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Alice in Wonderland - Bruno Osimo, traduzioni, semiotica della ...

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che lo scambio di suoni porti a pronunciare altre parole esistenti, spesso con<br />

effetti piuttosto comici, come nell’<strong>in</strong>glese «go and shake a tower» <strong>in</strong> luogo<br />

di «go and have a shower». La metonimia e lo spoonerism sono fenomeni<br />

tipicamente <strong>in</strong>volontari <strong>della</strong> l<strong>in</strong>gua parlata, ma, soprattutto <strong>in</strong> <strong>in</strong>glese,<br />

grazie alla facilità con cui si possono ottenere altre parole esistenti<br />

attraverso tali meccanismi, vengono a volte utilizzati di proposito <strong>in</strong> testi<br />

scritti per sortire l’effetto comico di cui sopra. È proprio questo l’uso che ne<br />

faceva il reverendo William Archibald Spooner, che come si <strong>in</strong>tuisce dà il<br />

nome al fenomeno e che pronunciò l’esempio appena citato.<br />

Gli esempi che ho trovato <strong>in</strong> <strong>Alice</strong> <strong>in</strong> <strong>Wonderland</strong> si basano <strong>in</strong> gran<br />

parte sul secondo caso di paronimia, il malapropism.<br />

‘no wise fish would go anywhere without a porpoise.’<br />

‘Wouldn’t it really?’ said <strong>Alice</strong> <strong>in</strong> a tone of great surprise.<br />

‘Of course not,’ said the Mock Turtle: ‘why, if a fish came to me, and<br />

told me he was go<strong>in</strong>g a journey, I should say “With what porpoise?”’<br />

‘Don’t you mean “purpose”?’ said <strong>Alice</strong> (Carroll 2002:93).<br />

In questo gioco di parole, il lettore percepisce subito il collegamento fra<br />

«porpoise», focena, e «purpose», scopo. Tale collegamento è suggerito<br />

contemporaneamente dal contesto e dalla somiglianza di suono tra le due<br />

parole. Anche se <strong>Alice</strong> non ci dicesse qual è la parola che «porpoise» fa<br />

venire <strong>in</strong> mente <strong>in</strong> quel contesto, sicuramente il lettore che conosce la<br />

l<strong>in</strong>gua <strong>in</strong>glese non può fare a meno di pensare a «purpose», sia nella prima<br />

battuta che, soprattutto, nella terza. È questo il meccanismo di confusione<br />

che questo tipo di gioco di parole riesce a creare: il lettore si aspetta, dato il<br />

contesto, una determ<strong>in</strong>ata parola, ma ne trova un’altra dal suono simile, la<br />

quale gli suggerisce ancor più la parola esatta. Nel frattempo, però,<br />

nonostante le conclusioni tratte dal lettore, il gioco di parole si realizza<br />

dando per buona la parola “sbagliata”, e lasciando così quell’atmosfera di<br />

nonsense che caratterizza tutta la storia; l’assurdo dialogo si conclude<br />

<strong>in</strong>fatti con una battuta stizzita <strong>della</strong> F<strong>in</strong>tartaruga: «I mean what I say»<br />

(Carroll 2002:93). Battuta che suona anche come ironia rivolta contro le<br />

persone che, peccando di egocentrismo (o di etnocentrismo se si tratta di<br />

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