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Maria Ines Aliverti<br />

Recensione a Anna Barsotti, Eduardo, Fo e l’attore autore del Novecento, Roma, Bulzoni, 2007,<br />

386 p.<br />

Il libro di Anna Barsotti dedicato a due tra i maggiori protagonisti del teatro italiano del Novecento,<br />

Eduardo De Filippo e Dario Fo, nasce da lunghi anni di studio e di attenta e appassionata<br />

sollecitudine per l’opera dei due attori autori. Frutto di quella libertà di approccio che caratterizza<br />

gli studi della maturità, esso rifugge da costruzioni monumentali per stendere una rete sottile di<br />

rimandi e di irraggiamenti attraverso cui l’opera dei due artisti prende il suo pieno valore nella<br />

nostra cultura teatrale contemporanea.<br />

Il volume consta di quattro parti 1 e di una sezione di Materiali 2 . Alla lettura tuttavia queste parti si<br />

possono racchiudere in tre nuclei che manifestano anche significative variazioni nell’approccio alle<br />

figure e ai problemi.<br />

Il primo nucleo (Parti I e II) può definirsi analiticamente poetico, oltre che dedicato alla poetica, e<br />

contiene i due ritratti di Eduardo (“attore tra maschera e volto”) e di Fo (attore plurale, giullare<br />

multiplo e ipòcrito-maniaco). Si delineano qui i ritratti dei due attori-autori sul filo di un percorso<br />

che si potrebbe definire emblematico, misurato sul rapporto profondo con alcune esperienze<br />

racchiuse in testi chiave. Per Eduardo si disegna il suo alter ego metateatrale: il capocomico pazzo<br />

per necessità Gennaro de Sia (Uomo e galantuomo), Sik Sik, l’artefice magico, Otto Marvuglia della<br />

Grande Magia; per Dario Fo, l’istriomane maniaco del teatro verità in Morte accidentale di un<br />

anarchico e l’auto immagine giullaresca di Mistero Buffo. Come a corollario di queste figure chiave<br />

dell’autoriflessione dei due uomini di teatro, emergono, nella produzione drammaturgica di<br />

entrambi, alcuni personaggi con caratteristiche contigue: la truppa degli antieroi, dei distratti, dei<br />

sognatori, dei pazzi, degli inadatti (pp. 162-163) che di volta in volta si sono fatti portatori di verità<br />

altrimenti indicibili.<br />

In questa parte del suo lavoro Anna Barsotti ci dà alcune esemplari descrizioni del gioco dei due<br />

attori, in cui riesce a rendere con finezza e precisione quasi calligrafica la loro persona recitante, e<br />

in particolare i primi piani. L’uso della terminologia cinematografica è in questi passi perfettamente<br />

funzionale al modo come i due attori riescono a spostare sul loro volto l’attenzione dello spettatore,<br />

giocando sulla dinamica dei movimenti corpo-volto, di gestualità e mimica.<br />

La maschera volto di Fo, che gli consente “di attuare un processo di distanziamento dalle situazioni<br />

rappresentate” assumendo “la strategia dell’altro”, viene magistralmente esposta nei suoi effetti<br />

fisiomimici imprevisti e sorprendenti (pp. 89-90). Altrettanto sensibili e penetranti le descrizioni<br />

del volto maschera di Eduardo, viste come alternanze significative tra la mobilità dei passaggi<br />

espressivi e l’irrigidirsi in alcune espressioni fisse: ecco Michele Murri in Ditegli sempre di sì,<br />

registrato nel 1962, dove Eduardo compone l’effetto scenico della pazzia (p. 33), o ancora Eduardo<br />

come Pasquale in Questi fantasmi, nella registrazione del 1962 messa significativamente a<br />

confronto con le critiche coeve (p. 55).<br />

Più rispondente a una istanza critico-storica è invece il secondo nucleo del lavoro in cui si<br />

articolano due approcci.<br />

Il primo (corrispondente alla Parte III) prende in esame comparativamente i diversi elementi della<br />

contiguità di Eduardo e di Fo nel teatro italiano, qui visti da vicino anche come autori-registi e<br />

produttori del loro teatro, relativamente ad alcuni aspetti nodali della loro pratica teatrale: le<br />

poetiche del comico, il rapporto con la tradizione, la drammaturgia “più che consuntiva” - o forse<br />

* Il testo di questa recensione riprende un mio intervento in occasione della presentazione del libro tenuta al Teatro<br />

Verdi di Pisa, il 14 marzo 2008, con la partecipazione di Claudio Meldolesi e della stessa Anna Barsotti.<br />

1 Eduardo (Parte I, pp. 21-78), Fo (Parte II, pp. 81-122), Eduardo e Fo (Parte III, pp. 125-183), Dialetti, lingue,<br />

pastiches. La maschera, il volto e la smorfia nell’attore – autore italiano dal ‘900 al 2000, (Parte IV, pp. 187-271).<br />

2 I Materiali (pp. 275-413) contengono una riflessione sulla linea eduardiana da Leo de Berardinis a Toni Servillo e<br />

interviste a tre originali, e tra loro diversi, protagonisti di questa linea: lo stesso Servillo, Silvio Orlando ed Alfonso<br />

Santagata. Si chiudono con due conversazioni con due altri autori-attori, Paolo Rossi e Alessandro Benvenuti.<br />

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meglio la drammaturgia del testo mobile, quella che tende a non interpretare il testo come fisso<br />

neanche una volta stampato - la concezione dell’attore e del suo corpo, il lavoro con la compagnia,<br />

il pubblico e gli spazi.<br />

Il secondo (Parte IV) è dedicato a quella che potrebbe definirsi nel suo senso più profondo l’eredità<br />

di Fo e di Eduardo nel teatro italiano nel ’900, quella che forse potrebbe chiamarsi, a mio avviso e<br />

se interpreto bene il pensiero dell’autrice, una sorta di pedagogia dell’impossibile, cioè<br />

l’esposizione solista dell’attore-autore nel monologo (il solista molesto) che fa scuola in alcune<br />

importanti esperienze successive (Troisi, Benigni, Moscato). La definisco pedagogia<br />

dell’impossibile perché corrisponde al nucleo più oscuro e intenso (più atrabiliare e mortale) della<br />

sapienza di questi attori e in particolare della sapienza di Eduardo. Non a caso questa parte è chiusa<br />

dal corollario di Sik Sik, come il Prospero shakespeariano vero e fantasmatico alter ego dell’autore<br />

di teatro.<br />

Il terzo e ultimo nucleo del libro (Materiali) è più documentale e calato nella ricerca attuale:<br />

raccoglie, sotto la forma di interviste a Toni Servillo, a Silvio Orlando ad Alfonso Santagata, a<br />

Paolo Rossi e ad Alessandro Benvenuti, materiali di teatri in fieri che fanno emergere la ricchezza e<br />

la varietà dell’eredità di Eduardo e di Fo nel teatro contemporaneo.<br />

La capacità di comunicare di Fo e di Eduardo risiede in un teatro che non si adegua ai progetti<br />

dell’organizzazione culturale, ma non si ghettizza. Il confronto fra le loro distinte poetiche della<br />

scena consente di indagare:<br />

i rapporti di entrambi, e di ciascuno, con la tradizione;<br />

la fusione che ciascuno a suo modo opera dei ruoli di attore-autore-regista;<br />

le finalità del teatro che l’uno e l’altro si prospettano;<br />

le relative genesi del testo, che implicano per entrambi un personale stile recitativo;<br />

il rapporto con il pubblico, nodo fondamentale per la creazione drammaturgica e spettacolare di<br />

questi due uomini di teatro.<br />

E’ un confronto serrato, ma libero, che consente di considerare le contiguità più che le coincidenze,<br />

che prende a carico anche le discontinuità, sia all’interno di ciascun percorso sia tra i due percorsi.<br />

Arrivati a questo punto credo che non sia qui inopportuno un richiamo alla immagine che figura<br />

sulla copertina libro: un dipinto di Gino Severini, La lezione di musica, in cui un Pulcinella<br />

mascherato e un Arlecchino senza maschera, con in mano due strumenti (una chitarra il primo e una<br />

siringa il secondo), si guardano sullo sfondo di uno scorcio di natura mediterranea e di muri in<br />

rovina, forse i resti delle arcate ombrose di un antico teatro. Il Pulcinella Cristo e l’Arlecchino satiro<br />

o diavolo sono qui come due facce speculari. L’ immagine sembra racchiudere il senso della<br />

prossimità ma anche della diversità profonda tra Eduardo e Fo, nel rapporto con il personaggiomaschera,<br />

lo stesso loro personaggio e i personaggi delle loro commedie, così come viene<br />

sottolineato nel libro (p. 161).<br />

Per Eduardo il meccanismo della finzione diventa un ostacolo da superare: l’obbiettivo utopico di<br />

Eduardo è “far riconquistare al personaggio l’umanità perduta attraverso la presa di coscienza della<br />

responsabilità individuale nella confusione etica e civile della società”. Questo percorso di<br />

rigenerazione umana del personaggio viene compiuto da Eduardo “donando sostanza tragica – dal<br />

punto di vista dello scavo interiore – ai tipi farseschi delle sue Pari”. Fo autore invece non indaga le<br />

motivazioni intrapsichiche dei suoi personaggi, mira anzi ad esteriorizzarli in una pluralità di voci<br />

che prende consistenza anche dalla pluralità di Fo attore. Questa scelta risponde alle motivazioni<br />

ideologiche che si riconoscono in una forma epica di teatro.<br />

Ma allora perché Eduardo è mascherato e Fo non lo è. Non dovrebbe essere il contrario?<br />

Di cosa si nutrono in profondo la solitudine e la marginalità teatrale di Eduardo e di Fo in quanto<br />

attori e perché davvero, contro tutte le apparenze, Pulcinella conserva la maschera e Arlecchino l’ha<br />

smessa?<br />

La spiegazione, nel suo solito stile asciutto, ci viene dallo stesso Eduardo in una dichiarazione<br />

riportata in un saggio di Stefano de Matteis del 1990 (Identità dell’attore napoletano): «Io non ho<br />

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mai avuto il coraggio di togliermi completamente la maschera. Dario Fo invece è un Pulcinella che<br />

si è tolto la maschera». Anna Barsotti commenta: «egli (Eduardo) evita di proiettarsi completamente<br />

nel suo personaggio, l’altro trasforma il personaggio in una immagine della sua persona» (p. 165).<br />

In Eduardo v’è una sorta di alternanza fra maschera e volto, alternanza di distacco e di immersione,<br />

in Fo v’è l’esposizione epica del personaggio, straniata ed esposta. Per entrambi queste strategie<br />

sono funzionali alla comunicazione e a sollecitare la partecipazione critica dello spettatore (p. 158).<br />

In entrambi non esiste un messaggio separato o separabile dal suo significante verbale-scenico.<br />

Eduardo diffida della cosiddetta “commedia impegnata” del messaggio didascalico e della<br />

commedia a tesi, e lo dichiara (p. 127); Fo non solo sa esprimere in forma scenica anche il<br />

messaggio più esplicitamente politico, ma − si direbbe − foggia e articola il discorso politico in base<br />

alla creazione scenica e all’interno di essa, in maniera perfetta nella sue creazioni più compiute.<br />

C’è poi un dato remoto nell’immagine di Eduardo che non si toglie mai la maschera e che<br />

appartiene alla sua sapienza e alla sua filosofia di stampo antico: Larvatus prodeo diceva Cartesio,<br />

riferendosi all’io intimo e all’io della meditazione. Anche parlando di Eduardo non si intende<br />

l’accezione tradizionale e peggiorativa della metafora: la maschera è qui vista come parte del<br />

processo di comunicazione e transazione verso l’altro. L’invito a portare la maschera è un parola<br />

chiave della filosofia libertina del grand siècle cui fecero riferimento Molière e anche Fiorilli, e che<br />

attraverso Gassendi si è innestata nella cultura napoletana e nella sua antica matrice epicurea. La<br />

maschera non è un mezzo per dissimulare la persona, ma il solo mezzo per avere accesso a questa<br />

persona, a colui che la porta, e il solo luogo in cui questa persona può manifestarsi agli altri: essa<br />

segna quindi il limite identitario e il luogo dello scambio tra le persone. Essa segna anche la<br />

capacità di costruire modelli (anche nella forma eduardiana di contro-modelli alla bassa morale<br />

corrente). Secondo Gassendi il saggio è il solo per cui le due maschere, quella dell’uomo privato e<br />

quella dell’uomo sociale coincidono, e il vero saggio è colui capace di diventare per sé un proprio e<br />

vasto teatro. A questo mondo dell’estroversione, dell’outing, del reality show e degli interni vuoti,<br />

Eduardo ricorda che la laicità, nella sua profonda accezione morale, è gioco di maschere. C’è in<br />

Eduardo una componente barocca che andrebbe investigata e che è peraltro accennata in alcune sue<br />

forme (il theatrum mundi) negli studi di Eduardo e anche in questo studio di Anna Barsotti che<br />

contribuisce meglio di altri a dipanarne il senso.<br />

Un altro elemento suggerito dall’icona in copertina viene sviluppato nel libro. E’ l’importanza che<br />

la musica del testo assume per i due attori-autori, come lo stesso Fo dichiara nel suo Manuale.<br />

«Il teatro bisognerebbe scriverlo sul pentagramma – lo dicevamo spesso con Eduardo – perché ha le<br />

tonalità, gli andamenti delle note... Eduardo sostiene che molte sue commedie sino nate da una<br />

poesia». La musica è quindi parte della struttura del testo in quanto organizzazione ritmica e<br />

melodica, ma per Fo e per Eduardo è anche parte del significante verbale, il “colore” della lingua<br />

scenica. Come sottolinea l’autrice, entrambi usano il linguaggio nativo ed entrambi ne valorizzano<br />

gli aspetti paralinguistici ed extralinguistici: l’intonazione vocale e una mimica facciale e corporea,<br />

quasi danzata nella sua estrema nettezza e precisione formale. Il dialetto d’origine – per Eduardo il<br />

napoletano o il bilinguismo del suo napoletano italianizzato, per Fo la sua lingua giullaresca e<br />

mescidiata, fatta di elementi del suo lombardo occidentale originario e di dialetti dell’area<br />

settentrionale lombardo veneta – è trasformato in lingua scenica: questa lingua nuova non può<br />

essere separata dalla sua prassi esecutiva orale e mimica, ma anzi la implica originariamente.<br />

E’ una lingua mobile come una danza e che nella danza scenica sposa tutte le movenze del corpo,<br />

per Eduardo anche le stasi e i silenzi pienamente significanti.<br />

Questo elemento della mobilità della lingua si aggiunge alla mobilità del testo di una drammaturgia<br />

che va dal palcoscenico al libro e non viceversa. Il libro affronta analiticamente alcuni dei casi più<br />

illuminanti di questa drammaturgia consuntiva: Morte accidentale di un anarchico e Mistero Buffo<br />

per Fo, e per Eduardo le diverse stesure di molte delle sue principali commedie.<br />

Il contrasto tra il silenzioso e il logorroico è un altro grande tema che viene a più riprese affrontato e<br />

commentato nello studio, non solo nei silenzi di Eduardo e nel grammelot di Fo, ma anche<br />

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nell’ingorgo mimetico di pause e di ripetizioni di Troisi (pp. 214-222), nella maschera linguistica<br />

“organica” (ecolalie e glossolalie) e logorroica di Benigni (pp. 222-229), nell’affabulazione<br />

vorticosa e plurilingue e nel napoletano “crudo e onirico” di Moscato (pp. 229-241).<br />

Sono le esperienze estreme di quel parlare senza le parole ovvero di quella danza della lingua di<br />

cui si è detto prima. Indicano il punto di maggiore lontananza cui si giunge dal gioco<br />

interlinguistico, quello delle lingue artificiali e composite (il bilinguismo e il plurilinguismo), verso<br />

l’afasia da una parte (il farfugliare, il balbettio e il silenzio) e l’informe delle ecolalie e delle<br />

glossolalie dall’altra.<br />

Iniziamo dal grammelot. Dissento in parte da quanto Anna Barsotti sottolinea (p. 209) rispetto alle<br />

considerazioni sulla lingua scenica di Fo avanzate da Gianfranco Folena nel suo saggio Le lingue<br />

della commedia del 1979. Non mi pare che Folena faccia infatti confusione tra il plurilinguismo e il<br />

grammelot. Piuttosto Folena illumina sulla contiguità profonda che esiste tra queste due pratiche<br />

linguistiche di Fo. Il plurilinguismo dialettale di Fo non si limita infatti a mescolare i dialetti, non è<br />

quindi solamente un plurilinguismo lessicale, ma una vera e propria polimorfia interdialettale: «una<br />

fricassea di dialetti – lo definisce Folena – non solo <strong>continua</strong>mente commutati nella successione<br />

sintagmatica, ma espressionisticamente deformati e compenetrati a livello morfematico nella stessa<br />

parola».<br />

Così inteso il principio di creazione linguistica interdialettale di Fo risponde a criteri non troppo<br />

lontani da quelli del grammelot, in cui la polimorfia abbandona completamente l’ancoraggio al<br />

livello lessicale originario per affidarsi alla musica del senso attraverso la mimesi onomatopeica.<br />

Fo ha incoraggiato studiosi come Folena a raffinare la riflessione sulla tradizione del plurilinguismo<br />

nel teatro italiano del Cinquecento e ci insegna anche come leggere le testimonianze<br />

cinquecentesche e primo seicentesche nell’ambito della Commedia dell’Arte, che si riferiscono di<br />

necessità a un insieme variegato di pratiche interlinguistiche e interstilistiche.<br />

Ho avuto la fortuna di assistere a uno spettacolo della tournée francese di Dario Fo nel 1974, quello<br />

che viene citato anche nel libro (p. 209) come una delle prime intrusioni del grammelot nel corpo<br />

dello spettacolo. Si trattava per la verità di uno spettacolo quasi interamente montato sul grammelot<br />

e fatto da Fo al teatro della Cité internationale di Parigi. Qui il pubblico era assolutamente<br />

internazionale e formato da giovani di tutti i paesi del mondo: per comunicare con loro Fo scelse di<br />

fare una serie di sketch tutti impostati sul grammelot: l’avvocato inglese, l’astronauta americano<br />

ecc. (e qui la diversità dei due inglesi inventati era illuminante). Fu naturalmente un successo<br />

enorme.<br />

Peraltro il grammelot era già presente – come sottolinea Anna Barsotti – in alcune esperienze di Fo<br />

negli anni ’50: si cita qui ( p. 207) il grammelot del turista inglese, significativamente accostato a un<br />

bergamasco estremamente sonorizzato, che anch’esso contiene in nuce un principio di grammelot;<br />

non a caso fu infatti la lingua degli zanni. Proprio negli anni ’50, quando Fo frequenta il Piccolo<br />

Teatro e entra in contatto con Lecoq (intorno al 1953 faranno poi insieme con Durano Il dito<br />

nell’occhio e I sani da legare), avviene probabilmente quella ibridazione tra la sua pratica recitativa<br />

e affabulatoria originaria, interlinguistica per vocazione e per necessità di provinciale inurbato nella<br />

capitale, con la pratica della pedagogia attorica proveniente dalla scuola di Copeau e dai Copiaus, in<br />

particolare trasmessa a Lecoq dal suo maestro Jean Dasté, allievo di Copeau. A questa pratica fanno<br />

riferimento anche le tecniche di imitazione del movimento animale poi ampiamente e genialmente<br />

elaborate da Fo (si veda La storia della tigre). L’imitazione del movimento animale (che Lecoq<br />

converte in una vera e propria ginnastica animalista) e la creazione di linguaggi artificiali erano<br />

praticate dai Copiaus, sulla base dello studio della Commedia dell’Arte, con lo scopo preciso di<br />

sottrarre l’attore alla mimesi del testo, alla pratica espressiva e imitativa. La ricerca di Copeau<br />

ripresa dai Copiaus, e trasmessa attraverso Lecoq anche a Dario Fo, va proprio nella direzione di<br />

riportare il suono della voce alla sua scaturigine dal movimento e in accordo profondo con questo.<br />

Anche il silenzio di Eduardo è dell’ordine delle pratiche linguistiche estreme. Esiste in lui una intera<br />

gamma dell’afasia: il silenzio si dipana in un tessuto di sospensioni, è contiguo all’aggrumarsi di<br />

suoni e al farfugliare dei suoi sognatori. Anna Barsotti coglie anche qui significative analogie:<br />

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«Quel garbuglio di suoni che prelude, nelle performances di Eduardo, ai difficili risvegli dei suoi<br />

sognatori (Luca Cupiello e Gennaro Jovine di Napoli milionaria!) è quasi un grammelot, ovvero<br />

uno ‘sproloquio onomatopeico’» (p. 138).<br />

Aggiungerei che questo tratto di ecolalia, contiguo ai silenzi e alle insondabili sospensioni di<br />

Eduardo, si accompagna a un altro aspetto molto importante e significativo della sua recitazione<br />

nelle punte più autistiche: vale a dire quello sfarfallio delle mani, specie nelle apparizioni che<br />

conosciamo di lui ormai anziano: mani ossute e magre mosse nell’aria a rincorrere parole<br />

impossibili, e che non terminano mai le conseguenze dei gesti. Tratto autistico che è da vedere<br />

assieme all’atteggiamento sghembo delle entrate eduardiane, notato da Frascani nel suo saggio su<br />

Eduardo De Filippo attore del 1990, o al tratto schizofrenico di alcuni personaggi visionari: quasi<br />

un personaggio evocato accanto a quello recitato. Un modo straordinario di comunicare e insieme<br />

di trasmettere l’incomunicabile della condizione umana.<br />

Sul silenzio di Eduardo e sul silenzio dei grandi attori si potrebbe aprire una lunga parentesi e anche<br />

in questo si può andare indietro nella tradizione del teatro italiano, così poco di conversazione come<br />

invece è stato il teatro francese con la sola eccezione di Molière. Si può andare proprio al maestro di<br />

Molière a quello Scaramuccia che “non parla e dice grandi cose”. Penso naturalmente al bel libro di<br />

Giovanni Macchia sul “silenzio” di Molière.<br />

Ma vorrei qui andare più indietro e cogliere ancora una volta nel silenzio di Eduardo un tratto<br />

arcaico e remoto della cultura mediterranea. Tacita, la signora del silenzio, la musa silenziosa<br />

venerata dai romani appare infatti la vera musa di Eduardo, facundus et paucum verbum, che sa dire<br />

ma anche tacere. Questo silenzio eduardiano è connotato spesso nel contesto delle commedie anche<br />

da un moto apotropaico che ricorda l’attributo dell’antica musa del silenzio: colei che ha pure il<br />

compito di far tacere i rumores, i maledicta, i murmura e via di seguito, ogni discorso corrosivo di<br />

cui pullula Napoli, con i suoi bassi e le sue promiscuità, le sue capère e le sue malelingue. Si vedano<br />

in proposito le pagine che Anna Barsotti dedica sia alla Napoli di Eduardo (pp. 174-177).<br />

Ho anche qui un ricordo personale: una rappresentazione di una delle ultime commedie di Eduardo<br />

a Roma, mi pare di ricordare che fosse Le bugie con le gambe lunghe, non uno dei capolavori di<br />

Eduardo, anche se sulla scena lui era il capolavoro vivente. Ma quando girai alla fine il mio sguardo<br />

in platea vidi, tra il pubblico che applaudiva in piedi, quasi a fargli segno, un altro grande poeta del<br />

silenzio: Michelangelo Antonioni.<br />

Sia per Fo che per Eduardo assistiamo quindi, attraverso un uso creativo della partitura verbale e<br />

gestuale, ben evidenziato nelle pagine del libro di Anna Barsotti, alla manifestazione di un<br />

universale antropologico, di una struttura profonda soggiacente ai livelli comunicativi<br />

convenzionali e quotidiani.<br />

Ci sono infine due altre tematiche forti nel libro, in parte implicite in quello che si è detto.<br />

La prima meriterebbe tutta una presentazione a sé e forse, se posso avanzare una critica, l’avrebbe<br />

meritata anche nel libro che pure contiene moltissimi spunti e rilievi in proposito: un confronto tra<br />

Eduardo e Fo registi. Confronto che appare rilevante anche in rapporto a esperienze presenti nella<br />

sezione finale del libro, nelle conversazioni con due uomini di teatro quali Toni Servillo (pp. 297-<br />

333) e Alfonso Santagata (335-375) in relazione alle loro messinscene di commedie eduardiane.<br />

L’altra tematica forte che il libro svolge in modo articolato e che ne costituisce anzi uno degli assi<br />

portanti è il confronto tra Fo ed Eduardo sulla base del loro rapporto con la tradizione e con il<br />

passato teatrale: le due cose sono diverse, come ci fa giustamente notare l’autrice.<br />

La tradizione è per Eduardo, figlio di Scarpetta, la vita che <strong>continua</strong>: tradizione in cui è cresciuto,<br />

ma da cui si stacca, per poi tornarci, ma più tardi, al fine di rielabolarla.<br />

E’ Eduardo a sottolineare la differenza tra tradizione e passato in uno scritto autobiografico del<br />

1985, rivisitando la metafora dei “nani sulle spalle dei giganti”: «Se un giovane sa adoperare la<br />

tradizione nel modo giusto, essa può dargli le ali [...] se si resta ancorati al passato, la vita che<br />

<strong>continua</strong> diventa vita che si ferma – e cioè morte – ma, se ci serviamo della tradizione come di un<br />

trampolino, è ovvio che salteremo più in alto che se partissimo da terra» (cit. a p. 133).<br />

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E’ comunque il teatro del mondo di Napoli la tradizione in cui Eduardo è immerso e da cui attinge,<br />

secondo quando egli stesso esprime in una sua bellissima poesia, nel libro giustamente trascritta:<br />

Napule è nu paese curiuso:<br />

è nu teatro antico sempre apierto<br />

ce nasce gente ca, senza cuncierto,<br />

scenne pe’ ’e strade e sape recità [...]<br />

La tradizione è invece per Fo una tradizione teatrale cercata e reinventata (le giullarate e le farse<br />

medievali, la commedia dell’arte). Non si può dire tuttavia che Fo sia privo di una tradizione<br />

performativa originaria, anche se non proprio di una tradizione teatrale, ma piuttosto di un passato<br />

familiare e nativo (la fabulazione spontaneamente praticata dalla gente del popolo nelle sue zone<br />

d’origine) che si collega a una tradizione teatrale riscoperta e reinventata, come egli stesso<br />

testimonia raccontando la sua Storia a Chiara Valentini (p. 133).<br />

La tradizione ereditata e rifondata di Eduardo e la tradizione ricostruita, o l’auto-tradizione, di Fo si<br />

raggiungono. Esse dimostrano, come è stato detto da storici sensibili, che le forme dell’arte hanno<br />

vita mobile e diversa rispetto a una supposta, ma artificiosa, continuità storica. Soprattutto, come è<br />

stato ampiamente dimostrato da Claudio Meldolesi nei suoi scritti, l’arte del teatro non è arte che<br />

poggi sulla continuità dei modelli, poiché questa continuità non c’è veramente anche laddove pare<br />

che essa ci sia, come per il grande attore dell’800, come per Eduardo e come per Dario.<br />

A proposito sentite: in Dario ci sono ben quattro lettere che ci sono in Eduardo: D a r o ma la i è<br />

tutta sua.<br />

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