano per vincere l’uno il disagio dell’altro. Le<br />

zappe salivano e scendevano rivoltando le zolle risalendo<br />

di nuovo come impazzite.<br />

Di colpo, il nonno si armò nella riflessione. Si rizzò.<br />

Si appoggiò il fianco al manico della zappa sul filare e si<br />

scaricò in una tirata di rabbia. – E che vuol dire perdere<br />

tempo per strada? A Sìligo ci dovrai andare lo stesso a<br />

fare provviste e a portarci il latte. Anche quando qui ci<br />

avrai la donna. Questa storia non regge. Tu non puoi e<br />

non devi assolutamente disporre della famiglia a seconda<br />

dei tuoi comodi. Devi fare gli interessi della famiglia.<br />

Devi fare come fanno gli altri. È una vergogna.<br />

Una beffa. Tu guasti l’onore della famiglia. Vergognati!<br />

Questo lo ha potuto fare tuo padre in su Colomìnzu!<br />

132<br />

Erano altri tempi. Ora ci sono le scuole e tu devi mandare<br />

i figli a studiare.<br />

– Studiare? Scuola? Prima bisogna campare. Io non<br />

posso mandarli a scuola tutti quanti. Se ne mando uno<br />

nascono le invidie tra quelli che non potrò mandare.<br />

Non farò parzialità. Il governo? Il governo ci deve pensare.<br />

Perché non ci pensa lui? Mi dia un tanto a figlio.<br />

Cosa vogliono questi?<br />

– Pastori molto più poveri di te li mandano. La famiglia<br />

la lasciano in paese. E tu? Tu che possiedi questa<br />

tanca. Io ti posso aiutare. Non fare questa beffa.<br />

– Ma che beffa! Beffa est a furàre! La tanca è tutta<br />

piena di cisto: est unu mudejàzu. Bisogna bonificarla.<br />

Sennò il pascolo e l’oliveto non crescono.<br />

Mio nonno era abbastanza saggio e forse comprendeva<br />

bene quale “rovina sociale” sarebbe stata la “deportazione”<br />

della famiglia. E anche se la decisione del<br />

babbo gli suonava come “uno scandalo del casato”,<br />

“una vergogna”, il suo discorso era giusto, ma solo per<br />

il fatto che la morale comune si vergognava già di fare<br />

un’azione del genere.<br />

– Io ho allevato otto figli, – continuò il nonno. – Il<br />

pastore l’ho fatto prima di te e anche in tempi più duri.<br />

Come tu sai, io ero un servo pastore. Lo sai che mi sono<br />

fatto da solo. Quando mi sono sposato non avevo<br />

nulla. La mia fidanzata cambiò il gherone alla camicia,<br />

l’unica che avevo. Eppure, la famiglia non me la sono<br />

portata all’ovile anche se mi avrebbe fatto comodo. Si<br />

sa che la donna piace averla sempre giorno per giorno...<br />

All’ovile ci venivano tutti. Io pretendevo molto<br />

da loro, anche dalla donna. Ma questa beffa non l’ho<br />

133


fatta, io. Un conto è farli lavorare qui occasionalmente,<br />

un altro segregarli qui come le tue bestie, per sempre<br />

nel silenzio. Se questo lo hai fatto con Gavino, ora non<br />

farlo con gli altri. La donna è bella di notte, ma il dovere,<br />

il dovere è un’altra cosa.<br />

Mio padre quel discorso lo capiva benissimo. Altri<br />

motivi e altri intenti, tuttavia, glielo rendevano banale,<br />

estraneo, non importante, quasi fosse un lunghissimo raglio<br />

di somaro come ne sentiva tanti durante i suoi lavori.<br />

Il divagamento di Baddhevrùstana da soli parlava a<br />

favore di mio padre. Si mangiava quasi sempre asciutto.<br />

I vestiti sempre sporchi e unti: sudore e latte. La solitudine,<br />

poi, di quel bosco ci divorava e ci inghiottiva.<br />

Ci masticava e ci digeriva nelle sue selve.<br />

Quando andavo a Sìligo d’estate o in autunno (in s’istìu<br />

o in s’atùnzu), spesso facevo di tutto per condurmi<br />

Filippo a Baddhevrùstana. Mi faceva compagnia, giocavo.<br />

E anche se era più piccolo riuscivo ad adattarmi.<br />

Prima fu lui stesso a pregarmi di portarlo in groppa.<br />

Alla fine, la sua curiosità per la campagna si esaurì. Mi<br />

veniva sempre più difficile portarmelo via. Si comportava<br />

come io mi ero comportato con mio padre. A me<br />

toccò fare come lui.<br />

Anch’io ricorrevo agli zuccherini con cui mio padre<br />

nel primo periodo mi riconduceva all’ovile.<br />

– Ci vieni oggi in campagna? Nella vigna l’uva sta maturando.<br />

Sta diventando nera (este dinghèndhe). Ieri ho<br />

contato otto acini già neri in un solo grappolo (deris appo<br />

contàdu in d’unu solu udròne otto puppugiònes già<br />

nièddhos).<br />

– È buona per mangiare?<br />

134<br />

– Sì! È già dolce! Su pirastùlu (una qualità di pera),<br />

poi, è già maturo. Tutto color croco (est lómpidu e grogu<br />

meru).<br />

– Allora ci vengo.<br />

– Nella vigna vengono molti uccellini a beccarsi gli<br />

acini già neri.<br />

– Il babbo ci ha fatto una baracca vicino a issa bira<br />

muntò e vi ha portato una tamborlana. Io me ne sto<br />

quasi sempre lì, a colpirla con un bastone. Fa un suono:<br />

una campana! Gli uccelli allora sorvolano, ma non<br />

s’abbassano a mangiare.<br />

– Andiamo! Voglio vedere tutto.<br />

– Monta in groppa!<br />

Così anche Filippo spesso faceva la solita strada tutto<br />

incuriosito in groppa. Una volta arrivati, si annoiava. Io<br />

non avevo molto tempo per giocare, dovevo lavorare.<br />

Il babbo, poi, non voleva che me lo portassi. Il gioco<br />

mi distraeva dal lavoro. Sotto il pero, spesso “rintoccavamo”<br />

la tamborlana: suoni e suoni: le campane<br />

di Baddhevrùstana.<br />

Così tutto il periodo estivo, da quando l’uva incominciava<br />

a tingersi (in su cabidànni), Filippo riuscivo<br />

ad allettarlo e a portarmelo.<br />

Era sempre più difficile, però. Man mano che il tempo<br />

passava esaurivo le cartucce, gli zuccherini: non<br />

avevo più curiosità da mostrargli. Io dovevo sfogarmi<br />

picchiando la tamborlana sotto il pero e gridare agli uccelli<br />

la mia desolazione.<br />

Ben presto le cose cambiarono. Il babbo si decise a<br />

condurre, tra la recriminazione della gente, tutta la famiglia<br />

all’ovile.<br />

135


– Oggi vado in paese a prendere tua madre e i tuoi<br />

fratelli: non starai più solo.<br />

– Ma veramente!<br />

– Certo.<br />

– Ora vado: stai attento al gregge!<br />

Lì per lì provai una gioia immensa: sarebbe finita la<br />

desolazione della mia infanzia e la “prigionia” del silenzio.<br />

Giunto a Sìligo, il babbo tra il disappunto della gente<br />

e la desolazione della mamma, noleggiò un camion e<br />

con l’aiuto di alcuni ragazzi vi fece caricare tutto.<br />

Si scatenò il temporale della morale comune: lui non<br />

se ne curò nemmeno: non voleva accorgersene!<br />

– Ora si porta anche gli altri, a svezzare in campagna.<br />

– Deve essere geloso della moglie! Se non l’ha sotto<br />

gli occhi non vive tranquillo!<br />

Mio padre non dava retta né peso alla morale comune<br />

più “avanzata”. Imperterrito e fermo nei suoi propositi<br />

caricava la roba sul camion. Si dibatteva da una<br />

parte all’altra dando ordini, sistemando tutto, <strong>padrone</strong><br />

della situazione.<br />

I miei fratelli, richiamati dalla scuola montarono sul<br />

carro guidato dal babbo. La mamma vi montò piangendo<br />

sotto lo scialle nero. La gente sputò gli ultimi<br />

commenti, spifferando e “leggendo” qualche brano saliente<br />

della vita del babbo. Il carro sfidò la tempesta. Si<br />

mise in moto e pian piano si allontanò sulla strada bianca<br />

verso Baddhevrùstana.<br />

Il carro era libero. Si allontanava sempre più dalla<br />

morale comune inasprita ed agitata strappando per<br />

sempre i miei fratelli dal mondo “ufficiale”, dalla sto-<br />

136<br />

ria, così come io ero stato strappato cinque anni prima<br />

dal somaro, incitato dallo scrollare delle gambe nervose<br />

di mio padre.<br />

Con loro ora tutto era diverso. La casa e la capanna<br />

addobbate assumevano un aspetto mai visto. Persino il<br />

campo ora parlava un’altra lingua. Le grida, i pianti banali,<br />

i canti dei miei fratelli, si spandevano dappertutto,<br />

modificavano la quiete delle sue valli: il silenzio mai<br />

turbato che a me parlava segretamente o quando la natura<br />

crepava dalle risate in primavera o quando d’inverno<br />

ululava gelo e bufera.<br />

E alla faccia della morale comune, ora, io stavo meglio<br />

davvero. Ogni giorno trovavo il pranzo pronto e ci<br />

si riuniva a tavola come se fossimo stati a Sìligo. Tutto<br />

era pulito. La mamma addirittura scopava lo spiazzo.<br />

La presenza all’ovile dei miei fratelli aveva fatto scattare<br />

automaticamente la scala gerarchica. Una catena<br />

che coinvolgeva tutti i membri della famiglia. Si era<br />

sciolto ora il binomio Gavino-natura. E in assenza del<br />

babbo, secondo costume, a me spettava il ruolo di capo.<br />

Quando lui si assentava, io dovevo fare il soprastante.<br />

Nei primi tempi i miei fratelli avevano paura degli<br />

animali, degli insetti e delle serpi. Allora dovevo<br />

imitare mio padre nel distruggere nella loro mente i<br />

fantasmi che si erano creati su questi intrusi abitatori<br />

del nostro spazio. Con loro così si andava a caccia di lucertole<br />

e gechi (de tilighèrtas e de tiligùgos), di scarafaggi<br />

e di serpi. Io li prendevo e li uccidevo giocando. E<br />

con il gioco spariva in loro ogni paura.<br />

La giornata, specie se non c’era mio padre, era movimentata.<br />

La trascorrevamo dietro le pecore con Filippo<br />

137


e Vittoria (la sorella maggiore chiamata da noi la maestra,<br />

l’unica che sapeva leggere) che si portava dietro<br />

tutti gli altri.<br />

Filippo incominciava a farmi compagnia. Mi aiutava<br />

a condurre le pecore e nelle altre faccende. Si asportava<br />

insieme il letame dall’ovile, si perlustrava il campo e si<br />

rinforzavano e si assiepavano i muri di cinta. Si abbeveravano<br />

le pecore dietro il loro nembo di polvere.<br />

Venne l’inverno. Le cose cambiarono. La vita animosa<br />

e idilliaca svanì come le foglie d’autunno. Il freddo<br />

invernale rintanò in casa i miei fratellini. Li inchiodò al<br />

focolare. E il campo riparlò nella sua lingua di sempre e<br />

nei suoi dialetti. Ritornai ad essere solo nella custodia<br />

delle pecore, obbligatoria durante i temporali.<br />

Si dormiva tutti in una stanza, separati da tende. Le<br />

notti erano lunghissime. Si andava a letto prestissimo.<br />

E la mattina si parlottava molto prima dell’alba. Nostro<br />

padre appena ci sentiva si preoccupava del nostro stato<br />

di salute perché doveva programmare per ognuno la<br />

giornata lavorativa.<br />

La mattina dal suo letto faceva il dottore.<br />

– Gavì, come ti senti oggi?<br />

– Bene!<br />

– La gola ti fa male?<br />

– No, no!<br />

Il furbacchione di mio fratello (che era sempre il secondo<br />

ad essere intervistato) se non lo aveva fatto già da<br />

prima, incominciava a rantolare, a raschiarsi la gola l’avesse<br />

o non l’avesse infiammata. Emetteva suoni strani<br />

espirando l’aria forzatamente. Era molto abile nel farlo.<br />

Faceva suonare il suo apparato respiratorio come una<br />

138<br />

fisarmonica con le ance sporche. Tutto stonato. Il babbo<br />

si preoccupava. Filippo insisteva per provocare l’intervento<br />

del “dottore”.<br />

– Filìì, eh, tu, come stai?<br />

– Mal di gola! Mal di petto (dolòre ’e pettòrra). Tosse.<br />

– Specie se sentiva la pioggia o la grandine picchiare<br />

sulle tegole o se vedeva i lampi danzare alla finestra.<br />

Il “dottore” allora si ammutoliva come per ascoltare<br />

il temporale. Filippo insisteva nel buio della stanza e<br />

suonava con i suoi bronchi un catarrone. Io gli davo dei<br />

calci perché non esagerasse.<br />

– Eh! Oggi sembri preso male. Sei tutto suoni. Sembri<br />

una fisarmonica. Oggi te ne stai a casa. Non uscire.<br />

Alle pecore ci pensa Gavino!<br />

– Sì, sì! – concludeva Filippo suonando i suoi bronchi.<br />

– Prendi il latte caldo zuccherato.<br />

– Sì. Va bene!<br />

– E tu, – rivolto a me – copriti bene. Oggi è una brutta<br />

giornata (oe est una die mala). Le pecore falle pascere<br />

nella valle (fàghelas pàschere in su addhìju). Starete più<br />

riparati. Io dovrò andare in paese.<br />

Con questo sotterfugio tracheale, mio fratello, oltre a<br />

farsi prescrivere il latte zuccherato (noi lo si prendeva<br />

con il sale) evitava vento pioggia e gelo. Non veniva<br />

nemmeno a darmi il breve turno che spesso mi consentiva<br />

di rifocillarmi in su foghìle e riscaldarmi dalla cancrena<br />

del freddo.<br />

Così a me toccava stare solo dietro le pecore ininterrottamente,<br />

come prima, sotto l’ombrellone verde, dentro<br />

un cappotto del babbo, inzuppato d’acqua, che mi<br />

scendeva fino a terra. Se non pioveva molto me la spas-<br />

139


savo ammaestrando qualche pecora, ammansendola,<br />

facendola venire da me per toccarla. Con i soliti versi affettivi...<br />

ddddd! lè,lè,lè!lèèèèlè lèlè! e con le ghiande<br />

raccolte sulla destra chiamavo Leperèddha. Si avvicinava<br />

timidamente, poi, lasciandosi vincere dai miei suoni<br />

e dalle ghiande, allungava il muso e si mangiava quello<br />

che le offrivo. Alla fine, quando facevo colazione, Leperèddha<br />

mi si metteva davanti e belava. Voleva il pane.<br />

Le piaceva non solo il formaggio, ma perfino la salsiccia.<br />

Quando si scatenava la natura, però, l’unico passatempo<br />

era ascoltare il discorso della pioggia. Osservare<br />

la sua danza come scendeva ritmata, giocata e frantumata<br />

dal vento. Sul tetto frondoso del bosco, scosso dal<br />

vento, che ululava sulle foglie come un lupo affamato,<br />

l’eco del temporale si spandeva. E nella solitudine, la<br />

parola della natura scatenata dominava su tutto. Io, appoggiato<br />

al fusto di un albero, riparato dalla sua cavità<br />

(in calchi tuva) o sotto la semiluna di qualche macigno<br />

(in calchi perca), riascoltavo di nuovo il vecchio silenzio,<br />

che non avevo dimenticato. Il dialogo rinasceva.<br />

Spesso, mentre parlavo con le pietre e con gli alberi, mi<br />

imbattevo casualmente con Battòre lungo i muri di<br />

confine. Anche lui era sperduto come me con la sua famiglia<br />

in Bestìa vicino al nostro ovile. Era del Bittèse.<br />

La sua famiglia era emigrata nel Logudòro dalla Barbàgia<br />

come tante altre in cerca di pascoli più feraci.<br />

Quando ci si incontrava, mentre mio padre trottava<br />

verso Sìligo, non ci interessava più di nulla, né della pioggia<br />

né del vento. Con versi affettivi, vezzi e mosse, fischi<br />

modulati e gemiti abituali ammaliavamo i nostri greggi<br />

lungo i muri in modo da stare insieme più a lungo possi-<br />

140<br />

bile. Parlavamo di cose ingenue. Solo del nostro mondo<br />

vissuto. I discorsi su cose in generale non esistevano.<br />

Quasi sempre, però, quando ci si incontrava, si finiva<br />

per parlarci con un’altra lingua più familiare alla nostra<br />

esperienza. Con la forza. Non è che ci si azzuffasse, ma<br />

si faceva di tutto per esprimere l’uno all’altro il nostro<br />

fisico. Si incominciava con le gare alla corsa sulle mulattiere<br />

correndo da un punto ad un altro imitando gli<br />

agnelli. E anche se stava piovendo a rovescio, ci si superava<br />

senza risparmiarci, guizzando come leprotti inseguiti<br />

dai cani.<br />

La lotta era il discorso più pastorale. Si giocava a s’istrùmpa.<br />

Consisteva nell’atterrare l’avversario mettendolo<br />

con la schiena a terra. Ci si piazzava prima l’uno di<br />

fronte all’altro senza commettere vigliaccheria alcuna.<br />

Ci si avvinghiava alla vita o alla cintola a seconda della<br />

nostra preferenza (purché si fosse tutti e due nello stesso<br />

modo), incrociandoci le braccia a X.<br />

A un segnale convenuto – sono pronto, – se l’altro rispondeva<br />

– sono pronto, – si dava il via. La lotta incominciava<br />

sull’erba senza risparmiarci. La mia carta segreta<br />

era nello sgambetto. Battòre (nonostante fosse<br />

più forte di me) spesso ruzzolava a terra una volta che<br />

lo squilibravo.<br />

– E una per me.<br />

– Voglio la rivincita.<br />

– Va bene! Sei pronto?<br />

– Sì.<br />

– Forza!<br />

– E una anche per me.<br />

– Ora la bella.<br />

141


– Va bene, aió (dài).<br />

– Pronto?<br />

– Sì.<br />

– Via!<br />

– Ho vinto, io.<br />

– Va bene. Incominciamo da capo.<br />

– Aiò (dài).<br />

E così per ore intere.<br />

Più che la forza, in questo giuoco conta l’astuzia, la<br />

prontezza dei riflessi, la presa alla vita dell’avversario e<br />

lo sgambetto. Spesso un’istrùmpa durava anche mezz’ora.<br />

E così si stava anche ore in lotta continua. Era<br />

questione di resistenza.<br />

Un po’ giocando alla lotta, un po’ facendo le nostre<br />

gare ingenue alla corsa sulle mulattiere, ci si scaldava<br />

come gli agnelli, in attesa che passasse il tempo e il rigore<br />

della stagione.<br />

Questo spasso, purtroppo, non poteva durare. Il raglio<br />

di Pacifico o un altro allarme ci richiamava dai nostri<br />

patriarchi.<br />

Nei due anni successivi 1950-52, Filippo mi subentrò<br />

nella custodia delle pecore: totalmente nelle giornate<br />

buone e parzialmente in quelle gelide. Ormai anche<br />

lui, a nove anni dovette conoscere i “suoni” della pastorizia<br />

forzata, che non poteva più evitare emettendo i<br />

suoni scordati dei suoi bronchi come aveva fatto fino<br />

ad allora. Anche lui ora doveva seguire il gregge come il<br />

cucciolo pastore, al vento e al gelo. Anche lui doveva<br />

guardarsi, intirizzito, i comignoli fumiganti delle capanne<br />

vicine ed ascoltarsi il silenzio della natura.<br />

Certo, nel primo mattino, il gregge lo pascolavo io.<br />

142<br />

Lui mi subentrava con due tre metri di sole all’orizzonte<br />

(cun duas cannas de sole). Gli risparmiavo il rigore dell’alba.<br />

E secondo gli ordini del babbo, così all’ora stabilita,<br />

me lo vedevo spuntare incappucciato sotto un sacco<br />

di iuta.<br />

– Ciao, Gavì.<br />

– Oh, sei arrivato? Le pecore, lasciale qui ancora un<br />

po’. Più tardi, portale al chiuso di sopra (a su cunzàdu ’e<br />

subra). Scaglia un urlo o un fischio di tanto in tanto. Incita<br />

il cane ad ustare. Le volpi sono sempre in agguato.<br />

– Ehi! Lo so!<br />

– Beh! Ciao!<br />

– Oh, Gavì!<br />

– E it’est! (Che c’è!)<br />

– Il babbo ha detto di andare a zappare alla vigna: a<br />

issu colomìnzu.<br />

– Eièèèèèèèè!<br />

Ormai mi dedicavo completamente ai lavori agricoli:<br />

alla vigna e all’oliveto. E a quattordici quindici anni<br />

zappavo a gara con mio padre. Di pomeriggio appena<br />

ritornava da Sìligo, mi raggiungeva per zappare al mio<br />

fianco. Prima di incominciare, come al solito, controllava<br />

la mia resa (sa faìna mia).<br />

– Beh! Oggi sei stato bravo. Ne hai fatto abbastanza.<br />

Le zolle, però, le devi rivoltare meglio. L’erba va sotterrata<br />

completamente. Altrimenti ricresce di nuovo: ’sa inza<br />

bene zappàda in s’istagiòne. Come diceva un poeta.<br />

Chie fàghere torra non la chèrede<br />

dogni faìna chere bene fatta:<br />

thappe binza e in tempus chi essèrede<br />

143


avèna o trigu, basólu o patàta.<br />

Est mezzus sa zizzània chi la fèrede,<br />

irraighinàda rested dogni matta<br />

ca si sa mala erva non bi féridi<br />

issa ìnchede! e su trigu bi péridi! 7<br />

Se invece il mio lavoro era poco o fatto male, al suo arrivo,<br />

spesso mi picchiava con il manico della zappa o se<br />

riusciva a trattenersi, sbraitava per tutta la giornata. Mi<br />

dava il filare guida e mi incalzava dietro a ritmo sfrenato.<br />

– Oggi non hai fatto nulla. Non as zappàdu terrìnu de<br />

ti coscàre: malu fainéri (oggi non hai zappato nemmeno<br />

il tratto che basta per sdraiarti: pessimo lavoratore).<br />

Quello che hai fatto lo hai fatto male. Si vede che te ne<br />

sei stato a fare i tuoi comodi. Poi hai zappato alla menefrego.<br />

Quel giorno avevo subìto un attacco di libidine e mi<br />

ero incespugliato un paio di volte. La zappa stette per<br />

molto conficcata sul filare, ma da sola non zappò!<br />

– Stamattina, non mi sentivo molto bene. Non avevo<br />

voglia.<br />

– La voglia te la devi far venire, malu fainéri. Il lavoro<br />

qui è sempre d’urgenza: uno attende l’altro.<br />

– Beh! Sto bene! Volete fare a gara con me. Volete vedere<br />

quanto so zappare. Seguitemi allora, su!<br />

7 Chi non vuol rifare il suo lavoro / ogni cosa per ben sia fatta:<br />

/ zappi per tempo la vigna e in tempo loro / avena o grano, fagiolo<br />

o patata. / Alla zizzania non lasci ristoro / ogni radice venga<br />

sradicata / ché se la mala erba non ferisce / essa vince! e il grano<br />

vi languisce!<br />

144<br />

Io tenevo il filare guida (sa manu de nantis). Punto<br />

nell’orgoglio, anche se lui per punirmi mi incalzasse<br />

come un dannato, non mi lasciavo superare. Morivo,<br />

ma mantenevo sempre la dovuta distanza: due o tre<br />

ceppi. Le nostre zappe danzavano sui filari, rivoltando<br />

zolla su zolla, disseminando il loro incalzante tintinnio:<br />

za-za-za! za-za-za! faceva la mia, accompagnata dal zaza-za!<br />

zaza-zaza-zaza! di quella del babbo. Ne veniva<br />

fuori un zaza-zaza-zaza! zazazaza-zaza! interrotto solo<br />

dal forte buhmmm allorché si sbatteva opportunamente<br />

l’occhiello della zappa (s’oju ’e su zappu) rovesciata<br />

contro la prima pietra che ci capitava, per pulirla della<br />

terra che vi si appiccicava. Finito il filare, una volta che<br />

si giungeva al lembo estremo (a su cabidàle), non si ridiscendeva<br />

giù come si fa normalmente con la zappa sulle<br />

spalle. Sarebbe stato troppo comodo. Si sarebbe ripreso<br />

fiato. Il filare si ricominciava contromano anche<br />

se si era in discesa. Così sembravamo un giogo impazzito<br />

nell’aratura, sotto il pungolo del <strong>padrone</strong>: la nostra<br />

zappatura era bustrofedica.<br />

La gara durò per quattro ore in silenzio: senza fermarci<br />

e senza nemmeno bere acqua (la gara lo imponeva).<br />

Parlavano solo le zappe. La nostra rabbia faceva<br />

miracoli. In breve tempo, molto lavoro fatto. Tanti i filari<br />

rivoltati e neri. Dopo quattro ore di gara senza vincitore<br />

né vinto, mio padre un po’ perché era stanco, un<br />

po’ perché pensava alla mungitura, ruppe il dialogo<br />

delle zappe impazzite.<br />

– Beh!... Il sole sta calando (su sole si ch’est ettènde).<br />

Che ne dici, stacchiamo?<br />

– Io non sono ancora stanco. Zappate, ora!<br />

145


Dopo altri due filari, però, lui smise di fare il contendente<br />

con me. Non stette più al gioco e ritornò al patriarcale.<br />

– Vedi, Gavino! Quando vuoi tu, sai zappare bene e<br />

ne fai anche molto. Zappi anche forte. Ma non basta<br />

zappare solo in gara. Si deve zappare continuamente<br />

giorno per giorno con senno (a su dinu). Andiamocene.<br />

Compiuti i quindici anni avvenne un’altra evoluzione.<br />

Non fu una conquista, però, come quella che mi<br />

consentì di cavalcare il somaro a sette anni e di andare a<br />

Sìligo da solo. Ora, man mano che crescevo, la vita diveniva<br />

più aspra e più austera. Per potermi usare meglio,<br />

il babbo allora mi comprò i buoi. Così a me ora<br />

toccava fare di giorno l’agricoltore e di notte il pastore.<br />

Posseduto dal demone del peculio e del potere patriarcale,<br />

poteva, come era abitudine, senza rendersi<br />

conto della sfacciataggine, sezionarmi in due, pretendere<br />

che lavorassi in continuazione come lo scorrere<br />

del tempo: che oscillassi come un pendolo tra le due attività<br />

fuori dalle leggi biologiche.<br />

Se aravo nel nostro campo o nel vicinato, alla giornata,<br />

la mattina ancora prima dell’alba dovevo mungere<br />

le pecore con lui. All’alba partivo per arare. La sera, al<br />

ritorno, dovevo rimungere con lui all’imbrunire. Durante<br />

la notte, spesso, dovevo vigilare il gregge, condurlo<br />

al pascolo, schiacciato dal sonno senza sfogo. Era<br />

una bufera interminabile dal buio alla luce. Spesso al<br />

pascolo mi associavo al sonno dei macigni, all’aperto.<br />

La stanchezza mi faceva dimenticare quello che stavo<br />

146<br />

facendo e ancora un po’ e sarei morto. La vita cessata.<br />

Ero un pendolo che oscillava tra la vita e la morte senza<br />

saperlo. E nulla è più dolente di questa tragica oscillazione.<br />

I buoi mi resero la vita ancora più brutale. Piccolo di<br />

statura, quando aravo, se avanzavo dentro il solco, solo<br />

la testa folta di ciuffi sfiorava la stiva dell’aratro. Eppure<br />

dovevo arare.<br />

Quando la giornata arativa mi usciva fuori zona (fora<br />

de issa cussòsa) le cose andavano peggio. Ogni giorno<br />

dovevo fare la spola tra Baddhevrùstana e il campo da<br />

arare, quello che capitava.<br />

– Perché non lascio i buoi sul campo e io me ne torno<br />

a Sìligo? È più vicino. Oppure mi compri una bicicletta.<br />

Io non ce la faccio più.<br />

– Non fa assolutamente, – diceva il babbo. – I buoi ce<br />

li ruberebbero. Sono la nostra unica speranza. L’altro<br />

giorno li hanno rubati a thiu Pàulu. Siamo in pericolo<br />

brutto: l’abigeato... Altro che lasciarli sul campo a chi li<br />

vuole. È già molto che non ci rubano l’aratro dal solco.<br />

E, poi, la biada, il fieno e la paglia, come te la porti? Sulle<br />

spalle o in bicicletta? No!! Non fa: è meglio soffrire.<br />

Il più delle volte il campo da arare distava otto dieci<br />

chilometri da Baddhevrùstana: Melédu, Chercos, sas<br />

Baddhes, sa Pedròsa. Per percorrerli ci voleva oltre<br />

un’ora e mezzo di marcia lenta, sulla brina o sotto la<br />

pioggia e altrettanto al ritorno, durissimo più che l’andata.<br />

Dopo nove ore di aratura, per far contento il <strong>padrone</strong><br />

dietro l’aratro senza sosta, sulla strada che tante volte<br />

mi aveva sentito ululare, dal freddo, mi sentivo tutto<br />

147


d’un pezzo, rattrappito in un dolore unico. Solo i piedi,<br />

gonfi e sbucciati dentro gli scarponi sempre grandi e il<br />

culo scaldato e irritato dallo sfregolio delle natiche sui<br />

solchi, riuscivo a sentirmeli separatamente. Morivo dal<br />

bruciore. La notte fregavo, di nascosto, il borotalco alla<br />

mamma. Me lo sbattevo in culo. E cascavo nel sonno<br />

più profondo.<br />

La mattina alle due mio padre mi scuoteva dal sonno<br />

con la sua voce imperiosa che usciva dal suo letto.<br />

– Oh, Gavì! Gavì!<br />

– Hummm! Uhmmmm.<br />

– Alzati! Foraggia i buoi! Metti loro la biada (sa proènda).<br />

Ci mettono molto per mangiare. Alle quattro<br />

devono essere pronti per partire.<br />

Io lo facevo quasi meccanicamente, cascante dal sonno.<br />

Poi riandavo a dormire. Alle quattro puntualmente,<br />

la voce di mio padre mi ricolpiva: entrava nel tepore<br />

dolce del riposo.<br />

– Oh, Gavìì! Oh, Gavìì! – – Ohoo! UhMMMmmm!<br />

Ehhh.<br />

– È ora. Parti!<br />

Partivo a cavalcioni su Boìta, il bue più giovane del<br />

giogo (de su giù), mentre il suo compagno, Piluoro (Pelodoro)<br />

seguiva trascinato dalla fune alle corna e all’orecchio.<br />

Meno male che Boita si lasciava cavalcare. Mi risparmiava<br />

le gambe, i piedi sudati e sanguinanti. Solo che la<br />

schiena del bue con il deretano in quelle condizioni,<br />

non era certo una comoda poltrona.<br />

Una mattina, stanco ed esausto dall’intera fatica della<br />

stagione arativa, mio padre, come al solito, alle due<br />

148<br />

ruggì dal suo letto. Io risposi al suo richiamo, subito,<br />

come sempre. E nel sonno gli feci capire di avere sentito.<br />

Ma non mi alzai. Non ce la facevo. Il sonno come un<br />

cumulo repressivo era più pesante di me. Mi schiacciava<br />

come una montagna e mi inchiodava al letto.<br />

Il <strong>padrone</strong> mi richiamò ancora per qualche volta ad<br />

intervalli di pochi minuti. Non poteva concepire ribellioni<br />

o cambiamenti. Io continuavo a non sentirlo. Ero<br />

morto, sfinito, crollato, non mi era mai successo. Allora<br />

lui senza preoccuparsi di nulla, se mi sentissi male o mi<br />

fosse accaduto qualcosa, si spiegò il fatto in sé e per sé:<br />

io avevo disubbidito. Dovevo pagare. Avrei potuto essere<br />

anche morto in quel momento: avrei disubbidito<br />

lo stesso. Avrei pagato lo stesso. Uscì fuori. Prese una<br />

delle due bacinelle in cui noi si metteva la biada ai buoi.<br />

Rientrò in casa a lunghi passi e nervosi. Si accostò al<br />

mio letto dove dormivo con i miei fratelli. Mi strappò<br />

violentemente le coperte di dosso. Mi sfregò in testa ed<br />

in faccia la bacinella di zinco tutta brinata (totta iddhiàda)<br />

e smaltata di ghiaccio. Mi richiamò alla vita. Una<br />

cosa terribile. Poi prese un cespuglio di quercia e mi<br />

percosse a sangue per un paio di minuti, sfogando la<br />

sua solita ira incontrollata.<br />

– Se ti succede un’altra volta, – ruggì per finire, – ti<br />

caccio di casa. Qui si lavora. Non si mangia pane a tradimento.<br />

Se non ti va, te ne vai a servire (ti che andhas a<br />

teràccu). Sei libero di fare come vuoi!<br />

Mal conciato dalle botte e dal dolore, nel pianto, andai<br />

a foraggiare i buoi.<br />

Quella mattina, naturalmente, non riandai a dormire<br />

dalle due alle quattro. Tanto ero umiliato ed offeso.<br />

149


Attesi la partenza nella stalla meditando vendetta contro<br />

mio padre tra il fragore delle mandibole dei buoi<br />

mentre trinciavano il fieno. Volevo fuggire. Andarmene.<br />

Volevo fare come Efis, un altro pastorello come me.<br />

Anche a lui il padre lo picchiava sempre più spesso e<br />

ingiustamente. Per sua disgrazia gli aveva anche rotto<br />

le vertebre lombari. Esasperato Efis un giorno si armò.<br />

Si mise il fucile sulla spalla. Si imbottì bene di cartucce<br />

e sparì lontano in un bosco. Solo, ma libero! I parenti<br />

alla fine lo scovarono dalla sua tana: dalla sua libertà.<br />

– Cosa volete? Io non ritorno più da mio padre! Mi<br />

picchia sempre... Se una cosa la faccio in un modo, lui<br />

mi dice che aveva detto di farla in un altro. La scusa la<br />

trova sempre... Io ho deciso di starmene qui. Se ritorno,<br />

lui mi picchia di nuovo e mi rompe tutto.<br />

– No! No!<br />

– Ci ha promesso che non ti tocca.<br />

– Vieni con noi, su! su!<br />

Efis scoppiò in lacrime e mise fine al suo banditismo,<br />

accasciandosi sulle braccia dello zio.<br />

“Io faccio come Efis,” pensavo nel buio della stalla,<br />

“sono ancora piccolo. Ma anche lui era piccolo. Lui però<br />

all’ovile era solo e poteva tentare la fuga. Come faccio<br />

io a prendermi il fucile del babbo e la cartuccera<br />

con le munizioni? No. Non posso farlo ancora. Se fuggo<br />

poi mia madre e i miei fratellini piangono. Non li potrò<br />

più vedere. Sarò un bandito. I carabinieri! Ma che<br />

me ne frega dei carabinieri a me? Ora, non ho paura di<br />

loro, io! Non so cosa fare. Mi dispiace abbandonare<br />

Boìta, Pacifico, Leperèddha: tutto quanto con cui sono<br />

cresciuto. Me ne dovrei andare a servire, cambiare pa-<br />

150<br />

drone. Sono tutti uguali. Anche Tore me l’ha detto. Lo<br />

picchiano anche. Me l’ha detto! E Gigi? Gigi è divenuto<br />

zoppo. Il <strong>padrone</strong> gli ha rotto il lombo e rimarrà così<br />

per sempre!<br />

“Oggi ho disubbidito! Puh! Se anziché sentire la sua<br />

voce, sotto il letto avessi sentito il vago sentore dello<br />

scoppiettio di un incendio, sarebbe stata la stessa cosa!<br />

Io ero morto. Mi sento tutto dilatato dagli sforzi come<br />

un ferro arroventato. Il culo mi prude: è ancora arroventato<br />

dal sudore. Ma io non sono una bestia! Magari!<br />

Avrei sofferto di meno! Boìta e Piluòro, voi, come<br />

state? Non rispondono. Forse soffrono lo stesso. Beh,<br />

Sì! Ma sono robusti. I buoi e Pacifico sono grandi. Finirà<br />

anche per me. Non appena sarò grande, me ne andrò<br />

da questa casa. Lui rimarrà da solo, rimarrà. Me ne<br />

andrò carabiniere come tutti i miei cugini e tutti gli altri.<br />

Se crescerò glielo farò vedere io! Oppure emigrerò<br />

a fare il minatore in America o da qualche parte. Ho<br />

sentito che ci saranno migrazioni. Almeno sarò libero.”<br />

Il problema più grosso venne per la mietitura (sa messe).<br />

Alla fine della primavera, le cose si complicarono.<br />

A fine maggio, prima l’orzo e l’avena, poi il grano, in<br />

giugno, s’indorarono. La prima mietitura mi attendeva.<br />

Io non la conoscevo. I mietitori li avevo sempre visti<br />

disposti in schiera lungo le spighe e davanti ai covoni in<br />

piedi sin da piccolo dal basto del somaro che mi faceva<br />

fare capolino sui seminati mentre mi recavo a Sìligo,<br />

ma la falce non l’avevo mai impugnata. Quello che mi<br />

faceva paura di fronte a mio padre era il fatto che ragaz-<br />

151


zi come Nanni, mietevano sin dai dieci anni così bene<br />

come io a otto sapevo fare il pastore. Era il suo mestiere.<br />

E ora la mietitura era lì anche per me. Mio padre me<br />

l’avrebbe insegnata sempre con due o tre lezioni fugaci<br />

e cicloniche.<br />

Toccò al grano de sa Pedròsa inaugurare l’impresa.<br />

La mattina del giorno di San Pietro piombammo sul<br />

campo, vicino a Sìligo, armati di falci. Giunti sul grano<br />

per mio padre iniziò la battaglia, per me la lezione. In<br />

fretta e in furia mi insegnò subito come fare. Come tenere<br />

la falce. Come tagliare le spighe e tenerle in mano.<br />

Come fare la manciata e legarla e come fare i covoni (comènte<br />

la incrabistàre e comènte fàghere sos mannùjos).<br />

Non era passata mezz’ora dall’inizio della lezione che<br />

lui pretendeva fossi già divenuto un mietitore, quasi lui<br />

fosse il creatore che avesse la facoltà di infondermi in<br />

un attimo tutta la sua esperienza e mi rendesse simile a<br />

lui con un balenio del suo cervello.<br />

– Tu non sei buono a nulla. Nanni sa mietere da quando<br />

era piccolo. E ora è capace di legarti dentro il covone,<br />

insieme alle manciate. Smidollato. Non vedi che ti<br />

cadono tutte le spighe che tagli? Sei un disastro.<br />

– Non ci riesco perché non l’ho mai fatto.<br />

– Così devi fare! Uhmmmmm! Hummmmm! Così!<br />

Cosìì! – infuriava tondendo furiosamente le stoppie.<br />

– Prova! Su! Su!<br />

Io mi sforzavo al massimo, fino allo spasimo. La cosa<br />

non era facile. Sotto la tempesta, poi, impossibile. E<br />

quando si accorse che le spighe che tagliavo non riuscivo<br />

a tenerle tutte per mano e che molte mi cadevano tra<br />

le stoppie tosate, la sua bocca tuonò di nuovo.<br />

152<br />

– Rammollito! Poltrone! Mangiapane a tradimento!<br />

Mangione (budegòne)!<br />

Con quanta rabbia aveva in corpo mi faceva vedere<br />

nervosamente ancora una volta come mietere. Evidentemente,<br />

preoccupato, per altre ragioni, si angosciava<br />

ancora di più per il tempo che stava perdendo ad insegnarmi<br />

a fare le manciate. Che io sapessi mietere dopo<br />

mezz’ora, purtroppo, non era possibile. È un’arte che<br />

si apprende con il tempo. Come al solito, la lezione da<br />

rabbiosa si fece feroce. Come se le spighe che mi cadevano<br />

fossero una parte del suo sangue e avesse paura di<br />

essere dissanguato, perse la calma. Rituonò con le sue<br />

bestemmie quasi per suscitare il temporale delle sue<br />

botte. Subito fischiò la bufera. Dietro di me sentii il<br />

turbine. I nembi s’addensarono e l’uragano scoppiò<br />

subito. Fu la grandine dei suoi colpi. Mi percosse atrocemente.<br />

Gli schiaffi si alternavano ai pugni sull’aiuola<br />

che avevo mietuto, mentre i suoi calci uno mi atterrava<br />

e l’altro mi rimetteva in piedi per ricolpirmi con le mani.<br />

Uno dei suoi pugni, purtroppo, mi prese alla nuca.<br />

Il buio mi sommerse. Vidi le stelle, un turbinio di luci,<br />

di bagliori e caddi per terra stramortito, privo di sensi<br />

sulle stoppie. Mi lasciò lì finalmente; lui si sfogò mietendo<br />

covoni a catena. Se li lasciava in piedi alle spalle e<br />

con la loro testa foltissima di ariste sembravano dirmi<br />

continuamente: – I tuoi covoni non nascono! Dài che<br />

anche tu diventerai come tuo padre! Qui ce ne sono<br />

passati di ragazzi ad imparare a mietere. Poi son ripassati<br />

mietendo come atleti. Messa, Gavì, messa! (Mieti,<br />

Gavì, mieti!).<br />

Si prese in affitto un’altra tanca vicina. Era boscosa e<br />

153


piena di sterpi: ginestre spinose, rovi, cisto (tirìa, ruos e<br />

mudéju). Pascolo ce n’era ben poco. L’unica cosa di<br />

buono per le pecore erano le ghiande e le frasche (sa<br />

landhe e issa sida), indispensabili in caso di siccità o in<br />

periodo nevoso. Il babbo si era ficcato in testa di bonificarla.<br />

Il rimedio c’era: sdebbiarla, dissodarla e seminarla<br />

a rotazione per qualche anno. Il sottobosco sarebbe<br />

andato distrutto. Non era un’impresa facile. I<br />

pastori precedenti ci avevano rinunciato. Gli sterpi e le<br />

macchie gareggiavano con gli alberi nel rigoglio.<br />

Non appena finì la stagione arativa nell’agro paesano<br />

coltivabile (su laósu in s’aidattòne), dove io aravo<br />

alla giornata, si diede il via al disboscamento, alla debbiatura.<br />

Disposti a terziglia, io, Filippo e mio padre,<br />

armati di roncole, di scure o di falce (a seconda dell’opportunità),<br />

si avanzava contro l’interminabile selva<br />

sterposa che rovinava sotto l’incalzare dei nostri<br />

colpi. La legna fine e non spinosa la si componeva in<br />

fasce, mentre quella sterposa la si ammassava lontano<br />

dagli alberi. Le si dava fuoco. E i roghi la riducevano<br />

in cenere. Un mese di debbiatura. In seguito si incominciò<br />

ad arare, a rivoltare quella terra forse mai<br />

“scocciata”, ricca di antica lanugine e di muschio. Nel<br />

giro di due tre anni, la tanca fu tutta pulita e in gran<br />

parte dissodata. L’orzo e l’avena crebbero feraci e il<br />

pascolo rifiorì sulle sue valli ripagando in parte le nostre<br />

fatiche.<br />

Mentre noi ci dibattevamo qua e là per le tanche, la<br />

mamma amministrava la casa. Lei si dedicava all’alleva-<br />

154<br />

mento delle galline. Nel giro di due tre anni da che lei<br />

era all’ovile, tutto lo spiazzo già brulicava di galline<br />

bianche, nere e di vario colore. Da lontano mentre io pascevo<br />

le pecore mi sembrava tutto grandinato: si spandevano<br />

dappertutto e si spingevano lontano in cerca di<br />

insetti e di cavallette, divenendo spesso facile preda degli<br />

sparvieri che adocchiatasene una librandosi per l’aria,<br />

si calavano a picco e abbrancatasela tra gli artigli ed<br />

il rostro, decollavano lontano per divorarsela dove volevano.<br />

Al pi, pi, pi! pi, pi, pi, pi! pi, pi, pi!: al tica, tica! tica,<br />

tica! e al ri-pi, pi, pi! pi! pi, pi! pi, pi, pi! della mamma<br />

sbucavano da tutte le parti all’impazzata: dai cespugli,<br />

dalla vigna, dall’orto. Tutte di corsa si adunavano sull’aia<br />

dove si buttava loro da mangiare.<br />

La mamma ci teneva. Ed era allora che si sentiva se<br />

stessa. E mentre spargeva l’orzo o l’avena alle galline<br />

intonava i canti che aveva imparato dal padre: quelli<br />

che cantava quando faceva la contadinella specie durante<br />

la marratura del grano o la mietitura.<br />

Finas in sa campágna amèna<br />

chisco su regìru meu<br />

fattèndhe votos a Deu<br />

chi mi che oghed’ dai bena. 8<br />

In poco tempo il pollaio, che contava oltre 300 galline,<br />

8 Anche nella campagna amena / inseguo l’affanno mio / aih!<br />

facendo voti a Dio / che mi tolga dalla pena.<br />

155


era divenuto un vero problema per il babbo. Devastavano<br />

il seminato, assalivano l’orto e devastavano la vigna.<br />

Salivano sulla capanna di stoppie in cerca di qualche<br />

chicco di grano o di qualche insetto, nonostante<br />

fosse assiepata sui muri. Vi si posavano e lo sgraffignavano.<br />

La rovinavano tutta, riducendola ad aiuole e a<br />

covi per deporvi le uova, a seconda del loro capriccio.<br />

Dentro già vi pioveva come fuori. Insomma, queste galline<br />

invadevano tutto. Si stavano imponendo. Il babbo<br />

si era veramente stufato. Quando i lavori agricoli gli<br />

concedevano una tregua, sbrigava le sue faccenduole<br />

sullo spiazzo, aguzzava le roncole, le scuri o gli rimetteva<br />

i manici. Lui però non sopportava che quest’invasione<br />

avvenisse così impudente e sfacciata sotto i suoi occhi.<br />

E gli artigli che sgraffignavano e scompigliavano il<br />

tetto della capanna sembrava gli squarciassero il cuore,<br />

il becco quando pungiglionava e rostrava il seminato e<br />

la vigna sembrava gli rodesse il fegato. Così non si poteva<br />

più crogiolare allo spiazzo. Subito vedeva qualcosa<br />

di irregolare. Quell’invasione lo sconvolgeva e lo turbava.<br />

Si scatenava. Spesso si raccoglieva: il silenzio gli<br />

stuzzicava sempre nuovi sistemi precauzionali. Dalla<br />

meditazione lancinante, spesso passava all’attacco. Le<br />

rincorreva. Le prendeva. Le agguantava per le ali. Afferrava<br />

la scure e gliele tarpava a fondo su un ceppo in<br />

modo che non potessero volare sulle siepi.<br />

– Queste galline mi stanno graffiando lo stomaco!<br />

Prendete quella. Sì! Quella. Dammela!<br />

Al tac-tac! tac-tac! della scure sul ceppo mentre tagliava<br />

le piume, faceva seguire minacce che destavano<br />

le nostre risate.<br />

156<br />

– Ora voglio vedere se voli. Gallinaccia maledetta! Io<br />

ti taglio il collo, ti taglio, – diceva sfregandole la scure<br />

sul collo come se glielo stesse tagliando veramente e come<br />

se la sua minaccia potesse attuarsi.<br />

Dava l’impressione che stesse litigando con dei servi,<br />

con dei dipendenti. Sentirlo solo da dove non si poteva<br />

vedere, dava la sensazione di udire una masnada di intriganti<br />

in briga! Questo mi capitava spesso il giorno<br />

che zappavo all’orto (ero io l’ortolano). Una volta dentro,<br />

con i muri alti ed assiepati (inchesubràdos), si vedeva<br />

solo il cielo. Le scenate del babbo le potevo solo<br />

sentire e le immaginavo. Era molto divertente ricostruire,<br />

dal tono della sua voce, severa e rabbiosa, dal frastuono<br />

che suscitava con i piedi che sbatacchiavano nella<br />

corsa, le sue impennate e le sue bestemmie affannose:<br />

– Diàulu su santu chi t’ha fatta! Su fogu bos brùgiede!<br />

Chi non ndhe càmpede una!<br />

Spesso dall’orto al di sopra della siepe, con mio grande<br />

stupore, potevo osservare le parabole variopinte<br />

della sua rabbia, descritte dalle galline che lui acchiappava<br />

per il collo e scaraventava per il cielo. Diverse galline<br />

morivano. Ma non ci dispiaceva: quel giorno almeno<br />

si mangiava un po’ di brodo.<br />

Una mattina, lui, come al solito, stava facendo il formaggio<br />

incosciando il paiuolo. Tutto preso, stava palpando<br />

il latte cagliato. Lo palleggiava facendolo roteare<br />

su se stesso prima che gli ricadesse sulle mani giunte<br />

e con cura lo lavorava e lo metteva sulla scodella che<br />

sgocciolava il siero attraverso i suoi fori. Io lo assistevo.<br />

Nel momento più delicato, una volta fatta la ricotta,<br />

doveva insierare il formaggio. Era l’operazione finale.<br />

157


Dentro il siero ancora bollente mise le scodelle del formaggio<br />

già pressato bene dalle sue mani e dalle apposite<br />

pietre. A turbargli la concentrazione fu una gallina<br />

invadente. Da prima si limitò a cacciarla via (a la isuliàre,<br />

a la giagaràre) urlando e sbuffandole contro. Agitava<br />

i piedi seduto sullo sgabello e scuoteva le braccia<br />

senza togliere le mani dalla pezza del formaggio. Alla<br />

fine si mise in piedi con le mani sempre sulla pezza e<br />

tra uno – sciù sa bù! Siuuuu!! HUUU! Huaaa! – e l’altro<br />

si contorceva tutto. Si sfogava parlando alla gallina:<br />

– Te ne abusi perché ho il formaggio tra le mani: brutta<br />

bestia infame.<br />

La gallina dei suoi – sciù; sc, sc! – se ne fregava, nonostante<br />

fossero frequenti e concitati. Si allontanava, faceva<br />

un giro fuori dalla porta e ricompariva.<br />

– Maledetta bestia! Uààà! Sciuuuu! Puààà! prrrrr!<br />

rrrrr! sc, sssc! È per questa pezza. Altrimenti ti tirerei il<br />

collo. – Lui si dimenava in una ginnastica concitata con<br />

la bocca e il corpo, ma non c’era nulla da fare. La gallina<br />

era padrona della situazione. La sua invadenza lo urtò<br />

al massimo quando nonostante egli agitasse i piedi<br />

facendo acrobazie con il culo sullo sgabello di sughero<br />

e le sbuffasse contro il suo fiele e la sparasse con i suoi<br />

furiosi – sciù, sciuà, – si avvicinò al paiuolo e tra una<br />

beccata e l’altra si aprì nelle sue penne come un mantice.<br />

La gallina allora si scosse tutta starnazzando, sollevando<br />

un nembo di polvere: il nembo del temporale.<br />

Lui non si contenne più, la sua ira dilagò. Anche la pezza<br />

del formaggio rimase travolta e sepolta da quel nembo.<br />

Il <strong>padrone</strong> partì all’assalto.<br />

– Sciù sa bù. Una puddha cazzu. Sciù gallì (una gal-<br />

158<br />

lina, cazzo). Huuu! ti fóscigo su tuju (ti torco il collo).<br />

Furente uscì dalla capanna avvelenato come una belva:<br />

cane dietro la selvaggina.<br />

Alla gallina non restò che cercare scampo nella fuga:<br />

nella corsa per il prato esprimendovi i suoi disperati<br />

coccococcodèè! coccodè. Il babbo non la perse di vista<br />

e la rincorse armatosi fortuitamente di un bastone. La<br />

isolò dalle altre e nella corsa ansimante continuò la sua<br />

maratona senza tregua. Dopo qualche minuto il fiato<br />

incominciò a mancargli e le sue bestemmie, che inizialmente<br />

intronarono tutto, ora si stavano smorzando. La<br />

corsa però, era sempre accanita: una gara. Il babbo dietro<br />

e la gallina davanti starnazzando con le sue ali e levandosi<br />

in un volo incerto e vano, emettendo continuamente<br />

dal suo collo implume i suoi concitati coccococcodè.<br />

Per qualche minuto il bipede ebbe la meglio.<br />

Alla fine, però, le forze cominciarono a tradirla. La sua<br />

corsa divenne marcia stanca, avanzava a zig-zag sgusciando<br />

malamente tra i cespugli. Il babbo ora sembrava<br />

rinvenire e, anche se era stanchissimo, aveva energie<br />

bastanti per la cattura. Stava per prenderla. La gallina<br />

allora spinta dall’istinto di conservazione, giocò l’ultima<br />

carta: la sua stupidità senza senso. Tentò ancora gli<br />

ultimi passi sull’erba e, stanca e spossata, emise le sue<br />

ultime “grida”, come per crearsi un riparo e infilò il<br />

collo implume in un cespuglio, senza curarsi di nascondere<br />

il resto. Mio padre ansimante, ma inferocito più<br />

che mai, celebrò la sua vittoria raggiungendola. – Huuu!<br />

Huuuuu! Anima fea (ànima mala). – Così la calciò<br />

arrabbiato: un rigore mortale. La gallina cadde stramortita<br />

in mezzo all’erba. Lui le premeva il piede de-<br />

159


stro sul collo mentre le cantava il requiem: – Mori, mori,<br />

bèstia fea; morii!<br />

Non si fu fortunati nel prendere la tanca in affitto e<br />

nell’accrescere il gregge in quell’anno. La tanca, anche<br />

se sdebbiata e bonificata dalle nostre roncole e dal<br />

mio aratro, per quell’anno non poté produrre pascolo.<br />

L’autunno trascorse senza piogge. Si era già in dicembre<br />

e ancora non era piovuto (non aìada ispezzàdu abbas).<br />

Il terreno non era germogliato (su terrìnu non<br />

aìada criàdu). I campi, aridi e secchi, riposavano, nudi,<br />

sotto l’interminabile estate prolungatasi fino all’inverno.<br />

Così, quando i pastori dai pascoli estivi delle pianure<br />

(dae issas istùlas) fecero ritorno sulle loro colline,<br />

vi trovarono solo le ghiande delle millenarie querce e<br />

le frasche dei sugheri sempre verdi (sa landhe e sa sida).<br />

Le bestie sopravvivevano a stento. Sui loro corpi si<br />

leggeva la fame da lontano. I loro scheletri si stagliavano<br />

avvolti dentro la loro pelle. I pastori si affidavano<br />

alla loro esperienza. Ricorsero alla biada, alla paglia e<br />

al foraggio dei loro granai in attesa dell’acqua, che<br />

non voleva cadere.<br />

Il bestiame, a furia di pastura a secco, deperiva e moriva<br />

a mandrie intere. Sui nudi campi nascevano così le<br />

carogne assalite dai corvi che vi si tuffavano con i loro<br />

famelici crocro. I pastori risposero con la loro disperazione:<br />

con i loro “cro-cro” lamentosi.<br />

Le greggi erano già decimate in dicembre quando finalmente<br />

arrivarono le piogge, che non furono proficue.<br />

Purtroppo insieme sopraggiunsero anche i freddi<br />

160<br />

invernali (sos frittos e sos rigòres malos). La terra così si<br />

sfreddò come una bevanda che il consumatore non ha<br />

potuto bere per qualche motivo. E non ebbe nemmeno<br />

il tempo di fermentare. L’erba rimase sotto: germogliò<br />

e basta. La brina, poi, nelle notti stellate, il vento e il gelo<br />

inaridirono anche i miseri germogli. La campagna rimase<br />

nuda fino a marzo. Fu necessario ricorrere al mangime<br />

venduto “a mercato nero” da privati o nei vari<br />

consorzi comunali. Noi grazie all’esperienza di nostro<br />

padre riuscimmo a salvare il gregge per intero e in primavera<br />

perfino a produrre anche un po’ di latte: il fitto<br />

della tanca.<br />

Di giorno, la smania di sopravvivere incalzava da tutte<br />

le parti. I pastori per le campagne abbattevano giornalmente<br />

branche di sughero: l’unica pastura reperibile<br />

nei loro campi. I tac! tac! delle loro roncole disseminavano<br />

segni di reazione alla morte. I sugheri, immobili<br />

con i loro fusti color sangue, quasi a testimoniare la<br />

morte lenta ed affannosa del bestiame, piangevano dappertutto<br />

mutili o atterrati e divorati dalle bocche insaziate<br />

del bestiame: – Mangiateci pure. Ricresceremo in<br />

primavera. – Questo il discorso nel loro silenzio, quasi<br />

si sentissero pascolo d’emergenza.<br />

La nostra salvezza però oltre che dai sugheri, venne<br />

da un orto di fichi d’india che il babbo abbatteva giornalmente<br />

e distribuiva cautamente. Alla fine si consumò<br />

anche il terribile ed interminabile autunno e il micidiale<br />

inverno. Venne la primavera con il suo rigoglio:<br />

dette le stampelle ai sugheri “invalidi”. Dette erba alle<br />

bestie, tranquillità ai pastori “sopravvissuti”. Il nostro<br />

gregge fu salvo.<br />

161


Nonostante avessimo salvato anche i buoi con cui aravo<br />

alla giornata, in casa si accusò il colpo.<br />

In molte altre famiglie fu il disastro.<br />

– Mi è morto il gregge. Non so come fare per pagare il<br />

fitto della tanca. I proprietari vogliono il fitto pattuito.<br />

Per loro non esistono annate brutte.<br />

– Proprio così. Loro ti dicono: “La mia tanca te l’ho<br />

affittata per tanto e tanto deve essere. Ti sei arricchito<br />

nelle annate buone, ora mi dai almeno il fitto.” Sono incoscienti,<br />

spietati questi padroni: vogliono il nostro<br />

sangue.<br />

– Il nostro sangue! E quale sangue? Io non ne ho più.<br />

L’annata me lo ha succhiato tutto. Voglio vedere cosa si<br />

prende il <strong>padrone</strong> al posto del fitto della tanca. Mi è<br />

morto tutto quel bestiame che mi ero comprato facendo<br />

il bracciante, zappando le vigne a cottimo, mietendo<br />

tante stagioni nella Nurra. Ora sono nullatenente.<br />

Me ne vado servo pastore. E quello che mi danno me lo<br />

tengo io, me lo tengo.<br />

– No! Io farò il servo! D’accordo! Il mio sporco <strong>padrone</strong>,<br />

che non mi vuole fare nemmeno uno sconto, lo<br />

pagherò. E mi sentirò libero.<br />

– Anch’io. Le pecore che sono riuscito a salvare, basteranno<br />

per il fitto della sua tanca. Me ne andrò servo<br />

pastore o all’estero, almeno nessuno mi dirà nulla.<br />

Fuori di Sìligo nessuno mi dirà: “da <strong>padrone</strong> sei ritornato<br />

servo.”<br />

– Si capisce. Anch’io farò così. All’estero. Ho sentito<br />

che vogliono braccianti in Australia. Bene. Me ne andrò<br />

lì e pagherò. Devo salvare l’onore della famiglia.<br />

– Servo <strong>padrone</strong>, bracciante o all’estero, fa lo stesso.<br />

162<br />

Pagherò questo sporco <strong>padrone</strong>. Gliel’ho detto: “Fammi<br />

uno sconto.” Macché. Lui con il sigaro in bocca sbuffando<br />

come una locomotiva sghignazzava le sue risate:<br />

“La mia tanca vale tanto e tanto voglio. Dell’annata non<br />

me ne frega una cicca.” È un figlio di puttana.<br />

– Eh! Vi state a preoccupare tanto. Male che vada faremo<br />

i banditi.<br />

Sin dalla giovinezza mio padre aveva incominciato a<br />

piantare un oliveto a Baddhevrùstana. Aveva sconfitto<br />

la natura, distrutto la selva e le querce secolari, riducendole<br />

a carbone (a cheas de cavvòne) e dissodato un<br />

terreno vergine. Con amore viscerale, lo aveva bonificato<br />

estraendone le pietre che ordinava e componeva<br />

in mucchi (chi ponìada in moridìnas) estirpandone la<br />

gramigna. E in mezzo al bosco millenario quale la natura<br />

lo aveva creato spontaneamente, lui creò quest’isola<br />

dell’arte umana lungo un rettangolo di sei ettari.<br />

Io lo conobbi già tracciato. Circoscritto dai muri su<br />

cui da ogni lato faceva capolino ancora la selva che con<br />

il suo rigoglio invadeva, quasi se la volesse inghiottire,<br />

l’aiuola del lavoro di mio padre. I rovi e la macchia, le<br />

querce che sovrastando il fitto sottobosco testimoniavano<br />

l’antica vegetazione. Con maestria ed assiduità,<br />

mio padre aveva tracciato i filari mediante fossati interminabili,<br />

ora tra l’argilla, ora sulla terra nera, ora sulle<br />

pietre e vi aveva piantato gli olivastri a distanza geometricamente<br />

regolare senza servirsi mai del metro, ma<br />

solo del buon senso, dell’occhio e dei passi. Nella loro<br />

lunghezza i filari venivano intercalati ed evidenziati da<br />

altre piante da frutto più precoci (peri, meli, fichi) che<br />

pagavano la zappatura dell’oliveto ancora infeconda.<br />

163


La sua architettura la si poteva osservare ogni anno, il<br />

giorno di San Elìa. Dalla sommità di monte Santo dove<br />

ci si recava per la festa.<br />

Scalando il monte l’oliveto si stagliava sempre di più.<br />

E la gente raggiunta la vetta, dove si accampava a crocchi<br />

e si sparpagliava sul piano a giara del monte, poteva<br />

mirare la meraviglia di Baddhevrùstana. In mezzo a<br />

quella selva di querce e di sugheri disordinati e incessantemente<br />

in lotta tra di loro, i filari dell’oliveto opponevano<br />

la natura coltivata alla natura spontanea.<br />

I cacciatori che vi sbucavano all’improvviso dalla selva<br />

si trovavano nel giardino del deserto e non potevano<br />

fare a meno di ammirare e di stupirsi di fronte a un’opera<br />

ormai quasi inarrestabile.<br />

– E tu chiamalo fesso Abramo. Molti dicono che è arretrato,<br />

ideoso, qua e là. Guardate che meraviglia. È<br />

l’oliveto più grande dell’agro!<br />

– Eh! Avete visto? La gente spesso si sbaglia. Spesso<br />

qualcuno che non è capace neanche di pulirsi il culo si<br />

mette a scorreggiare giudizi a destra e a manca. Qui parlano<br />

i fatti. Questi sono monumenti, sono. È un grande<br />

lavoratore. Quando si mette è un vulcano. Fossero tutti<br />

come lui, la <strong>Sardegna</strong> sarebbe un giardino, sarebbe.<br />

E pensare che trent’anni fa era una vera pazzia il solo<br />

pensarlo. Lui lo ha fatto!<br />

– Eh molti gli dicono che è pazzo! Osservatela la sua<br />

pazzia: è il paradiso! Anch’io avrei voluto essere pazzo<br />

così!<br />

Questi i commenti che avevo sempre sentito da piccolo<br />

dentro i cespugli per sfuggire all’attenzione dei<br />

passanti. Mi vergognavo e avevo paura di essere visto!<br />

164<br />

Erano giusti, però, quei commenti. Il babbo aveva vinto<br />

la sua battaglia. L’oliveto giustificava allora la deportazione<br />

della famiglia, la severità dell’artefice.<br />

– Quando sarò vecchio questa sarà la mia fonte, – diceva<br />

sempre alle persone che vi capitavano o che vi lavoravano.<br />

– Io non voglio fare la fine di tanti vecchi che<br />

una volta che le loro braccia non riescono più a produrre<br />

vengono disprezzati dai propri figli prima che dagli<br />

altri. L’oliveto sarà mio fino alla morte... Quando creperò<br />

se lo godranno loro. Sotto terra non avrò bisogno<br />

di quello che nasce sopra.<br />

Il babbo ci teneva molto. E da quando ero a Baddhevrùstana,<br />

il suo edificio stava venendo su bene, sensibilmente<br />

anno per anno. Io lo vedevo potare e lavorare<br />

le sue piantine con una brama incontenibile e con passione<br />

quasi gelosa. Le accarezzava tutte sui rami e sul<br />

fusto fino alle radici, quando le zappava. Cosa che non<br />

poteva fare con i figli. Le cingeva con un involucro di<br />

spine (las acchilandraìada) per evitare che divenissero<br />

facile preda di bestiame abusivo.<br />

Per raddrizzarle, ad ognuna aveva affisso un paloguida<br />

legandovele con il giunco che lui si procurava<br />

nei meriggi estivi: lo mungeva sutta ’e s’àvura fozzìda<br />

(lo mungeva sotto l’albero frondoso). Alle piantine<br />

non faceva mancare nulla: le uniche figlie per le quali si<br />

poteva intenerire. Con loro era sempre paterno. Se le<br />

nostre pecore o altrui le assalivano, l’uragano delle bestemmie<br />

scoppiava. Percorreva l’oliveto a grandi passi,<br />

quasi avesse bisogno di dimostrare agli altri che era solo<br />

suo. Come un falco, se vi sentiva lo sferragliare di un<br />

gregge estraneo, spalancava le sue gambe, ed accorreva<br />

165


in difesa delle sue figlie. Fischiando ed emettendo i suoni<br />

e i latrati della sua rabbia, piombava sul bestiame lapidandolo<br />

sin da lontano e allontanandolo a botte e a<br />

calci finché non lo faceva uscire dal suo “rettangolo intoccabile”.<br />

Se sopraggiungeva il <strong>padrone</strong>, o, come spesso<br />

accadeva, lo raggiungeva nel suo ovile, non si lasciava<br />

sfuggire l’occasione per regolare i conti e per mostrargli<br />

i denti e gli artigli.<br />

– Questo è il mio sangue. Tu me lo stai succhiando.<br />

Mi stai uccidendo. Le pecore custodiscitele: anziché<br />

startene nella capanna, a coglioni a fuoco (a cozzònes a<br />

fogu) o a strombazzarti tua moglie a Sìligo, assièpati i<br />

muri. Guàrdateli ogni tanto. Fai quello che vuoi. Stringi<br />

il garetto alle bestie (aschìladi sa robba). Impastòiatele<br />

(trobeidìlas). Che non ci ritornino a saltare, altrimenti<br />

ci azzufferemo e lo dirò al maresciallo. Le piante sono<br />

la mia vita, sono! Sono il mio sudore che sta crescendo...<br />

e tu me lo vuoi mangiare con la tua negligenza!<br />

Tieniti a bada le bestie. Sappiti regolare.<br />

Si faceva sempre rispettare. E come una vespa difendeva<br />

il vespaio pungendo con l’ago della sua lingua.<br />

D’inverno si andava in giro insieme in cerca di olivastri<br />

per rimpiazzare quelli che il gelo, il caldo o il bestiame<br />

abusivo avevano distrutto.<br />

Lui sapeva dove scovarli. Me lo aveva insegnato. Tutti<br />

e due in diverse direzioni ci si sparpagliava per le<br />

macchie del lentischio o per la fitta boscaglia.<br />

– Qui gli uccelli durante i temporali trascorrono la<br />

notte con il gozzo pieno di ulive. Spesso loro qui le portano<br />

dagli alberi per mangiarsele indisturbati. I semi li<br />

lasciano per terra, dentro i cespugli. Al caldo una volta<br />

166<br />

che vengono sommersi dalla terra, germogliano. Al riparo<br />

dal gelo e dal vento e dalle bocche mangiatutto<br />

delle capre, crescono bene.<br />

Così si andava a caccia di olivastri in competizione.<br />

– Ne ho trovato due qui!<br />

– Va bene! Segnali e ricorda. Anch’io ne ho trovato<br />

due lì, uno là e altri due in quel macchione di rovi. Ho<br />

segnato tutto. Vi ho fatto un segno nel terreno con la<br />

zappa.<br />

– Oggi ne abbiamo trovati parecchi.<br />

– Prendiamo le gerle e la zappa, su. Vieni.<br />

Con un solo colpo di zappa affossandola bene sul terreno<br />

lui estraeva l’olivastrello insieme alla terra (cun su<br />

pane de sa terra) senza che se ne accorgesse e lo deponeva<br />

nella gerla.<br />

– Accomodalo bene insieme agli altri. La zolla non si<br />

deve sfasciare. Messo così nel fossato (in sa cheddha sua),<br />

lui non se ne accorge nemmeno di essere stato spostato.<br />

Non conoscerà nemmeno arresto nello sviluppo (non<br />

ada a connòschere mancu paschìnzu).<br />

– Le gerle sono piene, bà!<br />

– Allora? andiamo! Questi stasera li mettiamo nella<br />

palinza. È un posto un po’ sterile. Non vogliono attecchire.<br />

– Ci sono i sugheri che soffocano tutto.<br />

– E anche quello.<br />

– Questa gerla mi pesa. Ce ne sono cinque.<br />

– Cambia spalla. Così!<br />

– Non ci riesco. Provo. Eh! Ah, sì! Solo che è più difficile.<br />

– Ti devi abituare al peso. Il lavoro ti deve mungere<br />

167


come una mammella. Il peso ti deve pressare come la<br />

vinaccia al torchio.<br />

– Siamo arrivati.<br />

– Sì. Mettila lì, la gerla. Da questa parte. Prendi la zappa.<br />

Fai il fosso. Così. Allarga un po’. Spòstati! Lo vedi?<br />

Non se lo sarebbe mai immaginato di farsi una passeggiata<br />

sulle tue spalle e di finire qui. Quando sarai grande<br />

te lo ricorderai. Sarà pesante: grande, alto. Tu potrai<br />

mangiare le sue olive quando sarà innestato e ricresciuto<br />

come ulivo.<br />

– Eh! Anche tu, le potrai mangiare.<br />

– Eh! Che cosa vuoi mangiare. Ci vuole una vita per<br />

fare un ulivo. Io me lo auguro di mangiarle. Mah! Chissà<br />

come sarò, quando questo olivastrello diverrà un ulivo!<br />

È una pianta secolare. Gli anziani piantano e i giovani<br />

colgono i frutti. È stato sempre così. Io ho mangiato<br />

i frutti delle piante che ha messo mio padre e tu mangerai<br />

il frutto di queste. Guarda quante ce ne sono. Non<br />

riesci nemmeno a contarle.<br />

– Eh! Ma anche tu cominci a mangiare il frutto delle<br />

piante che hai piantato tu stesso.<br />

– Beh! Se uno incomincia da giovane a lavorare un<br />

oliveto, quando è vecchio può godere dei frutti delle<br />

sue piante. È da quando avevo meno di trent’anni che<br />

ho incominciato a piantare. Molte di esse non hanno<br />

attecchito e come vedi le stiamo rimpiazzando. Ci vuole<br />

molto per fare un oliveto: una vita.<br />

Ci faceva vivere nella speranza: un giorno ci avrebbe<br />

arricchito. Ci faceva vivere più che mai l’angoscia propria<br />

del pastore e del contadino in proprio. Ci avvinghiava<br />

sempre di più con gli artigli della speranza di di-<br />

168<br />

venire potenti anche noi: leoni come Thiu Laréntu e<br />

don Juànne. Nella povertà più meschina e più nera, già<br />

ci faceva vivere il giorno della ricchezza. Non aveva importanza<br />

quando sarebbe avvenuto, vicino o lontano.<br />

L’importante era sentirlo e viverlo in quella angoscia.<br />

Sentirsi liberi e illudersi di viverlo presto o tardi. Noi lo<br />

si pensava. Si cercava anzi di farlo sorgere con il pensiero<br />

quel giorno. Non potevamo sapere che al di là dell’orizzonte<br />

dell’oliveto c’era la storia che aveva sbrandellato<br />

l’economia dei campi e che noi stessi eravamo divenuti<br />

un’appendice. E allora perché questo entusiasmo<br />

e questo dinamismo per la produzione? Perché<br />

tanta fantasia per la costruzione delle chimere e tanta<br />

foga per inseguirle? L’anelito della ricchezza si era sprigionato<br />

dentro di noi in maniera cieca e irrazionale.<br />

L’egoismo personale insomma, che nella cattiva sorte<br />

prima era la difesa che alimentava lo spirito di conservazione,<br />

ora nella buona l’oliveto lo trasformò in egoismo<br />

feroce, in cieco furore per il guadagno gettando<br />

uno spettro letale sulla nostra esistenza. Così come altre<br />

chimere lo gettava su tutta la massa di campagna. I<br />

paraocchi per cui non era possibile vederci e rivelarci<br />

come classe sfruttata da un’altra. Guardando le pecore<br />

che crescevano di numero e l’oliveto che s’innalzava<br />

sempre di più verso il cielo, ci succedeva dunque di vivere<br />

quello stesso egoismo che nella mala sorte ci tuffava<br />

come cani famelici sul tozzo di pane, sulla preda.<br />

Eravamo figli di quell’egoismo che ci salvò dalla fame e<br />

ora nella buona sorte non potevamo mutare metro. E<br />

quella speranza che ci fece vivere contenti, nella nostra<br />

beata ignoranza, tutto il rigore dell’esistenza preceden-<br />

169


te, ora ci lanciava nella lotta del possesso. L’unico linguaggio<br />

per divenire era il guadagno: la competizione<br />

sul lavoro come base morale per entrare nel prestigio<br />

sociale. Una vera sfida spietata e senza quartiere.<br />

Ora so che tutta questa corsa sfrenata per l’accrescimento<br />

del peculio in antagonismo con gli altri non era<br />

altro che il senso incontrollato dell’inconscio alla ricerca<br />

rapace del “mio” opposto al “tuo” come terreno necessario<br />

per divenire. Era il nostro “io”, ora lo riconosco,<br />

che diveniva come le querce in continua lotta tra di<br />

loro e con il sottobosco che soffocavano con le loro<br />

branche. Ognuno di noi era una quercia in lotta spietata<br />

e dichiarata in aperta campagna. Tutti i pastori erano<br />

un bosco di querce che infiltravano a gara le loro radici<br />

nel terreno e innalzavano le loro branche in cerca di<br />

spuntare una sull’altra: in cerca di sottrarre l’aria all’altra.<br />

Querce che avevano la facoltà di ridersi del sottobosco<br />

(dei loro servi) e delle altre piante che avevano<br />

superato in altezza.<br />

Che strano bosco e che razza di lotta dell’istinto! Ora<br />

capisco che noi, come gli altri pastori e gli altri contadini,<br />

articolavamo la nostra esistenza sull’istinto e sulla<br />

brama del possesso come quelli che al di là dell’orizzonte<br />

del nostro campo facevano la storia e ne tracciavano<br />

il senso. È una scoperta che mi ha stupito, ma che<br />

sento di confessare. Facendo le dovute proporzioni,<br />

noi tutti non eravamo meno borghesi di quelli che ora<br />

definisco borghesi. La stessa lotta nel guadagno basato<br />

sull’istinto del possesso: la stessa aspirazione a primeggiare<br />

sugli altri quasi per distruggerli. Certo, una borghesia<br />

in embrione, ma sempre con gli stessi caratteri e<br />

170<br />

con la medesima ferocia nel voler essere tale. Con sue<br />

norme rigide prima nel far fronte alla sopravvivenza e<br />

nello strafare nel potere poi quando le circostanze lo<br />

favorivano.<br />

Naturalmente allora non lo sapevamo. Quello stato<br />

era la molla della nostra esistenza istintuale. Il paradosso<br />

più assurdo era però che accanto alla borghesia che<br />

deteneva il potere, noi stessi vivevamo la nostra “borghesia<br />

inconscia” come base della borghesia effettiva.<br />

Una crudele scoperta. Altro che individuarci come massa<br />

sfruttata. Noi tutti inseguivamo le chimere del nostro<br />

egoismo sulla base dei singoli egoismi contrapposti<br />

e pronti a sbranarci a vicenda come in lotta per la<br />

preda.<br />

È triste veramente ora per me sapere che i pastori<br />

non la conoscono questa tremenda verità. Ed è dolente<br />

che loro continueranno a urlarsi come i loro cani il<br />

“mio” e il “tuo” in modo bestiale e ferino. Vivranno ancora<br />

sbranandosi a vicenda e sputando sangue tragicamente<br />

per padroni che non conoscono.<br />

Su questa base di egoismo granitico e rapace, mio<br />

padre aveva costruito l’oliveto. Sulla morale dell’istinto,<br />

sostenuto dalla chimera della ricchezza. Ora mi<br />

sembra strano che anche lui battesse una strada curioso<br />

e contento come quando io in groppa al suo somaro<br />

inseguivo i suoi zuccherini. Una forza impalpabile e<br />

invisibile glieli offriva. E lui come tutti gli altri la inseguiva<br />

per prenderli. E contento soffriva con piacere.<br />

Curvo, lavorava come un dannato, ma la brama del<br />

possesso gli rendeva leggero ogni peso. Gli faceva impazzire<br />

la zappa e gli arnesi di lavoro. E per realizzare<br />

171


il più possibile, quasi per lasciare le tracce ai posteri,<br />

inseguiva anche lui questo mostro comune. La tirannide<br />

titanica del suo egoismo lo costringeva incessantemente<br />

a dilatarsi senza dolore i muscoli sul lavoro. Lo<br />

mungeva veramente. Lo prendeva con la sua mano e<br />

come un pastore esperto e avaro lo spremeva come se<br />

fosse la mammella di una pecora. Non gli lasciava una<br />

stilla di latte. Tutti eravamo come incorporati da questo<br />

demone che ci svegliava di notte e ci pungiglionava<br />

di giorno sui campi per la produzione.<br />

Il nostro sangue ribolliva nello sforzo. Cadeva a terra.<br />

Si raggrumava. E noi si era contenti. Non potevamo<br />

pensare che il frutto del nostro sangue se lo sarebbero<br />

mangiato i rapaci urbani, lucidi e riposati nelle loro comode<br />

case. Ognuno costruiva da giovane per la vecchiaia,<br />

senza sapere che, in una società siffatta, la vecchiaia<br />

sarebbe stata, “oliveto o meno”, tragicamente<br />

disprezzata da tutti i giovani! E si affidava a questo demone<br />

che spandeva per i campi le nostre energie disseminandole<br />

a suo capriccio, rendendoci felici di questo<br />

sbrandellamento delle nostre carni: ignorando le calamità<br />

e i capricci della natura.<br />

Venne così lo spazzachimere: il gelo. Nel 1956 l’inverno<br />

fu molto caldo fino a tutto gennaio. Le proverbiali<br />

secche del primo mese dell’anno sembravano addirittura<br />

i primi caldi primaverili. La natura si stava<br />

svegliando. Le piantine giovani del nostro oliveto, tradite<br />

dal clima, si svegliarono prima del tempo. In pieno<br />

inverno stavano già in succhio: in amore, crescendo co-<br />

172<br />

me in primavera. Il tempo subdolamente le richiamò al<br />

rigoglio e non potevano disubbidire alla natura. Venne<br />

febbraio. Fu il finimondo. Un freddo polare. Mai visto<br />

né prima né dopo. La mattina del due febbraio, come al<br />

solito, ci si svegliò per la mungitura. La bufera muggiva<br />

e ci avvertì dai nostri giacigli. Fuori tutto era bianco. Le<br />

valli otticamente ricolme nelle loro depressioni, erano<br />

scomparse: gli alberi tappezzati di bianco. E la contrada<br />

tutta si spiegava così in una pianura indefinita che si<br />

era inghiottita il bosco e le colline. Nembi di neve calavano<br />

o si sollevavano rovinando e cozzandosi in preda<br />

al turbine. Il vento era forte e tagliente. Le mani si screpolavano.<br />

Stare in piedi era difficile. E nonostante la<br />

gamba ferma fosse continuamente conficcata sulla neve,<br />

si camminava barcollando. Sollevare i passi era quasi<br />

impossibile. Togliere la gamba dalla neve faticoso: se<br />

non si stava attenti lo scarpone male abbottonato rimaneva<br />

sotto la neve. Nevicava a rovina. I fiocchi della neve<br />

scendevano a grappoli come le cavallette del 1945.<br />

Le pecore scorrendo sulla neve, mentre le conducevamo<br />

per la mungitura, vi sprofondavano fino alle cosce.<br />

La loro pancia vi sfregava sopra. Uno spazzaneve. Il<br />

gregge non era più bianco come al solito, ma a testa<br />

bassa e pressato per farsi caldo, si muoveva a stento con<br />

il suo colore d’urina. Una palla di sterco sul secchio<br />

schiumoso della neve. Ci abbassammo per mungere.<br />

Le pecore ci riparavano dall’uragano e dal turbine.<br />

– Oggi è una giornata infernale, – disse il babbo.<br />

– Questo rovina tutto. Ti uccide. Le pecore, se non<br />

stiamo attenti, ci possono morire. Biada, biada, ghiande<br />

e frasche subito. Appena munto. Portami la scure.<br />

173


Abbatteremo il primo sughero che ci capita. Le volpi<br />

ora scendono anche sulla pianura.<br />

– Oggi le pecore non ne fanno di capricci mentre le<br />

mungiamo! Le loro mammelle non sono turgide.<br />

– Ma che turgide (ma ite ghìbberas). Con questo gelo?<br />

Se non muoiono è già tanto. Oggi le pecore le portiamo<br />

giù a issu addhìju. C’è riparo. Forza! Apri il varco<br />

(abbéri s’àidu)!<br />

– Sì.<br />

Finito di mungere le pecore, le conducemmo alla valle.<br />

E passammo per l’oliveto. Il manto bianco oscillava,<br />

ondeggiava, come il mare in tempesta. I cavalloni di neve<br />

si sbattevano frantumandosi uno contro l’altro. Si<br />

sollevavano e danzavano turbinandosi e intrecciandosi<br />

come flutti sparendo nei loro frantumi. La terra così ci<br />

nevicava più del cielo. Le pecore si rifiutavano di camminare.<br />

Il babbo, mentre si passava così per l’oliveto, dietro<br />

le pecore, per caso o perché presentiva qualcosa di grave,<br />

si avvicinò frettolosamente ad una piantina, sommersa<br />

dalla neve, con le branche piegate fino a terra. La<br />

agguantò con forza e la scosse sul fusto come per liberarla<br />

di quel gelido peso. Strappò un ramo dalla sua figlia<br />

e si rese conto subito del disastro. E quasi esterrefatto<br />

frantumò più volte il ramo in più punti tenendolo<br />

tra le mani come un proprio organo ferito: lo osservò<br />

attentamente come se stesse leggendolo e si contorceva<br />

tutto, ma in silenzio. E nervosamente strappava e riguardava.<br />

Scattò d’improvviso verso un altro alberello.<br />

Strappò di nuovo. Sbucciò il ramo e lo lesse. Lo buttò<br />

via sempre in silenzio. E come un forsennato corse ad<br />

174<br />

un’altra pianta. Stessa scena. Lui si dimenava più dei<br />

cavalloni della neve che lo assiepavano da tutte le parti.<br />

Correva ansimante, quasi piangendo, con il volto e gli<br />

occhi coperti dal nevischio. E quasi nutrisse ancora<br />

qualche speranza strappò tutte le piante che gli stavano<br />

attorno. Leggeva e rileggeva spasmodicamente la loro<br />

scorza affossando i suoi pollici callosi, ma leggeva sempre<br />

la stessa cosa. E spinto dal dolore come per dimostrare<br />

alla tormenta che solo lui aveva il diritto di uccidere<br />

le proprie figlie sradicò un alberello biforcuto e<br />

correndo avanti e indietro come volesse percuotere la<br />

bufera come tante volte aveva percosso bestiame abusivo<br />

o pastori incoscienti, urlò agli ululati del vento la<br />

sua disperazione.<br />

– Est tottu mortu! Est tottu mortu! I miei lavoriii! I<br />

nostri sacrifici! Tutto perso. Non c’è più speranza. La<br />

mia vita valeva solo una notte di gelido vento! Uno sfogo<br />

della natura ha bruciato tuttoo! Hummmm! Hummmm!<br />

– Ululava insieme al vento sparandogli le fiche a<br />

pollici spianati. – Huuuuu!! Fatti i conti. La speranza!<br />

Dio, dove seiii! Sui miei coglioniii!... Lascia pure qui le<br />

pecore! È tutto bruciato: tutto arso. Non c’è più niente<br />

da preservare dalle bestie. Il gelo si è mangiato tuttooo!!<br />

Il vento gli soffocava la voce in gola riempiendogliela<br />

d’aria. I suoi urli però andavano spegnendosi mentre<br />

la tormenta non abbassava mai la sua voce. Il suo avversario<br />

quella volta era impalpabile e non lo poteva<br />

strozzare.<br />

Io, attonito, lo guardavo nella sua corsa e nella sua<br />

violenza. Tra i nembi del nevischio che lo avvolgevano<br />

era come se si volesse divorare anche la neve.<br />

175


– Guarda! Strappa! Strappaaa! Strappaaa! Non avere<br />

paura! Vedi tra il legno vivo e la buccia c’è uno strato<br />

nero... Lo vedi? È tutto secco! Fra qualche giorno qui<br />

vedrai tutto nero come se ci fosse passato un incendio<br />

mai visto. Le piantine erano in amore.<br />

Così il babbo spezzando quei rami che sin da piccoli<br />

aveva sempre accarezzati, non fece altro che strappare<br />

tutta la sua vita già strappata. Le sue aspirazioni, i suoi<br />

lavori, gli entusiasmi, i sacrifici e le rinunce della sua<br />

travagliata esistenza di pastore e di agricoltore. E con la<br />

sua corsa all’impazzata, e con i suoi lamenti non fece altro<br />

che fare i funerali alle sue figlie.<br />

Dopo alcuni giorni, i segni della morte si potevano<br />

leggere sui tronchi delle piantine. Le screpolature e i<br />

solchi lunghi fino alle radici esponevano il tronco sbucciato:<br />

nudo e lucido. I geroglifici del gelo erano leggibili<br />

a distanza e la morte delle piantine venne inesorabile<br />

come il babbo aveva detto disperatamente nella sua via<br />

crucis da una pianta all’altra, mentre le “visitava”, come<br />

loro dottore, le sue figlie morenti, urlando al loro<br />

capezzale.<br />

Il gelo stroncò e distrusse irrimediabilmente l’oliveto.<br />

La chimerica e deludente speranza per cui saremmo<br />

divenuti ricchi si dissipò nel nulla. Un capriccio della<br />

natura arrestò e arrostì il giardino e lo divorò. Arrestò<br />

la corsa di mio padre. Sbrandellò il suo egoismo riducendolo<br />

a un cencio dilaniato dal gioco dei cani.<br />

Il solo freddo di una notte divorò ciò che mio padre<br />

aveva costruito in trent’anni costringendolo ad esiliarci<br />

176<br />

nel campo, svezzandoci dalla storia. Uno sghiribizzo<br />

della natura, un gelido vento, un forte abbassamento di<br />

temperatura, dilaniò tutta l’amorosa e assidua costruzione<br />

di mio padre: il suo passato vivente che sorrideva<br />

sugli ulivi e la nostra infanzia (e pubertà mia) tradotta<br />

in un rigoglio poderoso che avrebbe sfidato i secoli accanto<br />

alle vecchie querce che dai lati ancora invadevano<br />

per cielo e per terra il rettangolo sudato, la scacchiera<br />

su cui noi si giocava inconsapevolmente alla morte.<br />

La famiglia tutta accusò il colpo. Il disorientamento<br />

si protrasse a lungo. Le autorità non intervennero in<br />

nostro favore. Il nostro passato ferino perse ogni senso.<br />

Di colpo ci sembrò assurdo. La permanenza bestiale<br />

nei campi, l’isolamento civile, non trovavano più nessuna<br />

giustificazione. La nostra prigionia nel deserto<br />

umano ci faceva quasi paura.<br />

Nostro padre era stato battuto. Nella sua corsa aveva<br />

anche agguantato la chimera, ma gliela tolsero forze superiori<br />

e non ci poté offrire un futuro migliore. Nel<br />

frangente non fu aiutato da nessuno e il mondo “civile”<br />

ha lasciato che la natura spontanea operasse di nuovo<br />

la traduzione in selva, come prima.<br />

La famiglia rimase così come uno sciame di api (comènte<br />

una gheddha de abes) cui è franato l’alveare. Un<br />

nido d’uccelli ancora implumi buttato giù da una tromba<br />

d’aria. La nostra tradizione ci indicò la via della riscossa.<br />

Il passato stesso dei pastori ci aveva insegnato la<br />

rassegnazione, a tornare subito dal sogno alla triste realtà:<br />

a riprendere la rincorsa.<br />

Dopo la distruzione dell’oliveto, la pastorizia e l’agricoltura<br />

rappresentarono le uniche attività della fami-<br />

177


glia. Il babbo non se la sentì di rifare l’oliveto a sue spese.<br />

Ormai si era disgustato. Non aveva più l’ardore e<br />

l’entusiasmo di ricostruire.<br />

Ora avevo diciotto anni. Ero la colonna della famiglia.<br />

Gli altri erano ancora piccoli. Non usabili nel lavoro<br />

agricolo. Solo Filippo, minore di me di tre anni, lavorava<br />

e produceva. Giacomo aveva solo undici anni.<br />

Le sorelle, a parte Vittoria che dovette andare a servire<br />

a Sassari (a fàghere sa teràcca), erano piccole anch’esse.<br />

Tutti schierati e al proprio posto, però, si lottò per la<br />

sopravvivenza e si reagì con il solito spirito di conservazione.<br />

Si attuarono le leggi severe della pastorizia forzata.<br />

I più piccoli (Giacomo, Domenica e Elisa), a turno,<br />

pascolavano le pecore. Noi grandi, il babbo, Filippo ed<br />

io, ci dedicavamo completamente all’agricoltura durante<br />

il giorno e durante la notte sorvegliavamo il bestiame.<br />

Con Filippo si zappava, a cottimo, le vigne del vicinato.<br />

Di comune accordo “appaltavamo” le vigne circostanti<br />

prima che lo facessero gli altri.<br />

– Thiu Michè? Ce la date a zappare la vostra vigna?<br />

– Se mi fate un bel lavoro. Certo. Io sono esigente.<br />

– Noi ve la facciamo bene. Ce la date a cottimo. Però<br />

non dovete dire nulla di questo a nostro padre. Facciamo<br />

così. Noi ve la zappiamo e pagate lui. Poi ci pensiamo<br />

noi. Abbiamo bisogno di qualche soldo.<br />

Naturalmente il tempo che ci rimaneva lo impiegavamo<br />

a farci, anche a sbalzi, la vigna di un altro.<br />

Così si faceva con molti. Un simile lavoro ci faceva<br />

comodo. Era lì a due passi e ci liberava dalla giurisdi-<br />

178<br />

zione patriarcale. Ci rendeva liberi. Se si faceva ritorno<br />

presto all’ovile, il babbo con la scusa che avevamo fatto<br />

la giornata, si asteneva dall’usarci in altri lavori extra.<br />

Spesso la sera allora restavamo in libertà, anche se ci<br />

toccava mungere al crepuscolo e all’alba. La distruzione<br />

dell’oliveto era ormai un brutto ricordo e ci si poteva<br />

concedere anche un po’ di sollievo.<br />

Avevo diciotto anni e da sempre oltre alla passione<br />

per lo studio soffocata, ma rimasta viva e gelosamente<br />

nascosta nel mio intimo, c’era anche la musica.<br />

Già da piccolo, quando occasionalmente mi capitava<br />

di sentire la fisarmonica della “fortuna” per Sìligo, mi<br />

bloccavo. Mi fermavo ad ascoltare rapito ed estasiato.<br />

Una volta di ritorno a Baddhevrùstana, uscendo da<br />

Sìligo, mi venne incontro un giovanotto baffuto suonando<br />

una smagliante fisarmonica rossa. Dietro c’era<br />

la solita donna che con il pappagallo vendeva la fortuna<br />

ai passanti.<br />

Il giovanotto suonava speditamente un bel valzer brillante.<br />

E io che procedevo dietro Pacifico, senza accorgermene,<br />

mi fermai, incantato, per ascoltarlo. Ammaliato<br />

e vinto da quelle note e da quei bassi, trasportato<br />

quasi da una forza magica, tallonai il suonatore che riattaccò<br />

con un bel tango e mi attrasse con una mazurka.<br />

Credo, da quello che posso ricordare, che fosse questa<br />

la sequenza dei ballabili. Mi dimenticai di tutto. In quello<br />

stato di trance musicale mi passò più di un’ora senza<br />

che me ne accorgessi. Finalmente il suonatore fece una<br />

pausa. Si appoggiò a una gradinata e aspettò la sua donna.<br />

Lo guardavo con invidia. Volevo essere come lui.<br />

Avrei venduto me stesso per avere quella fisarmonica.<br />

179


I pastori, che sbucati dalle loro case lasciavano Sìligo,<br />

mi scossero con i loro versi, incitando i somari: – Prùuuu.<br />

Prùuuu. Sàaa. Prùuu inòghe sààà! Ffffff! Pruuuù!<br />

Dààààà! Ffffff! Ffffffff!<br />

Rinvenni di soprassalto. Mi sentii soffocato dall’ira<br />

inesorabile di mio padre, prima ancora che mi potesse<br />

colpire fisicamente. Nel mio trotto mi contorcevo: sentivo<br />

e evitavo i colpi della sua punizione. Il mio trotto<br />

divenne corsa impazzita verso Baddhevrùstana, dove<br />

speravo di ritrovare Pacifico. I talloni mi sbattevano le<br />

natiche. La mia corsa affannosa, però, quasi per ironia<br />

della situazione, di tanto in tanto veniva interrotta. Gli<br />

scarponi mi erano grandi e nello sgambettio sfrenato se<br />

ne uscivano. Mi ritrovavo scalzo ora di un piede ora di<br />

un altro. Alla fine per fare più in fretta, presi gli scarponi<br />

per mano e via scalzo sulla strada ghiaiosa.<br />

– Pacifico! Pacificooo! Eccolo là! Speriamo che non<br />

abbia perso nulla. Sennò il babbo me le suona veramente<br />

oggi.<br />

La bestia si era fermata all’uscita del paese (in sa rughe).<br />

E stava mangiando i suoi cardi preferiti sulla banchina.<br />

La raggiunsi di corsa: si spaventò di me e della<br />

mia paura. Sollevò il muso dall’erba masticando gli ultimi<br />

steli e rimettendosi sulla strada. Lo tranquillizzai<br />

con i soliti ssc! sssc! esssci sàà; lèèè! pruè, pruè!<br />

Si fermò. Uno sguardo al carico. Non aveva perso nulla.<br />

Portava tutto: i bidoni e la bisaccia. Infilai gli scarponi,<br />

montai in groppa e via a trottone stringendo Pacifico<br />

con gli scarponi perché non se ne uscissero di nuovo<br />

con le gambe penzoloni.<br />

Lo incitavo fino allo spasimo per annullare il ritardo.<br />

180<br />

Ma nonostante Pacifico fosse veloce e potente, il tentativo<br />

fu inutile: il trotto più spedito non avrebbe più potuto<br />

riprendere il tempo perduto.<br />

Nella mia disperata rimonta, io speravo che il babbo<br />

fosse assente.<br />

Quel giorno, invece, quasi mi aspettasse, mio padre<br />

stava sullo spiazzo.<br />

La sua vista mi raggelò sin da lontano:<br />

– Che gli dico? Che sono dovuto ritornare indietro<br />

da Mesu Mundhu? Che la mamma non si è ricordata di<br />

mettere il pane nella bisaccia? Che Pacifico mi è scappato?<br />

Ha sentito un’asina in fregola. Mi ha buttato giù<br />

e io non l’ho trovato subito? Mi è fuggito a Riu Ruzzu?<br />

Mentre rimuginavo, costruendo le mie trincee, la mia<br />

mente fu paralizzata dalla voce del babbo. Non appena<br />

gli fui di fronte, sbottò:<br />

– Come mai questo ritardo, oggi? Due ore! Che ti è<br />

successo?<br />

La colpa mi impedì di parlare. Mi soffocò in gola la<br />

frase salvatrice. Rimasi disarmato, sul basto, con gli occhi<br />

stralunati. Il sudore e l’ansimare di Pacifico, poi, inviperirono<br />

mio padre.<br />

– Scendi! Svelto! Oggi non la passi liscia! Prima fai<br />

ritardo. Poi tocca alla bestia rimediare ai tuoi capricci,<br />

animale! Animale che non sei altro! Tutto un bagno di<br />

sudore, povera bestia.<br />

In un baleno, egli ricostruì la mia inutile rimonta. Furono<br />

le solite botte. Due ore di ritardo. Cinque minuti<br />

di furia educativa: schiaffi, rimproveri e staffilate con la<br />

fune di Pacifico. La solita “aia” davanti alle urla.<br />

Altro che musica! A questa passione mio padre non<br />

181


poteva pensare. Dalle canne che costruivo io stesso e<br />

dalle armoniche che avevo sempre in tasca, lui era al<br />

corrente di questa mia debolezza che dovevo soffocare.<br />

Dovevo suonare solo la fisarmonica del lavoro e<br />

ascoltare con lui solo la musica della nostra storia sociale.<br />

La marcia funebre forzata delle nostre giornate lavorative<br />

sulla zappa, sull’aratro o sotto l’ombrellone<br />

dietro le pecore al gelo, era più che sufficiente per appagare<br />

le mie orecchie e la mia passione.<br />

Man mano che venivo su, lo pregavo ripetutamente<br />

di comprarmi la fisarmonica. Le mie preghiere erano<br />

inutili. Era assurdo per lui concepire un simile lusso.<br />

Uno spreco inutile e fuorviante. Aveva paura che lo<br />

strumento mi distogliesse dal lavoro e mi viziasse semmai<br />

fossi riuscito ad imparare a usarlo.<br />

– La fisarmonica è difficile, – concludeva sempre, lui,<br />

quando raramente glielo ricordavo. – Bisogna andare a<br />

scuola. Quelli che se la sono comprata a Sìligo, ad impararla<br />

non ci sono riusciti. E tu, la vuoi imparare qui, a<br />

Baddhevrùstana. Puh! Non farmi ridere! Noi ce li abbiamo,<br />

qui, gli strumenti: li abbiamo imparati dagli anziani<br />

e li dobbiamo suonare. Altro che valzer, tanghi e<br />

opere. Ma lasciami la testa! Vedi! Fossimo come quegli<br />

uccelli, lassù; come quei gufi, quelle piche, quelle upupe<br />

che stanno cantando. Allora, avremmo suonato e<br />

musicato anche noi. Loro non hanno problemi. Non<br />

hanno bisogno di scarpe per camminare. Non hanno<br />

bisogno di vestiti né di casa per dormire: pernottano<br />

dove loro sopraggiunge la notte (ue lis iscùrigada fàghene<br />

notte). L’unica loro preoccupazione è cercarsi da<br />

mangiare. Nessuno tra di loro è sfruttatore. Ognuno se<br />

182<br />

ne vuole, se ne becca. Tra di loro non c’è chi becca e chi<br />

mangia: chi va a caccia e chi trangugia, come succede<br />

agli uomini. No! No! Ognuno si mangia quello che<br />

becca. Non pagano tasse né faticano, loro. Los bides<br />

cantènde e moduléndesi sa oghe, subra sas naes: ciu<br />

ciau! Ciu ciau! Ciccimpèra, Ciccimperacì! Totta die a<br />

oju a sole. Bellu fidi istàdu a èssere puzzònes, tottu. E<br />

chie si ndhe aìada biccàdu si ndhe aìada manigàdu, si<br />

ndhe aìada chérfidu. Non comènte semus nois! Noi lavoriamo<br />

e altri mangiano. Canes ’e sutta banca semus<br />

(siamo cani sotto tavolata). Noi non abbiamo il tempo<br />

di giocare e di cantare. Se non stiamo attenti moriamo<br />

di fame, moriamo. Altro che musica! Altro che fisarmonica!<br />

Il nostro destino è brutto.<br />

Questa tipica tirata del babbo rispecchiava la morale<br />

comune. I suonatori erano ritenuti dei mangiapane a<br />

tradimento: mangiano ciò che non producono. Son cicale<br />

ambulanti, rispettate e tollerate solo nelle ricorrenze<br />

festive. Per il resto, la gente li disprezzava e li ripudiava<br />

come sfaccendati. Il babbo temeva che anch’io potessi<br />

diventare una cicala. Ero una formica e dovevo rimanere<br />

tale con il pensiero rivolto sempre al grano, all’orzo,<br />

alla vigna e alle pecore, d’estate e d’inverno.<br />

Così dovetti appagare la mia passione con l’armonica<br />

a bocca e con i pifferi di canna emettendo suoni alla<br />

rinfusa. La radio a Baddhevrùstana non c’era. E la “fortuna”<br />

mi capitava di sentirla molto raramente.<br />

Un giorno mi dissero: – Thiu Gellòn conosce bene la<br />

musica. Perché non ci vai? Lui ti può insegnare a suonare.<br />

Thiu Gellòn era un mio lontano zio. Con lui, fino ad<br />

183


allora, non avevo avuto familiarità. Lui abitava a Sìligo.<br />

Lo salutavo seccamente quando mi capitava di incontrarlo<br />

sulla strada bianca, come fosse un estraneo.<br />

Ora, però, che mi avevano messo la pulce nell’orecchio,<br />

mi sembrava una carta da giocare. Un bel giorno,<br />

così, la curiosità mi portò a casa sua. Stava ascoltando<br />

la radio.<br />

– Buon giorno, zio Gellòn.<br />

– Oh! Chi si vede! Come mai qui?<br />

– Mi hanno detto che conoscete la musica.<br />

– Beh, la musica la conosco. Una volta la conoscevo benissimo.<br />

Suonavo nella banda di Porto Torres. Poi ho<br />

conosciuto tua zia e Sìligo è diventata la mia residenza.<br />

Qui non ho più praticato.<br />

– Allora me la insegnate? A me piace suonare la fisarmonica.<br />

– È una cosa difficile. Ci vuole molta pazienza, molto<br />

tempo. Non è cosa da apprendere così per passatempo,<br />

dietro le pecore o lavorando, caro ragazzo. Non è uno<br />

scherzo. A imparare si soffre.<br />

– Ma a me piace molto. Il tempo lo troverò, a costo di<br />

studiarla di notte.<br />

– Non basta piacere! Ci vuole disposizione, costanza,<br />

ambiente. E molto tempo. E tu, tu devi lavorare. Vai,<br />

vai a lavorare. Tuo padre ti starà aspettando.<br />

Zio Gellòn mi congedò bruscamente. Non mi dette<br />

soddisfazione. Ne uscii demoralizzato, ripetendomi le<br />

sue parole: – Difficile, – Devi lavorare, – Disposizione.<br />

Quando mi comprai la nuova armonica a bocca, ci ritornai.<br />

Mi dissi:<br />

184<br />

– Voglio vedere che mi dice. Io gli suono quello che<br />

so.<br />

– Buongiorno zio.<br />

– Oh, salve! Siediti. Mi sto ascoltando la nazionale:<br />

Italia-Austria.<br />

– Che cos’è la nazionale?<br />

– È la squadra di calcio, formata dai giocatori più<br />

forti d’Italia. Sta giocando con la nazionale austriaca,<br />

ma non stiamo andando tanto bene. Sta pareggiando<br />

l’Italia. Ehh...<br />

– Sono venuto...<br />

– Sta finendo, aspetta.<br />

– Sì.<br />

– Allora??<br />

– Sono venuto a farvi sentire il ballo sardo che ho<br />

imparato proprio dietro le pecore. Quello che suono<br />

durante le pause del lavoro.<br />

– Beh! Beh! Fammi sentire.<br />

– Mfù, mfù, mfù, mfù, mfù / Mfù, mfù, mfù, mfù,<br />

mfù.<br />

– Ah ah aha! Bravo! E dove lo hai sentito?<br />

– La “fortuna”.<br />

– Ah!<br />

– Suono anche il piffero. Ce l’ho in tasca!<br />

– Suona, suona.<br />

– Pibiri, bibiri, bibiri, bibiribì / pibiri, bibiri, bibiri,<br />

biribì!<br />

– L’altra volta sono stato un po’ severo. Volevo vedere<br />

se la tua era un’intenzione seria. Molti ragazzi sono<br />

venuti qui con tanto entusiasmo, ma dopo due lezioni<br />

di solfeggio, non li ho più rivisti.<br />

185


– Allora me la insegnate, la musica?<br />

– Se mi fai una promessa.<br />

– Sì.<br />

– Se tu farai quello che ti dico io e come dico io. Sennò<br />

è meglio non incominciare.<br />

– Sì! Ve lo prometto!<br />

– Va bene.<br />

L’affare era fatto. Si alzò, claudicante, dalla sua sedia<br />

e tolse fuori, da uno scaffale, un vecchio metodo di solfeggio.<br />

– Con questo ho studiato io. Trattamelo bene.<br />

– Sì.<br />

– Allora, la musica consta di 7 note naturali, intercalate<br />

dalle note alterate di un semitono. Si scrive sul pentagramma,<br />

con le figure musicali, a seconda del loro valore.<br />

Vedi? Abbiamo la semibreve, la minima...<br />

Così agitando il bacolo per la stanza, mi spiegò la prima<br />

lezione prima di quanto io non credessi e ripartii<br />

per Baddhevrùstana. Sul basto cercavo di decifrare<br />

quelle figure nuove ricercandole sul metodo tremolante<br />

al trotto della bestia. Mentalmente mi riascoltavo le<br />

sue parole inchiodandomele per sempre nell’intimo.<br />

Ai pastori e ai contadini che mi salutavano rispondevo<br />

seccamente. Ero sul pentagramma, dentro quelle righe<br />

e quegli spazi. Il petto di tanto in tanto mi si dilatava<br />

per la gioia di parlare finalmente con la musica.<br />

Quando la mattina, sia pure di rado, anche a me toccava<br />

il turno di recarmi a Sìligo, andavo sempre a trovare<br />

zio Gellòn. In paese non potevo trattenermi più di<br />

tanto. L’ora era contata. Il rientro non doveva uscire dal<br />

tempo stabilito dal mio <strong>padrone</strong>. E siccome ormai non<br />

186<br />

potevo più rinunciare allo zio e alla musica, chi ci rimetteva<br />

era Pacifico. Una volta che assalivo il basto e<br />

sgusciavo via dall’ovile, il mio pensiero fisso era la lezione.<br />

Il solfeggio. Zio Gellòn!<br />

Sul basto mi contorcevo tutto come thiu Diddhìa e<br />

come thiu Antonìccu, quando trottavano verso le loro<br />

mogli. Tutto sbuffate e scossoni, anch’io incitavo il somaro<br />

con la stessa smania. Anch’io dovevo raggiungere<br />

mia moglie. E la mia testa imberrettata che faceva<br />

capolino nei chiusi doveva certamente apparire ai pastori<br />

in lontananza l’estremità dell’albero della barca<br />

che sulle gambe di Pacifico scivolava sul mare della<br />

mia passione. Una testa che sfrecciava al vento e al gelo,<br />

facendo ponte al vento contrario con le note che<br />

solfeggiavo. I piedi mi andavano ritmicamente sia per<br />

dividere le note sia per incitare Pacifico alla corsa, che<br />

sudava sotto lo sforzo. Io, però, non potevo farci nulla.<br />

Dentro di me c’era un vulcano e la mia reazione non<br />

era altro che l’equazione psicologica delle circostanze.<br />

Mio padre, capostazione inflessibile, non avrebbe mai<br />

tollerato il minimo ritardo. Così solo la celerità di Pacifico<br />

poteva aiutarmi. Nella corsa guadagnavo mezz’ora<br />

e ci usciva la lezione.<br />

Sbrigate le faccende, di corsa, inseguito e trascinato<br />

da due fuochi che mi bruciavano insieme (lo spettro di<br />

mio padre e la musica), piombavo cotto cotto e trafelato<br />

da zio Gellòn. Lo trovavo sempre a letto, intento ad<br />

ascoltarsi la radio. Era anziano, soffriva di reumatismi e<br />

si alzava tardi.<br />

– Se tu fossi venuto prima, avresti sentito un fisarmonicista<br />

con i fiocchi.<br />

187


– Che ha suonato?<br />

– Ma! Una mazurka. Eccezionale! Su! A noi ora!<br />

Mi spiegava sempre la lezione dal suo letto, di buon<br />

grado, tutto quello che sapeva, spassionatamente. Me<br />

lo comunicava come un tesoro di cui spesso si doleva<br />

di non averlo potuto trasmettere ai figli, morti prima<br />

del tempo. Agitando la destra, mi faceva venti minuti<br />

di solfeggio e mi assegnava la lezione successiva che io<br />

studiavo di notte o di giorno dietro le pecore, se pioveva.<br />

Allora a pascolarle andavo solo quando non si poteva<br />

lavorare la terra. Per questo spesso, mentre zappavo<br />

o aravo, divoravo il cielo con lo sguardo, quasi<br />

avessi il potere di turbarlo e suscitare nuvole e temporali.<br />

Le giornate più belle per me erano quelle che per<br />

gli altri erano le più brutte. Le giornate interminabili<br />

sotto la pioggia erano tempo prezioso per il mio sogno.<br />

Dietro il gregge sotto l’ombrellone verde, con il metodo<br />

dello zio, nascosto sotto il cappotto per non farlo<br />

notare da mio padre, mi avviavo per il pascolo. E sotto<br />

le querce, quando la natura si scatenava e il gregge si<br />

metteva al riparo, ora non ascoltavo più il suo linguaggio<br />

che un tempo mi aveva parlato a lungo. Ora, la natura,<br />

la lasciavo parlare per conto suo. Non rispondevo<br />

più ai suoi dialetti. E tutto preso da quella dolce ansia<br />

che la musica aveva acceso dentro di me, mi mettevo<br />

a solfeggiare. Il gelo non lo sentivo più preso dalla<br />

mia passione, ceppo acceso che scoppiettava e scintillava<br />

sotto l’acqua. Preso dalla smania, scandivo con il<br />

loro giusto valore le note, agitando le mani e riproducendole<br />

con la bocca. Risultato: dopo tre mesi di solfeggio<br />

clandestino (mio padre non sapeva nulla), la le-<br />

188<br />

gna della mia passione si ridusse a un bel mucchio di<br />

brace su cui si poteva fare l’arrosto musicale più saporito.<br />

Zio Gellòn si convinse della mia serietà e delle<br />

mie risorse musicali.<br />

– Ora ci vuole lo strumento.<br />

– E come si potrà fare? Mio padre non me lo comprerà<br />

mai.<br />

– Io tento di parlarci. So che è un osso duro. Gli dirò<br />

che è necessario: che te lo insegnerò io.<br />

Lo scontro avvenne una mattina in sa funtanèddha,<br />

all’entrata di Sìligo. Il babbo stava abbeverando i buoi<br />

con un carro di legna da vendere, mentre zio Gellòn si<br />

stava recando al vigneto che teneva a Mesu Mundhu.<br />

– Abrà! Ti debbo dire una cosa importante.<br />

– Di che si tratta?<br />

– Di tuo figlio, di Gavino. Quel ragazzo ha una vera<br />

passione per la musica. Te lo dovevo dire da prima, ma<br />

volevo essere sicuro delle sue capacità. In tre mesi che<br />

viene da me, ha appreso molta teoria. Ti dico che mi ha<br />

sorpreso. Ora però ci vuole lo strumento per passare<br />

alla pratica.<br />

– Non posso farci niente, Antonì. Noi si lavora notte<br />

e giorno. La nostra musica è un’altra. Teoria... Pratica...<br />

Musica... No! Il ragazzo devia.<br />

– Ma guarda che basta solo lo strumento e un’ora al<br />

giorno che il ragazzo può trovare durante lo svago.<br />

– Svago? E quanto costa questo strumento?<br />

– Sulle trentamila lire. Non è molto!<br />

– Hummm! Non è molto! No! Quindici giornate di<br />

lavoro. Ma lasciami la testa. Ce ne abbiamo noi di strumenti:<br />

zappe, roncole, vanghe... Non ne parliamo<br />

189


nemmeno... Poi, musica a Baddhevrùstana? Mio figlio<br />

deve essere un lavoratore, deve essere!<br />

E Ah!Ah!Uffff!FFF!ffff furono i versi che salutarono<br />

zio Gellòn, mentre il babbo dirigeva i buoi sulla<br />

strada incitandoli con le funi e il pungolo.<br />

Alle mie insistenze però e a quelle ripetute dello zio,<br />

un giorno rimase un po’ indeciso e disarmato.<br />

– Se non mi compri la fisarmonica, appena compirò<br />

diciotto anni me ne andrò in Olanda o in Belgio. Lì me<br />

la comprerò con il mio lavoro.<br />

– E va bene. La tua vera musica però deve essere il lavoro.<br />

Così il patriarca per la prima volta cedette e lasciò entrare<br />

un gregge estraneo nel pascolo della sua morale.<br />

Ero autorizzato a suonare. Potevo comprarmi lo strumento.<br />

Il babbo però stanziò una somma modesta,<br />

con la quale avrei potuto comprare solo una fisarmonica<br />

scadente, a quarantotto bassi. Mi occorreva più<br />

grande. Bisognava darsi da fare per racimolare soldi.<br />

Non era facile. Tante soluzioni mi passavano per la<br />

mente.<br />

– Se gli rubassi tre pezze di formaggio, mezzo sacco<br />

di grano e mezzo di orzo? L’affare sarebbe fatto. Però!<br />

Rubare! No! Non è possibile. Non ci riesco, io, – dicevo<br />

sempre a me stesso con la paura di essere scoperto al<br />

solo pensare una simile soluzione. Alla fine, la via meno<br />

pericolosa mi parve quella di prendere due vigne a cottimo,<br />

nel vicinato, e zapparle a sbalzi, quando il babbo<br />

trottava verso Sìligo. Quando lui partiva, io e Filippo si<br />

piombava lì e si lavorava sodo. Una due ore. Poi, come<br />

bestie spaventate assalivamo il nostro campo per sbri-<br />

190<br />

gare alla svelta il lavoro che il babbo ci aveva assegnato.<br />

Quando faceva bel tempo e c’era la luna, nelle notti di<br />

marzo, mentre tutto dormiva, mi alzavo. Mi spingevo<br />

nel buio e andavo a zappare. A trottone, con la zappa<br />

sulla spalla destra, scendevo e salivo le valli, sgusciando<br />

per le mulattiere, in silenzio, facendo meno rumore<br />

possibile. Avevo paura che mi abbaiassero i cani del vicinato:<br />

avrebbero svegliato i loro pastori che avrebbero<br />

potuto anche prendermi per bandito o sussurrare la<br />

cosa a mio padre: scoprire le mie carte. – Anche stanotte<br />

ce l’ho fatta. Nessuno se n’è accorto, – dicevo una<br />

volta che raggiungevo la vigna eludendo le orecchie dei<br />

cani della contrada. Saltavo il muro di cinta e vi piombavo<br />

in silenzio come un morto vivente, pronto all’attacco.<br />

Era uno spettacolo straordinario rivedere le viti<br />

potate lungo le ombre dei loro filari. Sembravano dormire<br />

anche loro: uomini in riposo. Subito però lo scricchiolio<br />

della mia zappa che passava le zolle nella penombra<br />

turbava quella quiete. Quegli uomini dovevano<br />

svegliarsi per ricevere la mia zappatura. Poveretti!<br />

Li dovevo scocciare di notte.<br />

Così, furtivamente, da solo (Filippo di notte non ci<br />

veniva mai anche se di giorno mi prometteva di alzarsi a<br />

mezzanotte. Per lui la fisarmonica non era un problema)<br />

dimenandomi nelle tenebre, zappavo quattro cinque<br />

filari e me ne ritornavo all’ovile. Far ritorno non<br />

era facile. Era anche pericoloso. Spesso il brusio dei<br />

miei piedi all’improvviso sorprendeva e spaventava i<br />

nostri cani. Mi abbaiavano. E in lontananza per un po’<br />

mi scambiavano per un estraneo. Mi si proiettavano<br />

tutti contro, facendosi coraggio a vicenda con i latrati,<br />

191


e con la corsa. E di colpo con loro grande stupore si trovavano<br />

quasi per mordere il loro padroncino. Allora<br />

come scossi dall’errore e dalla colpa, mi strisciavano<br />

per terra buttandomisi sulle gambe, emettendo gemiti<br />

di una gioia dolente, quasi per chiedermi scusa. Il più<br />

piccolo, mentre avanzava strisciando, si faceva anche la<br />

pipì addosso.<br />

Mio padre all’abbaiare dei propri guardiani, si svegliava<br />

di soprassalto, ed usciva di corsa, a fucile spianato.<br />

Ci voleva tutta la mia esperienza per non farlo sparare<br />

e far passare per normale questo mio ritorno. Come<br />

era abitudine, mi facevo riconoscere subito. Un fischio<br />

o un richiamo particolare erano le parole d’ordine<br />

in tali circostanze.<br />

La scusa era sempre pronta. – Stavo facendo un giro<br />

per il pascolo. Mi era sembrato di sentire lo sferragliare<br />

di un gregge in su addhìju de su palòne. Forse era quello<br />

di thiu Baròre che si era avvicinato. Nel nostro chiuso<br />

non c’era nulla.<br />

– Hai fatto bene!<br />

Dopo tante peripezie per la Pasqua del 1955 racimolai<br />

una somma discreta, che unita allo stanziamento del<br />

babbo e a un regalo della mamma mi ha permesso di<br />

scegliermi una fisarmonica a ottanta bassi. Zio Gellòn<br />

la ordinò dalla ditta Bagnini di Roma e ci mettemmo<br />

subito al lavoro.<br />

Con singolare pazienza, lo zio incollò dei quadratini<br />

di carta sulla tastiera e vi scrisse i nomi delle note e mi<br />

descrisse bene la bottoneria dei bassi. Così dopo una<br />

breve dimestichezza con lo strumento si passò al solfeggio<br />

pratico e all’uso del mantice.<br />

192<br />

Di tempo ne avevo poco per studiare e per accontentare<br />

il mio maestro. Il babbo mi faceva una guardia<br />

spietata. Di giorno facevo tentativi di sfuggita o di<br />

breve durata. Solo la notte mi offriva la possibilità di<br />

concentrarmi. Quando a casa tutti si mettevano a letto,<br />

io, dopo il primo pisolino, mi svegliavo. Origliavo,<br />

seduto sul letto. Se tutti li sentivo dormire, a passi leggeri,<br />

di gatto, me ne uscivo fuori e me ne andavo con<br />

la fisarmonica sulle spalle dopo aver chiamato i cani.<br />

Perché non mi abbaiassero al ritorno li portavo con<br />

me. Per non farmi sentire entravo in una baracca e al<br />

lume tremolante di un lumicino galleggiante sull’olio<br />

di una tazza, sorvegliato dai cani, mi ripassavo gli esercizi<br />

che mi aveva assegnato lo zio. In maggio e in giugno<br />

lo stridulo suono del mio strumento si confondeva<br />

e si accordava col canto delle rane; coi loro infiniti<br />

grè grè che assordavano ogni valle invadendola con il<br />

loro tripudio sinfonico. E senza mai indulgere all’orecchio,<br />

ma seguendo il metodo e il solfeggio, dopo<br />

sette otto mesi il maestro ebbe la soddisfazione di sentirmi<br />

suonare qualche arietta. Certo, nella mia baracca,<br />

di tanto in tanto, abbordavo il ballo sardo: quello<br />

che sapevo suonare con l’armonica a bocca. E quegli<br />

accordi nuragici spesso mi distoglievano dall’asperità<br />

degli esercizi. Ma in compenso mi dilettavano e mi ricaricavano<br />

e mi aiutavano a rispettare la inflessibile<br />

disciplina che mi imponeva lo zio.<br />

In capo a un anno finalmente riuscii a suonare un valzer<br />

e un tango. Il mio sogno si era realizzato. E quelle<br />

note che anni prima mi estasiavano al passaggio della<br />

“fortuna”, ora che si producevano sotto le mie dita, mi<br />

193


elettrizzavano e mi esaltavano con una dolcezza tutta<br />

intima e quasi gelosa.<br />

Spesso in quelle notti quando suonavo insieme al metronomo<br />

delle rane, la musica che producevo nella baracca<br />

mi sembrava quella della “fortuna”. – Sono io<br />

che sto suonando! Non mi sembra vero. Però ci debbo<br />

credere. Anch’io suono.<br />

Con volontà rozza, animalesca, ma inflessibile, le mie<br />

dita, callose e storte dalla zappa, per la prima volta ebbero<br />

l’opportunità di esprimere, alle querce secolari, la<br />

sensibilità di generazioni e generazioni mai educate alla<br />

musica. E attraverso le mie dita l’uomo delle caverne,<br />

ancora intatto dentro di me, ma sensibile in tutta la sua<br />

umanità, incominciava a raddolcirsi con la musica: a<br />

scavare dentro di sé e a scoprire che al di là dei suoi<br />

campi il mondo non finiva con l’orizzonte e che la miniera<br />

delle sue risorse sconfinava da quel cielo che fino<br />

allora conosceva.<br />

La mia conquista, purtroppo, allora non la poté comprendere<br />

nessuno. Nemmeno io la potevo comprendere,<br />

in tutte le sue implicazioni. E i pastori vicini non potevano<br />

sentire che un’estasi istintiva per la mia musica<br />

che si inghiottiva nel silenzio del bosco, come acqua in<br />

terra secca: il luogo aveva sete di dolcezza.<br />

Mio padre non si entusiasmò mai della mia conquista.<br />

– Musicante! Fannullone! Sei buono solo a suonare!<br />

Farai una bella riuscita, come quella di thiu Luìsi.<br />

In ogni mia bagatella ci ficcava la fisarmonica, c’en-<br />

194<br />

trasse o meno. Certo, quando lui si assentava, una suonatina<br />

me la facevo, ma nel lavoro recuperavo sempre.<br />

La musica non mi distoglieva dai lavori. Era solo uno<br />

svago curioso, ma non poteva raddolcire l’ambiente. E<br />

fisarmonica o meno a diciotto diciannove anni sorsero<br />

altri problemi che non si potevano più risolvere a Baddhevrùstana.<br />

La famiglia era ormai cresciuta. E per la morale comune<br />

mio padre stava già per completare il suo dovere<br />

sociale. Come gli animali, i pastori dovevano solo mettere<br />

su i figli fisicamente: badare solo alla vegetazione<br />

dei loro figli, anziché alla loro conquista interiore. Ed<br />

era anche giusto. Nei campi serviva solo l’istinto e la<br />

forza: muscoli che questi padri educavano severamente<br />

conformandoli alla natura che dovevano conquistare.<br />

Fatta la covata, si immolavano per crescerli e prepararli<br />

alla vita che conoscevano. Per assolvere questo compito<br />

davano tutto.<br />

Una volta grandi, i figli, però, imitando gli uccelli,<br />

dovevano prendere il volo dal loro nido, possibilmente<br />

per non tornarvi mai più.<br />

E questo stato di cose andò bene finché la campagna<br />

fu il fulcro dell’economia, finché la campagna era il<br />

mondo. Già a partire dagli anni Cinquanta, quel mondo<br />

però si sgretolò e si sciolse come ghiaccio al sole. Il<br />

fuoco di un altro mondo, al di là del suo orizzonte, lo<br />

abbrustolì lentamente. Quel bosco di pastori e di agricoltori<br />

così non faceva in tempo a rigermogliare foglie<br />

nuove per respirare. Pian piano morivano senza conoscere<br />

la causa della loro tragedia.<br />

I campi non offrivano più nulla. Non bastavano. E a<br />

195


vent’anni nell’animo di ogni pastore allora sorgeva un<br />

dramma comune: scoppiava il temporale della ribellione<br />

inconscia. E come lupi durante i rigori invernali anch’essi<br />

dovevano invadere pianure infide. Insomma<br />

dovevano invadere le pianure di quell’altro mondo che<br />

a loro insaputa era sorto e per cui i loro padri non li avevano<br />

potuti preparare perché non lo avrebbero mai immaginato<br />

e anche perché non lo avrebbero potuto. Le<br />

nuove generazioni erano costrette ad emigrare. Il rigore<br />

dell’inverno della loro vita li costringeva a invadere<br />

le pianure dove erano sorte le fabbriche e dove erano<br />

appostati dei pastori speciali che li sparavano. Si era<br />

praticamente rovesciata la situazione: essi ora erano le<br />

volpi e i lupi; le fabbriche erano le pianure; gli industriali<br />

erano i pastori.<br />

Così a diciannove anni anch’io sentivo che dovevo invadere.<br />

Il cielo della mia esistenza si stava annuvolando.<br />

Il sole stava scomparendo dietro nembi neri. I tuoni<br />

incominciavano a farsi sentire.<br />

Durante le mie giornate lavorative ora rivivevo i ricordi<br />

delle emigrazioni e le emozioni che mi avevano<br />

suscitato. E nei momenti di solitudine mi venivano in<br />

mente tanti giovani che avevano vissuto come me.<br />

Quelli che nel 1951 partirono per il Canada. Tutti sui<br />

venti o trent’anni, li ricordavo tutti amareggiati ed avviliti.<br />

Molti di loro li conoscevo sin da quando ero pastorello.<br />

Spesso, anzi, mi avevano soccorso o quando il<br />

mio somaro si coricava per terra facendo le bizze per liberarsi<br />

del mio carico o quando inzuppato dalla pioggia<br />

o congelato dalla neve o dalla brina, andavo urlando<br />

per le valli. Nel mio silenzio li sentivo vivi e mi veni-<br />

196<br />

va quasi spontaneo ricostruire i loro discorsi che avevano<br />

fatto con foga da braccianti, disposti in schiera mietendo<br />

sui campi altrui pochi giorni prima della loro<br />

partenza. E dai discorsi che mi affioravano, ora che anch’io<br />

sentivo il problema, capivo bene perché quel<br />

giorno lo avevano aspettato come una liberazione.<br />

Così anch’io, spinto da questo anelito di libertà, mi<br />

lasciavo andare. Rifacevo dentro di me i discorsi che essi<br />

avevano fatto nei campi in cui stavano mietendo. E<br />

anch’io, dal mio campicello, ora, provavo la rabbia dei<br />

loro discorsi: il loro sfogo politico inconsapevole.<br />

– Per fortuna fra poco me ne vado via da queste querce<br />

e da questi rovi: da queste sterili pietre piene di serpi<br />

e di vespai. Non sentirò più la voce arrabbiata di mio<br />

padre, mai contento. Lo so che andrò sotto <strong>padrone</strong>.<br />

Ma sarà diverso. Lo puoi piantare quando vuoi e poi la<br />

tua gente non lo conosce. Qui non ci chiamano nemmeno<br />

per nome. Ti senti dire: “Hai visto il servo di Thiu<br />

Laréntu? Il servo di thiu Juànne sta mungendo le pecore.”<br />

Avete capito? Qui il nostro nome non esiste.<br />

– Tu sei solo il servo di tizio o il servo di caio e basta. I<br />

cani sotto questo rispetto, sono più liberi di noi. Hanno<br />

un nome che non li degrada e con quello continuano a<br />

chiamarti sempre. Quando ero servo pastore di thiu<br />

Pàulu, il mio nome lo avevo perduto: per tutti ero il servo<br />

di thiu Pàulu. E così siamo tutti. Là sarà diverso, il<br />

<strong>padrone</strong> ci sarà, ma almeno ti tratteranno come un cane:<br />

ti chiameranno per nome. I soldi che guadagnerò,<br />

me li spenderò io. Qui mio padre mi fa lavorare notte e<br />

giorno. Quando faccio ritorno dalla mia dura giornata<br />

lavorativa, pretende che vada a lavorare nel nostro<br />

197


campo che coltiviamo a mezzadria. E puntualmente va<br />

a riscuotersi le mie giornate. A me non dà mai nulla. È<br />

sempre affamato. È la miseria in persona. I soldi che<br />

guadagni tu, non bastano nemmeno per i vestiti tuoi e<br />

dei tuoi fratelli. E quando, raramente, e dopo tante preghiere<br />

ci manda a una festa, non dà una lira a nessuno.<br />

L’anno scorso per andare a San Elìa mi ha dato solo 50<br />

lire. Tutto il giorno come un minchione, lì a guardarmi<br />

le bancarelle del torrone.<br />

– A me il lavoro non fa paura. Più di qui non si lavorerà<br />

nemmeno all’inferno. Avrò un <strong>padrone</strong> anche là, ma<br />

almeno non sarà mio padre. Di lui ora mi sono stufato.<br />

Non ne posso più. Sentite questa. L’altro giorno, stavamo<br />

a spaccare legna. Per aver perso la lima con cui si affilava<br />

la scure, la roncola e la sega, mi ha rincorso per<br />

tutta la valle con la mazza che si trovava tra le mani<br />

mentre dava sui cunei. E come se lo avessi rovinato e gli<br />

avessi buttato giù la casa, urlò come una bufera: “Vattene<br />

da qui per lavorare disattentamente, di malavoglia:<br />

per non guadagnarti nemmeno l’acqua che ti tracanni.<br />

Fannullone.” Per fortuna che io correvo più di lui... Vi<br />

giuro che se riesco a mettere piede fuori, non ci ritornerò<br />

più in questo luogo maledetto. Si vede che il Creatore<br />

quando ha fatto il mondo avrà chiesto aiuto al diavolo<br />

e gli avrà detto di fare la <strong>Sardegna</strong>. Tutto pietre e fuoco:<br />

bestemmie e gente arrabbiata dilaniandosi la loro<br />

misera esistenza come cani idrofobi. Nemmeno da morto<br />

voglio esserci.<br />

– Che ci ritorniamo a fare qui? A vivere la nostra morte?<br />

A rivoltar sassi? A mietere questo grano inaridito<br />

sotto il sole per il <strong>padrone</strong>. A mungere pecore piene di<br />

198<br />

merda o a ripulire il loro culo lanuto per mungerle meglio.<br />

Quel culo che sotto gli attacchi della diarrea nei<br />

periodi di brina o di gelo diventa impenetrabile alle<br />

mani! E tutto per dare metà del prodotto al <strong>padrone</strong><br />

della terra, che non sa nemmeno come si munge una<br />

pecora né che odore ha lo sterco del maiale? No.<br />

– Questo è nulla. Almeno rientra nella regola. Anche<br />

noi lavoriamo un giardino a mezzadria, ma il <strong>padrone</strong><br />

non si accontenta della metà. Sentite! Quando il giardino<br />

lo lavorava lui, le piante erano mezzo morte. Il terreno<br />

lavorato con poco entusiasmo e alla svelta. Il prodotto:<br />

scarso. Naturale. Mio padre, invece, servendosi<br />

delle nostre braccia lo ha bonificato e fertilizzato con il<br />

letame. Ora lo avete visto. È vigoroso, verde: una delizia!<br />

Il prodotto naturalmente si è moltiplicato. Thiu<br />

Pedru, invece di esserne contento, ne ha invidia: la sola<br />

metà del prodotto ora è superiore di molto a tutto quello<br />

che vi produceva lui. Quindi ha paura che ci arricchiamo.<br />

Hummm! Fuoco se lo pigli! L’altro giorno,<br />

mentre stavamo dividendo le mele, lui di pugno, riempiva<br />

la cesta: una per noi e una per lui. La sua la colmava<br />

bene finché le mele non cadessero a terra abbondantemente<br />

nella sua parte. Alla nostra, invece, le faceva la<br />

barba. Con un palo che agitava energicamente come<br />

per minacciarci, la rasava. Poi altra sfrontatezza. Il colmo.<br />

Con quel palo faceva catapultare la cesta ancora<br />

sulla sua parte. Alla fine il mucchio di questo Verre stava<br />

per divenire quasi il doppio del nostro. E mio padre<br />

stava lì a guardarselo come un allocco, come se avesse<br />

paura di quel palo. Non voleva accorgersi di nulla. Tutto<br />

quello che fa il <strong>padrone</strong> per lui lo fa sempre il <strong>padrone</strong>.<br />

199


Hummm! Ho protestato, naturalmente, anche perché<br />

questo modo di spartire durava da anni.<br />

– Thiu Pedru punto nel suo egoismo allora mi ha minacciato<br />

con il suo palo sollevandolo dal colmo della<br />

nostra cesta mentre la falciava a suo pro.<br />

– “Stai zitto moccioso! Se non ti va, nessuno ti trattiene<br />

qua. Te ne puoi andare quando vuoi! Questa è roba<br />

mia. Non ti basta quella che ti do? Darvene in più è<br />

sprecata.”<br />

– Io avevo intenzione di reagire. Di venire anche alle<br />

mani se il caso lo avesse voluto. Mio padre, invece di<br />

aiutarmi e fare i nostri interessi, tutto intimorito, davanti<br />

al <strong>padrone</strong>, mi assestò un bel ceffone in piena faccia.<br />

Roba da pazzi! E come per sottomettermi a thiu<br />

Pedru si scatenò contro di me: “Stai zitto. Lo so io come<br />

difendere i nostri interessi. Non sono affari tuoi.<br />

Che ne sai tu?”<br />

– “Come che ne so? Mezzadria è mezzadria.”<br />

– “Ancora vuoi insistere? Finché ci sono io lo so io<br />

come comportarsi con il <strong>padrone</strong>. Lo sai che lui ci ha liberati<br />

dalla miseria quando tu eri ancora un bambino e<br />

può ricacciarci quando vuole? Se ci manda via di qui<br />

dovremo andare tutti a fare i servi (a fàghere sos teràccos).”<br />

– Cosa dovevo fare, io? Starmi zitto. Ubbidire.<br />

Lo stesso anelito alla libertà che mi faceva risentire<br />

dal vivo i loro discorsi, spesso mi ripiombava nella piazzetta<br />

di Sìligo e rivivevo il giorno della partenza degli<br />

emigranti: il giorno della loro “liberazione”. Quella mattina,<br />

la piazzetta si riempì insolitamente di bambini, di<br />

donne, di uomini, di madri e di padri, di amici.<br />

200<br />

Pianti, strida e lamenti di età e di sentimenti diversi si<br />

levavano sulla loro miseria da ogni parte: sull’innocenza<br />

di quei ragazzi condannati a rifugiarsi in terre ignote,<br />

ignari del loro futuro, senza sapere come avrebbero<br />

dovuto rinascere in un dove mai visto; in terre che si<br />

potevano solo immaginare. Certo, l’America non era<br />

una terribile incognita per la popolazione sarda. E il<br />

dolore per il distacco non raggiunse mai la disperazione.<br />

Nella piazzetta vi erano molti vecchi reduci da emigrazioni<br />

in America agli inizi del secolo. Ed anche se<br />

eran lì come relitti di un lontano esilio, erano lo zucchero<br />

in mezzo all’amaro meno sopportabile. La gente vedeva<br />

e leggeva in loro la speranza del ritorno dei nuovi<br />

emigranti.<br />

L’emigrazione che ricordavo di più era quella per<br />

l’Australia del 1955.<br />

A differenza dell’America l’Australia era un paese<br />

sconosciuto ai contadini e ai pastori. Nessuno di loro<br />

vi aveva mai emigrato. E nell’animo degli stessi emigranti<br />

e della popolazione produsse una desolazione<br />

tremenda.<br />

Questa volta il distacco fu tragico. – Australia! – – Oltre<br />

un mese di nave per arrivarci!<br />

– Polo sud!<br />

– Polo nord! Dov’è?<br />

– Questi non potranno più ritornare. Solo il viaggio<br />

costa il lavoro di un anno. Addio figli!<br />

Era una mattina di maggio. E verso le otto tutta la popolazione<br />

si riversò nella piazzetta di Sìligo. Gente di<br />

condizione diversa e di età: sorelle, fratelli, padri, madri,<br />

figli, mogli e bambini si erano radunati per salutare<br />

201


per l’ultima volta gli emigranti. La gente era veramente<br />

convinta che non li avrebbe più rivisti.<br />

Le grida e il pianto mi ricordarono l’emigrazione in<br />

Canada. Solo che questa volta non c’erano gli zuccheri<br />

per inghiottire l’amaro. Non c’erano vecchi che potessero<br />

incoraggiare e rincuorare la popolazione. Mancavano<br />

i relitti che li facessero sperare in un lontano ritorno.<br />

La popolazione si raccolse nella piazza con il dolore<br />

dei funerali ai quali quegli emigranti, per privilegio<br />

della storia, partecipavano da vivi. Uomini che ebbero<br />

la ventura di vedere e sentire dalla propria bara il pianto<br />

e le lacrime della propria gente. Fu quasi come se la<br />

popolazione fosse divisa in due schiere di cadaveri che<br />

dovevano autofuneralizzarsi a vicenda. Sìligo, morto<br />

per loro. Loro morti per Sìligo. L’unica speranza per<br />

gli emigranti era nella loro rinascita in una terra che<br />

non li avrebbe più cullati né cantati, ma solo usati e<br />

consumati come arnesi di lavoro.<br />

Da ogni angolo si levavano grida e lamenti disuguali,<br />

intonati a sentimenti diversi. L’unica nota fondamentalmente<br />

uguale (il pedale fisso di quel dolente concerto)<br />

era il pianto corale. Dalle grida e dai lamenti che uscivano<br />

da quelle bocche bavose ed asciutte, si poteva cogliere<br />

però lo sgomento e lo scompiglio che si stava consumando<br />

nel cervello sbrandellato di ognuno.<br />

– Restate qui! Non te ne andare figlio mio! – era l’esclamazione<br />

più frequente che si sollevava al di sopra<br />

del dolore comune.<br />

– Che avete fatto? Quale colpa avete commesso per<br />

essere espulsi dalle vostre terre? dalle vostre case? da<br />

202<br />

Sìligo? dal vostro nido che noi facemmo con tanto<br />

amore?<br />

– E noi che abbiamo fatto per non godere dei nostri<br />

figli? Non ricordo di aver fatto alcun male. Mai!<br />

Così nelle mie rievocazioni solitarie mi si profilavano<br />

quei padri e quelle madri che colti dalla disperazione,<br />

nel momento del distacco, imploravano i propri figli di<br />

accettare ciò che non avrebbero potuto loro offrire: rimanere<br />

con loro negli ovili e lavorare la terra. Le botte,<br />

le grida rabbiose di sempre e le minacce che abitualmente<br />

scagliavano sui loro figli, non esistevano più<br />

avanti alla loro tomba. Il momento del distacco, anzi,<br />

sembrava suscitare in essi un certo complesso di colpa.<br />

Forse si sentirono padri incapaci di sistemare i propri<br />

figli. E in uno slancio disperato di amore paterno, sia<br />

pure timido, volevano quasi effondere ai propri figli<br />

tutto quell’affetto che mai avevano potuto dare.<br />

La corda della loro morale tesa fino allo spasimo dalla<br />

miseria, per la prima volta si allentò e poté “suonare”<br />

in una tonalità più dolce. E per la prima volta i patriarchi<br />

divennero padri. I rapporti tra padre e figlio si umanizzarono<br />

e almeno durante i reciproci funerali la loro<br />

austerità abituale svanì. E in uno slancio di tenerezza le<br />

braccia nerborute e le mani callose, che avevano sempre<br />

picchiato, avvinghiarono affettuosamente i propri<br />

figli: le loro labbra per la prima volta s’incontrarono reciprocamente<br />

e si baciarono per l’ultima volta così come<br />

quando si bacia il cadavere di un congiunto nella<br />

cappella del cimitero prima di affidarlo alle zolle.<br />

Le urla delle donne colpivano anche quella parte della<br />

popolazione che per un motivo o per un altro la sto-<br />

203


ia per allora aveva risparmiato da quel terribile esodo<br />

oceanico. Fu così un pianto accorato e corale. Il grido<br />

di un popolo sconvolto si levò nell’aria che non aveva<br />

mai potuto accogliere le sue risate e le sue gioie. Tutti si<br />

stringevano. Genitori e figli, amici e compagni si abbracciavano.<br />

Non esistevano più né odi né litigi. Le brighe<br />

e le zuffe, gli insulti e le percosse che spesso si eran<br />

date in campagna per difendere il proprio pascolo, svanirono<br />

come per incanto di fronte alla sventura. C’era<br />

posto solo al lamento e al dolore. Fu come se tutti volessero<br />

far la pace.<br />

Solo gli emigranti, orgogliosi e fieri (al pari dei padri),<br />

trattenevano a stento le lacrime che i loro cervelli<br />

piangevano solo con gli occhi del cuore. I loro occhi<br />

dolenti non potevano piangere davanti alle loro madri.<br />

Anzi dovevano emanare una luce di contentezza.<br />

Il volere della storia però, era inflessibile. Essi lo sapevano<br />

e il loro imperativo era emigrare: andar via dalla<br />

<strong>Sardegna</strong> per far fortuna altrove.<br />

Finalmente si udirono le trombe del pullman. Spuntò<br />

dalla curva e in un baleno s’immerse in tutta la sua<br />

lunghezza nella folla concitata della piazza. Il pullman<br />

eccitò maggiormente gli animi: il tempo stringeva inesorabilmente.<br />

Quella mattina, però, vi sostò più del solito.<br />

La folla doveva farsi i funerali: la funzione non era<br />

finita ancora e ritardava la partenza. La popolazione<br />

sconvolta voleva rinviare almeno di un attimo la partenza<br />

dei propri sventurati. Il pullman prima di giungere<br />

a Sìligo naturalmente, lungo il suo percorso, aveva<br />

fatto il pieno di emigranti nei vari paesi portandosi il<br />

pianto di mezza <strong>Sardegna</strong>. E gli emigranti degli altri<br />

204<br />

centri naturalmente non volevano far notare il proprio<br />

pianto a quelli di Sìligo. Vincevano il dolore ostentando<br />

una falsa baldanza.<br />

Il fattorino chiuse gli sportelli e così la bara fu chiusa<br />

anche per gli emigranti di Sìligo. La bara finalmente si<br />

scosse. Si mise in moto e si fece largo separando il pianto<br />

dal dolore e il dolore dal pianto: i figli dai padri e il<br />

popolo dal popolo. Un altro boato di urla concitate di<br />

età diverse e di emozioni diverse si mescolò ancora al<br />

turbine del dolore. Raggiunse il pullman come per fermarlo.<br />

La rabbia degli emigranti però era più intensa<br />

del dolore di Sìligo. E la popolazione tra il pianto generale<br />

ebbe solo la consolazione di vedere le mani agitate<br />

fuori dal finestrino della sepoltura comune. Quelle mani<br />

che divenivano sempre più sottili consumandosi e<br />

scomparendo nell’infinito, nel loro triste e desolato futuro<br />

inesorabile, nelle nuove tanche senza querce e senza<br />

uccelli, nel loro tetro cimitero del silenzio cruento<br />

delle fabbriche che li attendevano nell’Oceania.<br />

I funerali finalmente erano finiti e quasi tutti seguendo<br />

le donne sotto gli scialli neri, si rintanarono nelle case,<br />

lasciando la piazza come quando si lascia il cimitero<br />

dopo avervi accompagnato un congiunto morto nel fiore<br />

degli anni.<br />

Queste rievocazioni nel loro silenzio riflessivo mi rapivano<br />

al punto da farmi rivivere veramente tutte quelle<br />

scene. Ora che per un giovane sano e robusto come<br />

me era necessario emigrare se non venivo assorbito nelle<br />

forze dell’ordine. E questa necessità sopraggiungeva<br />

205


inesorabile soprattutto dopo che le emigrazioni in Canada<br />

e in Australia avevano rotto il ghiaccio, avevano<br />

indicato un varco. Dal ’55 si emigrò in continuazione.<br />

Non si piangeva più il distacco come prima. L’emigrazione<br />

divenne abituale e perse quel senso tragico e dolente<br />

anche perché si emigrò più vicino, in Europa. Addirittura<br />

ora emigravano persino le ragazze.<br />

Quello che restava era un mondo già mutilato. Solo i<br />

vecchi, i bambini e lo scarto fisico e psichico che ne risultava<br />

in seguito alle selezioni delle emigrazioni e delle<br />

forze dell’ordine, si aggiravano in quei campi privati<br />

dei giovani sani. Durante gli ultimi due anni potevo notare<br />

questo stato pietoso di un mondo invalido. Vecchi<br />

malati, storpi, gobbi e paralitici, consumati dall’età e<br />

dalla natura, rigati e rugosi dagli anni e dal male, popolavano<br />

i campi come larve umane, sfidando le intemperie<br />

della natura. Per le strade dondolati energicamente<br />

dalla vigoria dei loro somari, si vedevano vecchi di settantacinque<br />

ottanta anni, dimezzati dalle fatiche ansimanti<br />

e morituri che svolgevano regolarmente la loro<br />

regolare attività fino all’ultimo respiro.<br />

– L’altro ieri, – mi sentii dire un giorno, – è morto<br />

thiu Pepe. L’hanno trovato morto per il campo. Evidentemente<br />

non ce l’ha fatta a raggiungere la capanna.<br />

Il freddo della notte, poi, lo avrà congelato. Poveretto.<br />

Aveva ottant’anni e ha conosciuto solo il culo della pecora.<br />

Ora avevo 19 anni e sentivo più forte che mai la tragedia<br />

che incombeva.<br />

– Io non voglio fare la fine di thiu Pepe, morto dal<br />

gelo. Lo potevano divorare anche i cani, i corvi, gli av-<br />

206<br />

voltoi. Ahh! No! Io me ne vado via di qui. Ma nei carabinieri<br />

non ci posso andare, come hanno fatto quasi<br />

tutti i miei cugini. Loro sono tutti alti. Qui conta anche<br />

la statura. Io sono basso. E poi ci vuole la V elementare<br />

e io non so né leggere né scrivere. Qui bisogna emigrare.<br />

Eh, là non conta la statura, no! Basta che tu sia sano<br />

e lavori!<br />

Così nell’autunno del 1957 venne l’ora anche per me.<br />

Con un amico di Sìligo mi balenò l’idea di emigrare in<br />

Olanda a fare il minatore.<br />

Mio padre mi mise in guardia circa i pericoli delle miniere.<br />

Spesso anche da altri avevo sentito dei cruenti<br />

disastri dei nostri emigrati nelle miniere della regina<br />

Giuliana. Il grisou lo conoscevano anche i pastori e le<br />

querce della <strong>Sardegna</strong>. Sui campi si parlava spesso degli<br />

emigranti, della loro fortuna e delle loro disgrazie. E<br />

rimanevo perplesso. Certe notizie mi infilzavano il cervello<br />

e mi calavano nelle viscere come braci accese. Ma<br />

quando nei boschi e negli sterpi scatta la molla repulsiva<br />

contro l’ambiente, l’emigrazione diventa un’ossessione:<br />

ti martella continuamente il cervello.<br />

Se sei sano, robusto e maggiorenne, non c’è nulla che<br />

possa trattenerti. Restare significa vegetare a mala pena,<br />

tragicamente, come erba o pianta condannata a crescere<br />

nel dolore a causa del giocoso capriccio del vento che<br />

un giorno scaraventò i semi da cui germogliarono nel<br />

terreno meno adatto. In quella selva tu ti senti come<br />

quelle erbe costrette a crescere sui muri o sui burroni in<br />

posizione tragica e pietosa, pendenti ora da una parte<br />

ora dall’altra: scosse, tempestate da quel vento che ha<br />

affidato i semi sventurati al suo gioco. Spesso là mi sono<br />

207


sentito come un caprifico che vidi un giorno costretto a<br />

vegetare malamente sulla cima del campanile di un paese,<br />

o come quelle piante che hanno avuto la sfortuna di<br />

nascere sui nuraghi in mezzo alle pietre senza terra. Le<br />

radici fuori, all’aria, distese in una lotta incessante per<br />

immergersi in terra o sotto qualche pietra. Le branche<br />

rugose e senza linfa che sopravvivono alla morte. Anch’io<br />

ero seme sfortunato che un vento aveva scaraventato<br />

in terreno sterile sulle pietre e avevo le radici fuori<br />

dalla società, fuori dalla vita. In quelle condizioni tu allora<br />

ti guardi e hai quasi paura di te stesso. Senti vergogna<br />

del tuo stato. Il tuo essere nudo, le tue radici fuori<br />

dalla terra, ti fanno ribrezzo e vuoi sotterrarti, ma non vi<br />

riesci come quelle piante sventurate. E l’unica fortuna<br />

che hai rispetto ad esse sono le tue gambe: la fuga. Emigrare<br />

e immergerti nel serpente nero delle miniere allora<br />

ti suona libertà. Emigrare, nella tua desolazione, ti sembra<br />

l’unica arma da rivolgere contro l’ambiente e coprirti<br />

le radici: l’unica roncola per aprirti un varco nella<br />

selva impenetrabile quando alle spalle avanza un incendio<br />

furioso che ti sta per ardere e ridurti in cenere. Darti<br />

alla fuga, scampare e salvare almeno lo scheletro della<br />

tua esistenza e cercare di rimpolparla altrove, diventa<br />

naturale e spontaneo. Allora imprechi contro chimere<br />

inesistenti. Ogni pastore si spiega i propri mali quasi in<br />

modo metafisico, da fatalista. Tu credi che la colpa sia<br />

solo della terra sarda, delle sue montagne con le loro<br />

pietre e le loro querce, delle sue bellezze insomma.<br />

Inoltre la curiosità di vedere finalmente città e altre<br />

terre ti assale e ti eccita come vento a fuoco. Vedere come<br />

è fatto il mondo diventa un’attrattiva. La smania di<br />

208<br />

vedere al di là dell’orizzonte del tuo campo ti piomba<br />

addosso. Vuoi fuggire da quella selva dove non hai mai<br />

potuto pensare al di sopra della tua fame e della tua miseria.<br />

Sai di dover andare sotto terra, come un lombrico,<br />

a scavare il carbone, sempre tra la vita e la morte, ma<br />

non te ne importa nulla.<br />

Così insieme all’amico Gigi presentai domanda all’ufficio<br />

collocamento di Sìligo per emigrare in Olanda.<br />

Senza attendere molto ci avviarono a Sassari per la<br />

visita di selezione. I medici olandesi ci sottoposero ad<br />

una visita fisica accuratissima. I nostri muscoli non delusero.<br />

I nostri polmoni non potevano non rispondere<br />

bene. Noi eravamo incalliti in ogni parte e provati ad<br />

ogni sforzo. Atleti della zappa e dell’aratro. Avevan voglia<br />

a visitarci! Il nostro fisico era una locomotiva perfetta.<br />

La notte pernottammo a Sassari in attesa di altre<br />

visite per il giorno seguente. Tutti buttati alla meglio<br />

per terra come fossimo bestiame alla fiera, si trascorse<br />

la notte parlottando sul nostro futuro.<br />

– Chissà se ci prendono. Hee! Se mi prendono me ne<br />

volo! Là in Olanda! Mi hanno detto che le ragazze ci<br />

stanno con noi italiani.<br />

– L’ho sentito anch’io. Me l’ha detto Peppe che è partito<br />

due anni fa. Quando era in ferie quest’estate mi ha<br />

detto che si fa a beffa.<br />

– Madonna, ragazzi, con la fame che ho me le mangio<br />

tutte quelle olandesine. Farei come il nostro montone.<br />

– E poi avete visto come sono educati quei dottori.<br />

Quando s’accendono il sigaro non ti buttano mai i<br />

fiammiferi per terra. Non fanno come facciamo noi,<br />

209


quelli. Li rimettono nella scatola o nel portacenere e<br />

così anche le cicche.<br />

– Questa si che è gente educata e pulita. Sono signori<br />

questi. Altro che noi.<br />

– Non ti sporcano per nulla. Quelli sì che la conoscono<br />

l’educazione.<br />

La fiera finì. Durò due giorni. E quei medici tanto<br />

educati che dalla loro bocca sbuffavano fumo ad intermittenza<br />

quasi fosse il tubo di scarico di una locomotiva<br />

a vapore, furono di manica larga nel dichiararci idonei,<br />

nel darci la licenza per fare i minatori nelle miniere<br />

della loro regina. Non ci restava che far ritorno a Sìligo<br />

e attendere la chiamata.<br />

Intanto ognuno riprese la propria attività. Il lavoro<br />

però, nell’impazienza e nell’ansia della partenza ci sembrava<br />

più duro che mai. L’ambiente più ostile di prima.<br />

Il ritmo lavorativo era sempre ugualmente teso. Solo lo<br />

stato d’animo era diverso. Nel petto ardeva il fuoco<br />

pronto a sferrare la vendetta contro il nostro passato vegetale.<br />

Curvi sulla zappa si lavorava inviperiti con il corpo<br />

teso sotto lo sforzo e con la mente tesa verso la nostra<br />

terra, l’Olanda.<br />

Più che mai ora durante i lavori mi risentivo i discorsi<br />

degli emigrati in Canada e in Australia quando anche<br />

loro schierati alla giornata sotto l’occhio vigile del <strong>padrone</strong>,<br />

trovavano il bollente ardore per inveire contro<br />

l’ambiente. Ora sì che la capivo e la sentivo quella stessa<br />

rabbia.<br />

Finalmente un giorno giunse l’ordine della partenza.<br />

Gigi mi venne a portare la notizia a Baddhevrùstana in<br />

motocicletta.<br />

210<br />

Di colpo mi sentii come una pecora cui il <strong>padrone</strong><br />

slega le pastoie. Sussultai di libertà. La notizia mi dilatò<br />

di gioia e nel petto sentii un forte strappo quasi io fossi<br />

una tavola inchiodata ad un’impalcatura e la notizia<br />

fosse un arnese che la stava per svellere. I chiodi si allentarono.<br />

Scricchiolarono. E quasi per incanto mi sentii<br />

divelto dai vegetali: da tutta quella natura, dagli animali<br />

e da quel silenzio amico e compagno inseparabile<br />

per molto tempo. Subito squadrai il nostro campo nella<br />

sua distesa tortuosa. Lo percossi con lo sguardo e lo<br />

possedetti ancora un po’ nel mio intimo, quasi me lo<br />

volessi sorbire come un bicchiere d’acqua. Ascoltai il<br />

suo silenzio che mi balbettò qualcosa. La motoretta di<br />

Gigi, però, non mi lasciò mettere in intimo contatto come<br />

al solito. Era impaziente anche lui. Gli montai alle<br />

spalle e via a Sìligo.<br />

Mia madre vi stava già preparando la roba per la partenza.<br />

Con Gigi organizzammo uno spuntino per festeggiare<br />

con gli amici l’inizio della nostra strada. Venne<br />

la notte e fu lo spuntino. Contenti come due giganti<br />

felici, padroni della nostra esistenza. Nella cantina si<br />

andava a tentoni, da una botte all’altra per trovare il vino<br />

migliore.<br />

Con allegria e baldoria così si fece il giro del paese intercalando<br />

di tanto in tanto ai canti con la chitarra un<br />

ballo sardo, un tango o un valzer con la fisarmonica che<br />

già incominciavo a suonicchiare. Tra un canto e l’altro<br />

stava quasi per sopraggiungere l’alba, ma nessuno voleva<br />

andarsene a letto.<br />

– Un’altra serenata. L’ultima, ve lo prometto, su!<br />

211


Inòghe mi vaghe die<br />

cantèndhe a palma doràda<br />

tue in su lettu coscàda<br />

e deo frittu che nie...<br />

Finì la rituale serenata, ma finì anche la notte e l’alba<br />

rese assurdo il canto. E tutti storditi dal sonno e dal vino<br />

nessuno ebbe il coraggio di presentarsi dai suoi in<br />

quelle condizioni. Allora ci ricoverammo nella casa disabitata<br />

di uno della compagnia. Ci buttammo alla meglio<br />

su un grosso letto in otto: uno sull’altro. E un po’<br />

per mancanza di posto un po’ per l’effetto del vino ogni<br />

tanto per la stanza risuonava il tonfo di qualcuno che<br />

cadeva dal letto accompagnato dalle risate della combriccola!<br />

Le ultime risate. Un pisolino a testa. E il tonfo<br />

di un compagno che cadde dal letto come una pera cotta<br />

ci svegliò. Io e Gigi entrammo in clima di distacco.<br />

Ricomposte le valige, si raggiunse subito la piazzetta.<br />

La solita cerimonia di pianti e di lamenti e via. Lo schiavismo<br />

agreste ci sembrava finito. L’ignoranza su tutto e<br />

del nostro futuro, ma soprattutto del fatto che i nostri<br />

padroni sarebbero stati sconosciuti a Sìligo e a noi stessi,<br />

rendeva meno dura la nostra partenza: meno tragico<br />

e doloroso il nostro distacco. Eravamo tanto ingenui<br />

che di fronte all’evento ci comportammo come bestie<br />

di fronte a un fatto mai visto e mai vissuto.<br />

Il nuovo comportamento non fu dissimile da quello<br />

di Pacifico un giorno di fronte all’incendio del nostro<br />

campo. Quando fu raggiunto dal fuoco in mezzo al fieno<br />

invece di scappare (come fanno alcuni animali, il<br />

cavallo, gli uccelli, ecc.) offrì il culo alle fiamme e si mi-<br />

212<br />

se a bombardarle con gli zoccoli già ustionati. Il fieno<br />

era poco. Gli arse sotto la pancia. Andò avanti, ma lui<br />

non si spostò di un centimetro. Ora, io, ci rido sopra a<br />

quest’assurdo calciare del somaro, ma mi rendo conto<br />

che la nostra esultanza di fronte alla partenza era anche<br />

più assurda di quei calci senza senso. Il fuoco che<br />

Pacifico calciava durò pochissimo, finché il fieno non<br />

si consumò. Il nostro fuoco, al contrario, era duplice e<br />

nella nostra partenza stavamo fuggendo quello sopportabile<br />

e calciando assurdamente quello che ci stava<br />

di fronte, anzi lo stavamo inseguendo. Corri, pullman,<br />

corri! Non potevo sapere che le fiamme di quella falsa<br />

libertà mi stessero bruciando e che io le stessi assurdamente<br />

calciando: bel Pacifico della situazione! Era incominciata<br />

anche per noi la partenza. Uno sguardo alla<br />

folla e ai tetti muschiosi di Sìligo e la montagna opprimente<br />

del mio passato parve staccarsi dal mio corpo<br />

inaridito. Un tonfo! E l’albero dello schiavismo<br />

parve cadere dietro il pullman, dietro la nostra sciocca<br />

euforia. L’unica cosa che mi dispiacque in quel momento<br />

fu il fatto che non avevo fatto in tempo a salutare<br />

il “mio” campo: il suo orizzonte, thiu Pulinàri, su<br />

Gobbe. Così tutta la realtà di Baddhevrùstana con i<br />

suoi alberi, i suoi burroni e le sue rocce, le colline e il<br />

monte con le sue creste in lontananza che tante volte<br />

venivano animati dalla mia fantasia desolata e che erano<br />

state le uniche persone amiche con cui avevo parlato<br />

a lungo nel loro silenzio, le avevo abbandonate così<br />

bruscamente, per inseguire quel fuoco. Tutto era avvenuto<br />

all’improvviso. Gigi era sceso a Baddhevrùstana<br />

in fretta e furia e non mi aveva dato il tempo di salutare<br />

213


la mia gente. Nella mia mente però era più viva di sempre.<br />

E fu come se il pullman dentro di me stesse trasportando<br />

tutte quelle immense querce: le rocce e le valli:<br />

Baddhevrùstana con le sue greggi e il loro sferraglio familiare<br />

a ogni pastore: l’orizzonte e il cielo. Tutto era<br />

diventato ricordo indelebile.<br />

Tra la rabbia ed il pianto, tra l’odio e l’amore, tra il<br />

sorriso e le lacrime, maledicemmo la terra sarda come<br />

se stessimo lasciando veramente la nostra prigione.<br />

E nella nostra beata ignoranza imprecavamo contro<br />

chi non ci aveva mai fatto male, contro la terra che ci<br />

aveva nutrito e contro le intemperie che l’avevano fecondata.<br />

Noi non conoscevamo altro fattore responsabile del<br />

nostro male. Il nostro vero avversario non lo potevamo<br />

ancora conoscere. E dal pullman che si snodava lungo<br />

la discesa e le pianure, di tanto in tanto, pronunciavamo<br />

l’ormai famosa frase, divenuta quasi rituale per gli<br />

emigranti: – Addio, querce di <strong>Sardegna</strong> (Adiu chercos<br />

de Sardìgna).<br />

Giunti a Sassari, a me e a Gigi accadde una cosa inaspettata,<br />

tanto spiacevole quanto poi doveva riuscirmi<br />

fortunata. All’ufficio emigrazione i nostri documenti<br />

non erano in regola. E il nostro imbarco, previsto a<br />

Porto Torres, non fu possibile.<br />

In un primo momento ci colpì la disperazione. Di colpo<br />

tutti i nostri progetti naufragarono e si sciolsero come<br />

ghiaccio al fuoco. Fu una cosa brutta. Ci eravamo<br />

già sentiti uccelli con la nostra libertà. Le nostre ali però<br />

non funzionarono, e non potemmo spiccare il volo.<br />

E come cani castrati a fresco di fronte al <strong>padrone</strong>, ci<br />

214<br />

toccò anche osservare il volo degli altri compagni convenuti<br />

a Sassari dai vari centri.<br />

– Cosa è successo esattamente, Gigi?<br />

– Maaa... Non lo so!<br />

– Che ti ha detto quella persona.<br />

– Ma, nulla. Credo che tuo padre non ti abbia dato<br />

il consenso. Tu sei minorenne.<br />

– Ma tu, tu sei maggiorenne.<br />

– He! Lo so! Avranno fatto di tutto per non farmi<br />

partire. Mio padre conosce thiu Pedru. Sai com’è!<br />

– Ma che razza di scherzo è questo? Ora debbo ritornare<br />

a Baddhevrùstana. Tu te ne freghi! La tua famiglia<br />

risiede a Sìligo e almeno la sera ti puoi vedere la televisione,<br />

uscire con gli amici...<br />

– E tu non puoi venire a Sìligo la sera? Vieni in bicicletta.<br />

– Eh, una volta la settimana. Mio padre, di più non<br />

mi farebbe venire. Io me ne vado servo pastore. Almeno<br />

al <strong>padrone</strong> glielo potrò pretendere di farmi venire<br />

in paese una volta la settimana. Glielo dirò chiaro e<br />

tondo ad Abramo. Mica sono un macigno, io.<br />

Così solo dopo cinque ore dalla partenza o per uno<br />

scherzo della situazione o per volere dei nostri genitori,<br />

dovemmo ingoiarci a ritroso quel salsiccione salato<br />

della strada che avevamo maledetto e rivedere tutti i<br />

punti dei campi che avevamo insultato gridando addio<br />

come se con quelle terre non avessimo avuto più a che<br />

fare. Sul pullman che ci riportava a Sìligo nell’ironia<br />

della sorte, seduto sul sedile mi rivedevo, con soggezione,<br />

di nuovo i campi insultati poco prima. Fu uno<br />

scoramento. E le ingiurie che vi lasciai la mattina me le<br />

215


dovetti rimangiare la sera. Nella corsa mi sembrava<br />

che mi stessi tracannando ed ingoiando a ritroso tutte<br />

le imprecazioni che avevo lanciato, non solo le mie, ma<br />

anche quelle degli emigranti precedenti.<br />

La natura tutta mi invase tempestandomi da tutte le<br />

parti. – Toh! Rimangiati le tue bestemmie. Sono ancora<br />

qui. Respiratele e rimettile dove le hai trovate. Le vedi<br />

le tue bestemmie? Su, rimangiatele!<br />

Il giorno dopo la falsa partenza ritornai nell’ovile a rivedere<br />

le gigantesche querce che sin da piccolo mi avevano<br />

sempre riparato dalle intemperie, dentro le loro<br />

cavità o dentro l’ombrello delle loro secolari ferite. Le<br />

rividi con molta soggezione. Ne avevo insultato tante simili<br />

nella rabbia della partenza e ora me ne vergognavo.<br />

Ero ritornato alla sorgente che avevo “cagato” io stesso<br />

e dovevo bere perché avevo sete. Bisognava ripulire la<br />

fontana. I primi giorni furono melanconicamente tristi.<br />

Dopo il primo approccio dimenticai tutto e la mia vita<br />

ritornò a inselvatichire. L’unica consolazione era un vago<br />

sentore del fatto che quel gioco del caso mi aveva evitato<br />

l’esilio in terra straniera dove sarei andato senza lingua<br />

né parola come era successo a migliaia di pastori<br />

prima di me. E insistendo intimamente su questo concetto,<br />

quasi per rifarmi dello scacco, quel sentore divenne<br />

uno zucchero che raddolcì l’amaro di quelle valli.<br />

Baddhevrùstana mi divenne più dolce. C’erano sempre<br />

mia madre e i miei fratelli e tutta la natura che mi riparlava.<br />

I buoi ritornarono sotto la mia giurisdizione. Ripresi<br />

ad arare alla giornata fino a tutto dicembre. E mol-<br />

216<br />

to spesso, per vincere la stanchezza, dietro l’aratro cantavo<br />

proprio su quegli stessi campi che mi avevano rimproverato.<br />

Finita la stagione arativa in agro (in s’aidattòne), continuai<br />

ad arare a Baddhevrùstana, seminando erbaggi<br />

per le pecore e per i buoi, orzo e avena per le galline.<br />

Mio padre era finalmente contento di avermi con sé.<br />

Ero il maggiore e gli rendevo più degli altri. E, poi, il<br />

fatto che io fossi in tempo di emigrare aveva rintuzzato<br />

la sua autorità, quasi incominciassi a essere meno suo. I<br />

suoi rimproveri ora erano meno feroci. La sua violenza<br />

educativa più contenuta. Aveva paura che le sue urla mi<br />

mettessero in fuga e me ne volassi proprio ora che gli<br />

producevo il massimo.<br />

Nonostante avessi ripreso il lavoro con la solita lena,<br />

non potevo rassegnarmi all’idea di fare il pastore e il<br />

massaio per tutta la vita. La partenza e la fuga erano<br />

sempre nella mia mente e la situazione me lo ripeteva<br />

continuamente. Sfuggire all’ambiente era il chiodo fisso.<br />

Mi ero rintanato a Baddhevrùstana come mi avevano<br />

ordinato quei campi. Cantavo e lavoravo. Ora, però,<br />

essi non sapevano che vi sbuffava un vento contrario a<br />

quello che mi ci aveva seminato a sei anni per crescere<br />

con loro. Quel vento mi turbinava alle spalle. E io mi<br />

ero accovacciato di nuovo lì, ma solo in attesa di spiccare<br />

il volo. Vivevo come una lepre spaventata e ansimante<br />

che per sfuggire alla bocca dei cani ripara in una forra<br />

con le orecchie tese, pronta a riprendere la rincorsa<br />

non appena i cani si stufano di snidarla o fanno ritorno<br />

all’ovile dal loro <strong>padrone</strong>.<br />

E come una lepre allora anch’io ad orecchie tese<br />

217


ascoltavo tutti i rumori che mi giungevano. Andavo a<br />

caccia di notizie sugli emigrati e passavo le mie giornate<br />

nell’ossessione della partenza.<br />

E anche se ero un pastore senza malizia, ingenuo più<br />

del montone che mi fecondava le pecore, dentro di me<br />

ruggiva un furore di conquistare qualcosa di cui non<br />

avevo consapevolezza. Calloso nelle mani e duro nei<br />

muscoli, vecchio nell’attività pratica, temprato dalle<br />

intemperie del freddo e del caldo, nello spirito ero tenerissimo.<br />

Fino ad allora avevo solo agito e reagito alla<br />

natura, ma le circostanze non avevano mai sollecitato<br />

le mie risorse interiori se non minimamente. Lottato<br />

molto, ma pensato poco. Avevo usato molto le mani e<br />

le braccia, ma il cervello non era stato mai veramente<br />

coltivato. Sempre dimenandosi tra le cose, mai al di sopra<br />

di esse. Dentro il mio fisico insuolato, però, c’era<br />

un entusiasmo fresco e incontenibile. Il mio io rimasto<br />

intatto con tutte le sue risorse interiori cercava la possibilità<br />

di uscire dalla tirannia che il fisico aveva dovuto<br />

imporgli. Stava in agguato: pronto a realizzarsi, quasi<br />

fosse una riserva nascosta pronta per un’eventuale<br />

rinascita. A mio padre avevo rubato tutta la saggezza<br />

che lui aveva rubato a sua volta agli anziani. A vent’anni<br />

anch’io nel lavoro ero adulto, “saggio”, “vecchio”.<br />

Dentro però le mie risorse rimasero come gemme su<br />

un tronco secco e aspettavano la loro stagione per schiudersi.<br />

Sapevo che la mia strada non sarebbe stata quella<br />

della pastorizia. Non c’era più posto lì per i sani come<br />

non ce ne fu per gli emigrati in Australia! Io ero sano e<br />

forte e quasi maggiorenne. E lì c’era posto solo per i<br />

218<br />

vecchi, per gli ingobbiti e per i paralitici. E poi quella<br />

gemma che anelava dentro di me, lì non avrebbe potuto<br />

mai schiudersi.<br />

Certo, anche in <strong>Sardegna</strong> c’era una strada aperta a<br />

ogni pastore, una strada che si poteva imboccare senza<br />

leccare i Don. Era il banditismo. Una strada infida dove<br />

puoi sprigionare tutto quello zelo che ti prude sotto i<br />

muscoli. Ma la tua gemma lì fa una brutta fine. Si schiude<br />

e cresce velocemente come in una primavera ubertosa.<br />

Opera la tua ribellione inconscia, irrazionale e<br />

isolata. Ma alla fine ti accorgi che la tua gemma è sbocciata<br />

sul fuoco. La tua pianta cresce contro la violenza<br />

organizzata della società che tu vorresti inconsapevolmente<br />

eliminare. E quella violenza è come una chimera<br />

sfuggevole e impalpabile. È come un vento per te, che<br />

ti brucia sino alle radici. E alla fine finisci per essere risucchiato<br />

dallo stesso turbine di quella violenza famelica<br />

e mai sazia: impastoiato nelle sue ventose e imbavagliato<br />

nella sua bava. Digerito prima di morire.<br />

Dei banditi avevo sentito parlare sin da bambino. I<br />

pastori, oltre a thiu Juànne, parlavano spesso delle loro<br />

grassazioni e delle loro gesta. Li temevano, ma li ammiravano<br />

anche. Molti di essi erano eroi, martiri della libertà<br />

che la loro gente non aveva mai avuto. Ma divenire<br />

banditi per la libertà degli altri in una giungla di serpenti,<br />

non è molto facile. Ci vogliono requisiti che non ti<br />

trovi: la consapevolezza di subire l’ingiustizia e la sventura<br />

di fare amicizia con un vero bandito, scivolare nel<br />

giro, insomma. E fu una fortuna che io non li abbia trovati,<br />

quei requisiti. Dentro di me stavo meditando cose<br />

tremende. Il banditismo puro come ribellione inconsa-<br />

219


pevole in quegli anni stava cedendo il posto a quello mafioso,<br />

degenerato nell’interesse personale e settario. Gli<br />

eroi sociali della libertà che desidera un pastore erano<br />

già scomparsi. E il banditismo era già estraneo a se stesso<br />

e a quelle cause originarie per cui era sorto.<br />

Nel mio intimo fu una scelta temporanea. La possibilità<br />

poi di realizzarmi in qualche altro modo avrebbe<br />

deciso. Continuai ad essere bandito civile, come tutti i<br />

pastori. Sapevo anche di non potermi arruolare nelle<br />

forze dell’ordine. Gli sforzi fisici fatti fin dai sei anni mi<br />

avevano impedito di elevarmi da terra oltre 1,59. I lavori<br />

forzati più grandi di me mi fecero crescere all’ombra<br />

della sofferenza succhiandomi ogni sostanza. Ero come<br />

uno sterpo all’ombra della tirannia del bosco. Piante<br />

immense mi toglievano il cielo con le loro branche e mi<br />

trafiggevano per terra con le loro immense radici diramandole<br />

in ogni direzione, asportando e convogliando<br />

le migliori sostanze sul loro fusto: sulla loro bocca per<br />

alimentare la selva folta dei loro rami, lasciandomi come<br />

sottobosco in balia della caldana a bocca spalancata.<br />

Sterpo morente sotto l’arsura in attesa dell’inverno.<br />

In quell’estate boccheggiavo anch’io in attesa della stagione<br />

che mi offrisse la via per sfuggire ai lavori forzati.<br />

La fuga in Olanda era andata male. E l’emigrazione<br />

mi aveva deluso. Avevo sentito brutte notizie sui nostri<br />

emigrati. I morti nelle miniere aumentavano. E l’unica<br />

via che mi si offrisse in Italia dentro la legge era l’arruolamento<br />

nell’esercito come volontario.<br />

Fu nell’inverno del 1957 che insieme a zio Gellòn nel<br />

220<br />

Municipio deciframmo a stento il bando propaganda<br />

per l’arruolamento nell’esercito di giovani da specializzarsi.<br />

Zio Gellòn inforcò gli occhiali e mi lesse il manifesto<br />

scorrendolo malamente con il bacolo e me lo tradusse<br />

nel suo dialetto di Porto Torres: – Inògghi di bboi arruolà<br />

ggazzu! (Qui ti puoi arruolare, cazzo!).<br />

I miei requisiti fisici non mi facevano paura. Ci voleva<br />

1,60 di altezza. Se mi stiracchiavo e tiravo il collo riuscivo<br />

a raggiungerlo. Avevo fatto le prove e spesso ci<br />

riuscivo. La mia statura effettiva allora era solo 1,59,<br />

ma un centimetro lo valeva il decollo della mia tensione<br />

sotto il metro. Era la cultura, la V elementare richiesta<br />

dal bando, che mi faceva paura.<br />

Da quando mio padre mi deportò a Baddhevrùstana<br />

la scuola non la vidi se non di passaggio quando andavo<br />

a Sìligo. Mio padre che aveva la V elementare ottenuta<br />

all’età di oltre trent’anni, quasi per ripagare i danni del<br />

mio svezzamento, tentò di insegnarmi qualcosa: l’alfabeto<br />

e un po’ di nozioni generali che lui sapeva a memoria.<br />

E se gli capitava di essere contento mentre si<br />

zappava nell’oliveto, spesso mi tempestava di domande.<br />

Cercava di farmi qualche “lezione” per trasmettermi<br />

quello che lui sapeva.<br />

– Qual è la capitale d’Italia?<br />

– Roma.<br />

– Il Monte più alto?<br />

– Il Monte Bianco.<br />

– Con chi confina l’Europa?<br />

– A est con i Monti Urali, a sud con il Mediterraneo...<br />

a ovest... boh!<br />

221


– Con l’oceano Atlantico e a nord con il Mar Glaciale<br />

Artico.<br />

– Il lago più grande del mondo?<br />

– Il Mar Caspio, mi avevi detto.<br />

– Vediamo, di storia. Giulio Cesare?<br />

– Il più grande generale romano.<br />

– Il sommo poeta?<br />

– Dante Alighieri. Ha scritto la divina commedia.<br />

– Matematica. Tre per tre?<br />

– Nove.<br />

– Sei per sei.<br />

– Trentasei.<br />

– Nove per nove?<br />

– Cinquantasei.<br />

– Ottantuno fa! Stanotte ripassati la tavola pitagorica.<br />

Non la sai ancora bene.<br />

– Sì, sì.<br />

Con questo stato culturale mnemonico e senza saper<br />

scrivere, dietro le mie insistenze, mio padre mi presentò<br />

ad una maestra di Sìligo.<br />

– Sì, ora ti pigli la licenza elementare. Non voglio<br />

questo scrupolo. È ora ormai. È un sacrificio che debbo<br />

fare. Te lo avevo anche promesso quando ti portai<br />

via dalla scuola.<br />

La maestra mi insegnò ancora meglio la conoscenza<br />

dell’alfabeto e alcune nozioni di carattere generale che<br />

mio padre era riuscito a insegnarmi tra una sfuriata e<br />

l’altra. Dopo tre mesi nel giugno mi presentai all’esame<br />

da privatista con i ragazzi di 12 anni. Fui promosso.<br />

Debbo confessare che il temino (“Una lieta scampagnata”)<br />

lo feci malissimo. Non ero in grado di scrivere<br />

222<br />

correttamente. La lettura poi era ansimante, affannosa,<br />

forzata, sillabica. Nelle parole lunghe quando giungevo<br />

alla fine mi erano già sfuggite le sillabe iniziali sicché<br />

non sapevo più che parola avessi letto. Mi risollevò un<br />

po’ l’orale. Quello che avevo sentito sin da piccolo dagli<br />

stessi pastori, da mio padre e dalla maestra non mi<br />

usciva più di testa. Tra le maestre che mi stavano esaminando<br />

c’era ancora qualcuna che si ricordò il mio allontanamento<br />

dalla scuola a sei anni. S’intenerirono<br />

nel rivedermi di nuovo sui banchi vestito da pastore.<br />

Così la commissione mi regalò la promozione. Certo<br />

non solo per fare un piacere a me. Le autorità scolastiche<br />

avevano l’ordine di promuovere i pastori già arruolabili<br />

anche se fossero quasi analfabeti. In questo modo<br />

la nazione combatteva l’analfabetismo sulla carta e<br />

creava una base arruolabile per la difesa della patria.<br />

Con questo diplomino honoris causa in latitanza esistenziale,<br />

zio Gellòn poté stendermi la domanda per<br />

arruolarmi come volontario. Ero risoluto a tutto. Avevo<br />

poco da perdere. Ero convinto che un ambiente<br />

peggiore del mio lo avrei potuto vivere solo in galera. E<br />

senza per nulla interrompere la monotonia dei miei lavori<br />

attesi con impazienza la chiamata per la visita psico-attitudinale.<br />

Così arando e erpicando da un campo<br />

all’altro, finalmente i carabinieri di Sìligo mi comunicarono<br />

di recarmi al distretto. Un “leone” si era interessato<br />

della mia domanda e fu accolta subito. In seguito,<br />

per la visita, mi mandarono a Cagliari. Non avevo mai<br />

visto un centro così grande. Sassari l’avevo vista l’anno<br />

prima approfittando della libertà che mio padre mi<br />

concesse per la festa di San Vincenzo. Con un gruppo<br />

223


di amici quella mattina ciascuno poté finalmente provare<br />

le pecore senza coda e vedere per la prima volta il<br />

mare di pomeriggio.<br />

Cagliari era più grande di Sassari e mi parve meravigliosa.<br />

Tutto era diverso da qualche paesino che già raramente<br />

mi era capitato di vedere. Fui ospite di zio<br />

Tottói, agente di custodia a Buon Cammino, anche lui<br />

sfuggito molto prima di me all’agricoltura forzata. E<br />

senz’altro per aver già vissuto la mia esperienza si rese<br />

conto sin da quando mi venne a prendere alla stazione<br />

che io, a Cagliari mi trovavo come una fiera fuori dal<br />

suo ambiente. Frastornato tra quei segnali che non potevo<br />

né conoscere né notare: dove mi era impossibile<br />

stabilire quale fosse il lato destro della strada o quello<br />

sinistro.<br />

Io lo seguivo standogli dietro finché prendemmo il<br />

tram che ancora non conoscevo.<br />

– Fatti la doccia, – mi disse, giunti a casa sua.<br />

– Che cosa è la doccia?<br />

– Vieni, vieni!<br />

Mi condusse nel bagno e mi spiegò tutto. Mi lavai<br />

con gli scrosci di quell’acqua calda con molto piacere.<br />

Le mie mani, però, non mutarono colore. Rimasero com’erano,<br />

annerite dalla terra che avevano rivoltato per<br />

tanti anni.<br />

Per rendermi presentabile zio Tottói mi fece usare la<br />

varecchina. Aveva vergogna di presentarmi in quelle<br />

condizioni alle autorità militari. Sicuramente non avrei<br />

fatto buona impressione ai medici militari: le mie mani<br />

sembravano due zoccoli di somaro. Mi agghindò bene<br />

insieme alla moglie e mi accompagnò in caserma per la<br />

224<br />

visita: alla Monfenera. Per prima cosa sostenni l’esame<br />

fisico. Con mia grande preoccupazione mi misero sotto<br />

l’ostacolo che dovevo superare: l’antropometro. Mi irrigidii<br />

tutto e mi stiracchiai fino allo spasimo in cerca di<br />

fare quel centimetro che mi mancava. Fu una lotta dura.<br />

Il collo teso, doveva sembrare quello di un galletto<br />

dal collo implume in lotta con l’avversario. La mia tensione,<br />

però, contro un simile avversario non valse nulla.<br />

Non mi sollevai oltre 1,59. Il centimetro della salvezza<br />

mi venne regalato.<br />

Un maggiore si presentò come per dimostrarci la sua<br />

fierezza, si impalò a distanza e ci squadrò tutti.<br />

– Buongiorno, ragazzi. Sappiate che state per intraprendere<br />

una strada dura, nobile e gloriosa e che state<br />

per prendere il posto di tanti eroi che conoscete dalla<br />

storia. Certo. Verranno anche le soddisfazioni. Imparerete<br />

un mestiere. Ora farete l’esame attitudinale. Un<br />

sergente deve avere molte attitudini: spigliatezza, intelligenza.<br />

L’attitudine al comando... E, soprattutto deve<br />

essere consapevole della funzione che dovrà svolgere<br />

per la sua patria.<br />

Finito il discorso, ci passarono dei quiz da compilare.<br />

Non si doveva scrivere. Non me lo sarei mai aspettato.<br />

Fu la mia fortuna. Notizie ne sapevo a sufficienza. La<br />

risposta giusta tra due sbagliate ero in grado di sottolinearla<br />

anche perché il mio vicino aveva la terza media e<br />

mi lasciava copiare. Inoltre le lezioni bomba di mio padre<br />

più o meno contenevano quelle risposte. Ero quasi<br />

abituato a questo tipo di esame. E per l’occasione mi<br />

furono utili anche notizie che sentii in bocca a dei pastori<br />

lungo la strada per Sìligo: leggevano “La Domeni-<br />

225


ca del Corriere” e a gara ciascuno citava nomi famosi e<br />

se li ascoltavano come suoni magici! Certo, se la prova<br />

fosse consistita in un tema, io sarei stato irrimediabilmente<br />

bollato. Loro, però, lo sapevano che la maggior<br />

parte non sapeva scrivere correttamente. E i quiz erano<br />

l’unico esame che noi si poteva mettere per iscritto. Fui<br />

così idoneo, come tanti altri, senza che nemmeno si venisse<br />

a conoscenza della mia grafia. E certo si dimostrarono<br />

coerenti: non potevano pretenderla.<br />

Durante il viaggio da Cagliari via Macomer-Ardara,<br />

meditavo sul mio futuro militare. E nel mio isolamento,<br />

nonostante il treno fosse zeppo, cercavo di immaginarmi<br />

la vita di un sergente. Ma non ci riuscivo. Per un attimo<br />

mi vidi nella divisa di un carabiniere, poi in quella di<br />

mio zio che ora avevo visto, quasi irriconoscibile, dentro<br />

la sua divisa. Mi guardai istintivamente come per<br />

assicurarmi che anch’io non fossi mascherato. Scossi<br />

fortemente la testa per farmi cadere il berretto. Me la<br />

toccai con le mani, ma la trovai solo folta di ciuffi. Il brivido<br />

svanì e non ci volli più pensare. Il treno filava portando<br />

tanti miei pensieri in lotta intonati al suo fracasso<br />

su quelle rotaie sgangherate. E con quel fracasso e con i<br />

suoi scossoni svanì anche il mio complesso di essere<br />

basso. La sua corsa mi stava riportando idoneo.<br />

Sotto le querce ora mi sentivo più alto, più libero. Finalmente<br />

davanti a me c’era un varco per fuggire all’incendio.<br />

E allora non pensai più di divenire un bandito.<br />

Ricacciai dentro il mio inconscio questa estrema possibilità<br />

disperata. E quasi fosse una colpa che avessi già<br />

commesso ora avevo quasi vergogna di avere pensato a<br />

una simile soluzione. Finii per concludere che sarei sta-<br />

226<br />

to bene nell’esercito. Gli anziani me lo avevano sempre<br />

detto e ora me lo ripetevano.<br />

– Sei un fortunato. Non è facile entrare sotto le armi.<br />

Humm! Ci vogliono raccomandazioni. Conoscenze!<br />

Leoni, ci vogliono!<br />

– Ora imparerai l’italiano. Conoscerai il continente.<br />

E non hai la sfortuna di andartene all’estero come mio<br />

figlio nelle miniere del Belgio.<br />

– Potrai venire in licenza una due volte all’anno. Le<br />

ragazze ti vorranno. Pastori ed emigrati loro non li vogliono.<br />

Anche loro vogliono restare in Italia a imparare<br />

l’italiano: divenire signore!<br />

– Certo, le stellette sono brutte. Maaa! Se ubbidisci!<br />

E si deve ubbidire, a chi ti dà il pane: come il cane al <strong>padrone</strong>.<br />

Che ti credi che il cane ubbidisce al <strong>padrone</strong> per<br />

amore? Ma lasciami la testa: per il pane! Gli custodisce<br />

le bestie e l’ovile perché è del <strong>padrone</strong>. Lui senza <strong>padrone</strong><br />

morirebbe.<br />

– Mio figlio è comandante di una stazione di carabinieri.<br />

Altro che stare qui a ingoiare polvere sull’aia e pane<br />

asciutto. Altro che calpestare la merda delle nostre<br />

bestie. Lui da solo guadagna quanto non guadagna tutta<br />

la mia famiglia. E la notte, stai tranquillo che non gli<br />

rubano il bestiame.<br />

Si era già in maggio. Io e mio padre ci schieravamo<br />

tutti i giorni con la falce per falciare l’erbaggio che ci<br />

cadeva sotto disposto a solchi. L’annata era ferace. L’orzo<br />

e l’avena stavano ingranendo (fini avverèndhe). Le<br />

spighe incominciarono subito a indorare. La mietitura<br />

ci attendeva.<br />

Ai primi di giugno, come guerrieri, armati con le falci<br />

227


icurve, mio padre, Filippo e io assalimmo il raccolto<br />

disposti in schiera, mietendo sotto la caldana e lasciandoci<br />

dietro i covoni ritti con i loro ciuffi dorati: creature<br />

parlanti delle nostre fatiche che giornalmente prima di<br />

staccare al crepuscolo riunivamo in biche (in mannas).<br />

In meno di un mese il raccolto lo buttammo giù e si ridusse<br />

ad un campo di stoppie. Ero contento che la mietitura<br />

finisse prima della mia partenza.<br />

Subito incominciammo a trasportare i covoni all’aia!<br />

Il giorno di San Pietro del ’58 a Baddhevrùstana giunse<br />

un tale in motocicletta, così come vi era giunto Gigi.<br />

Per trovarmi si spinse sulle stoppie immerso fino alla<br />

vita. Mi trovò con i buoi, intento a lanciare i covoni dell’ultima<br />

bica sul carro dove Filippo li accomodava alla<br />

meglio.<br />

– Devi venire subito a Sìligo. È arrivata la cartolina.<br />

Devi partire militare. Mi mandano i carabinieri. Hai tre<br />

giorni di tempo. Però devi presentarti subito in caserma<br />

per confermare le tue decisioni.<br />

Io ascoltai la notizia con il tridente tra le mani, ma alla<br />

fine quasi per vincere l’imbarazzo mi feci sotto e lanciai<br />

sul carro gli ultimi covoni quasi volessi indugiare.<br />

L’ora però era giunta. Di colpo mi vennero in mente<br />

tante cose: di quando avevo paura dei carabinieri sulla<br />

strada per Sìligo e mi sembrava impossibile che io sarei<br />

dovuto diventare un militare come loro: un guerriero,<br />

uno che dovrà fare la guerra.<br />

Con queste frasi interne dovetti lasciare carro e buoi<br />

e partire con quel tale. Filippo mi subentrò nell’aia per<br />

sgranare le biade con il lento passo dei buoi.<br />

Dietro quella motoretta sulla strada verso Sìligo pen-<br />

228<br />

savo alla prospettiva di dover fare per tutta la vita il militare.<br />

Sempre la stessa cosa, agli ordini di gente che<br />

non potrai mai conoscere se non dalla divisa. Non riuscivo<br />

a convincermi di partire.<br />

E anche se capivo poco allora di vita sociale, dietro le<br />

spalle di quel signore, la brezza della corsa (come se<br />

fosse lì per l’aria) mi fece affiorare una diceria diffusa<br />

tra i pastori: – Fare il carabiniere, il poliziotto è una cosa<br />

buona. Arruolarsi nell’esercito, come volontario, fa<br />

schifo: sono firmaiuoli.<br />

Questa diceria mi smussò un po’ l’entusiasmo! La<br />

motoretta pian piano, sotto sforzo, mi stava comunque<br />

portando in caserma. Era logora, ansimante come un<br />

somaro sotto eccessiva soma. Camminava pian piano, e<br />

le spalle di quel signore per un attimo mi ricordarono<br />

quelle di mio padre quando per la prima volta le vidi<br />

massicce ed oscillare al trotto. Quel nesso rievocativo<br />

mi ripiombò nel passato più remoto. E benché trasportato<br />

da “un somaro a fuoco”, raggiunsi quel giorno e risentii<br />

a ritroso quanto mio padre fu costretto a dire alla<br />

maestra e a me, il giorno del mio svezzamento sociale.<br />

L’immondezzaio alle porte del paese mi passò velocemente<br />

sotto gli occhi e quel primo segno della civiltà<br />

che vi avevo lasciato mi riportò al presente. Sìligo finalmente<br />

con le sue tegole muschiose, tinte dal tempo,<br />

con qualche ciuffo di erba che aveva avuto la sfortuna<br />

di nascervi, ci venne incontro. In un attimo fummo sulla<br />

piazza: sul cimitero di tanti ricordi che molti emigrati<br />

vi avevano lasciato nel pianto della loro partenza.<br />

Quel signore si fermò lì.<br />

Mi recai subito in caserma. Premetti il campanello e<br />

229


il suo suono tremolante suonò come la mia mente già<br />

scossa e intimidita.<br />

– Chi è? – Uscì una voce dallo spioncino a graticcio.<br />

– Mi avete chiamato per partire soldato.<br />

– Un momento.<br />

Subito il piantone aprì la porta e mi accompagnò nell’ufficio<br />

del suo brigadiere.<br />

– Lei è Ledda?<br />

– Sì.<br />

– Ha fatto domanda come volontario... sottufficiale<br />

nell’esercito?<br />

– Sì.<br />

– Mi è giunto l’avviso. Lei deve partire entro tre giorni<br />

al massimo, se non vuole perdere l’occasione. Naturalmente<br />

questo è un invito. Lei è ancora <strong>padrone</strong> di rinunciare.<br />

Decida subito, però.<br />

Io non sapevo cosa rispondere. Rimasi così impalato<br />

davanti alla scrivania con la mente che mi oscillava tra<br />

l’ovile, i solchi, l’aratro e quell’esercito che non riuscivo<br />

ad immaginare in nessun modo senza pensare alla<br />

parola guerra. E come se volessi dare una risposta a me<br />

stesso anziché al brigadiere, i miei occhi erano come inchiodati<br />

alla sua divisa. Il mio respiro si bloccò: la decisione<br />

mi faceva paura.<br />

– Beh! A cosa pensa? Io sto facendo il mio dovere.<br />

Debbo comunicare al distretto la sua decisione. Lo capisce?<br />

E finalmente vinta quella soggezione che mi suscitò il<br />

sopportare per la prima volta, a distanza ravvicinata, la<br />

presenza di un carabiniere, la mia bocca si contorse e<br />

incominciò a balbettare.<br />

230<br />

– La gente mi ha detto che nell’esercito si sta male. Si<br />

fa la guerra. I sottufficiali li chiamano firmaiuoli.<br />

– E perché, io non sono firmaiuolo? Tutti i militari,<br />

carabinieri, poliziotti, sono firmaiuoli. Tutti si fa la guerra,<br />

se scoppia. Anzi, nell’esercito, forse, si sta meglio<br />

che da noi. Che significa questo?<br />

– A Cagliari, poi, ho visto la caserma e i militari. Non<br />

mi è piaciuta. La gente li chiamano carne venduta, li<br />

chiamano.<br />

– Carne venduta, eh? Vorrei sapere chi è più venduto<br />

io o quegli emigrati in Australia. Lo vuole un consiglio<br />

da amico? La gente la lasci cantare. Io conosco la situazione<br />

di voi pastori qui a Sìligo e in <strong>Sardegna</strong>. È triste,<br />

come lo è dappertutto in Italia. Ti consiglio di accettare,<br />

di fare una prova. Tanto tu il militare lo dovrai fare<br />

lo stesso. Fra un anno dovrai partire di leva: sei idoneo.<br />

Tanto vale partire ora. La scelta, semmai, la farai in seguito.<br />

Vedrai che non te ne pentirai. Starai sempre meglio<br />

che a fare il pastore a Baddhevrùstana. Vedrai che<br />

molti di quelli che ti dicono o ti diranno firmaiuolo, ti<br />

invidieranno quando tornerai sottufficiale. Ma non lo<br />

sai che nell’esercito si fa carriera prima e non dovrai andare<br />

ad arrestare banditi, come facciamo noi. Lì sei più<br />

tranquillo. La gente queste cose non le può sapere.<br />

– Beh! Allora,... accetto.<br />

– Firmi qui!<br />

– La mia firma la faccio molto male.<br />

– Faccia con calma. Imparerà a farla. Su! Così! E<br />

buona fortuna.<br />

Il suo ragionamento mi parve logico e mi convinse.<br />

E con quella firma lenta ed incerta, da semianalfabeta,<br />

231


finalmente, mi consegnavo allo stato che mi aveva sempre<br />

ignorato: alla chimera inventata dai “leoni”.<br />

La partenza ora non poteva essere falsa. Avevo firmato.<br />

Scesi a Baddhevrùstana per dare l’addio alla pastorizia<br />

forzata e ai miei.<br />

E dal basto di Pacifico che mi stava riportando a Sìligo<br />

per partire per sempre, piangevo sentitamente, con<br />

dolore. Quelle campagne ormai erano parte della mia<br />

vita o meglio io ero divenuto una loro parte: un loro albero<br />

speciale sbocciato da un seme sventurato in preda<br />

al vento, ma in compenso dotato di gambe e di movimento.<br />

Mentre Pacifico mi sradicava da loro portandomi via<br />

con tutte le radici, nel silenzio più accorato mi fotografavo<br />

i luoghi a me più cari, imprimendomeli nella mente<br />

una volta per sempre per svilupparmeli con il ricordo,<br />

quasi non li dovessi mai più rivedere. Conoscevo<br />

per nome tutti gli alberi, le rocce, le calanche, i muri e<br />

gli sterpi: gli amati cespugli del campo e della contrada.<br />

Abbandonarli mi sembrava una vigliaccheria, una vergogna.<br />

Man mano che Pacifico trottava, il campo e tutta<br />

la sua gente viva nella mia coscienza ancora infantile<br />

mi salutava e sembrava volesse trattenermi, così come<br />

avevano fatto sotto gli scialli neri le madri degli emigrati<br />

in Australia.<br />

Così lasciai quelle terre e quelle bestie, tutta quella<br />

natura, con le lacrime che mi sgorgavano calde ed abbondanti<br />

rigandomi il volto come quando spesso era<br />

stato colpito dalla pioggia vorticosa mulinata dal vento.<br />

232<br />

E quasi per averne un ricordo più vivo mentre scomparivo<br />

verso luoghi da cui non le avrei riviste se non affettivamente<br />

e solo come erano nate e cresciute nella mia<br />

fantasia, non mi rivoltai più indietro.<br />

Sul trotto della bestia mi riascoltavo il loro saluto corale,<br />

pensando al fatto che l’ingresso a Baddhevrùstana<br />

era avvenuto sulla groppa di un somaro ugualmente tra<br />

il pianto, così come ora stava avvenendo l’uscita. E mi<br />

sembrava strano che il distacco da quella realtà che mi<br />

aveva fatto paura accettare, ora mi stesse causando un<br />

dolore incomparabilmente più grande.<br />

Era il 30 giugno quando partii per il CAR di Siena. Il<br />

volo non lo spiccai dalla solita piazzetta, ma dal bivio di<br />

Bànari, all’uscita di Sìligo. Mi ci accompagnò mio padre,<br />

mentre si stava recando a Baddhevrùstana. Fu l’unica<br />

persona presente alla mia partenza.<br />

Giunti al bivio, si attese il pullman in un imbarazzo<br />

reciproco che ci allacciava come un giogo dispaiato alla<br />

fiera. Nei suoi confronti mi ero sentito sempre come un<br />

capo di bestiame, come Pacifico. Mi aveva dovuto sempre<br />

imbastare ed usarmi come un attrezzo nel lavoro.<br />

Ma nell’attesa mi stavo preparando ad uscire dalla proprietà<br />

di mio padre e stavo incominciando a immaginarmi<br />

diverso dalle altre bestie domestiche. Non ci riuscivo<br />

del tutto. Il tempo stringeva e la circostanza mi<br />

stava strappando dal peculio e ci stava imponendo di<br />

recitare, almeno per un attimo, una parte mai vissuta.<br />

Dentro il nostro timido silenzio, tutti e due ci si preparava<br />

ad essere quello che non eravamo mai potuti essere:<br />

padre e figlio. Impalati lì, l’unica arma cui ognuno<br />

ricorreva per rimanere ancora dentro il nostro rapporto<br />

233


gerarchico, era il silenzio. Avevo quasi vergogna di divenire<br />

figlio davanti al mio <strong>padrone</strong> che mi aveva sempre<br />

dominato. Lui nel suo imbarazzo tradiva più o meno<br />

lo stesso sentimento: la soggezione di divenire padre.<br />

E come se ognuno si fosse abituato al proprio ruolo,<br />

ora nessuno voleva rinunciarvi. Gli attimi però correvano.<br />

E di tanto in tanto ci si stiracchiava il collo per<br />

vedere se il pullman si stesse snodando lungo la strada.<br />

Nessuno, però, voleva cedere a fare la parte che la circostanza<br />

ci imponeva in ogni caso. Il pullman con le<br />

sue trombe sbloccò quello stato d’impaccio. E ognuno<br />

pian piano riuscì, sia pure malamente, a mettersi finalmente<br />

nella posizione naturale. Io a risalire a quella di<br />

figlio, lui a retrocedere in quella di padre.<br />

Tirò fuori dei soldi e me li dette in silenzio, come se<br />

mi stesse dando la dote, spinto da una forza che forse<br />

lui stesso ignorava. Io li presi in silenzio, con soggezione<br />

come davanti al proprio <strong>padrone</strong> avevo visto sempre<br />

i servi prendersi vergognosamente quello che loro<br />

effettivamente spettava, timidi e chini: a testa bassa come<br />

quei cani pastori che per avere poca confidenza con<br />

il <strong>padrone</strong> si fanno sulla porzione timidamente o solo<br />

quando il pastore se n’è allontanato. Il pullman ci raggiunse<br />

e ci liberò da quello stato di disagio reciproco,<br />

da quella commedia che ci faceva male a recitarla.<br />

Ognuno si allineò nel nuovo ruolo: nessuno dei due naturalmente<br />

riuscì ad assumerlo. Ci salutammo compiendo<br />

reciprocamente un atto forzato e esprimendo<br />

ciascuno qualcosa che non sapeva dire e di cui quasi si<br />

vergognava.<br />

Tutti e due ci sentimmo come costretti a fare qualco-<br />

234<br />

sa che avremmo voluto evitare, ma che le circostanze ci<br />

imponevano. Ci si avvicinò. Ci si strinse un po’. Le nostre<br />

guance si sfiorarono di sfuggita: gli occhi cercarono<br />

di non incontrarsi. Avevamo vergogna di parlarci<br />

intimamente. Il nostro saluto finì così, tortuosamente,<br />

esprimendoci un affetto timido e frustrato. E ognuno<br />

come per liberarsi prese di corsa la propria via. Mio<br />

padre si tuffò su Pacifico. Io salii sul pullman. La corriera<br />

partì, subito sorpassò Pacifico e mio padre mi<br />

agitò la mano destra come per salutarmi, ma quasi per<br />

rifarsi di quell’ulteriore saluto che nel suo codice lo degradava<br />

se la prese con la bestia incitandola subito alla<br />

corsa. Io d’altra parte feci altrettanto. Gli agitai la mano,<br />

ma subito mi abbassai sotto il finestrino. Pacifico e<br />

mio padre ingobbito sul basto scomparvero insieme<br />

alla strada.<br />

La corriera mi stava portando via. Uno sguardo ai<br />

monti e subito scomparve anche Sìligo. E percorrendo<br />

la strada per Sassari, salutai i campi che però non avevo<br />

più il coraggio di insultare, come quando stavo partendo<br />

in Olanda. E questo un po’ perché ero solo, un po’<br />

perché non stavo lasciando l’Italia e anche perché, in<br />

fondo, mi ero reso conto che erano belli.<br />

Vidi la nave per la prima volta. Vi salii come vedevo<br />

fare agli altri, quasi fossi una pecora dietro il gregge.<br />

Mi feci un giro sul ponte, ma non mi entusiasmò per<br />

nulla. Finalmente sentii un ululato e la nave si mise in<br />

movimento. E mentre la vedevo strisciare sulle onde,<br />

mi sembrava un immenso aratro che rivoltava un enorme<br />

solco.<br />

La mattina, dopo aver trascorso la notte in un came-<br />

235


one su brande a teloni senza fare conoscenza con nessuno,<br />

nonostante fosse gremito di ragazzi che stavano<br />

raggiungendo i loro CAR, ero ansioso di vedere l’Italia.<br />

Sul ponte all’alba mi fu possibile, ma chissà perché non<br />

mi entusiasmò come speravo.<br />

Subito presi il treno e di tanto in tanto mi sentivo i nomi<br />

delle varie stazioni: quasi tutti mi erano sconosciuti<br />

e mi suonavano oscuri. Quelli che conoscevo mi davano<br />

un vago senso di contentezza: – Sono a Grosseto!<br />

Sono a Chiusi! – Il fatto che stessi attraversando l’Italia,<br />

mi stava dando un vago senso di orgoglio. – Qui ci<br />

sarà passato Garibaldi con le sue truppe. Qui avranno<br />

fatto la guerra molti soldati. Io spero di non farla. – Dai<br />

finestrini vedevo campagne sterminate: pecore e mucche<br />

come in <strong>Sardegna</strong> e mi ricordavano sempre Baddhevrùstana<br />

e le nostre bestie.<br />

Verso sera giungemmo a Siena. Era già il crepuscolo<br />

e la città la vidi solo sotto la sua illuminazione. La stazione<br />

mi lasciò indifferente come quelle di Giave o di<br />

Ardara che avevo visto ritornando da Cagliari.<br />

Appena scesi dal treno, quasi spontaneamente si formò<br />

un gruppo di ragazzi, tutti destinati per il CAR. Mi<br />

ritrovai con loro.<br />

Subito fummo “aggrediti” dai militari di servizio lì alla<br />

stazione. Avevano l’ordine di portarci in caserma e<br />

come se volessero soffocare la libertà che ancora ci restava,<br />

ci lanciarono una serie di improperi in gergo militare<br />

che nessuno di noi ancora conosceva.<br />

– Forza! Andiamo, burbe imbranate.<br />

– Ne dovrete mangiare di fagioli e di brodo.<br />

– Vi farete il mazzo qui, come ce lo siam fatto noi.<br />

236<br />

– E voi, maledetti firmaiuoli, dovete scoppiare. Scoppierete<br />

nelle corse, firme maledette.<br />

Io mi chiusi nel silenzio. E in un primo tempo mi nascosi<br />

dentro il gruppo. Ci chiamarono tutti per nome:<br />

io belai il mio “presente” come tutti gli altri. E subito<br />

ci incalzarono con ordini che io non capivo:<br />

– Venite qui!<br />

– Salite là!<br />

– Forza, mambruchi.<br />

Salimmo su i camion e ci portarono in caserma. E<br />

sempre assaliti dai soliti ordini, si riformò il gruppo e<br />

io seguii i miei compagni tra gli ultimi.<br />

I primi giorni furono per tutti un vero supplizio. Per<br />

me, però, fu ancora peggio. Ero abituato a quella libertà<br />

pastorale delle montagne che non ammette nel suo<br />

mondo né intrusi né ordini se non dalle sole forze della<br />

natura. Cinta di mura invalicabili la caserma mi sembrava<br />

un’immensa prigione. Non mi davo tregua. Andavo<br />

continuamente da una parte all’altra per i corridoi<br />

delle tetre camerate, interminabili labirinti. Una<br />

forza inconscia mi spingeva così ad aggirarmi solitario:<br />

le gambe appagavano la loro abitudine che avevano<br />

contratto nel percorrere le valli, ma nella mente era come<br />

se volessi trovare un varco per scappare. Più volte<br />

fui tentato di farlo. Ma una sentenza che ci avevano<br />

detto mi rintuzzava sempre: – Chiunque abbandona la<br />

caserma o non rientra nel tempo stabilito dal regolamento,<br />

viene considerato disertore: condannato e rinchiuso<br />

nelle carceri militari.<br />

237


Altro che scappare. Fuggire sarebbe stato peggio di<br />

fare il bandito.<br />

L’unico sfogo allora lo trovavo girovagando nell’impossibilità<br />

di poter fare conoscenza. Avevo ancora soggezione<br />

del prossimo. L’italiano non lo sapevo parlare<br />

che sillabicamente. Dovevo fare il balbuziente senza<br />

esserlo. Un vero smarrimento che trovava l’unico ripiego<br />

solo nei soliloqui desolati in sardo “pensato”, dentro<br />

quella divisa che mi faceva rabbrividire e che in un<br />

certo senso mi impastoiava. Le prime parole che imparai<br />

a pronunciare con una certa enfasi furono “signorsì”<br />

e “signornò”.<br />

Solo che all’inizio non sapevo quando bisognava dire<br />

la prima o la seconda formula. L’istinto alla fine mi suggerì<br />

di usare sempre “signorsì”. Tutto allora filava liscio,<br />

anche se le cose erano andate male. Signorsì per<br />

me era divenuta una formula magica e mi evitò molte<br />

punizioni.<br />

Il brusco scontro con la nuova vita mi rese ancora più<br />

diverso di quello che ero nei confronti degli altri. L’adattamento<br />

fu affannoso, come l’apprendimento dell’italiano.<br />

Spesso rasentò l’impossibilità e la disperazione.<br />

Il mio sardo lì non lo capiva nessuno. Io ero “muto” e<br />

senza una lingua: come un essere inferiore che non poteva<br />

esprimere quello che pensava.<br />

Per parlare allora dovevo fare più o meno come facevo<br />

a Baddhevrùstana nel silenzio del bosco dietro il<br />

gregge. Dovevo rientrare nel “mio” mondo che fortunatamente<br />

anche a distanza mi rapiva e mi distoglieva<br />

da quella desolazione. Il mio cervello, disperato, come<br />

238<br />

per creare un rifugio al nuovo ambiente ostile, secerneva<br />

fantasia viva: creava immagini. E con la disperata<br />

nostalgia, non potendo comunicare con altri, riviveva e<br />

si rievocava, golosamente disperato, il mondo che conosceva,<br />

anche se lo aveva lasciato al di là del mare: si<br />

rifiutava completamente di conoscere il mondo militare.<br />

Voleva vedere natura senza divisa.<br />

Dentro quelle mura annerite e scalcinate l’unica compagnia<br />

era sempre Baddhevrùstana. Sentivo sempre la<br />

voce di mio padre e dei miei fratelli: il raglio di Pacifico<br />

e il belato noto di qualche pecora. In una parola i dialetti<br />

della natura che io conoscevo annullavano il caos<br />

dei rumori e dei fatti di quella caserma ed erano l’unico<br />

sangue con cui palpitava il mio cuore che stava rischiando<br />

l’infarto.<br />

Uno spirito ferino mi ruggiva continuamente e mi<br />

stava sempre suggerendo di saltare quelle mura. Ma riuscii<br />

a controllarlo anche se come un pendolo gigantesco,<br />

oscillavo sbattendo ora la testa, ora i piedi sulla caserma.<br />

Spinto dalla disperazione, feci di tutto per mettermi<br />

a rapporto dal comandante di compagnia, per pregarlo<br />

di mandarmi di nuovo a Baddhevrùstana tra le mie pecore<br />

che sognavo ad occhi aperti.<br />

Bussai alla porta del suo ufficio con la stessa violenza<br />

con cui Rusigabèdra mi latrava quando voleva essere<br />

slegato.<br />

– Avanti!<br />

– Comandi.<br />

– Non si sa nemmeno presentare. Chi è lei?<br />

– Recluta Ledda Gavino, 1ª Compagnia.<br />

239


– Humm! Stia sul riposo.<br />

– Signorsì.<br />

– Che cosa c’è?<br />

– Io... voglio ritornare a casa.<br />

– Ha, ha, ha!!! Vuole ritornare a casa il nostro bambolone.<br />

– Mi sono pentito di essermi arruolato. Questa vita<br />

non è fatta per me.<br />

– La solita storia di voi volontari. Ormai tu hai firmato.<br />

Hai accettato volontariamente. Io non ti posso prosciogliere.<br />

Che facevi a casa?<br />

– Il pastore e l’agricoltore.<br />

– E perché te ne vuoi ritornare tra le tue pecore?<br />

– Perché le conosco. Qui io non conosco nessuno.<br />

Non so parlare l’italiano. Credevo si stesse meglio.<br />

– Di dove sei?<br />

– Sardo.<br />

– Ho capito. Ti farò conoscere tutti gli altri volontari<br />

sardi come te. Ce ne sono tanti. Con loro almeno potrai<br />

parlare. Ma come mai non ti hanno messo insieme a loro?<br />

I sardi in genere li mettiamo sempre insieme.<br />

Il comandante fece una pausa. Poi di scatto mi trafisse<br />

con gli occhi e mi assalì.<br />

– Vuoi proprio vivere ancora sullo sterco delle tue pecore?<br />

La vita è difficile dappertutto. Qui imparerai un<br />

mestiere, no? A quale specializzazione ti hanno assegnato?<br />

– Radiomontatore.<br />

– E te ne vuoi ritornare all’ovile? Tu sei matto! Ragazzi<br />

come te, me ne passano a decine. I primi giorni si disperano,<br />

poi si ricredono e accettano la realtà. Diventa-<br />

240<br />

no i nostri migliori sergenti. Tu ora prova. A fine ferma,<br />

se non ti va, ti potrai congedare e ritornerai nel tuo paese<br />

a riparare le radio e i televisori, non più a mungere le<br />

pecore. È completamente inutile che tu stia lì a disperarti.<br />

Fatti coraggio! Il servizio militare lo dovrai pure<br />

fare, no? Arrivederci, Ledda.<br />

Con quella tirata il comandante rintuzzò le mie impennate.<br />

Mi impastoiò le caviglie come bestia indocile<br />

allo svezzamento.<br />

Uscito fuori mi sentii tutto agitato e turbato come acqua<br />

sporca dentro un secchio che lui ormai aveva posto<br />

sul “terreno militare”: le mie intenzioni dovevano ormai<br />

scendere sul fondo e sedimentare dentro quella divisa<br />

che non mi poteva più concedere di valicare le mura<br />

della mia “nuova tanca”. Ormai lì ci dovevo pascolare<br />

e i miei belati non avevano alcun senso. Per qualche<br />

giorno ancora mi ci sentii come un capo di bestiame<br />

buttato improvvisamente in gregge estraneo: diffidato<br />

e diffidente dei nuovi compagni.<br />

La decisione del comandante, di mettermi insieme<br />

agli altri volontari sardi, fu proficua. In una camerata<br />

trovai veramente una piccola <strong>Sardegna</strong> composta di ragazzi<br />

con le mie stesse condizioni psicologiche. Si parlava<br />

il sardo. E anche se sul piano culturale erano più<br />

progrediti di me in senso “ufficiale” (quasi tutti avevano<br />

frequentato regolarmente le elementari), tuttavia<br />

quando erano costretti a rispondere ai superiori anche<br />

in loro potevo notare la affannosa espressione a singhiozzo.<br />

Anche loro erano balbuzienti. Le nostre risposte<br />

erano sempre delle traduzioni dal sardo. La paura<br />

reverenziale che si doveva tenere verso i “superiori”<br />

241


unita alla simultaneità della traduzione, rendevano ancora<br />

più lente e spesso ridicole le nostre risposte.<br />

I calabresi, i siciliani, i napoletani, a parità di cultura,<br />

si esprimevano nel loro dialetto e facevano più figura di<br />

noi. La lingua nazionale era sempre più lontana dal sardo<br />

che da qualsiasi altro dialetto. Tra di noi però, potevamo<br />

esprimerci in sardo a patto che non fossimo di servizio<br />

e che non ci fossero “superiori” presenti (avremmo<br />

potuto burlarci di loro impunemente).<br />

E questo era un fatto che costringeva noi sardi a stare<br />

sempre insieme: un branco di “animali diversi”. La divisa<br />

ci accomunava solo per i superiori, ma nella realtà<br />

tra noi sardi e gli altri soldati c’era di mezzo la separazione<br />

della lingua.<br />

Ora dovevo adattarmi. Ogni giorno sotto il caldo di<br />

luglio e d’agosto a piazza d’armi si svolgevano l’addestramento<br />

formale e gli esercizi ginnici. Per me che provenivo<br />

dalla mietitura, fresco fresco, gli sforzi fisici richiesti<br />

erano dei giochi, delle passeggiate. Molti, invece,<br />

anche se erano più robusti di me, li vedevo accasciarsi<br />

a terra, in un bagno di sudore mai versato.<br />

Quello che mi dava estremamente fastidio erano gli<br />

ordini e la loro scansione: – Passooo! – – Destr! rigaaaà!<br />

– – Fissi! – – Diii corsaaa! – – Segnare il passooo!<br />

– – Alt, riposo!<br />

Questi ordini collettivi riuscivo anche a sopportarli<br />

perché il movimento serviva da scarico. E provavo anche<br />

soddisfazione nel sentirmi ritmato e zig-zagato insieme<br />

agli altri nei vari movimenti, convergendo ora a<br />

242<br />

destra ora a sinistra. Mi dava piacere sentire lo schiocco<br />

del mio piede tonfare insieme a quello degli altri e così<br />

l’oscillazione del braccio.<br />

Gli ordini più opprimenti erano quelli individuali.<br />

– Ora vediamo se avete imparato a salutare e a presentarvi<br />

a un vostro superiore, – fece un tenente. – Ora<br />

chiamo un caporale. Voi guardate come mi si presenta.<br />

Lui fingerà di essere una recluta.<br />

– Tu!<br />

– Comandi.<br />

– Vieni qui.<br />

– Recluta tal dei tali, 1 a compagnia, I plotone, 3° Reggimento<br />

Fanteria Venezia CAR.<br />

– Benissimo! Puoi andare!... Avete visto? È chiaro?<br />

Nei movimenti dovete essere scattanti e precisi.<br />

Quando si passò a chiamarci uno per uno era un teatro<br />

comico.<br />

Al richiamo del superiore il soldato scattava e correva<br />

da lui e gli si impalava davanti come se fosse un oggetto<br />

mosso internamente da quelle frasi e da quei gesti<br />

imparati a memoria. La presentazione, il saluto, lo stare<br />

sull’attenti. Spesso ti dimenticavi qualcosa o la dicevi<br />

male. Tutti gli altri soldati si mettevano a ridere. Più di<br />

una volta capitava che una recluta s’impalava, talmente<br />

imbranata da non ricordarsi nemmeno il suo nome. Allora<br />

le risate erano sonore.<br />

Io ascoltavo sempre come un leprotto e osservavo come<br />

uno sparviero. Tutte quelle frasi mi servivano per<br />

imparare l’italiano. Quei gesti fatti in un solo modo li<br />

usavo per realizzarmi di fronte agli altri.<br />

Certo le figuracce che facevo davanti ai superiori a<br />

243


causa della mia espressione ferina quando mi si comandava<br />

di presentarmi, destavano le risate anche dei miei<br />

compagni sardi. Emozionato ed intontito, quelle frasi<br />

sulla mia bocca sembravano versi di animali. L’unica<br />

cosa che mi sosteneva, ora che avevo deciso di far fronte<br />

alla situazione, era l’ardore di non darmi mai per vinto,<br />

come il montone nella sua lotta cozza e ricozza, finché<br />

spesso vince proprio quello più piccolo e più testardo.<br />

E se i miei compagni sardi rispondevano meglio di<br />

me e si sapevano presentare meglio di me riuscendo ad<br />

evitare qualche risata da parte dei caporali, io sapevo<br />

che ciò dipendeva solo dal fatto che erano più socializzati<br />

di me. Io, come qualche altro (in genere analfabeti,<br />

sardi, calabresi e meridionali, ma anche veneti) dovevo<br />

fare il buffo della situazione. Spesso quando mi si richiamava<br />

mi impalavo ben composto sull’attenti esprimendo<br />

bene i gesti, ma mi toccava rimanere con la bocca<br />

spalancata senza parola con tanto fiato e tanta rabbia<br />

in corpo una volta che avevo dichiarato solo il mio<br />

nome. La formula magica scompariva. Allora dovevo<br />

subire la violenza verbale dei caporali:<br />

– Imbranato! Mambruco! Beduino!<br />

– Signorsì! – era la mia conclusione.<br />

Le giornate si facevano sempre più movimentate. Le<br />

corse e gli esercizi sempre più difficili. Dove non si doveva<br />

parlare però, io andavo bene. Vinsi addirittura la<br />

corsa di 10 Km con lo zaino. La corsa era per plotoni e<br />

io giunsi primo e solitario dopo aver doppiato tutti i<br />

plotoni che mi precedevano alla partenza.<br />

Il giorno più bello era quando si prendeva la decade.<br />

244<br />

Soldi da casa non ne ho mai ricevuto al di fuori di qualcosa<br />

che dentro le lettere mi mandava mia madre.<br />

Si faceva la fila, tutti impazienti. E spesso dovevo subirmi<br />

gli insulti dei compagni, perché per fare la firma<br />

impiegavo molto tempo: – Dài! Ledda, ma quanto ci<br />

metti a fare uno scarabocchio? Non sai fare nemmeno<br />

la tua firma? Imbranato!<br />

Con quei soldi riscossi sotto l’incalzare dei compagni<br />

uscivo in libera uscita con gli amici sardi e mi era possibile<br />

vedere un po’ come era fatto il mondo: La Piazza<br />

del Palio e tutte le bellezze di Siena mi attraevano molto.<br />

E a Siena per la prima volta guardai in faccia il mondo<br />

ufficiale con i soldi dell’esercito. E sempre con quei<br />

soldi a branchi ce ne andavamo al casino e spesso ci mungevano<br />

per bene. Donne prima di allora, a parte la volta<br />

che con amici, sfuggito a mio padre, ero andato a Sassari,<br />

non ne avevo mai toccato. E Siena per questo pagò<br />

gli arretrati: quando ero libero la prima tappa era il casino.<br />

Prima, altro non mi era possibile né di fare né di<br />

vedere. Spesso, da solo una volta sbucato fuori dalla<br />

porta della caserma, salutata la sentinella, raggiungevo<br />

il casino a trottone e, se la mia preferita la trovavo libera,<br />

me la facevo con il fiatone, focosamente, come facevano<br />

thiu Diddhìa e thiu Antonìccu con le loro mogli.<br />

Così il CAR di Siena fu l’inizio della socializzazione<br />

del mio io cavernicolo.<br />

Dopo la metà del mese di ottobre, tutti i volontari furono<br />

destinati a Roma, per il corso di specializzazione.<br />

Ero contento di capitare a Roma. La trovai piena di tutto:<br />

stupenda e meravigliosa.<br />

Le cose per me purtroppo si misero male. Tutti i com-<br />

245


pagni del CAR mi abbandonarono. Io solo di tutto il<br />

gruppo fui destinato alla caserma della scuola Trasmissioni.<br />

Gli altri furono dispersi in varie altre scuole, a seconda<br />

delle specializzazioni che avevano scelto o che le<br />

autorità avevano loro assegnato in base alle attitudini.<br />

Mi lasciò perplesso comunque il fatto che nessuno<br />

frequentasse il mio corso. Sapevo solo che chi era andato<br />

bene nelle selezioni di Cagliari aveva il diritto di frequentare<br />

il corso di specializzazione che ognuno aveva<br />

specificato nella domanda. Sul momento pensai che tutti<br />

i miei compagni del CAR di Siena a Cagliari avessero<br />

offerto una prova mediocre. Invece si trattava di un<br />

equivoco.<br />

Quando compilammo la domanda zio Gellòn ed io ci<br />

lasciammo trasportare dai paroloni e scegliemmo una<br />

specializzazione che alla nostra fantasia suonava come<br />

qualcosa di originale, di fantastico: Radiomontatore!<br />

Certo. Senz’altro. Era una delle più belle e fra le più attuali,<br />

rispetto a quelle di armaiuolo o di zappatore. Però,<br />

nella foga della scelta non ci accorgemmo per nulla<br />

che per la specializzazione di radiomontatore ci voleva<br />

la terza media.<br />

Seppi la cosa all’improvviso all’inizio del corso. I miei<br />

compagni del CAR di Siena erano andati bene e avevano<br />

compilato bene anche le loro domande scegliendosi<br />

una specializzazione in base alla propria cultura.<br />

Così rimasi di nuovo solo: unico allievo del corso con<br />

la V elementare (l’avessi almeno digerita).<br />

Fu un affronto senza colpa. La sbadataggine di zio<br />

Gellòn e la negligenza burocratica dell’esercito mi coinvolsero<br />

in un’impresa superiore alle mie forze.<br />

246<br />

I superiori ignoravano la mia situazione. Per loro era<br />

scontato che chi era lì avesse fatto la terza media. Io d’altra<br />

parte cercavo di nascondermi. E così, stranamente,<br />

l’aula che frequentai con una certa consapevolezza fu<br />

quella della scuola di Trasmissioni. Lì era tutto puntuale<br />

peggio della scuola del babbo a Baddhevrùstana.<br />

La mattina, preso il caffè, con il solito bromuro, per<br />

rintuzzare la nostra smania sessuale, alle sette ci inquadravano<br />

e ci conducevano in aula.<br />

Ognuno si sedeva al suo posto. Finalmente anch’io<br />

potevo sedere su un banco davanti a una lavagna con il<br />

gesso e la cimosa. L’unico sconforto era quell’equivoco<br />

e la perdita degli amici del CAR. Sardi ce n’erano anche<br />

lì, provenienti da altri CAR, ma non li conoscevo. E in<br />

quell’aula mi sentivo un estraneo, un intruso. Gli altri<br />

erano veramente diversi da me. Ce n’erano addirittura<br />

alcuni che avevano fatto studi superiori.<br />

E anche se nel mio intimo contavo molto sulla mia<br />

rabbia, sulla mia volontà e sulla mia applicazione, ero<br />

davvero preoccupato: non ero in regola. L’inizio del corso<br />

fu veramente un temporale di lampi e di tuoni che<br />

bombardò la mia mente con parole strane, incomprensibili,<br />

quasi magiche: atomi, elettroni, nuclei, reazioni<br />

fisiche.<br />

Le parole del tenente che teneva il corso di elettrologia,<br />

mi affascinavano, anzi, mi ammaliavano, ma non le<br />

capivo.<br />

– Se c’è qualcuno che non ha capito qualcosa, – diceva<br />

alla fine di ogni argomento, – me lo dica adesso. Coraggio.<br />

– Magari! – facevo a me stesso. Nell’aula, però regna-<br />

247


va il silenzio più profondo. Ognuno aveva paura di manifestare<br />

scarsa perspicacia, mentre io dovevo rimanere<br />

nel mio silenzio e nella mia ignoranza completa. Al<br />

CAR ci avevano insegnato a dire sempre signorsì. Rispondere<br />

negativamente al tenente ci sembrava un’infrazione.<br />

– Siete tutti bravi, – concludeva lui. – Meglio così.<br />

Guardate, ragazzi, fra venti giorni incomincerò ad interrogare,<br />

se non avete capito qualcosa fate bene a dirmelo<br />

subito.<br />

Nulla da fare: la paura di pronunciare “no” era troppo<br />

grande e sulla nostra ignoranza si accumulava il silenzio<br />

del dubbio.<br />

La mia testa continuava a riempirsi di parole strane<br />

che imparavo a memoria, senza capirne il senso e avevo<br />

deciso di fare come facevano le vecchie di Sìligo che<br />

nonostante fossero analfabete ripetevano in latino l’Ave<br />

Maria o il Pater noster. Non avevo altra scelta.<br />

Con il passare dei giorni mandare a memoria cose di<br />

cui non capivo il senso e ripeterle al tenente come preghiere<br />

stava divenendo sempre più difficile. Le lezioni<br />

si susseguivano a ritmo incalzante. Non riuscivo più a<br />

contenere le nuove preghiere.<br />

– Oggi – fece il tenente, – vi spiego la legge di Ohm.<br />

È molto importante. Se capite questa legge capirete subito<br />

l’elettrologia. – Si fece alla lavagna e scrisse la formula.<br />

– Come vedete è una semplice moltiplicazione.<br />

– Moltiplicazione? Roba da pazzi. Non ci capisco più<br />

nulla. Una moltiplicazione così io non l’ho mai vista, –<br />

dissi disperatamente nel mio silenzio.<br />

– Avete capito tutti? Se qualcuno non ha capito me lo<br />

248<br />

dica subito. Cercherò di essere più chiaro. Se no, vado<br />

avanti.<br />

Tutti zittirono, come al solito.<br />

Ma io che ero sui banchi dai mormorii sentivo che anche<br />

gli altri non avevano capito. Io non dovevo salvare la<br />

mia perspicacia. Era buio assoluto e sollevai il braccio.<br />

– Di’ pure, Ledda.<br />

– Non ho capito nulla, signor tenente.<br />

– Oh! finalmente uno che ha coraggio!<br />

Fece un riepilogo della lezione che però servì solo<br />

agli altri. Io non l’avrei potuta capire allora in quell’aula.<br />

Simili scene tra me ed il tenente si ripetevano spesso.<br />

La mia ignoranza e la mia inutile volontà di capire servivano<br />

bene alla situazione. Almeno c’era uno che spesso<br />

diceva “no”, che si traduceva in un utile riepilogo,<br />

ma solo per gli altri.<br />

Il tempo passava. Il programma cresceva e io mi stavo<br />

smarrendo in quella selva di argomenti e di leggi. La sera<br />

quando si ritornava nelle camerate, dopo cena, pregavo<br />

qualche amico perché mi spiegasse qualcosa. Ma<br />

un po’ perché non lo sapevano, un po’ per gelosia e per<br />

eliminare un concorrente, nessuno mi “dava ripetizioni”.<br />

Ad alcuni addirittura avevo promesso metà della<br />

decade, ma non c’era nulla da fare. Ognuno lì pensava<br />

solo a se stesso. Un vero problema. Leggevo e rileggevo<br />

le dispense, ma oltre a non capire le leggi e le formule,<br />

non ero in grado nemmeno di capire il senso delle parole.<br />

Di notte, quando tutti dormivano, mi rinchiudevo<br />

nei gabinetti per studiare clandestinamente. Era l’unico<br />

posto dove di notte la luce rimaneva sempre accesa.<br />

C’era sempre molto silenzio. E lì assorto e penando cer-<br />

249


cavo di capire qualcosa e di ricordarmi le spiegazioni<br />

che di giorno ci faceva il tenente. Tutti i miei sforzi però<br />

erano inutili. I miei pianti solitari, le dispense bagnate<br />

dalle lacrime della mia rabbia e il silenzio profondo, interrotto<br />

solo dalle scariche dei WC, non mi potevano<br />

aiutare.<br />

“Chi sa come andrà a finire? Se non supero il corso mi<br />

prosciolgono e dopo i diciotto mesi regolamentari mi rimanderanno<br />

a Baddhevrùstana a fare quello che facevo<br />

prima sotto la furia di mio padre. Ce la devo mettere tutta.<br />

Solo che non so cosa mettere. Se avessi soldi andrei a<br />

ripetizione fuori, la sera, la domenica. I miei compagni<br />

la matematica la sanno, io no. Il corso, ora mi sta interessando.<br />

Se lo finisco, farò come ha detto il comandante<br />

di Siena: a fine ferma ritornerò a Sìligo a riparare le radio.<br />

Ne vale la pena. Sarò unico lì e avrò da lavorare. Altrimenti<br />

mi toccherà rifare il pastore con il pensiero rivolto<br />

ad emigrare altrove. E, poi, la gente di Sìligo me ne<br />

dirà di tutti i colori: Il figlio di Abramo non è riuscito<br />

nemmeno a passare sergente. Bel montone. C’è passato<br />

anche mio padre che non sapeva né leggere né scrivere.”<br />

Era come se li stessi sentendo.<br />

Ora a Roma avevo veramente capito cosa l’esercito<br />

mi avrebbe offerto e volevo sfruttare l’occasione a tutti<br />

i costi. Tra i compagni di corso c’era un certo Toti che<br />

era il più bravo del corso e da civile aveva fatto il radiotecnico<br />

di professione. Il silenzio dei gabinetti mi fece<br />

pensare a lui e nella mia disperazione ora sembrava che<br />

lui si fosse arruolato per aiutare me. Il programma del<br />

corso per lui era un ripasso: una passeggiata. Così come<br />

250<br />

per me erano tutte quelle corse che mi avevano fatto fare<br />

al CAR. La radio la conosceva pezzo per pezzo. Era<br />

uno di quegli appassionati capaci di trascorrere un’intera<br />

notte per smontare e rimontare questa o quell’altra<br />

parte dell’apparecchio solo per la curiosità di vedere o<br />

rivedere come fosse fatta e come funzionasse.<br />

Gli spiegai la mia situazione con le lacrime agli occhi.<br />

– Se sono il più ignorante del corso la colpa non è mia.<br />

Voi avete tutti studiato. A me è qui che mi capita di studiare<br />

veramente per la prima volta.<br />

– Ma come mai ti hanno arruolato senza la terza media?<br />

– Ma non lo so! Ti dico sinceramente che io non sapevo<br />

che ci voleva.<br />

– Per questa specializzazione ci vuole. Hai visto quelle<br />

formule di elettrologia? Sono addirittura matematica<br />

delle scuole superiori.<br />

– Allora? Mi aiuti? Mi fai un’ora di lezione a sera. Ti<br />

do quello che posso.<br />

– Sì. Possiamo provare. Intanto da domani cambi banco.<br />

Ti metti al mio fianco, così ti posso spiegare qualcosa<br />

anche durante la lezione!<br />

La soluzione del mio problema l’avevo trovata. E<br />

mentre gli altri compagni se ne andavano al cinema della<br />

caserma, io e Toti, la sera, ci imboscavamo da qualche<br />

parte per riprendere le nostre lezioni.<br />

Con lui mi aprivo tutto e non mi vergognavo di nulla.<br />

Gli confessavo tutta la mia ignoranza anche nei minimi<br />

particolari. Era <strong>padrone</strong> della materia e mi dava anche<br />

fiducia. E tutte quelle formule per me da solo impenetrabili,<br />

con lui le valicavo. Mi smontava le valvole e i<br />

251


condensatori. Mi faceva vedere e toccare le resistenze e i<br />

trasformatori spiegandomene la funzione. Era veramente<br />

il mio maestro. L’aridità delle lezioni del tenente<br />

con lui scompariva attraverso la pratica. I mostri di<br />

quelle formule magiche che si erano creati nella mia<br />

mente e che io ripetevo solo come preghiere, durante le<br />

interrogazioni svanivano quando vedevo la radio nuda<br />

e palpavo tutti i suoi pezzi pensando alla loro funzione.<br />

Certo, non potevo improvvisare tutto il programma in<br />

una settimana. Ora, però, almeno stavo costruendo ed<br />

ero animato. Solo che nei compiti scritti precedenti avevo<br />

già rimediato due insufficienze.<br />

– Ledda, – mi disse un giorno il tenente in aula.<br />

– Comandi.<br />

– Devi presentarti dal signor capitano.<br />

– Signorsì.<br />

Tutto impaurito uscii dall’aula e mi presentai al comandante<br />

di compagnia come un cane picchiato si ripresenta<br />

al <strong>padrone</strong>.<br />

– Comandi, signor capitano.<br />

– Ah! Sei Ledda? Come mai non studi? – Incominciò<br />

ripetendomi il solito cicchettone riservato a quelli che in<br />

caserma definivano lavativi. – Io sono costretto a mandarti<br />

via dal corso. Lo sai che secondo il regolamento<br />

dopo tre insufficienze per scarso profitto un allievo<br />

viene prosciolto? Subentra come soldato regolare di<br />

leva. Finiti i diciotto mesi ritorna a casa. E poi, stavo<br />

dando un’occhiata ai tuoi scritti. Sono un orrore. Si<br />

leggono solo a pezzi. Non si capisce cosa vuoi dire. Errori<br />

di ortografia a non finire. Non ho mai visto compiti<br />

così confusi.<br />

252<br />

Io mi ascoltavo in silenzio la sua “lezione” con il nodo<br />

alla gola. Tremavo e non riuscivo a rispondergli. Non<br />

ero capace di giustificarmi. Ci pensarono, però, la circostanza<br />

e la necessità.<br />

– Signor capitano, io studio notte e giorno.<br />

– Come notte e giorno? La notte, i miei soldati li faccio<br />

dormire.<br />

– Ma io me ne vado nei gabinetti. C’è la luce.<br />

– Ma è roba da pazzi! Ti dovrei punire anche per questo.<br />

Ma... poi, questo non cambia per nulla la tua situazione,<br />

anzi. Studi anche di notte e sei l’ultimo del corso?<br />

– Io ho solo la V elementare. Quelle formule e molte<br />

altre cose io non le ho mai fatte. Io ancora non so scrivere<br />

correttamente. Gli altri prendono appunti mentre<br />

il tenente spiega. Io non ci riesco a scrivere in fretta.<br />

– Ma, come, non hai la terza media?<br />

– Signornò.<br />

– Impossibile.<br />

Si tuffò sulle sue cartelle e lesse le mie.<br />

– E come è possibile? Come mai ti hanno mandato<br />

qui a fare il corso di radiomontatore? Tu non lo puoi fare.<br />

E tu non potevi dirlo prima?<br />

– Io non ne ho colpa... I superiori...<br />

– Certo! Tu non hai colpa. Ma guarda quante cose<br />

succedono nel nostro esercito. Questa deve essere una<br />

svista. Ora capisco perché scrivi così. Io comunque non<br />

ci posso fare nulla. Prenderai la terza insufficienza e ti<br />

manderò da qualche parte a farti il regolare servizio di<br />

leva.<br />

– Ma signor capitano, io... ora sto andando bene. Sto<br />

incominciando a capire la materia proprio adesso. La<br />

253


prego di darmi ancora un mese di tempo. Ci riuscirò.<br />

Glielo prometto.<br />

– La tua proposta mi commuove, ma tu non potrai fare<br />

di meglio. Ormai il corso è già iniziato da due mesi.<br />

Man mano che passa il tempo, diventa sempre più difficile.<br />

Tu sei rimasto indietro. Non potrai recuperare. E<br />

un corso accelerato, per gente che ha già una certa preparazione.<br />

Ledda. Tu devi ancora imparare a scrivere.<br />

– Ma io ora ho un amico che mi sta aiutando e mi<br />

spiega tutte le cose che non capisco in aula. Le prometto<br />

che ce la farò. Ce la metterò tutta. Ogni sera mi fa<br />

un’ora di lezione.<br />

– Chi è quest’amico?<br />

– Toti.<br />

– Ahm! È molto bravo. Me lo ha detto il tenente. Ma<br />

tu non ci puoi stare. Sei stato arruolato come radiomontatore<br />

per sbaglio, lo capisci?<br />

– Sì, ma, ora, sono qui e durante le vacanze di Natale<br />

mi metto sotto anziché andare in licenza.<br />

– Va bene. Io ti concedo un altro mese. Però devi fare<br />

almeno un compito scritto con la sufficienza. Non credo<br />

che ce la farai. Il corso è al di sopra della tua preparazione.<br />

Ora ritorna in aula. Io attenderò la tua prova.<br />

– Grazie, signor capitano. Comandi.<br />

– Comunque, Ledda, devi considerarti consegnato<br />

per le due insufficienze. Me lo impone il regolamento.<br />

– Signorsì.<br />

Della punizione a me non importava un bel nulla. E<br />

tutto contento ritornai in aula come un cane sguinzagliato<br />

ad inseguire la preda. Ora finalmente potevo giocare<br />

la mia carta: la mia volontà.<br />

254<br />

Ripresi a studiare veramente come un forsennato. La<br />

presenza di Toti mi infuriava e gli stavo dietro come un<br />

cucciolo. E nel silenzio dei gabinetti, ora, proprio come<br />

un cane da caccia ustavo l’interpretazione di quelle formule<br />

che mi aveva dato lui e riuscivo a scovare la preda<br />

da quella selva di paroloni che non avevo mai sentito.<br />

Spesso uscivo in libera uscita con Toti e tra uno svago<br />

e l’altro, io facevo cadere il discorso sempre sulle valvole,<br />

sui circuiti oscillanti, sulle frequenze. Lui non si stufava<br />

mai. Mi spiegava tutto minuziosamente con la logica<br />

dell’esperienza.<br />

– Il tenente, – diceva Toti, – conosce solo la teoria. Se<br />

gli metti davanti una radio guasta, mica te la sa riparare.<br />

– Domani abbiamo il terzo scritto. Se non prendo la<br />

sufficienza il capitano mi manda via.<br />

– Tu sei vicino a me, no? Se ti serve aiuto, sotto voce si<br />

può fare qualcosa. Il tenente lascia un po’ correre. Io ti<br />

metto il mio foglio in modo che tu lo possa leggere. Però<br />

non devi copiare. Devi dire la stessa cosa con altre<br />

parole.<br />

– Sì, va bene, ma io... non riesco a leggere la scrittura<br />

di un altro. La leggo male e solo con calma. In aula bisogna<br />

fare in fretta. Il tuo foglio quindi non mi sarà di<br />

aiuto.<br />

– Allora i risultati te li dirò a voce. Tu moltiplicherai o<br />

sottrarrai e basta.<br />

Così si fece il terzo scritto, decisivo per me. E pensando<br />

affannosamente in sardo e traducendo malamente<br />

in italiano formule e parole grazie alle sbirciate che davo<br />

al foglio di Toti e ai procedimenti che lui mi suggeriva,<br />

riuscii a prendere la sufficienza che mi garantiva di<br />

255


proseguire. Una bella prova che soddisfò inaspettatamente<br />

il capitano e soprattutto Toti, che scocciavo in<br />

modo quasi ossessionante.<br />

Al quarto mese si passò alla pratica. Finalmente quelle<br />

formule finirono. Ci dotarono degli strumenti tecnici<br />

e del materiale e si incominciò a montare la prima radio<br />

a due valvole.<br />

Al tenente subentrò un sergente maggiore che era<br />

molto bravo. E umanamente ci capiva più dell’ufficiale.<br />

Si ricordava ancora delle difficoltà di noi allievi. Con<br />

molta cura disegnò sulla lavagna lo schema pratico di<br />

montaggio così bene che sembrava il plastico di una radio<br />

smembrata. Le varie categorie di componenti erano<br />

distinte da un colore: numerati i loro terminali. Il<br />

nostro lavoro risultò così molto facilitato. Una semplice<br />

saldatura in ordine numerico. La preoccupazione di<br />

ciascuno era quella di far bene le saldature e soprattutto<br />

di non causare contatti tra i vari pezzi. Fare un cortocircuito<br />

significava una insufficienza nella prova e<br />

incorrere nella punizione del capitano che non volevo<br />

più deludere. Del mio caso aveva fatto una cosa a parte.<br />

Con il passare dei giorni, la radiolina nel suo groviglio<br />

di fili e di pezzi cresceva sempre. Io naturalmente<br />

facevo l’attento pappagallo di Toti, che mi controllava<br />

quasi tutto. Finalmente si arrivò a collegare con l’ultimo<br />

numero anche l’ultimo pezzo. L’apparecchio era<br />

completo.<br />

Che lo fosse, però, mi sembrava strano. Nella sua nu-<br />

256<br />

dità mi appariva estraneo all’idea concreta che fino ad<br />

allora avevo della radio. Sia pure di sfuggita l’avevo<br />

sempre vista ed ascoltata dentro il suo involucro.<br />

– Ora, – fece il sergente, – vi concedo un’ora di tempo<br />

per effettuare tutti i controlli che volete. Poi le proveremo<br />

tutte una alla volta e insieme.<br />

L’ora finì in un silenzio raccolto. Tutti intenti a controllare<br />

fili e resistenze: se il contatto lo facevano dove<br />

lo dovevano fare e se non lo facevano dove non lo dovevano<br />

fare.<br />

– L’ora è finita. Inserite la spina nella presa. Ognuno<br />

stia composto, al proprio posto. Sarò io ad accenderle<br />

una per una.<br />

Tutti eseguimmo quell’ordine. Ma quando lui incominciò<br />

banco per banco ad accendere le radio azionando<br />

l’interruttore, la preoccupazione fu generale. C’era<br />

poco da scherzare: la corrente non tollerava il minimo<br />

errore nelle sue rigide leggi. Il sergente aveva già controllato<br />

metà delle radio e metà degli allievi stavano ancora<br />

in ansia. Qualche radio non aveva funzionato; altre<br />

avevano fatto cortocircuito; altre invece avevano<br />

suonato e cantato.<br />

Io stavo lì a fianco di Toti in attesa di sapere cosa<br />

avrebbe fatto la mia. Lui mi aveva controllato molte cose,<br />

ma altre le avevo fatte da solo.<br />

Il sergente si stava avvicinando sempre di più al mio<br />

banco e io fremevo. Finalmente con portamento tranquillo<br />

giunse anche davanti alla mia. Azionò l’interruttore.<br />

Tra il mio stupore ed il mio entusiasmo le sue valvole<br />

si illuminarono e si mise subito a cantare una bella<br />

canzone: nuda così com’era. Mi sembrava impossibile<br />

257


che quei fili potessero cantare, eppure stavano cantando<br />

la mia gioia.<br />

La prova era superata. In un attimo mi sentii come<br />

se avessi digerito tutte quelle formule e come se tutta<br />

l’elettrologia con le sue leggi avesse perso quel valore<br />

magico che per me aveva avuto fino ad allora. La radio<br />

stava funzionando con la sua musica e mi stava riempendo<br />

di orgoglio. E subito nel petto sentii un calore<br />

ed un tremore che mi scosse tutto. Impalato,<br />

mentre il sergente proseguiva nella sua opera, trattenni<br />

le lacrime a stento.<br />

Fu la prima volta che mi accadeva di vincere, mentre<br />

altri avevano perso in quell’aula dove i miei compagni<br />

avevano sghignazzato più volte sul mio affannoso,<br />

asmatico italiano, durante le interrogazioni. Era la<br />

prima prova importante in cui non avevo commesso<br />

errori e non risultai più l’ultimo. Toti mi abbracciò e<br />

da quel giorno fu orgoglioso e fiero di me.<br />

Il corso durò fino a tutto giugno. Il sergente ci insegnò<br />

a leggere gli schemi delle principali radio trasmittenti<br />

e riceventi in dotazione all’esercito. E dopo tanta<br />

tensione, ansia e sofferenza, durante il corso ci fu<br />

un periodo di sollievo per tutti, particolarmente denso<br />

di esercitazioni all’aperto in campagna e sui boschi<br />

dove degli istruttori ci impratichivano nell’effettuare i<br />

contatti tra reparti mobili muniti di radio portatili e<br />

postazioni radio.<br />

Durante queste esercitazioni io approfittavo, come<br />

sempre, per apprendere l’italiano e tutto orecchi mi<br />

imprimevo nella mente la dizione esatta di ogni singola<br />

parola cercando di imitare la cadenza e le pause di<br />

258<br />

quelli che erano più bravi. Come lo stesso comandante<br />

o qualche soldato diplomato o laureato. Esprimere finalmente<br />

a voce alta, in italiano perfetto, quei messaggi<br />

in un bosco più o meno simile a quello di Baddhevrùstana<br />

era un orgoglio inesprimibile. Finalmente tra le<br />

querce, sugheri e tante piante simili a quelle che mi avevano<br />

fatto compagnia nella solitudine di Baddhevrùstana,<br />

dietro il gregge, parlavo in italiano con la gente. Non<br />

avevo più bisogno di parlare alle querce pensando silenziosamente<br />

in sardo. Incominciavo a sentirmi già mezzo<br />

italiano.<br />

A fine giugno l’esame finale. Promosso con 15/20.<br />

L’impresa che mi fece tanto disperare e soffrire divenne<br />

mia. E insieme a quella della fisarmonica che avevo<br />

realizzato quasi da solo a Baddhevrùstana, anche questa<br />

mi penetrò come una fiamma e incominciò a bruciare<br />

la paura che avevo di essere diverso dagli altri. Il primo<br />

passo sociale fuori dal mio campo si sommò alla<br />

conquista che avevo fatto nel bosco e me lo sentivo come<br />

un mucchio di legna già pronta per fare altri fuochi.<br />

A fine corso ci diedero un mese di licenza. Fu il primo<br />

mese di libertà della mia vita. E per la prima volta<br />

dopo quasi un anno da quando consegnai i buoi a mio<br />

fratello Filippo, dopo avere lanciato sul carro frettolosamente<br />

i covoni dell’ultima bica, ritornai a Sìligo. La<br />

famiglia nel frattempo era ritornata in paese. Finalmente,<br />

potevo mangiare e dormire nella casa in cui ero<br />

nato e trascorrere intere giornate ed intere notti nel<br />

mio paese natio. Amici ne trovai pochi. Quasi tutti era-<br />

259


no emigrati. Sìligo mi sembrava invecchiato. I soliti<br />

vecchi tutti i giorni lo attraversavano con i loro somari<br />

per raggiungere i loro campi. E in pieno giorno in paese<br />

c’erano solo le donne. I giovani che non erano emigrati<br />

li potevo vedere appesi sulle pareti del paese, sui manifesti:<br />

ricercati.<br />

Durante la licenza cercai di togliermi una curiosità:<br />

quali erano stati i motivi che avevano indotto mio padre<br />

a tornare con la famiglia in paese? Quel settembre a<br />

Baddhevrùstana per tre giorni divampò il fuoco, ora<br />

sulla capanna ora sul baraccone ora sulla loggia del fieno.<br />

Sia da quello che riuscii a sapere in paese sia dal fatto<br />

che i cani non abbaiarono mai, bisogna dedurre che<br />

responsabile del fatto era la famiglia stessa. E la cosa<br />

più assurda era che il fuoco divampava sotto gli occhi<br />

del patriarca sullo spiazzo a fucile spianato in cerca dei<br />

piromani o comunque dei responsabili. Con particolari<br />

accorgimenti, con corde che si accendevano o con<br />

candele poste nei punti meno impensati quando si consumavano<br />

davano fuoco quasi ad orario stabilito:<br />

quando il patriarca si trovava ad avere la famiglia tutta<br />

immersa nel sonno. In tali frangenti non pensò che responsabile<br />

fosse la famiglia. Sarebbe stato come perdere<br />

la sua dignità. E poi non poteva pensare a una simile<br />

soluzione, convinto come era di esercitare una autorità<br />

assoluta sulla famiglia. Più tardi forse ci avrà pensato,<br />

ma per allora fece più o meno questo ragionamento:<br />

“Soliti dispetti dei vicini invidiosi di quello che ho<br />

fatto: del raccolto... delle pecore... me le volevano bruciare<br />

nel recinto. Ormai la famiglia bene o male l’ho<br />

cresciuta. Stando così le cose, è venuta l’ora di vendere<br />

260<br />

tutto e ritornare in paese. Il bestiame prima che me lo<br />

rubino davvero me lo vendo, cazzo! I soldi me li metto<br />

in banca, cazzo! Ehee! Lì non me li bruciano! Il mio lavoro<br />

non se lo tracanna un miserabile che non l’ha sudato,<br />

cazzo!”<br />

D’altra parte doveva mettere al riparo il gruzzolo per<br />

la sua vecchiaia e agì a mente calda. Con il suo solito fare<br />

titanico incominciò l’opera di demolizione senza accorgersi<br />

che stava distruggendo il suo regno: in un solo<br />

giorno a Baddhevrùstana distrusse e abbandonò quanto<br />

vi aveva fatto nella sua vita scardinando porte e<br />

quanto c’era per portare tutto a Sìligo. Vi lasciò solo i<br />

muri e lasciò Baddhevrùstana sprezzando le sue “creature<br />

morte”.<br />

Con questo stratagemma la famiglia riuscì abilmente<br />

a far passare per abituale “dispetto pastorale” una cosa<br />

che aveva architettato contro il suo tiranno per far cessare<br />

una situazione che non poteva più sopportare e<br />

che ormai non era più giustificata. E per fortuna riuscirono<br />

a snidare il loro <strong>padrone</strong> dalla tana in cui sicuramente<br />

sarebbe rimasto ancora per molto: era il terreno<br />

su cui gli era più facile esercitare il suo comando e probabilmente<br />

avrebbe preferito morirvi da re.<br />

Quando seppi esattamente come erano andate le cose<br />

fui colpito da un solo fatto: dal coraggio dei miei fratelli.<br />

Io allora non sarei riuscito a fare simili cose. La<br />

chimera patriarcale avrebbe soffocato ogni tentativo<br />

sul nascere.<br />

Eppure la mia partenza dopo soli tre mesi aveva rotto<br />

completamente l’equilibrio gerarchico su cui la famiglia<br />

aveva sempre ruotato a senso unico e sicuramente<br />

261


la rivalsa e la vittoria dei miei fratelli fu il frutto delle<br />

mie sconfitte e della mia annosa soggezione all’autorità<br />

patriarcale: nell’inconscio dei miei fratelli fu come se<br />

mi avessero vendicato.<br />

Finita la licenza, il primo periodo in cui durante la<br />

mia vita ebbi l’occasione di giocare (e che bene o male<br />

mi aveva offerto l’esercito), la naja continuò regolarmente.<br />

Come tutti i compagni di corso ritornai alla<br />

Cecchignola. Da lì ciascuno avrebbe preso la via verso i<br />

vari reggimenti in attesa di fare il corso sottufficiali alla<br />

scuola di Rieti. Ognuno sia pure relativamente poteva<br />

scegliersi la sede. A me non andava di finire nel settentrione.<br />

C’era un posto alla scuola di Rieti e fortunatamente<br />

non ebbi concorrenti.<br />

– Nel Reggimento si sta meglio, – dicevano tutti i miei<br />

compagni. Io, però, quel posto me lo presi quasi gelosamente<br />

preferendolo a quello di Gradisca. Dovevo incominciare<br />

gli studi. Avevo bisogno di dirozzarmi e Rieti<br />

me ne offrì tutte le possibilità: era sempre una scuola e a<br />

me andava bene. Fu la mia fortuna. Vi giunsi caporaletto<br />

ancora imberbe e fui assegnato alla Compagnia Comando,<br />

cioè a quella compagnia che nelle caserme è<br />

composta dai cosiddetti “imboscati”: attendenti, militari<br />

d’ufficio, sciacquini, ecc.<br />

Le mie mansioni: garantire la funzionalità del deposito<br />

radio. Siccome era piccolo e poco fornito, la manutenzione<br />

del materiale richiedeva poco tempo. Tutte le<br />

sofferenze e le amarezze che il corso radiomontatore<br />

mi aveva causato alla Cecchignola vennero compensate<br />

dalla serenità di Rieti.<br />

La mattina presto, dopo l’adunata me ne andavo al<br />

262<br />

deposito: una stanza dove stavo sempre solo tra poche<br />

batterie e alcune stazioni radio. Non mi controllava<br />

nessuno. Solo raramente il tenente delle trasmissioni<br />

veniva a fare una ispezione. Le radio, però, non si usavano<br />

mai e naturalmente non potevano guastarsi. Il<br />

mio lavoro si riduceva allora solo a spolverare il materiale<br />

in dotazione.<br />

Il mio deposito, poi, lo ignoravano quasi tutti i superiori.<br />

Era stato messo su poco prima che vi giungessi ed<br />

era un’oasi dove la vita militare non faceva capolino.<br />

Solo gli ordini degli ufficiali e gli schiocchi dei piedi degli<br />

allievi di corso vi giungevano attutiti.<br />

Nella solitudine libera e serena di quel deposito, fortunatamente<br />

ancora ignorato e risparmiato dai rumori<br />

e dagli ordini, concepii il mio grande progetto: lo studio.<br />

La fisarmonica se l’avessi studiata con un maestro l’avrei<br />

suonata come un maestro. La radio se continuo a<br />

studiarla la potrò conoscere quanto Toti.<br />

Con la decade mi comprerò i libri. Qui mi sono fatto<br />

degli amici che hanno fatto il liceo o sono maestri. Come<br />

Toti è riuscito a farmi superare il corso di radiomontatore<br />

loro potranno aiutarmi ad apprendere l’italiano<br />

e tante altre cose. Non posso perdere quest’occasione<br />

che mi offre la caserma. Questi erano i soliloqui<br />

in cui esprimevo la scoperta di poter divenire diverso,<br />

anche se nutrivo ancora un certo disappunto per non<br />

sapermi esprimere con gli altri.<br />

Un giorno il Capitano Federici, comandante della<br />

mia compagnia, mi ordinò di spargere l’insetticida<br />

nelle camerate e nei magazzini infestati dalle formiche.<br />

263


Finita l’operazione tutto sollecito, ritornai dal capitano<br />

e impalatomi sull’attenti, rigido come un tronco<br />

d’albero, gli dissi:<br />

– Ho morto tutte le formiche, signor capitano.<br />

Al che lui, seduto sulla sua scrivania, alzò la testa,<br />

sgranò gli occhi e mi rimbrottò come se avessi insultato<br />

l’italiano.<br />

– Come sarebbe a dire, ho morto le formiche? Tu, hai<br />

ucciso le formiche!<br />

– Signorsì.<br />

– Tu vieni dalle spelonche, Ledda.<br />

– Signorsì.<br />

Altro episodio. Ero caporale di giornata e ispezionando<br />

la camerata trovai una porta con la maniglia rotta.<br />

Era mio dovere fare un rapportino al comandante<br />

in modo che provvedesse alla riparazione. Presi carta e<br />

penna e mi scervellai veramente per buttare giù due righe.<br />

– La maniglia della porta si è tagliata. Firmato cap. G.<br />

Ledda.<br />

Il capitano mi fece chiamare.<br />

– Comandi, signor capitano, – feci appena entrato nel<br />

suo ufficio.<br />

– Il tuo rapporto io non lo capisco. Come fa a tagliarsi<br />

la maniglia della porta? Forse si sarà rotta?<br />

– Sì, è così!<br />

– Ma come fai, a esprimerti così? Cerca di imparare a<br />

parlare e a scrivere. Qui ci sono maestri e letterati, fatti<br />

spiegare qualcosa. Tu dovrai fare il corso sottufficiali a<br />

novembre prossimo e con il tuo italiano non passerai<br />

tanto bene. Cerca di farlo, ma subito, capito?<br />

264<br />

– Signorsì.<br />

Bisognava farlo veramente. Nella Scuola sottufficiali a<br />

Rieti feci conoscenza con un maestro di Poggiobustone,<br />

Ottavio Gentileschi. Un ragazzo simpatico e molto preparato.<br />

Si entusiasmò del mio entusiasmo. Gli faceva un<br />

immenso piacere trasmettere la sua cultura a qualcuno,<br />

in mezzo a tanta inerzia casermesca. Veniva nel mio deposito<br />

per godersi un po’ di silenzio. E incominciammo<br />

le lezioni da zero. Io lo pedinavo dappertutto non<br />

appena nel libro non capivo qualcosa. Ma quell’estate<br />

Ottavio riuscì a sottrarmi all’analfabetismo e a riportarmi<br />

forse anche al di sopra di uno che aveva frequentato<br />

le elementari regolarmente.<br />

– Fai ancora degli errori, ma per il corso sottufficiali<br />

te la caverai. Ora la quinta elementare ce l’hai veramente.<br />

L’analisi logica la conosci bene e la matematica la <strong>padrone</strong>ggi.<br />

Se vuoi, ti seguirò anche durante il corso.<br />

– Sì, certo! Ti pagherò con la decade.<br />

– A me bastano le sigarette.<br />

A novembre tutti i volontari arruolatisi nel luglio del<br />

’58 giunsero a Rieti per fare il corso di sergente, dove io<br />

già stavo da luglio. Vennero anche i miei compagni della<br />

Cecchignola. Rividi Toti, ma fu assegnato a un’altra<br />

compagnia e la nostra amicizia svanì nel caos del corso.<br />

Finalmente rividi anche i compagni sardi del CAR. Di<br />

loro, però, ormai non avevo più bisogno: l’italiano ormai<br />

lo sapevo belare anch’io.<br />

Per tre giorni la caserma formicolò di allievi provenienti<br />

dai vari reggimenti. Le compagnie si riformarono<br />

e anche per noi incominciò il corso sottufficiali. Io, rispetto<br />

a molti altri, ora, partivo in vantaggio: conoscevo<br />

265


l’italiano più di altri pastori sardi, conoscevo l’ambiente<br />

della scuola e il tenente delle trasmissioni mi volle<br />

nella sua compagnia. La caserma ritornò nella sua abituale<br />

temperie militare: squilli di tromba, adunate concitate,<br />

esercitazioni di vario genere. Di nuovo addestramento<br />

formale: marce forzate ed esercizi ginnici come<br />

al CAR.<br />

La caserma echeggiava sotto la marcia dei soldati ora<br />

dell’una ora dell’altra compagnia. Il cortile percosso da<br />

centinaia di piedi rimbombava continuamente degli<br />

ordini dei comandanti: un vero campo battuto da cacciatori<br />

e da cani che inseguivano la selvaggina. Dopo<br />

un piccolo ripasso delle cose che già avevamo fatto al<br />

CAR, incominciò il corso vero e proprio. Le aule erano<br />

belle e spaziose.<br />

Alcuni ancora semianalfabeti, anche se avevano frequentato<br />

la quinta elementare, non ressero al ritmo dello<br />

studio e delle rigide interrogazioni: quasi sfide tra allievo<br />

e superiore.<br />

Per gli ufficiali l’uomo non esisteva. Esistevano solo i<br />

soldati. Gli allievi dovevano finire il programma in tre<br />

mesi. Il crollo dei più arretrati era inevitabile. Ma appena<br />

uno cadeva nel sonno e tonfava sul banco, veniva severamente<br />

punito. Bisognava dare l’esempio. Poco importava<br />

che l’allievo fosse più addormentato del banco<br />

o che talora fosse più saggio mandarlo a dormire invece<br />

di sbatterlo dentro.<br />

Quello squilibrio da disadattato che avevo subito alla<br />

scuola delle trasmissioni, ora alla scuola di Rieti era un<br />

fenomeno generale, per tutti quelli che avevano fatto la<br />

quinta e non erano abituati a studiare.<br />

266<br />

Per me ora era diverso. Grazie allo sforzo fatto alla<br />

Cecchignola e durante le lezioni di Ottavio, mi ero abituato<br />

allo studio. Molte materie avevo incominciato a<br />

studiarle già prima che il corso iniziasse. Il capitano Federici<br />

mi aveva fatto fare un corso di regolamenti ai soldati<br />

della compagnia. E quel corso mi servì per mettermi<br />

in contatto diretto con gli altri: a parlare e a sentir<br />

parlare. Certo era un assurdo. Tra i soldati cui facevo<br />

regolamenti c’erano dei diplomati e dei laureati. Ma io<br />

ero già caporal maggiore. Ero superiore. Avevo i gradi<br />

che mi davano il diritto di far lezione anche ai professori.<br />

Spesso però ero io che mi facevo fare la lezione: facevo<br />

leggere a loro e ne ascoltavo la dizione. Mi facevo<br />

spiegare anche il significato di molte parole. Insomma,<br />

del mio corso di regolamenti avevo fatto una scuola anche<br />

per me, oltre che per gli altri. Non mi importava il<br />

valore di quei regolamenti. Erano scritti in italiano e mi<br />

bastava.<br />

Al corso sottufficiali, mi presentai con le zanne affilate<br />

e come un cinghiale inferocito potevo irrompere dappertutto<br />

in quel groviglio di materie.<br />

Alle mie interrogazioni, ora, i compagni non ridevano<br />

più. Le mie risposte erano pronte e concise.<br />

Un giorno un capitano che ci faceva regolamenti si<br />

mise a bombardare l’aula di domande. Alla fine colpì<br />

un amico, pastore come me.<br />

– Che cosa è la bandiera?<br />

Lui scattò sul banco, ma dovette rimanere impalato<br />

con la bocca spalancata. E, con i polmoni sani e con la<br />

lingua normale, non riuscì a pronunciare la risposta.<br />

Il capitano, irrigiditosi nella sua divisa e pieno di bal-<br />

267


danza, esplose in un rimbrotto tipicamente militare.<br />

– Sei un deficiente. Imbecille. È inammissibile. Presentati<br />

immediatamente all’ufficiale di picchetto. Che<br />

ti sbatta dentro. Tre giorni di rigore. Forza, esci subito!<br />

E questo, – continuò, rivolto a noi, – valga per tutti. Io<br />

sono buono e caro, ma certe cose non le tollero. Come<br />

si fa a ignorare il significato simbolico della bandiera?<br />

Potete dimenticarvi i nomi delle vostre madri, quello<br />

dei vostri padri, dei vostri fratelli, ma non il significato<br />

della bandiera che è “il simbolo della patria”: la nostra<br />

madre comune. Lo avete capito? La bandiera va rispettata<br />

e salutata. Tutti salutano la bandiera. Essa saluta<br />

solo il capo dello stato.<br />

In tre mesi di corso i sardi ingoiarono più notizie e<br />

dati di quanti non ne avessero sentito dagli altri pastori<br />

o appreso alle scuole elementari dei loro paesi. Il corso<br />

finì a dicembre. Fummo promossi quasi tutti, e a Natale<br />

ognuno poté ritornare al paese natio per dimostrare<br />

ai propri paesani che era sergente.<br />

Ora mentre a tutti i miei compagni di corso sembrava<br />

di aver toccato il cielo con le dita, io non provai nessun<br />

entusiasmo. La promozione non suscitò in me la solita<br />

boria degli ex pastori, degli ex vegetali in divisa. Come<br />

avevano sentito dire sempre agli anziani del proprio<br />

paese, avevano risolto i loro problemi. In me era successo,<br />

però, qualcosa di cui non riuscivo allora a prevedere<br />

le conseguenze. I galloni non significarono nulla.<br />

Anzi mi ripugnavano.<br />

Ora non me la sentivo più di restare quello che ero divenuto.<br />

Volevo divenire altro: conquistare quel mondo<br />

che in divisa avevo conosciuto fuori della caserma. I<br />

268<br />

galloni produssero in me una reazione negativa e sconfortante:<br />

li vedevo già come il simbolo dell’accettazione<br />

incondizionata di uno stato che mentre prima mi<br />

aveva fatto crescere come un vegetale, ora, mi voleva<br />

come un carnivoro. Avevo addirittura paura dei galloni.<br />

Avrebbero potuto condizionare tutta la mia vita sotto<br />

il loro “misterioso” prestigio.<br />

Ritornato dalla licenza di nuovo a Rieti, non indossai<br />

i gradi come fece subito un compagno di corso, rimasto<br />

anche lui alla scuola di Rieti. Sapevo di essere già sergente<br />

con decorrenza dal primo gennaio 1960, ma fino<br />

a metà mese continuai ad aggirarmi per la caserma coi<br />

gradi di caporal maggiore.<br />

Il “mio” maggiore, in cui un giorno ebbi la sfortuna<br />

di imbattermi, mi rimbrottò energicamente.<br />

– Come mai lei non ha ancora indossato i galloni di<br />

sergente?<br />

– Non ho ricevuto nessun ordine ufficiale della mia<br />

promozione. Il capitano non mi ha detto nulla.<br />

– La sua promozione è apparsa sull’ordine del giorno<br />

da oltre una settimana. Non se lo è letto?<br />

– Signornò.<br />

– Dovrei punirla per questo. L’ordine del giorno è il<br />

giornale della caserma. Va letto tutti i giorni. Lei deve<br />

essere orgoglioso della promozione. La sua indifferenza<br />

mi sorprende. Ora vada di corsa ad indossare i galloni.<br />

– Signorsì.<br />

Era inutile. Anch’io ormai ero un sergente. Dovetti<br />

indossare i gradi e giurare fedeltà alla Repubblica italiana<br />

e al suo Capo...<br />

269


“Ma allora quella legge ora sono anch’io. Ho giurato<br />

di difenderla. Sono come gli ufficiali. Anche loro hanno<br />

fatto lo stesso giuramento.<br />

L’esercito difende quella legge. Dunque quella legge<br />

è anche l’esercito. Ma allora io sono un boia sociale.<br />

Debbo uccidere chiunque violi quella legge. Ecco che<br />

cosa sono diventato.” Diedi uno sguardo alla mia divisa,<br />

a quei galloni. Mi scossi, ma non potevo più togliermeli.<br />

Erano cuciti bene. Avessi potuto trasformarmi in<br />

servo pastore, in quel momento, lo avrei fatto subito.<br />

Mi sembrava che l’unica cosa più umana fosse quella di<br />

morire di fame e uscire al più presto da quella divisa.<br />

“Accettare la pagnotta per essere il servo di quella legge.<br />

Io non lo sapevo. Gli anziani... Bei consigli mi hanno<br />

dato. Ormai è troppo tardi. D’ora in poi, farò in modo<br />

di servirla il meno possibile, solo il tanto per non farmi<br />

sbattere dentro. La vita militare non mi interessa. Di ritorno<br />

a Sìligo, ora, non posso fare il radiotecnico. Il corso<br />

che ho fatto è una teoria e per imparare un mestiere ci<br />

vuole altro. I superiori ci dissero che l’avremmo imparato.<br />

Propaganda. La mia strada per diventare un uomo<br />

la troverò nello studio. E uscirò al più presto da questa<br />

palude di sangue venduto dove noi siamo le rane e i canti<br />

sono gli ordini ululati qua e là: concerti di pazzia.<br />

I miei compagni sono felici di essere dentro questa<br />

divisa. E qui tutti ti dicono: io sono un sergente, io sono<br />

un capitano. Va bene. Io strumentalizzerò questa divisa.<br />

Mi pagano e avrò i mezzi per studiare.”<br />

Tuttavia per me l’esercito rappresentò la prima fase<br />

di socializzazione. La vita con gli altri la conobbi lì e l’italiano<br />

ho incominciato a parlarlo come lingua dell’ar-<br />

270<br />

ma: come strumento per impormi alla truppa dando<br />

ordini e per eseguirli sottoposto ai superiori. Ora però<br />

il giuramento, la sua formula, mi squarciarono il velo:<br />

mi ero allontanato dai campi anche per divenire libero,<br />

per non sottostare più all’autorità di mio padre, e non<br />

per sottomettermi a un’altra autorità.<br />

E mentre questo strano processo di socializzazione<br />

per gli altri compagni non fu altro che un passaggio di<br />

subordinazione e di nuova sottomissione, per me ora<br />

che avevo già preso coscienza di poter divenire ancora<br />

diverso, quella socializzazione embrionale fu la scintilla<br />

della mia “rivoluzione”.<br />

Gli studi fatti con Ottavio e quelle nozioni che apprendevo<br />

piratescamente dai soldati per la caserma,<br />

sbloccarono una situazione che negli altri rimase avvolta<br />

dai gradi e dalle relative comodità che i gradi offrivano.<br />

La fortuna di incontrare soldati laureati e amici risvegliarono<br />

in me il desiderio di apprendere: i galloni<br />

non mi fagocitarono.<br />

Mi comprai i libri per la terza media e continuai a studiare<br />

sempre nel mio deposito, quando di notte tutta la<br />

caserma dormiva nella sua ignoranza sociale, quando<br />

la boria dei superiori era assopita, innocua come la fame<br />

delle cavallette sul pascolo che non possono mangiare.<br />

Di giorno, se non ero di servizio, rincorrevo qualche<br />

soldato “letterato”. Mi facevo spiegare la sintassi,<br />

la grammatica, la matematica: tutto quello che non capivo.<br />

Spesso queste reclute si scocciavano per la mia invadenza.<br />

Ero sempre un sergente, portavo un grado che<br />

alla truppa non va molto a genio. Alla fine, però, riusci-<br />

271


vo sempre a conquistarli. Spiegavo loro la mia situazione<br />

e le mie intenzioni. E allora trovavano una ragione<br />

per sentirsi utili. Con loro mi aprivo. Ed essi facevano<br />

altrettanto quando sapevano che ero lì non per far carriera,<br />

ma solo per circostanze storiche. Allora mi aiutavano<br />

veramente. E come invaso da una furia, piombavo<br />

ora su un soldato ora su un altro: per le caserme d’Italia<br />

“rubavo”, come un pirata di professione, la cultura<br />

fresca che vi portavano le reclute. E nella tetra caligine<br />

della caserma, che rimbombava di ordini e di insulti,<br />

riuscivo rabbiosamente a trovare forza e concentrazione.<br />

Tutto orecchi sorbivo tutto quello che i miei amici<br />

sapevano e mi spiegavano.<br />

Fui trasferito a Pisa, assegnato al laboratorio radio<br />

del 3° reg. di artiglieria contraerea. Il reggimento pullulava<br />

di cannoni che mi facevano rabbrividire. Ma tra<br />

quell’apparato bellico ebbi la fortuna di incontrare un<br />

superiore molto umano: il comandante del laboratorio,<br />

il sergente maggiore Buquicchio, di Bitonto.<br />

La radiotecnica non mi attirava più da quando la lasciai<br />

alla Cecchignola. Certo, con lui avrei potuto divenire<br />

anche un bravo radiotecnico. Era molto bravo sia<br />

in teoria che in pratica. Inoltre al laboratorio c’erano<br />

militari di leva di mestiere. Ma la scelta ormai l’avevo<br />

fatta. E Buquicchio, vista la mia ostinatezza, mi concedeva<br />

di intanarmi nel magazzino che avevo trasformato<br />

in uno studio. E durante le ore di servizio potevo studiare.<br />

In caso di ispezione diceva: – Ledda sta facendo<br />

l’inventario del materiale in magazzino.<br />

272<br />

Insomma, mi copriva le spalle. Mi voleva bene come<br />

a un fratello. Nella mia batteria, poi, ebbi la fortuna di<br />

incontrare Franco Manescalchi, un maestro che era anche<br />

un poeta. E mi aiutò moltissimo come tanti altri. La<br />

parlata pisana, poi, mi aiutò notevolmente ad apprendere<br />

l’italiano.<br />

Nel 1961 presentai la domanda per sostenere l’esame<br />

di terza media alla scuola “Renato Fucini” di Pisa. Avevo<br />

23 anni. L’unica difficoltà che incontrai fu la prova<br />

di disegno dal vero: un paesaggio con una civetta accovacciata<br />

non ricordo dove. Sembrava fatto per me. Civette<br />

ne avevo viste tante, ma l’ornato non avevo nemmeno<br />

pensato di prepararmelo. Negato completamente.<br />

Fatto il disegno geometrico con le proiezioni ortogonali,<br />

in cui me la cavavo abbastanza bene, strappai<br />

con astuzia alla compagna di banco il suo foglio con il<br />

paesaggio e la civetta già bene abbozzata.<br />

– Rifattelo, – bisbigliai. – Io non ci riesco: tempo ce<br />

n’è abbastanza.<br />

La ragazza, intimidita dalla mia invadenza, per fortuna<br />

non urlò. Il professore non se ne accorse. E con quel<br />

foglio tra gli artigli mi guardavo la civetta. La cosa era<br />

fatta. Mi limitai solo a mettere in risalto le linee e le ombre.<br />

La consegnai al professore e uscii esultante.<br />

Il risultato lo seppi nei pressi di Ravenna, dove il mio<br />

reggimento si era trasferito per fare le esercitazioni del<br />

campo estivo. Sommerso dai cespugli e dagli spari dei<br />

cannoni alla manica dell’aereo che passava sulla costa,<br />

nella mia postazione radio, cercavo di studiare. Mi stavo<br />

leggendo Il fuoco di D’Annunzio. Il contenuto non<br />

mi diceva nulla, ma le parole nuove che vi andavo tro-<br />

273


vando mi incuriosivano e con il vocabolario alla mano<br />

cercavo sempre di penetrarne il significato. Ogni giorno<br />

un elenco di parole nuove che conservavo e che imparavo<br />

a memoria.<br />

– Sei stato promosso, – mi disse Buquicchio, presentandosi<br />

alla mia postazione.<br />

– Hai preso sette in italiano e sette in latino. Bravo.<br />

Non sei contento?<br />

– Sì! Ma questa promozione è il primo gradino di<br />

quello che voglio fare.<br />

– Perché. Vuoi continuare ancora?<br />

– Sì. A tutti i costi!<br />

– Mah! Io penserei a sistemarmi. Prenderei moglie e<br />

penserei alla carriera. Ma, se vuoi continuare, ti aiuterò<br />

ancora. Però devi pensare di più alle radio. Mica debbo<br />

fare tutto io.<br />

La promozione che mi affrancava ufficialmente dall’analfabetismo<br />

e dalla comune ignoranza dei miei colleghi<br />

ex vegetali, non mi entusiasmò: per me era una<br />

cosa scontata. Avevo lavorato sodo e già stavo pensando<br />

all’anno successivo. Certo, mi stimolò e mi incitò.<br />

Mi diede sicurezza e maggior fiducia nelle mie risorse.<br />

E mi fece anche riflettere.<br />

“Hai visto che ci riesco anch’io a studiare: a fare quello<br />

che molto tempo fa e a tempo giusto ha fatto il figlio<br />

di Thiu Laréntu? Non è vero che sanno studiare solo i<br />

figli dei leoni. Glielo farò vedere, io, al Capitano Federici:<br />

l’uomo delle spelonche sarà capace anche di imparare<br />

le cose che lui ha imparato e altre che lui ignora anche<br />

se è vissuto sui banchi! Glielo dimostrerò io cosa<br />

sono le spelonche.”<br />

274<br />

La musica, il corso di radiomontatore e la terza media<br />

erano ormai i tre pilastri su cui potevo costruire<br />

l’edificio delle mie ambizioni; la laurea in lettere. Mi<br />

avrebbe fermato solo la natura con la malattia o con la<br />

morte.<br />

Ritornati dal campo estivo da Ravenna, dove per la<br />

prima volta e sempre grazie all’esercito, avevo avuto la<br />

possibilità di abbronzarmi al mare, mi comprai i libri<br />

necessari per quarta e quinta ginnasio e così ai miei studi<br />

si aggiunse il greco che già avevo incominciato a studiare<br />

insieme al programma di terza media.<br />

Gli altri sottufficiali erano invidiosi della mia promozione.<br />

Il fatto che io studiassi durante il tempo libero<br />

(domeniche, giorni festivi e durante la libera uscita,<br />

mentre loro se ne andavano a puttane) procurava loro<br />

un tremendo fastidio. Quella promozione e lo studio<br />

mi rendevano diverso da loro: non ero solo un sergente.<br />

E il mio entusiasmo genuino per lo studio veniva avvertito<br />

come un corpo estraneo nella caserma: urtava<br />

contro la loro sete di comando. E tutti boriosi della posizione<br />

sociale in cui li poneva il grado, come padroni<br />

sulla truppa scagliavano, ad insulti continui, i regolamenti<br />

che avevano imparato a memoria come preghiere<br />

alla scuola di Rieti. Con la truppa non familiarizzavano<br />

mai: riuscivano a dominarla solo punendo e consegnando<br />

i soldati. Altra arma non potevano avere.<br />

Una volta mi volli burlare dei sergenti. C’era da fare<br />

un’esercitazione. A ciascun sergente della Batteria venne<br />

affidata una squadra. Si doveva compiere nel minor<br />

tempo possibile un percorso tra le campagne del pisano.<br />

Si doveva passare, servendoci della carta topografi-<br />

275


ca, su tre punti obbligati dove c’era la postazione che ci<br />

faceva firmare un rapportino e constatava il passaggio.<br />

Io sapevo che nella mia squadra c’era un geometra e<br />

uno studente universitario. Appena dettero il via alla<br />

mia squadra, incaricai il geometra e lo studente di seguire<br />

il percorso sulla carta e di individuare la via più<br />

breve possibile. Mi misi alla testa dei compagni e a ritmo<br />

sostenuto passammo su tutte le postazioni e tra lo<br />

stupore dei superiori spuntammo sul punto dove eravamo<br />

partiti. Il tempo fu il migliore in assoluto: il secondo<br />

impiegò quasi un’ora più della mia squadra. Degli altri<br />

nemmeno a parlarne. Dovettero spedire camionette da<br />

tutte le parti per ritrovarli: i sergenti nonostante avessero<br />

geometri o diplomati stavano vanamente da soli decifrando<br />

il percorso e marciando in senso sbagliato dando<br />

ordini e consegnando anche i diplomati che si erano<br />

azzardati a far loro qualche giusta osservazione. Da<br />

quel giorno i rapporti con i sergenti divennero meno<br />

cordiali. E quando rientravano dalla libera uscita verso<br />

mezzanotte se mi trovavano sul tavolo dove mi avevano<br />

lasciato tanto per reagire alla mia ostinatezza, mi raccontavano<br />

le loro avventure: – Stasera mi sono fatto una<br />

scopata che non finisce mai... una bona che fa risuscitare<br />

anche i morti... Altro che studiare su quel tavolo. Te<br />

ne stai sempre lì. Ma perché non te ne esci e ti diverti<br />

come facciamo tutti. – E qualche altro compagno di camera<br />

quasi con l’intenzione di smontarmi: – Se io avessi<br />

studiato così, a quest’ora mi sarei già diplomato!<br />

Io li lasciavo cantare. Tra me e la vita militare non c’era<br />

più nulla da scoprire: per loro esistevano la caserma<br />

e le puttane.<br />

276<br />

A fine autunno nella mia Batteria giunse Rodolfo di<br />

Campi Bisenzio, anche lui arruolatosi volontario come<br />

me, sia pure per motivi diversi.<br />

Anche in lui, più o meno per gli stessi motivi, era già<br />

avvenuta una crisi di coscienza dopo che aveva vissuto<br />

la vita militare. Aveva frequentato la seconda liceo classico<br />

al “Galileo Galilei” di Firenze. Suo padre, però,<br />

che era fruttivendolo, fallì e non lo poté mantenere negli<br />

studi. Per non pesare sul babbo, Rodolfo, non trovando<br />

un lavoro immediato, si arruolò.<br />

Dormiva nella mia cameretta. Eravamo in quattro.<br />

Nella cameretta subito avvenne uno strano processo,<br />

una specie di reazione chimica per affinità sociale. I<br />

quattro elementi si fusero in due composti: io e Rodolfo<br />

e gli altri due: il grano da una parte e la paglia dall’altra.<br />

Finalmente non ero più solo. Potevo dialogare e parlare.<br />

Le cose che ci accomunavano erano tante: l’avversione<br />

a un militarismo antipopolare, la consapevolezza<br />

di essere finiti in quella caserma solo per disorientamento<br />

sociale, la privazione della scuola, che anche per<br />

lui era divenuta una preda irraggiungibile.<br />

E senza che me ne accorgessi, lui fu contagiato dal<br />

mio entusiasmo per lo studio, in cui riuscii a coinvolgerlo.<br />

In breve anche in lui si risvegliarono propositi e<br />

disegni già sepolti. Ben presto divenimmo amici inseparabili.<br />

E a me, in base quasi ad un egoistico calcolo di<br />

sopravvivenza, balenò di convincerlo a studiare con<br />

me. La differenza di studio, però, mi bloccava. “Lui ha<br />

fatto la seconda liceo. Io solo la terza media. Come faccio<br />

a studiare con lui?”<br />

277


Decisi di ricorrere all’astuzia. Già lui spontaneamente<br />

mi correggeva le versioni, i temi che stavo facendo<br />

per il ginnasio. E quando, spontaneamente, si decise a<br />

studiare insieme, per paura che lui non studiasse più<br />

con me, gli dovetti dire una bugia:<br />

– Io ho solo la quinta ginnasio. Tu invece...<br />

– Che cosa importa? Tu traduci quanto me. E poi, io<br />

mi ripasso il programma. Debbo riprendere. Tu sei più<br />

fresco.<br />

– Va bene. Io ci sto.<br />

E con la paura che scoprisse la verità, ci si mise al lavoro.<br />

La sera la cameretta rimaneva libera. Gli altri due<br />

sergenti se ne andavano in libera uscita. Noi si rimaneva<br />

a tradurre greco e latino o a fare letteratura italiana.<br />

Debbo essergli molto riconoscente. Per tradurre era<br />

molto più bravo di me e mi aiutava. Anche se lui sosteneva<br />

il contrario, ha poca importanza. Certo era il mio<br />

entusiasmo che lo aveva riavvicinato ai libri, ma chi teneva<br />

l’aratro era lui. Io mi limitavo solo ad incitare i<br />

buoi. In tutti i casi successe che anche lui in poco tempo<br />

si trasformò in un sergente studente.<br />

Un giorno scrissi a mio padre comunicandogli la mia<br />

intenzione di congedarmi e di continuare gli studi fino<br />

alla laurea. La lettera incominciava così:<br />

Carissimo padre,<br />

Pisa, 15 marzo 1962<br />

è la prima volta che ti scrivo, visto che ci pensa sempre<br />

la mamma a scrivere. C’è una ragione perché ora debba<br />

scrivere a te. Come sai, l’anno scorso ho superato gli<br />

278<br />

esami della terza media e ho scoperto lo studio. Ho scoperto<br />

che anche quelli che tu chiami agnelli possono<br />

studiare, anzi debbono. Ora mi sto preparando per gli<br />

esami di quinta ginnasiale, che conto di affrontare il<br />

prossimo giugno in <strong>Sardegna</strong>. Ma devo prima di tutto<br />

metterti al corrente di un’altra scoperta, molto più importante.<br />

Qui mi sono scoperto un morto sociale e un<br />

boia civile, schierato contro di te e contro i miei stessi<br />

fratelli, contro i pastori e contro i poveri. Tu stesso sin<br />

da quando ero bambino, a Baddhevrùstana, mi parlavi<br />

sempre di agnelli e di leoni. Bene, ora so esattamente chi<br />

sono. Dei leoni mi parlavi come di gente felice: qui infatti<br />

lo sono tutti, a cominciare dai carnivori più piccoli,<br />

dai sergenti. Io però, secondo la tua morale, dovrei essere<br />

almeno una volpe, circondata da greggi e pollai. Invece<br />

mi sento un erbivoro costretto a mangiare carne.<br />

Questa lettera sbalordì mio padre, che non rinunciò<br />

a tuonare per via epistolare. Mi scrisse appunto per<br />

spiegarmi che avevo avuto la fortuna di diventare volpe,<br />

e per farmi sapere cosa pensava della mia decisione:<br />

“Se ti congedi diventerai selvaggina.”<br />

L’ultimo mese di naja sembrava interminabile. Gli<br />

ordini non li sopportavo più. Darne mi sembrava assurdo.<br />

Le adunate, sempre uguali sotto l’incalzare delle<br />

stesse formule, mi sembravano riti insensati.<br />

Finalmente venne anche l’ultimo giorno di naja. Firmai<br />

il congedo nervosamente. Subito, però, mi sentii<br />

placido e restituito a me stesso. Con quello scarabocchio<br />

fu come se fossi rinato a nuova vita. Entrai nella<br />

279


mia cameretta. Mi strappai di dosso la divisa, mi misi<br />

gli abiti civili e uscii dalla caserma più leggero di un uccello.<br />

Rimisi piede a Sìligo l’8 maggio del 1962.<br />

La sera mio padre fece ritorno dal lavoro. E senza<br />

nemmeno salutarmi scoppiò in un temporale di paternali.<br />

– Da <strong>padrone</strong> ti sei fatto servo. Eri cacciatore. Ora sei<br />

selvaggina... la più misera e la più esposta: la più ricercata<br />

e la più vulnerabile. Che cosa intendi fare ora?<br />

– Mi sto preparando per la quinta ginnasio. L’esame è<br />

a giugno.<br />

– Ginnasio! Una parola che non mi imbroglia. Stai<br />

attento. Potresti finire male. Tu hai fatto il passo più<br />

lungo della gamba. Prima o poi cadrai e non sarò certo<br />

io a rialzarti. Te l’ho scritto. Qui c’è solo fame. La campagna<br />

è abbandonata da tutti. Sto tribolando notte e<br />

giorno per camparmi. Non voglio mangiare dal peculio<br />

familiare, anzi, se ci riesco lo vorrei accrescere e conservarlo<br />

ai tuoi fratelli, intatto. Tu qui non sei gradito. La<br />

tua permanenza in casa è un problema che riguarda<br />

tutta la famiglia. E io non voglio lamentele.<br />

– Per un mese sono ancora pagato. L’esame è prossimo.<br />

Debbo pensare solo a prepararmi.<br />

Fui uno scandalo anche per la gente di Sìligo.<br />

– Il figlio di Abramo! Se n’è ritornato! A studiare!<br />

Ma che cosa si è messo in testa? Ha conosciuto solo il<br />

culo della pecora, come noi, e vuole fare come i figli di<br />

don Pedru e di Thiu Laréntu, ora che ha visto il continente.<br />

Crede di essere diventato qualcuno? Io gli piscio<br />

in faccia.<br />

280<br />

– Ma è roba da pazzi. Se me lo avessero raccontato, io<br />

non ci avrei creduto: congedarsi per studiare.<br />

– Ora studierà la fame che lo aspetta.<br />

– E pensare che ne avevo un buon concetto di quel<br />

ragazzo. Era divenuto sergente nonostante Abramo lo<br />

avesse svezzato a Baddhevrùstana tra lo sterco delle pecore.<br />

– Eh! Sai com’è! A uno quando sta bene gli prude il<br />

culo e vuole cambiare posto.<br />

– Con la sua posizione, poteva già entrare nella famiglia<br />

più rispettabile e anche più ricca di Sìligo. Poteva<br />

bussare ad ogni porta: aspirare a qualsiasi ragazza. Ora,<br />

invece...<br />

– E perché non ci prova, mio figlio, a congedarsi? Gli<br />

spacco la testa, gli spacco.<br />

– Quello si è montata la testa. Vedremo che cosa sarà<br />

in grado di fare. Io, per parte mia, dico che farà la fine<br />

di tanti altri espulsi dalle forze dell’ordine: diverrà alcolizzato<br />

e consumerà tristemente i suoi giorni nelle<br />

bettole tra un bicchiere e l’altro.<br />

– Naturale, quelli che hanno provato la vita cittadina<br />

non si adattano più alla nostra. Lui vuole studiare. È<br />

una scusa per incominciare la vita oziosa aspettando<br />

che gli altri lo mantengano.<br />

Ora non ero più sergente. Sìligo per me divenne subito<br />

un mare in tempesta e mi sbatteva continuamente<br />

in faccia i cavalloni della sua morale. E per non sentire<br />

né subire gli attacchi di quella tempesta, di mattino presto,<br />

me ne andavo nelle campagne vicine (a thiu Burròne,<br />

a Littu o a Pala Montèddha) e mi infrattavo con i<br />

miei libri.<br />

281


La campagna, nella sua solitudine, in quella mia primavera<br />

sconsolata, ritornò, come quando ero a Baddhevrùstana,<br />

a costituire l’unica realtà e sembrava comprendere<br />

le mie esigenze offrendomi il suo silenzio fecondo.<br />

Con i libri spalancati, disteso dentro i cespugli,<br />

mi nascondevo per non essere turbato né visto dalla<br />

gente e studiavo con la rabbia in corpo meditando come<br />

una volpe. Soffrivo da solo e cercavo di ribattere alle<br />

sentenze di mio padre e dei pastori anziani.<br />

“Quando ero schierato contro di loro mi stimavano e<br />

mi ammiravano. Ora che sono con loro mi disprezzano<br />

e mi sfuggono come letame. Per loro ora, io, sono solo<br />

uno scandalo vivente: unu perdulàriu (un vagabondo).<br />

Dimostrerò loro che sono in torto. Se mi va bene il colpo<br />

a giugno, avrò già qualcosa in mano: avrò il cucchiaio<br />

con cui essi si mangeranno tante affermazioni<br />

sbagliate sul mio conto. Qui sono tutti contro di me,<br />

come se avessi ucciso mezzo paese. I discorsi sul mio<br />

caso riempiono le vie e l’agro di Sìligo. Ma io non me ne<br />

andrò senza tentare. Io non li temo i pastori arrabbiati.”<br />

I giorni mi passavano nell’angoscia della promozione<br />

a tutti i costi. Sempre solo. I vecchi li avevo contro e i<br />

giovani che avevo conosciuto erano volati via. I pochi<br />

studenti che c’erano allora non li conoscevo, né avrei<br />

potuto fare amicizia con loro. Mi consideravano sempre<br />

un pastoraccio. Io, d’altra parte, non potevo avvicinarli.<br />

Una specie di odio di classe me lo impediva.<br />

I “rumori” che più mi davano fastidio e mi facevano<br />

rabbia, però, non erano le reazioni dei pastori anziani,<br />

che avevo conosciuto sin da piccolo e che mi rimproveravano<br />

solo per mettermi sulla “retta via del bene”, ma<br />

282<br />

quelle della gente più abbiente del paese, quella che allora<br />

poteva mandare i propri figli a scuola.<br />

– Anche un pastore adesso vuole entrare nel liceo.<br />

Ah! Ah! Ah! Ma è roba da pazzi. Uno che ancora puzza<br />

di pecora. Ma dove siamo arrivati?<br />

Francamente, quando venni promosso, speravo che<br />

l’ambiente nei miei confronti divenisse comprensivo e<br />

finalmente mio padre giustificasse la mia disubbidienza.<br />

Invece capitò il contrario. Gli anziani di nuovo mi rigurgitarono<br />

addosso le loro sentenze e non mi dettero<br />

credito. E stranamente la mia promozione affilò la lama<br />

della loro morale scatenando un processo di invidia<br />

indefinita che allora non capivo.<br />

– Lui è figlio di un pastore e deve seguire la strada di<br />

tutti, non quella dei ricchi. Lui deve lavorare e sudare<br />

in culo e nei coglioni, tutti i giorni, come facciamo noi,<br />

cazzo! E chi è lui?<br />

– Poi, alla sua età! Ha già 24 anni. Lo studio si fa da<br />

piccoli.<br />

Per mio padre, poi, dovevo andarmene. Sulle prime<br />

non mi si scagliò contro fisicamente per darmi il dispaccio.<br />

Era chiaro, però, che stava aspettando o che me<br />

ne andassi spontaneamente o che si presentasse l’occasione<br />

per litigare. Aspettava un pretesto per mandarmi<br />

via.<br />

Dall’8 maggio erano già passati quattro mesi. Avevo<br />

riparato le materie, ma stavo ancora a casa. La situazione<br />

stava per precipitare. Fino alla promozione, lui si limitò<br />

solo a farmi dei ragionamenti vaghi e forse mi voleva<br />

lasciar sfogare nella bocciatura, sicuramente pro-<br />

283


fetizzata da tutti. Alla fine la promozione fu una brutta<br />

notizia. Fu come se fosse nato qualcosa che gli dava fastidio<br />

e che lui non riusciva più a dominare. Fu come il<br />

primo responso che sbagliava nella sua vita e non poteva<br />

dirmi semplicemente: – Lo studio non è fatto per te.<br />

Sei stato bocciato. Cercati un lavoro. Stattene per conto<br />

tuo. – Tutta l’estate cantò con i suoi discorsi per portarmi<br />

sulla “retta via”: alla disperazione. Io, però, lo lasciavo<br />

cantare, giorno per giorno, come le cicale. Così,<br />

quando seppe della mia promozione non si seppe trattenere.<br />

Fu il primo scontro verbale: l’introduzione alla<br />

zuffa.<br />

– Ora che intendi fare?<br />

– La prima e la seconda liceo classico, per il prossimo<br />

giugno.<br />

– Io ti dico che sei sulla via sbagliata. Te lo dico per il<br />

tuo bene. Cercati un lavoro. Io ne ho le tasche piene.<br />

Non puoi continuare a stare qui. I tuoi fratelli si lamenteranno<br />

e io debbo difendere i loro interessi.<br />

I rapporti si stavano irrigidendo sempre di più e a<br />

casa non si poteva più studiare. L’unica cosa era andarsene,<br />

ma non sapevo dove. Per il momento trovai<br />

la soluzione a Sìligo. Un amico mi concesse le chiavi di<br />

una catapecchia dove avevo allestito il mio studio clandestino.<br />

Lì era il mio rifugio. A casa ci andavo di rado,<br />

quando mio padre era nei suoi campi. Con lui cercavo<br />

di non incontrarmi. Non potevo concedermi di essere<br />

turbato. La promozione mi aveva stimolato a perseverare<br />

e non potevo desistere. Sentire i suoi discorsi era<br />

come sentire le campane del campanile. Non mi dicevano<br />

nulla di nuovo. E nel silenzio stantio che calava<br />

284<br />

dal solaio di tanto in tanto mi facevo il punto della situazione.<br />

“Lui mi dice di andarmene. Ma dove? Per raggiungere<br />

la meta l’unico modo è quello di restare qui. Che cosa<br />

ci rimette lui? Un piatto di minestra. Altro non riuscirei<br />

a prendergli. Lui, però, la pensa diversamente:<br />

ha paura che lo derubi. L’ho visto rinforzare le serrature<br />

del granaio e della cantina. Non lascia più nulla in giro.<br />

Ha rinchiuso anche il fienile, anche quello. Quando<br />

è in casa sta sempre escogitando misure di sicurezza:<br />

Per i ladri, dice alla mamma, ma si vede benissimo cosa<br />

ha in mente, da quale paura è corroso. La sua cintura di<br />

cuoio ora sferraglia di chiavi a destra e a manca, custode<br />

di immani tesori, e senza il suo tintinnio non si sente<br />

tranquillo.<br />

Ha messo in guardia anche la mamma. Ha paura che<br />

io la raggiri. Che lei gli rubi un sacco di grano o altro<br />

per mantenermi agli studi. Sicuramente durante i suoi<br />

lavori nei campi sarà assalito e tempestato da pensieri<br />

terribili e lancinanti. È come se io fossi dentro il suo<br />

cervello. Sicuramente mi vedrà intento a forzare le sue<br />

robuste serrature del granaio con l’aiuto della mamma.<br />

Mi vedrà curvo su qualche sacco di frumento o su qualche<br />

damigiana d’olio o di vino. Sinceramente non so<br />

come fare. Siamo tutti e due in lotta: ciascuno per difendere<br />

la propria furia di essere.”<br />

Così un giorno spinto più del solito dalla paura delle<br />

mie supposte piraterie frumentarie, bussò alla mia catapecchia.<br />

Ero solo e chino sui libri. Il suo volto tradiva<br />

285


palesemente l’imbarazzo del fatto che mi doveva dire<br />

qualcosa di importante.<br />

Com’era suo carattere non riuscì a fingere né a contenere<br />

la sua preoccupazione che gli lessi subito negli occhi<br />

torvi. E senza preamboli né indugi, il suo temperamento<br />

focoso gli fece esplodere quel che aveva dentro<br />

non appena mise piede nello studio.<br />

– Sono venuto a dirti che ho paura che tu mi stia nascondendo<br />

qualcosa. Tu stai seguendo una strada sbagliata<br />

da cui ho cercato più volte di distoglierti. La tua<br />

è una fissazione. Chi sei tu a pretendere di laurearti? I<br />

tuoi fratelli stanno lavorando per conto proprio e mandano<br />

anche qualcosa a casa. Tu, invece, sei inattivo e devi<br />

spendere i soldi per i libri e per le esigenze della tua<br />

età. Te ne stai tutto il giorno in paese e io so che ci sono<br />

molte cose che ti possono tentare e deviare. Le cattive<br />

compagnie in breve tempo ti possono rovinare, anzi, se<br />

continui così rovinerai anche noi, i tuoi fratelli e la famiglia.<br />

Tutti hanno da ridire sul tuo congedo. La gente<br />

se ne sta ridendo. Sei la beffa del paese. Prima che sia<br />

troppo tardi, ti conviene cercarti un lavoro qualsiasi<br />

per il momento, in attesa di andartene via da Sìligo, come<br />

stanno facendo tutti i giovani. Puoi fare il bracciante<br />

o quello che vuoi. Non puoi startene così senza far<br />

nulla, senza produrre.<br />

– Lascia da parte l’onore della famiglia, che non si rovina<br />

con il congedo. E i miei fratelli stanno facendo del<br />

loro meglio, ma lasciali da parte anche loro. Di’, piuttosto,<br />

quello che pensi dentro. Perché non lo confessi e<br />

hai quasi vergogna? Ti fa paura dirmi che io sono un ladro<br />

in casa tua?<br />

286<br />

– Sì, chi non lavora è un ladro.<br />

– D’accordo. Giustissimo.<br />

– Io ho paura che tu faccia qualcosa per corrompere<br />

tua madre. Chi non lavora è capace di tutto: è un essere<br />

da scartare.<br />

– Ma io sto lavorando anche troppo. Studio otto o nove<br />

ore al giorno per recuperare il tempo perduto, per<br />

cercare di darmi qualcosa che a suo tempo avresti dovuto<br />

darmi tu. Non ci hai mai pensato a questo?<br />

– Io ti ho fatto grande. Ti ho allevato e campato fino a<br />

ventun anni e non ho nessun scrupolo in proposito. Il<br />

mio dovere l’ho fatto.<br />

– Tu mi hai rovinato fino a ventun anni. Mi hai sfruttato<br />

ed usato fino a ventun anni, e hai fatto lo stesso con<br />

i miei fratelli. Cosa, naturalmente, che hanno fatto tutti<br />

i pastori. Ma se guardi bene tu hai allevato forse la famiglia<br />

più ignorante di Sìligo. Nessuno ha potuto frequentare<br />

regolarmente le scuole elementari, mentre<br />

avresti potuto fare altrimenti. Ci hai esiliato a Baddhevrùstana.<br />

– Io non avevo la possibilità di mandarvi a studiare né<br />

a te né ai tuoi fratelli. E ho lavorato come un dannato<br />

per sostentarvi e per sfamarvi.<br />

– Nessuno mette in dubbio che tu abbia lavorato, anzi,<br />

si può dire che tu abbia lavorato anche troppo, ma<br />

non per sostentarci, come dici tu.<br />

– E allora?<br />

– Allora? Tu è vero che hai lavorato, ma ci hai anche<br />

fatto lavorare con la smania di arricchirti. E questo non<br />

lo puoi negare. Hai prestato e presti soldi a tutto il parentado<br />

con alti interessi.<br />

287


– Questo l’ho fatto e lo faccio per il bene della famiglia.<br />

– Le femmine, quasi tutte analfabete le hai esasperate<br />

nel lavoro dei campi e in pratica le hai costrette a servire<br />

sin dai quindici anni, prima a Sassari, poi a Roma e<br />

ora a Genova. Non hai fatto nulla di più del più povero<br />

bracciante del paese. Anzi, tu hai fatto qualcosa di peggio.<br />

Prendevi loro una buona parte del mensile e te lo<br />

mettevi in banca. Spesso, anzi, l’hai dato in prestito come<br />

stai continuando a fare.<br />

– Il loro mensile lo prendo per metterlo in banca per<br />

conto loro.<br />

– Per conto tuo.<br />

– Non è vero. E dato che ci siamo, ti dico che loro<br />

possiedono qualcosa, mentre tu non possiedi nulla.<br />

– Che ne sai tu? A te, certo, non ho mai mandato una<br />

lira. Sapevo che non ne avevi bisogno. Tu hai un grande<br />

debito verso di noi e non potrai mai pagarlo: siamo tutti<br />

ignoranti. E ti dico di lasciarmi, di non intralciarmi la<br />

strada ora che l’ho trovata. È inutile che cerchi di sviarmi.<br />

La mia strada è quella giusta e te lo farò vedere.<br />

Non perdere altro tempo a riaprire vecchie ferite.<br />

– Tu! Finirai male. Io non ti aiuterò. Non farò parzialità,<br />

io. Non ho fatto studiare gli altri e tanto meno, ora,<br />

potrò far studiare te. Ormai sei fuori e io non posso dare<br />

a te più che agli altri.<br />

– Con la scusa della parzialità, tu, ti sei sempre messo<br />

al coperto. Anche quando mi hai allontanato dalla scuola,<br />

dalle elementari, hai tirato in ballo la scusa della parzialità.<br />

Troppo facile: “Se incomincio a far studiare lui,<br />

dovrò poi anche far studiare gli altri.” Non te le ricordi<br />

288<br />

queste parole? Ora, io, non ti chiedo la tua parzialità.<br />

Sarebbe come se ti dicessi di ricostituire la famiglia e ridarle<br />

quello che le avresti potuto anche dare. Non ti<br />

chiedo questo. Ti chiedo solo di lasciarmi lavorare in<br />

pace.<br />

– Tu parli di lavoro. Dove è il tuo prodotto? Che cosa<br />

lavori? Tu stai rubando il pane che mangi. Qui, tu sei<br />

un ladro. Se non te ne vai un giorno o l’altro...<br />

– Finalmente l’hai detto che sono un ladro! Per fortuna<br />

che riesco a controllarmi. Diversamente...<br />

– Diversamente che cosa?...<br />

– Lasciamo perdere. Non ho bisogno dei tuoi soldi.<br />

Durante i quattro anni di naja ho risparmiato mezzo<br />

milione e se li saprò dosare mi basteranno per finire il<br />

liceo. Che non ti derubi ne puoi stare certo. Se vuoi, anzi,<br />

ti posso pagare tutto.<br />

– Non ho bisogno dei tuoi soldi.<br />

– Questo lo sapevo. Tu, però, devi capire che debbo<br />

restare qui, a Sìligo, per finire gli studi.<br />

– Io voglio che tu te ne vada via al più presto.<br />

– Tu non puoi impedirmi di starmene a Sìligo: posso<br />

anche fare a meno di venire nella casa che tu dici tua,<br />

mentre l’hai accresciuta e rifatta con il nostro lavoro. E<br />

poi, me lo sai dire come fai ad aver paura che ti possa<br />

derubare quando tu hai sprangato tutto come se a casa<br />

ci fossero i ladri veramente. Spiegamelo! Come farò io<br />

a rubarti il grano, l’olio e l’avena, quando non fai altro<br />

che rinforzare e controllare l’efficienza delle tue serrature<br />

e ascoltarti lo sferragliare delle chiavi che ti porti<br />

addosso. Le conoscerai già tutte, una per una, al suono.<br />

Che paura hai?<br />

289


– Te lo ripeto per l’ultima volta. La casa non è tua, ma<br />

è anche dei tuoi fratelli. Se non cambi idea ci azzufferemo<br />

davvero o ti farò cacciar via dai carabinieri.<br />

E invocando la legge, disorientato da tutto il discorso<br />

e dalla mia reazione, mi voltò le spalle e uscì con i pugni<br />

chiusi. E irrigidito nel corpo sbatacchiò la porta dopo<br />

avermi mostrato le zanne come per creare uno squillo<br />

minaccioso della sfida che aveva rimandato a tempo<br />

più opportuno.<br />

Quello scontro chiarì molte cose. Servì a schierarci<br />

dentro in maniera definitiva e a delineare le irriducibili<br />

posizioni di ciascuno. E nell’attesa dello scontro mi facevo<br />

spesso l’esame di coscienza.<br />

“Tutto il paese, con mio padre in testa, qui, mi definisce<br />

un pazzo. Per loro è una follia che io studi. Io, però,<br />

mi sento moralmente tranquillo: sto facendo passi da<br />

gigante. Sono in movimento, io, mentre loro non si accorgono<br />

di essere fermi come le rocce e le loro montagne.<br />

Il sole si leva ogni giorno. Gli anni passano e il sole<br />

li ritrova sempre nello stesso punto. Ed è per questo<br />

che parlano in quel modo. Che colpa ne ho io se lui è<br />

schiacciato dall’incubo che io lo derubi? Peggio per lui<br />

che lo pensa! Lui non ha nessun diritto di disorientarmi<br />

da una strada che sto percorrendo bene. Perché me<br />

ne debbo andare via da Sìligo? Per liberarlo dalla sua<br />

malattia? No. È una libertà che non posso concedergli.<br />

Io resto qui, resto. Qui debbo riscuotere tutto quello<br />

che lui non mi ha potuto dare. Sìligo non è suo ed è assurdo<br />

che lui pretenda che me ne vada. A costo di alloggiare<br />

da nonna o da zio Gellòn che me lo ha anche<br />

detto, ma io sto qui.<br />

290<br />

Questi patriarchi hanno fatto solo due cose nella loro<br />

vita: ubbidito prima e comandato dopo. E vogliono<br />

che le cose rimangano sempre così. Altrimenti è come<br />

se al posto dell’aria avessero il fuoco. Il peculio è il loro<br />

corpo. Il comando è i loro polmoni, l’ubbidienza è la<br />

loro aria. E lui ora si sente mancare il respiro perché<br />

non è rispettato da me. Presto risolverà la questione. Si<br />

sente morire e vuole vivere.”<br />

La questione non poteva risolversi a parole. Lui, anzi,<br />

si era sforzato a parlare nella sua lingua cercando di<br />

persuadermi a intraprendere la strada del lavoro concreto,<br />

lontano da Sìligo, in modo che dileguasse per<br />

sempre l’incubo che io lo derubassi. Ogni sua parola,<br />

ora però aveva le ali tarpate. La mia inaspettata promozione,<br />

per lui, fu un duro colpo, una poderosa incornata<br />

che lo aveva stordito e messo in crisi.<br />

Bisognava dunque sfoderare le sue armi. Parlare con<br />

la sua vera lingua, con la forza e la colluttazione con cui<br />

mi aveva sempre domato e con cui aveva sempre visto<br />

domare i ribelli. Le sue armi le conoscevo anche troppo<br />

bene, e mi stavo preparando ad affrontarle. Mi resi impenetrabile.<br />

Fiutavo e me ne stavo zitto, cercando di<br />

dilazionare al massimo lo scontro ormai inevitabile.<br />

Lui però aveva teso la rete per indurmi alla rissa, a uno<br />

scontro fisico dove sperava, come succedeva a Baddhevrùstana,<br />

che il timore reverenziale giocasse a suo favore.<br />

E certo in uno scontro rabbioso gli sarebbe stato più<br />

facile buttare giù tutto e regolare i conti a modo suo.<br />

Un pomeriggio di settembre, lui, come tante altre<br />

volte, mi chiese di aiutarlo a buttar giù il solaio della ca-<br />

291


sa che stava ampliando e mi si presentò perentoriamente<br />

come al solito.<br />

– Vieni a darci una mano. Tuo fratello Giacomo è ancora<br />

piccolo.<br />

– Mi dispiace, ma ti stai abituando male. Io debbo fare<br />

le mie cose e te lo devi mettere in testa. Tu mi vuoi coinvolgere<br />

nel lavoro, ma io non posso. Ti ho aiutato abbastanza<br />

tutta l’estate: ho mietuto con te, abbiamo imballato<br />

il fieno insieme e tante altre cose. Ora è giunto il<br />

momento di mettere un limite preciso alle tue richieste.<br />

Debbo rispettare i miei programmi. Quando verrà giugno<br />

tu non potrai aiutarmi nell’esame e se andrò male<br />

tu sarai il primo a riderci sopra. Quando posso, volentieri,<br />

ma stasera non mi è possibile.<br />

Per il momento tutto finì lì. Era la prima volta che gli<br />

dicevo no quando mi chiedeva aiuto. E preso così alla<br />

sprovvista tracannò l’amaro. Mi voltò le spalle e si fece<br />

sul lavoro con Giacomo e con la mamma. Era evidente<br />

che il mio rifiuto gli rimaneva nello stomaco e che non<br />

lo poteva digerire.<br />

Di sera, quando staccò, come al solito irruppe in casa<br />

come un leone affamato e con il solito atteggiamento<br />

autoritario e quasi di sfida come per rinfrescare agli altri<br />

l’autorità e la dimensione del suo potere. Una volta<br />

in casa, come a tutti i patriarchi, gli dava enormemente<br />

fastidio che altri facesse qualcosa per conto proprio. Al<br />

massimo si poteva fare solo qualcosa che diceva lui e a<br />

cui prendesse parte da protagonista. Altrimenti al suo<br />

ingresso bisognava starsene in silenzio o andarsene via<br />

come quando alcuni rapaci volan via dalla carogna, all’arrivo<br />

improvviso e fragoroso di un rapace solitario,<br />

292<br />

ma più selvaggio e più forte. Il suo ingresso in casa turbava<br />

sempre il clima familiare come il raglio di Pacifico<br />

agghiacciava l’atmosfera giocosa di Baddhevrùstana e<br />

poneva termine ai nostri trastulli. A furia di botte, di<br />

schiaffi e di urla iraconde, ci aveva abituati a starcene<br />

composti, ad ascoltare la parola della sua autorità o il<br />

silenzio della sua potenza. Questo lo aveva fatto sempre<br />

a Baddhevrùstana e al mio ritorno notai che continuava<br />

a farlo anche a Sìligo. Ora però mi dava fastidio.<br />

La casa mi sembrava una caserma e non me la sentivo<br />

più di accettare quelle regole.<br />

Neanche a farlo apposta, mi trovò in cucina, intento<br />

ad ascoltare la radio. Com’era sua abitudine subito si<br />

sciacquò le mani alla meglio con un fare frettoloso, come<br />

se si stesse sfogando per qualcosa che non gli andava.<br />

Naturalmente, dal suo comportamento concitato,<br />

dal suo indugiare più del solito nel lavamano, fiutai il<br />

suo disappunto. Era in attesa impaziente che io spegnessi<br />

la radio. E quasi per contenere qualcosa che gli stava<br />

per esplodere insisteva nel lavarsi le mani buttandosi<br />

l’acqua sulle braccia, dimenandosi, con la speranza che<br />

magari sparissi. Io, al contrario, studiavo il suo comportamento.<br />

E per la cucina si poteva udire la parola<br />

della sua potenza offesa. Io non spensi la radio né me<br />

ne uscii, come avevo fatto tante altre volte. Sarebbe stato<br />

come darmi per vinto. La casa rimase come la trovò.<br />

Io da una parte e la radio che cantava dall’altra. E ascoltandomelo<br />

e soppesandomelo cercavo di intercettare il<br />

soliloquio che andava facendo agitando le mani nell’acqua<br />

prima e sfregandole violentemente poi sull’asciugamano,<br />

quasi lo volesse strozzare. “Questo sta spa-<br />

293


droneggiando. Sta invadendo il campo. Ha dimenticato<br />

i limiti del suo terreno. È ora di finirla con questo intruso<br />

prepotente. Bisogna dargli una lezione per il suo<br />

bene e anche per quello dei suoi fratelli, prima che li<br />

porti alla rovina. Gli chiedo di aiutarmi e trova sempre<br />

la scusa dello studio. Prima mi rispettava. Ora, invece,<br />

guardatelo lì. Quando entro io è come se entrasse un<br />

somaro. Prima che si convinca di essere il <strong>padrone</strong>, bisogna<br />

fargli ricordare che qui il <strong>padrone</strong> sono solo io.<br />

Sennò questo prima o poi mi mette sotto.”<br />

Eppure nella sua smania di esplodere, ora, c’era qualcosa<br />

che lo intralciava e gli impediva di dar fuoco alle<br />

sue ragioni. E in quel momento nel suo intimo forse<br />

preferiva che io avessi spento la radio che stava lì, modulando<br />

musica tanto dolce quanto amaro e lancinante<br />

era il fiele che rodeva tutto il suo essere come una pezza<br />

di formaggio marcio corrosa dai vermi. Al massimo della<br />

tensione, si fece sul tavolo e come fosse stata una sua<br />

serva, urlò alla mamma di mettergli da mangiare. Agguantò<br />

la sedia e vi si calò. In un attimo il piatto fu ricolmo.<br />

La mamma uscì e lui si fece sotto. Inforcò il cucchiaio<br />

e si mise a mescolare il cibo. Tutta quella fame iniziale<br />

sembrava gli fosse passata. C’era qualcosa che gli<br />

impediva di divorare la preda mentre qualcuno gli stava<br />

davanti disinvolto e incurante della sua presenza. Quella<br />

musica, poi, sembrava gli stesse soffocando la gola. Si<br />

produceva anch’essa contro la sua volontà. Si voltò di<br />

scatto. Diede uno sguardo alla radio che musicava soavemente,<br />

ma io continuai a rimanere impassibile. Riguardò<br />

il piatto, ma non riusciva a mangiare. E seduto<br />

in mezzo al tavolo esplose come una mina:<br />

294<br />

– Spegni la radio, svelto! – fece porgendosi la prima<br />

cucchiaiata alla bocca come per dare più solennità e<br />

eseguibilità al suo ordine, per farlo apparire come una<br />

cosa già bell’e fatta. – Io sono stanco, non sono uno<br />

sfaccendato come te, io. Spegni, spegnila.<br />

– Io ordini così non ne eseguo più. Se non ti va di sentirla<br />

ti alzi e te la spegni. A me piace sentirla.<br />

La mia reazione, esplosa con la stessa aria di sfida del<br />

suo ordine, lo rattrappì e lo rese tutt’una cosa con il tavolo,<br />

il piatto e il cucchiaio che stava svuotando. Per un<br />

attimo rimase come inchiodato alla sedia quasi quelle<br />

mie parole fossero un peso calatogli addosso improvvisamente.<br />

Un peso che non poteva reggere.<br />

Accostò di scatto i gomiti al piatto. Mise la mano sul<br />

tavolo e si rizzò di colpo. La sedia gli cadde dietro e prese<br />

il volo per avventarmisi contro. L’occasione era giunta.<br />

Come un forsennato posseduto dalla sua furia si spostò<br />

sulle gambe deformato, truce. I nervi del collo gli si<br />

erano dilatati, la faccia livida. Istintivamente agguantò<br />

il primo legno che gli capitò sotto mano, uno di quei<br />

pali che era solito mettere a sostegno delle piantine da<br />

frutto, e mi venne incontro.<br />

– Lascia questa casa. Vattene. Salta la porta e non rimetterci<br />

più piede, sennò ti sfregio per la vita. Sparisci<br />

e che i miei occhi non ti vedano più.<br />

Le vene a fior di pelle delle sue braccia tese e i nervi<br />

del suo collo gonfi dalla rabbia stuzzicarono il mio coraggio<br />

e decisi di affrontarlo. Era ora di ammansire tanta<br />

strapotenza con la stessa lingua che lui conosceva. In<br />

un baleno per la testa mi passò tutta la violenza subita<br />

nel passato. Io non ero più io. La mia coscienza mi parlò<br />

295


epentinamente di fronte a quella roccia morale schierata<br />

per schiacciarmi. La radio continuava a suonare.<br />

Lui era lì e vibrava il palo. Io però mi sentivo un gigante,<br />

come se tutta la violenza subita si fosse trasformata in<br />

forza e in furia dentro di me. E non fuggii come avevo<br />

fatto sempre e come lui sicuramente si aspettava che facessi.<br />

– Se sei un uomo e se hai coraggio fatti avanti. Vieni.<br />

Su. Qui non siamo a Baddhevrùstana, dove sfogavi la<br />

tua bontà quando eri contento e la tua rabbia su di me<br />

quando le cose ti andavano male e mi picchiavi a sangue<br />

anche senza colpa. Dài. Hai paura? Forza, togli<br />

fuori i coglioni, non ce li hai più?<br />

Lui rimase sbalordito dalla mia reazione. Da quattro<br />

anni non mi conosceva più. E per la prima volta quel<br />

mostro del comando che lo portava a travolgere gli altri<br />

dovette rannicchiarsi dentro di lui come un rettile prima<br />

di avventarsi contro l’avversario.<br />

– Ti trovi in difficoltà? Vieni, vieni che te lo faccio vedere<br />

io come è il nuovo modo di comportarsi con la gente.<br />

Se mi tocchi, stasera te le spunto veramente quelle<br />

corna da toro selvatico. Su.<br />

Ritirarsi ormai non era possibile. Il mostro che portava<br />

dentro non glielo poteva permettere. E con il passare<br />

degli attimi quel mostro lo fece sragionare e me lo spinse<br />

contro per giocare le due uniche carte che aveva di<br />

fronte: vincere come sempre o farsi picchiare per avere<br />

una ragione valida e plausibile di fronte a tutti per cacciarmi<br />

via.<br />

– Io non ti temo, – gli fece urlare la terribile chimera<br />

della sua morale da cui era dominato. – Prima di cadere<br />

296<br />

sotto di te, morirò. Non ho paura di un intruso nella<br />

mia casa.<br />

– E neanche io ho paura di te nella casa in cui sono<br />

nato.<br />

Allora prese la rincorsa e vibrò il colpo da assestarmi<br />

in testa. Mi tuffai su di lui avvicinandomi il più possibile,<br />

a testa bassa, per schivare il bastone e lo disarmai.<br />

– Brutta bestia, – urlò ancora con il coro dei suoi sentimenti<br />

avvelenati una volta disarmato.<br />

– Hai poco da urlare. Siamo noi due soli, qui, come<br />

quando eravamo a Baddhevrùstana, – gli dissi rabbiosamente,<br />

tenendolo per il gherone della camicia e guardandolo<br />

fisso negli occhi.<br />

Gli diedi uno spintone e lo cacciai indietro con la<br />

speranza che l’avesse finita. Ma evidentemente il mostro<br />

lo rodeva e lo fece ritornare alla carica. Trovatosi<br />

senza bastone, divenne più rabbioso di prima. Avanzò<br />

impetuosamente e si produsse in una disordinata scarica<br />

violenta di schiaffi a man rovescio e di pugni, convinto<br />

di vincere l’incontro. Io gli stavo sempre davanti<br />

e controllavo la situazione. Per non picchiarlo schivavo<br />

i suoi colpi indietreggiando e facendo più volte il giro<br />

della stanza. Solo un suo schiaffo riuscì a raggiungermi<br />

mentre tentavo di aggrapparlo al petto e al bavero<br />

della camicia con tutta la forza e la rabbia che avevo<br />

in corpo. Gli detti un nuovo scossone brusco e secco.<br />

Fece una specie di capriola e andò a finire su un lettino.<br />

Tutto scosso si rialzò e mi si presentò come un gladiatore<br />

beffato dalle circostanze, a petto nudo. Della<br />

camicia gli era rimasto solo il colletto abbottonato intorno<br />

al collo. La sua furia era ancora irriducibile. Mi<br />

297


si avventò ancora di nuovo, invitandomi al combattimento.<br />

– Perché mi sfuggi? Perché indietreggi? Dài, perché<br />

non picchi?<br />

– Cosa vuoi, picchiarci? La vedi questa mano? Ti potrei<br />

fracassare le mandibole. Ma, tu, a me non mi freghi.<br />

Perché dovrei picchiarti? Non ce n’è bisogno. Sarebbe<br />

troppo comodo per te. Ti piacerebbe poter dire<br />

agli altri: “mio figlio mi ha picchiato” per cacciarmi via<br />

di casa. No! Questo non lo avrai. Non ci cado nella tua<br />

trappola.<br />

Il trambusto e le grida rabbiose raggiunsero finalmente<br />

la mamma e le mie sorelle che in quei giorni erano in<br />

ferie. E subito scesero nello scantinato dove si svolgeva<br />

il dramma patriarcale, dove due culture, rocciose ambedue,<br />

si stavano scontrando. Si avvinghiavano e si<br />

guardavano: si leggevano e rileggevano annullandosi a<br />

vicenda. Non potevano né sommarsi né sottrarsi. Erano<br />

incommensurabili tra di loro e si stavano scontrando<br />

solo sul piano istintuale. Invano le donne cercarono<br />

di separarci e di calmarci. Non c’era nulla da fare. Alla<br />

vista delle donne, anzi, mio padre trovò una ragione di<br />

più per battersi. E come un pugile, sempre a petto nudo,<br />

mi veniva incontro. Avvelenato, con gli occhi quasi<br />

bianchi dalla rabbia, ritentò di nuovo con furbizia. Ma<br />

non mi feci ingannare. E anche l’ultima carta non gli<br />

fruttò un bel nulla. Sono rimasto per tutto l’incontro in<br />

grado di fiutare e anticipare tutte le sue mosse, abili e<br />

quasi fraudolente. Le donne piangevano, disperate. La<br />

mia ribellione improvvisa fu per loro un trauma. Le<br />

due mie sorelle mi tenevano per le braccia, mentre mia<br />

298<br />

madre agguantava mio padre come meglio poteva. A<br />

me, purtroppo, bastava uno scossone per rendermi libero.<br />

Solo mia madre, robusta, pesante e disperata,<br />

qualche volta riusciva ad avere ragione del toro già<br />

stanco. Tra le braccia delle mie sorelle io leggevo e rileggevo<br />

i brani più oscuri della vita di tutta la famiglia.<br />

– Hai comandato troppo. Sei rimasto orfano sin dai<br />

dodici anni. I tuoi fratelli ti hanno lasciato a te stesso.<br />

Da tua madre sei stato anche coccolato. Non ti ha messo<br />

mai nessuno le mani addosso. E sarebbe ora che qualcuno<br />

te le mettesse per farti riflettere e comprendere<br />

cosa significano i colpi e le percosse con cui ti sei fatto<br />

sempre temere. Hai comandato troppo e sarebbe ora<br />

che tu la finissi. Siamo cresciuti tutti come tuoi schiavi:<br />

con la paura della tua persona... E i miei fratelli, ancora,<br />

si trasportano la tua terribile autorità... A me, ora, per<br />

fortuna non fai più paura. L’ho distrutta nel mio cervello.<br />

E tu per me ora sei solo un uomo come me e come<br />

tanti altri e come tale ti rispetto.<br />

– Io sono il <strong>padrone</strong>, qui. Sono tuo padre.<br />

– Tu non sei <strong>padrone</strong> di niente e del padre me ne sbatto.<br />

Io di padre non ne voglio, del sangue me ne frego.<br />

Io sono al di sopra della parentela. Molti, senza che il<br />

sangue c’entrasse, mi hanno aiutato più di te in questi<br />

ultimi anni e altri sono pronti a farlo. Ti rispetto solo<br />

come uomo. Ma se cerchi di assalirmi te lo impedisco<br />

con questi artigli. E se non basta, ti assalgo e ti strozzo.<br />

Infuriato salii le scale e ridiscesi con le cinquecentomila<br />

lire tra le mani.<br />

– Se le vuoi te le do. Prenditele, – gli dissi sbattendogliele<br />

addosso a più riprese. – I soldi sono l’unica cosa<br />

299


che ti rende tranquillo. Toh! Toh! Còntatele! Sei felice<br />

solo quando conti soldi! Toh! Còntateli!<br />

– Non voglio i tuoi soldi, ma la tua fuga. Fuggi, vattene!<br />

– Non me ne vado, io. Non me ne andrò. Chiama pure<br />

i carabinieri. Le tue forze non riusciranno più a mettermi<br />

in fuga. Qui sento che ci debbo restare. Ci ho lavorato<br />

tanto quando mi usavi come un attrezzo. Ora ho<br />

bisogno di restarci e ci resto. Non è una mia colpa se ho<br />

bisogno di questo. E ora che ti ho dimostrato che non<br />

ce la fai più a picchiarmi, se ti va ti concedo anche di<br />

sfogarti sul mio corpo. Toh! Io mi sdraio per terra. Vieni.<br />

Picchiami. Calciami. Fammi quello che vuoi come<br />

facevi prima. Solo così mi potrai picchiare. Perché non<br />

lo fai?<br />

Quando mi vide steso per terra, pronto a ricevere il<br />

suo furore sconfitto e rintuzzato davanti agli altri figli<br />

su cui voleva ancora comandare, non ebbe il coraggio<br />

di toccarmi. Avvilito e smontato si ritirò in silenzio e si<br />

rinchiuse nella sua stanza.<br />

Tutti si rimase allibiti e sconvolti da quanto era avvenuto.<br />

I miei fratelli senza parola. Io di colpo, vittima della<br />

situazione, avevo vergogna di quello che avevo osato e<br />

trovai scampo nella fuga. Prima di uscire di casa una<br />

paura angosciosa che il babbo stesse escogitando qualche<br />

stratagemma per costringermi ad andarmene, mi<br />

assalì. Per precauzione scrutai dalla toppa della sua<br />

stanza.<br />

Lo vidi seduto sul letto. Il volto quasi arroventato se<br />

lo teneva con la destra al mento. I suoi occhi erano fissi:<br />

rimuginava qualcosa in un silenzio sconvolto da<br />

300<br />

mille pensieri con i sintomi della lotta e della sconfitta.<br />

Il suo meditare tanto raccolto quanto concitato mi coinvolse<br />

e mi scosse fortemente. E, impalato lì davanti<br />

alla sua porta, mi passò per la mente quasi come un<br />

terribile presentimento il dramma di thiu Elia contro<br />

Forìca, che lui a Baddhevrùstana mi aveva raccontato<br />

più volte. In quel momento mi sembrò che il conturbato<br />

silenzio del suo raccoglimento lo stesse disponendo<br />

affannosamente a una tremenda decisione: se accettare<br />

il ruolo di sconfitto o agguantare la pistola e ottenere<br />

con l’arma ciò che non aveva potuto ottenere con le<br />

braccia e con l’autorità. Scappare mi sembrava la cosa<br />

più naturale.<br />

Mio padre non estrasse la pistola né il fucile, come<br />

spesso aveva visto fare in casi analoghi e come avevo tutte<br />

le ragioni per temere che facesse. Io continuai a rimanere<br />

in casa. La convivenza, ora, era impossibile. Non<br />

ci si poteva più rivolgere la parola. Ci sentivamo in colpa<br />

tutti e due. Nello scontro ci eravamo denudati veramente<br />

l’uno di fronte all’altro. La rabbia aveva distrutto<br />

ogni timore e ogni tabù e ciascuno aveva detto all’altro<br />

cose sempre trattenute nel proprio intimo. Ora avevamo<br />

vergogna di rivestirci e l’orgoglio ci impediva di<br />

rinnegare quello che ci eravamo scagliato contro. Ci<br />

eravamo scontrati troppo violentemente. La mia ribellione,<br />

però, lo aveva turbato. Per la prima volta una lezione,<br />

inaspettata, a furia di spinte e urti penetrò nella<br />

sua natura rocciosa e vi lasciò una eco nella lingua che<br />

lui conosceva bene. La sentì più volte e la capì. La bufera<br />

lo scosse come un albero con i suoi frutti in boccio e<br />

per quella stagione restò infruttuoso. Avendolo privato<br />

301


dei suoi frutti, la bufera lo ridusse al silenzio e per qualche<br />

tempo lo mise in crisi.<br />

I giorni passavano e tutto quel senso di colpa, di vergogna<br />

e di paura insieme mi si stava dissipando nella<br />

lettura dei libri.<br />

Riuscii a rivedere mio padre fuori dal trambusto di<br />

quella rissa. La sua figura terribile, che fino ad allora<br />

aveva smorzato ogni mio slancio vitale, la rividi avulsa<br />

da me come qualcosa che non mi poteva più raggiungere.<br />

Inoltre mi rividi Gavino, senza nessun complesso<br />

per essermi opposto a mio padre. Mi sentii libero. Solo<br />

che rimanere a casa non mi sembrava più naturale.<br />

La mattina lui se ne andava a lavorare sul campo. Il<br />

mio io allora si calmava. Gli umori scossi e alterati dalla<br />

sua presenza sedimentavano finalmente. Divenivo di<br />

nuovo lucido e sereno e potevo riprendere lo studio. La<br />

sera, di nuovo il suo ritorno mi turbava. Gli umori mi si<br />

riagitavano e tanti pensieri mi turbinavano per la testa.<br />

La mia serenità si intorbidiva come l’acqua sporca di<br />

un secchio scosso. I sedimenti venivano a galla. Lo studio<br />

non era più possibile. Appena metteva piede sull’uscio<br />

io, nella mia stanza, chino sui libri, me lo rivedevo<br />

dimenarmisi intorno: ogni sera rivivevo il dramma che<br />

avevo vinto fisicamente e solo per il momento, ma che<br />

continuavo a perdere ogni sera. Con la mamma, che si<br />

era accorta della cosa, ci si mise d’accordo per sbloccare<br />

la situazione. E dato che incontrarci faceva male a<br />

tutti e due, non mi facevo più ritrovare in casa al suo ritorno.<br />

Spesso mangiavo prima del suo arrivo sotto la<br />

302<br />

paura di sentire i tacchi dei suoi scarponi e vedermelo<br />

piombare in cucina. In genere, però, a quell’ora me ne<br />

uscivo per Sìligo. Mia madre mi conservava il cibo in<br />

un posto stabilito e sul tardi al rientro potevo mangiare<br />

tranquillo. Lui aveva studiato le mie abitudini e se ne<br />

andava a letto presto. Anche lui cercava quindi di evitarmi.<br />

Mi capitava di rimuginare, in lunghi silenzi, sulle implicazioni<br />

del dramma che la mia famiglia stava vivendo.<br />

Mi sforzai di immaginarmi integrato nell’ambiente<br />

di Sìligo e allora mi sembrò naturale che ai pastori succedesse<br />

come ai cani quando il <strong>padrone</strong> serve da mangiare<br />

nel secchio abituale. Mi sembrò, anzi, strano che<br />

non avessi considerato prima la situazione da questo<br />

punto di vista: rivedevo quei cani famelici tesi a divorare<br />

a gara e a strapparsi di bocca il cibo e mi immedesimavo<br />

a tal punto che la casa ormai mi pareva un immenso<br />

secchio dal quale io, benché subalterno, non<br />

volevo staccarmi. Il comportamento dei cani, impazienti<br />

e voraci, rispecchiava perfettamente quello dei<br />

servi. E mio padre, come ogni pastore, era vissuto sempre<br />

a contatto col mondo degli animali e aveva finito<br />

per accettare come propria questa forma di vita animalesca.<br />

Aveva visto sempre il cane più grosso digrignare<br />

i denti e i cani subalterni allontanarsi dal secchio secondo<br />

un ordine temporale che rispecchiava esattamente<br />

l’idoneità alla lotta di ogni singolo cane. L’ordine sociale<br />

del pastore coincideva con un intimo ordine divenuto<br />

biologico. Contravvenire alle leggi del padre equivaleva,<br />

dunque, a negare l’ordine naturale e immutabile<br />

delle cose.<br />

303


Tutto suggeriva che se volevo farmi crescere ali capaci<br />

di volare dovevo farmele spuntare altrove, tanto più<br />

che l’ambiente sociale col quale dovevo quotidianamente<br />

fare i conti era concorde nel definire una follia quella<br />

che per me era una rinascita. Dopo lunghe riflessioni<br />

ebbi ancora una impennata, sentii il bollore di una rigenerazione<br />

che non volevo più dilazionare e decisi di allontanarmi<br />

dal secchio paterno. Prima di andare in congedo,<br />

un commilitone, maestro elementare, mi aveva<br />

suggerito un modo di proseguire gli studi, se avessi voluto<br />

realizzare i miei progetti: avrei potuto insegnare in<br />

un istituto privato di Salerno. In un certo senso rischiavo<br />

di tornare a fare il sergente, sia pure con abiti civili,<br />

ma accettai la sfida e partii per Salerno.<br />

304<br />

NOTIZIA SUL TESTO


1. Il testo di questa edizione di <strong>Padre</strong> <strong>padrone</strong> (qui a seguito<br />

siglata M, Il Maestrale) si fonda su quello della Rizzoli (R,<br />

Milano, “Piccola Biblioteca La Scala”, 1998) 1 . Non riprende<br />

la prima edizione Feltrinelli (F, con sottotitolo L’educazione<br />

di un pastore, Milano, “Franchi Narratori”, 1975; poi<br />

“Universale Economica”, 1982) dato che l’autore vi era già<br />

intervenuto in vista di R, anche se con lievi modifiche. Fra<br />

queste notiamo alcune aggiunte (i numeri indicano le pagine<br />

delle rispettive edizioni):<br />

F R M<br />

69 nella sua lingua 75 nella sua lingua abituale 92<br />

80 che mi prude 87 che mi prude ancora 107<br />

102 il binomio 111 il binomio Gavino-natura 137<br />

1 <strong>Padre</strong> <strong>padrone</strong> è accompagnato nell’edizione Rizzoli da Recanto (pp.<br />

264-275), scritto in cui Ledda esperisce i primi risultati compiuti della sua<br />

solitaria ricerca di una lingua nuova; Recanto è preceduto da un discorsodialogo<br />

sulla Morte della lingua euclidea (pp. 251-262) e seguito da un<br />

Glossario (pp. 277-278).<br />

307


sostituzioni:<br />

F R M<br />

9 eva 10 erba 11<br />

13 su guíle 13 su cuìle 17<br />

88 buttones 95 cozzònes 2 117<br />

92 Furia di cazzo 99 Fùria de mincra 123<br />

non rispetta nulla! libera nos domine! 3<br />

semplici correzioni:<br />

F R M<br />

110 Beledu 119 Melédu 147<br />

113 mannàjos 123 mannùjos 152<br />

Per questa via si comprende che un’auspicabile edizione<br />

critica di <strong>Padre</strong> <strong>padrone</strong> dovrà tener conto sia di una fase genetica<br />

del testo, attraverso le copie d’autore fino alla prima<br />

stampa F (con una sotto-fase correttoria editoriale), sia di<br />

una fase evolutiva che da F passa per R e giunge alla presente<br />

edizione (in questa seconda fase rientrerebbe anche<br />

un esemplare di F, mostratomi dall’autore, con correzioni<br />

ed aggiunte autografe mai approdate alla stampa e che Ledda<br />

neppure oggi ha inteso considerare).<br />

2 Varianti lessicali sarde.<br />

3 Interessante ritorno al sardo, condito di latino ecclesiastico d’uso popolare;<br />

perché di ritorno si tratta: alla lingua soggiacente alla scrittura in<br />

italiano.<br />

308<br />

2. Verificata quindi la conformità del testo all’edizione<br />

Rizzoli, si è comunque ritornati ad F per sanare semplici<br />

sviste di R oppure accogliendo ripensamenti dell’autore<br />

circa innovazioni già volute in R rispetto ad F.<br />

Segnalo:<br />

R F M<br />

89 Nel primo periodo io 82 Nel primo periodo io, 110<br />

che non ero né forte che non ero né forte<br />

né furbo subivo né furbo, subivo<br />

126 aguzzava le roncole 116 aguzzava le roncole, 156<br />

le scuri le scuri<br />

192 l’Italiano 177 l’italiano 4 238<br />

3. Un altro punto su cui vale la pena soffermarsi riguarda<br />

le novità testuali di questa edizione. Si tratta intanto di semplici<br />

correzioni di lezioni comuni a F e R, quando non di<br />

veri e propri errori che R ha ereditato da F (ci limitiamo a<br />

rinviare alle pagine di questa edizione; evitiamo di segnalare<br />

la correzione di semplici trascorsi di stampa):<br />

F + R M<br />

thiantina 19 Thiantìna<br />

da sa ferula 30 dae sa férula<br />

da s’ammuttu 30 dae s’ammùttu<br />

di sos ruos 43 de sos ruos<br />

bizzabile 88 bizzàdile<br />

4 R: 192 due occorrenze, 194, 196, 206; F: 177 due occorrenze, 178,<br />

181, 190; M: 238 due occorrenze, 240, 243, 255.<br />

309


mesu mundu 82 Mesu Mundhu 5<br />

idda noa 82 Iddha Noa<br />

dell’abbigliamento 105 dall’abbigliamento<br />

sempre sulla piazza 158 sempre sulla pezza<br />

dae issa istulas 160 dae issas istùlas<br />

diventato. 270 diventato.”<br />

Appena più consistenti dal punto di vista variantistico due<br />

aggiunte volute dall’autore:<br />

F + R M<br />

– E it’est! 143 – E it’est! (Che c’è!)<br />

insieme a Gellòn 220 insieme a zio Gellòn<br />

e due sostituzioni lessicali:<br />

F + R M<br />

cabizzale 145 cabidàle<br />

messera 151 messe<br />

Segnaliamo infine: una ri-sardizzazione («cazzo» > «cazzu»<br />

M 111); due correzioni su un ricorso di dialetto di Porto<br />

Torres di zio Gellòn («Inògghe» > «Inògghi» M 221; «arruol’»<br />

> «arruolà» M 221); la correzione di una forma vocativa<br />

in contesto non vocativo («Giommarì» > «Giommarìa»<br />

M 124, in «Per il servo Giommarìa era la prima volta»); una<br />

piccola messa a punto fonosintattica («est dinghende» ><br />

5 Altra occorrenza: M, 181. Microtoponimo con maiuscole già in R e F:<br />

cfr. M, 189.<br />

310<br />

«este dinghènde» M 134) 6; una altrettanto lieve sottolineatura<br />

grafica («Sì la ringrazio» > «Sì La ringrazio» M 130) 7.<br />

4. Gavino Ledda ci tiene alla sostanza e alla forma di quel<br />

suo primo discorso narrativo che è <strong>Padre</strong> <strong>padrone</strong>, non per<br />

adesione incondizionata alla specifica qualità di quella parola<br />

romanzesca ma per fedeltà alla storia del testo e al Gavino<br />

Ledda che lo ha prodotto poco meno di trent’anni fa.<br />

Ci tiene: con tutte le incoerenze, gli usi oscillanti nella scrittura<br />

del sardo allora affrontata, come egli afferma, «con coscienza<br />

fonetica ma non fonologica».<br />

Pochissime dunque le oscillazioni sanate in questa edizione.<br />

Si è giusto preferito riportare «oiu» (p. 145) alla forma<br />

«oju» seguendo le altre due occorrenze del testo («oju»<br />

p. 183; «ojos» p. 103). I pochi ricorsi di k (es.: «kìbberas»<br />

p. 30; «tónkinos» p. 92) sono stati sostituiti con ch, soluzione<br />

già ampiamente maggioritaria. Il termine «theraccu» (p. 127,<br />

149), con th, è stato riportato alla forma «teràccu», con t<br />

(cfr. «teràcca» p. 178; «teràccos» p. 200). Seguendo un preciso<br />

desiderio dell’autore abbiamo sempre segnato con ddh<br />

/ dh il suono cacuminale della d (es.: «Baddhevrùstana»<br />

passim), fatta eccezione per «Ledda». Tutte le altre numerose<br />

oscillazioni restano invariate.<br />

Un altro desiderio d’autore, già manifestato nella preparazione<br />

dell’edizione Rizzoli ma solo parzialmente soddisfatto<br />

in quella sede, riguarda l’accentazione delle parole sarde. In<br />

6 Per puntellare la sonorizzazione intervocalica in «dinghènde» da ‘tinghende’.<br />

7 Ci si appoggia sulle altre maiuscole di cortesia che figurano nello stesso<br />

passo.<br />

311


questo caso l’intervento è stato sistematico e ha interessato<br />

tutte le condizioni in cui il sardo si presenta: a) in corsivo fra<br />

parentesi tonde (come ama riferire Ledda: chiuse «in sa<br />

mandra» [nel recinto] correlato grafico di una lingua imprigionata);<br />

b) in tondo senza alcuna marca grafica (compresa<br />

la micro-toponomastica ed altri nomi propri); c) nelle citazioni<br />

poetiche. Non fanno eccezione gli italianismi in contesto<br />

linguistico sardo.<br />

I principi seguiti nell’accentazione sono semplici, pensati<br />

in aiuto al lettore e non sono sfiorati da istanze normative.<br />

L’accento si esprime sulle parole tronche (poche, es.: «aió»)<br />

e su tutte le parole con più di due sillabe. Non si pone l’accento<br />

sui bisillabi, che s’intendono sempre accentati sulla<br />

prima ad eccezione dei bisillabi che presentano vocali solo<br />

grafiche, come «giùghes» (giù-ghes, p. 17). Per quanto detto<br />

si emendano rispetto alle edizioni precedenti gli accenti posti<br />

su alcuni bisillabi, es.: «rìu» («riu» p. 82) o «Rùzu» («Ruzu»<br />

p. 83). L’accento è sempre grave (à è ì ò ù), ma si usano é<br />

ed ó con accento acuto quando si presentano chiuse (per metafonesi).<br />

312<br />

Giancarlo Porcu<br />

Settembre 2003<br />

INDICE


INDICE<br />

7 <strong>Padre</strong> <strong>padrone</strong><br />

307 Notizia sul testo


Volumi pubblicati:<br />

Tascabili . Narrativa<br />

Grazia Deledda, Chiaroscuro<br />

Grazia Deledda, Il fanciullo nascosto<br />

Grazia Deledda, Ferro e fuoco<br />

Francesco Masala, Quelli dalle labbra bianche<br />

Emilio Lussu, Il cinghiale del Diavolo (2 a ristampa)<br />

Maria Giacobbe, Il mare (ristampa)<br />

Sergio Atzeni, Il quinto passo è l’addio<br />

Sergio Atzeni, Passavamo sulla terra leggeri<br />

Giulio Angioni, L’oro di Fraus<br />

Antonio Cossu, Il riscatto<br />

Bachisio Zizi, Greggi d’ira<br />

Ernst Jünger, Terra sarda<br />

Salvatore Niffoi, Il viaggio degli inganni (2 a edizione)<br />

Luciano Marrocu, Fáulas (2 a edizione)<br />

Gianluca Floris, I maestri cantori<br />

D.H. Lawrence, Mare e <strong>Sardegna</strong><br />

Salvatore Niffoi, Il postino di Piracherfa<br />

Flavio Soriga, Diavoli di Nuraiò (2 a edizione)<br />

Giorgio Todde, Lo stato delle anime<br />

Francesco Masala, Il parroco di Arasolè<br />

Maria Giacobbe, Gli arcipelaghi (ristampa)<br />

Salvatore Niffoi, Cristolu<br />

Giulio Angioni, Millant’anni<br />

Luciano Marrocu, Debrà Libanòs<br />

Giorgio Todde, La matta bestialità (2 a edizione)<br />

Sergio Atzeni, Racconti con colonna sonora e altri «in giallo»<br />

Marcello Fois, Materiali


Maria Giacobbe, Diario di una maestrina<br />

Giuseppe Dessì, Paese d’ombre<br />

Francesco Abate, Il cattivo cronista<br />

Gavino Ledda, <strong>Padre</strong> <strong>padrone</strong><br />

Salvatore Niffoi, La sesta ora<br />

Narrativa<br />

Salvatore Cambosu, Lo sposo pentito<br />

Marcello Fois, Nulla (2 a edizione)<br />

Francesco Cucca, Muni rosa del Suf<br />

Paolo Maccioni, Insonnie newyorkesi<br />

Bachisio Zizi, Lettere da Orune<br />

Maria Giacobbe, Maschere e angeli nudi: ritratto d’un’infanzia<br />

Giulio Angioni, Il gioco del mondo<br />

Aldo Tanchis, Pesi leggeri<br />

Maria Giacobbe, Scenari d’esilio. Quindici parabole<br />

Giulia Clarkson, La città d’acqua<br />

Paola Alcioni, La stirpe dei re perduti<br />

Poesia<br />

Giovanni Dettori, Amarante<br />

Sergio Atzeni, Due colori esistono al mondo. Il verde è il<br />

secondo<br />

Gigi Dessì, Il disegno<br />

Roberto Concu Serra, Esercizi di salvezza<br />

Serge Pey, Nierika o le memorie del quinto sole<br />

Saggistica<br />

Bruno Rombi, Salvatore Cambosu, cantore solitario<br />

Giancarlo Porcu, La parola ritrovata. Poetica e linguaggio in<br />

Pascale Dessanai<br />

FuoriCollana<br />

Salvatore Cambosu, I racconti<br />

Antonietta Ciusa Mascolo, Francesco Ciusa, mio padre<br />

Alberto Masala - Massimo Golfieri, Mediterranea<br />

I Menhir<br />

Salvatore Cambosu, Miele amaro<br />

Antonio Pigliaru, Il banditismo in <strong>Sardegna</strong>. La vendetta barbaricina<br />

Giovanni Lilliu, La civiltà dei sardi<br />

Giulio Angioni, Sa laurera. Il lavoro contadino in <strong>Sardegna</strong><br />

In coedizione con Edizioni Frassinelli<br />

Marcello Fois, Sempre caro<br />

Marcello Fois, Sangue dal cielo<br />

Giorgio Todde, Lo stato delle anime<br />

Marcello Fois, L’altro mondo<br />

Giorgio Todde, Paura e carne


Finito di stampare<br />

nel mese di ottobre 2003<br />

dalla Tipolitografia ME.CA. - Recco GE

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