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Petrarca RVF 32 _commento daniele galliano 3B_ - ZyXEL NSA210

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Francesco Francesco Francesco <strong>Petrarca</strong>, <strong>Petrarca</strong>, <strong>RVF</strong> <strong>RVF</strong> <strong>RVF</strong> <strong>RVF</strong> <strong>32</strong>, Quanto Quanto Quanto Quanto più più più più m’ m’ m’ m’ avicino avicino avicino avicino al al al al giorno giorno giorno giorno extremo extremo extremo extremo<br />

Analisi e <strong>commento</strong> di Daniele Galliano 3° B (dicembre 2005) 1<br />

Nota metrica: sonetto; rime: ABBA; ABBA; CDE;DCE; versi endecasillabi.<br />

Il sonetto dovrebbe risalire agli anni giovanili del poeta e questo fatto può dare un singolare<br />

risalto alla tematica della fuga del tempo e della morte; è necessario comunque sottolineare che<br />

si tratta di una meditazione costante nel <strong>Petrarca</strong> e non legata solamente al periodo della<br />

vecchiaia.<br />

In questo sonetto l’autore insiste sul motivo centrale della sua esperienza poetica: la fugacità<br />

della vita e la vanità dei beni terreni di fronte ai quali l’uomo è totalmente indifeso (“più veggio il<br />

tempo andar veloce e leve e’l mio di lui sperar fallace e scemo”, v.3). Il poeta assiste impotente<br />

al tempo che scorre veloce avvicinando il momento della morte e vanificando in questo modo<br />

ogni speranza per il futuro.<br />

Si assiste in questo modo ad una presa di coscienza dell’autore del fatto che da un lato vi è la<br />

consapevolezza da parte dell’uomo della fugacità della vita, delle passioni terrene e del valore<br />

delle cose, e dall’altro vi è la coscienza, in un ottica tutta cristiana, che quando il corpo si<br />

sgretolerà non si potrà più parlare d’amore poiché quest'ultimo appartiene a quella schiera di<br />

vanità terrene del tutto irrilevanti. La morte appare come il "disiato [desiderato] porto" (<strong>RVF</strong> 119),<br />

il "riposato porto" (<strong>RVF</strong> 126 v. 24), dove il poeta avrà finalmente pace.<br />

Il discorso è chiaramente diviso in due parti principali. La prima, che coincide con la prima<br />

quartina, enuncia la constatazione che quanto più egli si avvicina alla morte, tanto più sente il<br />

tempo scorrere velocemente e le speranze vanificarsi. La seconda parte, che si estende dalla<br />

seconda quartina alle due terzine, contiene la riflessione del poeta, in forma di discorso rivolto ai<br />

propri pensieri (si conferma qui la caratteristica della lirica petrarchesca, tutta rivolta<br />

all'introspezione, all'indagine interiore dell'io poetico).<br />

I motivi pessimistici espressi nella prima quartina richiamano l’idea medioevale del disprezzo<br />

del mondo, ma per <strong>Petrarca</strong> non si tratta solo di esteriori considerazioni moralistiche piuttosto<br />

generiche; infatti in questo sonetto la problematica della vanità della vita è intimamente rivissuta<br />

a livello soggettivo. Il tempo, che rende labile e precaria ogni cosa, assume qui una dimensione<br />

tutta soggettiva e si trasforma in un’esperienza interiore.<br />

Per questo motivo, dalla seconda strofa, il sonetto assume la forma di un colloquio dell’io con<br />

sé stesso e con i propri pensieri (“I’dico a’miei pensier”, v.5), trasformando il soggetto dal<br />

singolare al plurale, quindi da “io” a “noi" (“non molto andremo d’amor parlando ormai”).<br />

Bisogna inoltre sottolineare che i versi 5-6 contengono l’eco di un verso dantesco “Tutti i miei<br />

pensier parlan d’amore” , Vita Nuova XV ed anche l’allusione ai molti luoghi in cui <strong>Petrarca</strong><br />

spesso si trova assorto nel soliloquio amoroso, come ad esempio Solo e pensoso i più deserti<br />

campi (<strong>RVF</strong> 35).<br />

Il poeta mostra il suo tormento di essere umano il cui corpo non è che un peso terreno<br />

oneroso (“duro e greve terreno inarco”, v.7) che si sta liquefacendo come la neve caduta di<br />

recente. In questa poesia, però, la morte viene vista come una liberazione, poiché abbrevia<br />

“l’umana miseria”, libera l’anima dalle passioni contrastanti che lacerano l’animo umano e dai<br />

“vaneggiamenti” della terra, permettendo in questo modo all’uomo di rendersi conto di quanto<br />

spesso egli si lamenti per futili ragioni.<br />

Con la morte cadrà anche la speranza, alimentata dall’amore per Laura, che fece vaneggiare a<br />

lungo il poeta e, con l’annullamento dei sensi, finalmente cesseranno anche tutte le sue emozioni<br />

(“el riso, el pianto, e la paura e l’ira”, v.11).<br />

1<br />

Con qualche intervento e poche aggiunte del docente. Occorre indicare in questa questa nota nota anche le fonti da<br />

cui cui Daniele Daniele ha ha tratto tratto le le informazioni informazioni !!!!!!!!<br />

!!!!!!!!<br />

1


Sarà solo nel momento della morte che il poeta comprenderà con chiarezza il vero senso della<br />

vita e quanto spesso l’uomo (“altri”) si affatichi inutilmente dietro le cose incerte e quanto spesso<br />

si desiderino dei beni inutili.<br />

Questo tormento, questa incapacità di vivere serenamente il suo amore per Laura, o -<br />

viceversa- di distaccarsene definitivamente per rivolgersi completamente a Dio, causa del<br />

“dissidio interiore”, che <strong>Petrarca</strong> analizza acutamente nel Secretum, torna in numerosi sonetti del<br />

Canzoniere come La vita fugge e non s’arresta un’ora (<strong>RVF</strong> 272), dove viene anche riproposta la<br />

fuga inarrestabile del tempo, benché la morte in quel testo non costituisca un rifugio tranquillo.<br />

In questo sonetto tornano molte parole già incontrate in altre poesie del <strong>Petrarca</strong>, come<br />

“vaneggiar vaneggiar vaneggiar” vaneggiar che troviamo nel sonetto 62 Padre del ciel, dopo i perduti giorni (v. 2), e nel sonetto<br />

proemialeVoi ch’ascoltate in rime sparse in suono (v. 12): il termine indica l'inutilità delle<br />

aspirazioni terrene. “Sospirar ospirar ospirar” ospirar che troviamo nella canzone Chiare fresche e dolci acque (canz.<br />

126, vv. 5; 34; 61) ed infine la parola “pace pace pace” pace che pure troviamo in Chiare fresche e dolci acque (v.<br />

65). Si tratta di quella pace a cui il poeta continuamente aspira, senza raggiungerla (Pace non<br />

trovo e non ho da far guerra), se non alla fine del canzoniere, a sottolineare l’importanza di questo<br />

termine, come parola finale dell’ultima canzone (<strong>RVF</strong> 366: Vergine bella, che di sol vestita).<br />

Il trascorrere del tempo e la malinconia che ciò provoca è un altro motivo ricorrente del<br />

Canzoniere, anche se non sempre assume il significato che ha qui. Ricordiamo perlomeno il suo<br />

apparire nel sonetto 90 Erano i capei d'oro a l'aura sparsi (dove si traduce in un omaggio alla<br />

donna e nella constatazione che l'amore perdura intatto nonostante il passare del tempo e<br />

nonostante lo sfiorire della bellezza di Laura); e nella canzone 126 Chiare fresche e dolci acque,<br />

dove è occasione del recupero, attraverso la memoria, della meravigliosa visione di Laura<br />

immersa nella natura della Valchiusa, sotto una delicata pioggia di fiori.<br />

Per quel che riguarda gli aspetti formali, l’andamento del discorso poetico è colloquiale, pacato,<br />

quasi dimesso, ma non bisogna lasciarsi trarre in inganno poiché la semplicità è in realtà il<br />

risultato di una finissima elaborazione.<br />

Il senso della misera condizione umana è espresso inizialmente da un aggettivo e da un<br />

sostantivo molto incisivi: “giorno extremo” e “umana miseria” che indicano due realtà entrambe<br />

negative, ma in opposizione fra di loro. Infatti la fine della vita annulla la speranza, ma libera dalla<br />

miseria del vivere.<br />

Da notare l’ordine fra l’aggettivo e il sostantivo che vengono capovolti in un’elegante simmetria:<br />

sostantivo-aggettivo nel primo caso, aggettivo-sostantivo nel secondo (si tratta di un chiasmo).<br />

Inoltre il primo sintagma è collocato alla fine del verso, mentre il secondo è posto all’inizio del<br />

verso successivo, in modo che risultino contigui.<br />

Nei versi 3-4 vi è un parallelismo concettuale tra la fuga del tempo e il venir meno della<br />

speranza, reso da due copie di aggettivi collocate entrambe alla fine del verso: “veloce e leve /<br />

fallace e scemo”.<br />

Il gioco di simmetrie coinvolge anche le rime al “breve” / “leve” si contrappone l’opposto “greve<br />

del verso 6, che a sua volta entra poi in antitesi con “neve” al verso 7: ciò che appare pesante,<br />

cioè la fisicità del corpo, si rileva labile come la neve che si scioglie a causa della velocità del<br />

tempo.<br />

Il cenno del verso 4 “sperar fallace e scemo” è ripreso amplificato ai versi 9-10 “co.llui cadrà<br />

quella speranza / che ne fe’ vaneggiar sì lungamente”. Come detto, qui torna una parola chiave<br />

molto importante per il poeta, il verbo “vaneggiar”, che rimanda al primo sonetto del canzoniere e<br />

che pone questa poesia nel filone che si potrebbe dire del "pentimento", cioè in cui l'urgenza di<br />

tornare ai valori cristiani della vita prevale sulla seduzione esercitata dal mondo terreno (Laura,<br />

l'amore, la fama).<br />

Troviamo delle antitesi nella contraddittorietà delle passioni che rivelano la loro vanità,<br />

espressa da due coppie di sostantivi: “riso / pianto, paura / ira”, ma i contrasti vengono smorzati<br />

dalla fluidità del polisindeto “e…e…e…e”.<br />

L’ultima terzina si presenta come una riflessione generale sulla realtà umana ed ogni<br />

argomento del discorso riflessivo è scandito entro la misura di un verso.<br />

Vi è una continua serie di enjambement che contribuisce a frammentare i versi per rendere<br />

maggiormente il senso del tempo che trascorre lentamente, ma in modo inesorabile 2 .<br />

2 Occorrerebbe aggiungere l'analisi degli aspetti fonici e ritmici!<br />

2

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