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Giorgio Bonaccorso, La celebrazione tra corpo e trascendenza

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Relazione<br />

<strong>La</strong> <strong>celebrazione</strong><br />

<strong>tra</strong> <strong>corpo</strong> e <strong>tra</strong>scendenza<br />

Prof. <strong>Giorgio</strong> BONACCORSO<br />

Istituto Liturgico-Pastorale<br />

di Santa Giustina, Padova<br />

Se vi è stata una sempre più marcata incomprensione della liturgia, ciò è dovuto<br />

anche al fatto che non si è più compreso lo stretto legame esistente <strong>tra</strong> il <strong>corpo</strong> e la<br />

<strong>tra</strong>scendenza, <strong>tra</strong> le forme somatiche del rito e i contenuti teologici della fede. <strong>La</strong><br />

<strong>tra</strong>scendenza è universalmente riconosciuta come una dimensione inalienabile della<br />

fede, e, per altro verso, il <strong>corpo</strong>, soprattutto alla luce dell’incarnazione e della<br />

risurrezione, appare come una realtà tutt’altro che marginale per il cristianesimo. Ciò<br />

non toglie che per molti risulti difficile coniugare la <strong>tra</strong>scendenza con la <strong>corpo</strong>reità. E<br />

poiché il rito consiste fondamentalmente nel dire Dio at<strong>tra</strong>verso la dimensione somatica<br />

nel suo complesso, per molte persone esso risulta decisamente problematico. Anche in<br />

un’epoca in cui si è insistito sul simbolo come l’unico linguaggio per esprimere la fede 1 ,<br />

non si è sempre tenuto in dovuto conto il fatto che tale linguaggio è strettamente legato<br />

alla dimensione somatica così come viene vissuta nel rito. Non è facile, neppure per il<br />

credente di oggi, liberarsi da quella solida eredità che ha penalizzato il <strong>corpo</strong>, e<br />

implicitamente il rito: un’eredità che, per diverse vie, ha insistito sul fatto che l’accesso<br />

alla <strong>tra</strong>scendenza, ossia l’accesso a Dio e agli altri, dovesse privilegiare i canali<br />

dell’anima e della mente. Una tale eredità, a mio avviso, ha prodotto una spiritualità<br />

debole, che finisce per promettere ciò che non è in grado di dare. Si può in<strong>tra</strong>prendere<br />

una via diversa, tutt’altro che assente nella <strong>tra</strong>dizione, recuperando le provocazioni del<br />

<strong>corpo</strong>, ossia le istanze verso la <strong>tra</strong>scendenza che provengono dalla dimensione somatica<br />

dell’uomo. Sulla pista di queste provocazioni del <strong>corpo</strong> si possono rivedere le<br />

provocazioni del rito in ordine a una spiritualità effettivamente fondata sulla<br />

<strong>tra</strong>scendenza, senza la quale non può esservi né amore a Dio né amore al prossimo.<br />

1. UNA SPIRITUALITÀ DEBOLE<br />

<strong>La</strong> spiritualità che qui definisco debole è quella che si è andata costruendo sul<br />

primato della mente o dell’interiorità rispetto al <strong>corpo</strong> e all’esteriorità. Essa finisce per<br />

scivolare lentamente verso una chiusura immanentistica anche se continua a rivendicare<br />

un atteggiamento orientato alla <strong>tra</strong>scendenza. <strong>La</strong> debolezza di tale spiritualità sta nel<br />

fatto che in essa si inscrivono due opposizioni: l’opposizione <strong>tra</strong> mente e <strong>corpo</strong>, e<br />

l’opposizione <strong>tra</strong> immanenza e <strong>tra</strong>scendenza.<br />

1 Tra i lavori più recenti si può vedere la monografia sull’opera teologica di L. Dupré: P.J. LEVESQUE,<br />

Symbols of Transcendence. Religious Expression in the Thought of Louis Dupré, Peeters Press, Leuven<br />

1997.<br />

1


1.1. L’opposizione <strong>tra</strong> mente e <strong>corpo</strong><br />

L’antichità greca ci presenta filosofi molto sensibili alla realtà divina o all’ineffabile<br />

“Uno” originario, e che hanno svalutato il mondo fisico e materiale. C’è, <strong>tra</strong> loro, chi,<br />

come Plotino, si è anche vergognato di avere un <strong>corpo</strong>; per lui solo le realtà immutabili<br />

della sfera ideale meritano la qualifica di “essere”, mentre la materia e il <strong>corpo</strong><br />

assomigliano di più al “non essere” 2 . Anche nell’ambito cristiano, nonostante la dottrina<br />

dell’incarnazione e della risurrezione, la realtà somatica non ha goduto di molto<br />

prestigio. «I corpi – scrive Agostino – non sono quello che noi siamo: dunque non si<br />

deve nell’uomo cercare o desiderare il <strong>corpo</strong>» 3 . Ancora una volta siamo messi in<br />

guardia dal congiungere troppo strettamente il <strong>corpo</strong> all’essere: i corpi non sono quello<br />

che noi siamo 4 . L’aspetto più sorprendente è che, nonostante queste affermazioni, il<br />

pensiero cristiano, nella sua lunga storia, ci presenta innumerevoli immagini fondate<br />

sulla realtà <strong>corpo</strong>rea. Fin dalle origini e, in particolare, fin da Paolo, la stessa chiesa è<br />

definita come <strong>corpo</strong>: il <strong>corpo</strong> di Cristo ricco di membra che collaborano alla sua<br />

missione 5 . A ciò si deve aggiungere l’onore che la chiesa ha sempre riservato al <strong>corpo</strong><br />

dei defunti, specialmente a quello dei santi.<br />

Come si spiega questo duplice atteggiamento che vede il <strong>corpo</strong> ora denigrato ora<br />

onorato? <strong>La</strong> risposta sembra doversi ricercare nel fatto che il <strong>corpo</strong> viene preso in<br />

considerazione sotto due prospettive molto diverse: a) come immagine o metafora; b)<br />

come realtà fisicamente attiva. Quello che viene onorato ed esaltato è il <strong>corpo</strong> inteso<br />

come immagine, come metafora per esprimere alcuni aspetti importanti della fede. In<br />

molte società, oltre che nel cristianesimo, l’immaginario è costruito su simboli che<br />

hanno un’attinenza più o meno stretta col <strong>corpo</strong>. In questi casi il primato è riservato al<br />

pensiero che si serve del <strong>corpo</strong> per descrivere metaforicamente la realtà. Vi è, però, un<br />

altro modo di intendere il <strong>corpo</strong>, e precisamente quello secondo cui esso, prima di essere<br />

un’immagine di cui si serve la mente, è una realtà tangibile che svolge un ruolo decisivo<br />

nelle relazioni intersoggettive, nelle istituzioni, nelle comunicazioni. Il <strong>corpo</strong>, cioè, è<br />

soggetto attivo della convivenza umana 6 . Qui non è più in gioco l’immagine del <strong>corpo</strong>,<br />

ma il <strong>corpo</strong> fisico nelle sue specifiche condizioni spazio-temporali; non è in gioco<br />

neppure un <strong>corpo</strong> puramente passivo, oggetto di venerazione perché di un morto o di un<br />

santo, ma del <strong>corpo</strong> attivo senza il quale non vi sarebbero né emozioni né<br />

comportamenti. In altri termini, il <strong>corpo</strong> non è più solo un’immagine di cui si serve il<br />

pensiero, ma un agente che condiziona il pensiero.<br />

Questo duplice modo di riferirsi al <strong>corpo</strong> rende ragione della con<strong>tra</strong>ddizione<br />

segnalata sopra. Può avvenire, infatti, che mentre si valorizza il <strong>corpo</strong> inteso come<br />

immagine di cui si serve il pensiero, se ne sottovaluti la fisicità concreta, ritenendola<br />

inferiore all’attività mentale. Il <strong>corpo</strong>, quindi, è accettabile solo quando è immagine<br />

pensata della mente, ossia strumento iconico della conoscenza.<br />

2 Cfr. PLOTIN, Ennéades, 3,6,6, ed. E. Brehier, Les Belles Lettres, Paris 1924-1967 (pp. 29-32).<br />

3 AUGUSTINUS, De vera religione, 39,72, in Il maestro. <strong>La</strong> vera religione, tr. D. Bassi, SEI, Torino 1941.<br />

4 Per una più ampia presentazione delle riflessioni filosofiche sul <strong>corpo</strong> cfr. B. HUISMAN - F. RIBES, Les<br />

philosophes et le corps, Dunod, Paris 1992.<br />

5 G. ROSÉ, Voi siete <strong>corpo</strong> di Cristo. Evoluzione storica: da san Paolo ai nostri tempi, Città Nuova, Roma<br />

1986.<br />

6 Cfr. D. LE BRETON, <strong>La</strong> sociologie du corps, Presses Universitaires de France, Paris 1994 2 (Que saisje?).<br />

2


1.2. L’opposizione <strong>tra</strong> immanenza e <strong>tra</strong>scendenza<br />

Tutto quello che si è appena detto ha probabilmente una relazione profonda e<br />

ambigua con la <strong>tra</strong>scendenza. <strong>La</strong> <strong>tra</strong>scendenza è l’attitudine ad andare verso ciò che è<br />

altro da sé, vero l’al di là del proprio io; essa è il decen<strong>tra</strong>mento dell’ego, la<br />

smobilitazione dell’egoismo. <strong>La</strong> <strong>tra</strong>dizione ha spesso individuato nella conoscenza<br />

quella specifica capacità umana che realizza il massimo dell’apertura all’altro: con<br />

l’attività conoscitiva l’uomo si apre a tutto il mondo nelle sue più svariate dimensioni.<br />

In tal modo l’anima e la mente, intese come sedi della conoscenza, assumono un ruolo<br />

quanto mai cen<strong>tra</strong>le in ordine alla <strong>tra</strong>scendenza. Basterebbe citare il procedimento<br />

platonico che misura il cammino verso la realtà stabile che <strong>tra</strong>scende questo mondo con<br />

l’attenzione riservata all’anima.<br />

Il pericolo da combattere, già in molti pensatori dell’antica Grecia, e soprattutto in<br />

ambito cristiano, è l’immanenza, ossia l’attitudine a rimane entro questo mondo<br />

fenomenico. Nel cristianesimo, inoltre, il pericolo dell’immanenza è anche quello di<br />

rimanere chiusi in se stessi. L’immanenza è l’eliminazione dell’altro, in qualunque<br />

forma esso si possa presentare. Da ciò deriva che i comandamenti fondamentali della<br />

fede, l’amore a Dio e l’amore al prossimo, esigono l’attitudine alla <strong>tra</strong>scendenza ed<br />

escludono l’attitudine all’immanenza. Ma poiché la <strong>tra</strong>scendenza è salvaguardata<br />

soprattutto dall’anima e dalla mente, queste assumono un ruolo di primo piano nella<br />

fede. <strong>La</strong> questione che, in tutta questa vicenda, rimane irrisolta è la reale capacità della<br />

conoscenza, dell’anima o della mente di garantire la via della <strong>tra</strong>scendenza.<br />

Indubbiamente la conoscenza è l’apprendimento dell’altro; il pensiero è la condizione<br />

grazie alla quale l’uomo può aprirsi a tutto ciò che lo circonda; l’anima è la cifra con cui<br />

dire il respiro religioso del credente. Ma quando il pensiero e l’anima vengono intese<br />

come sostanze autonome, il rischio è di fare gravitare tutto intono a esse; quasi senza<br />

accorgersene si produce un nuovo tipo di immanenza. Se tutto ciò che esiste vale solo<br />

come convalida del primato dell’anima, o come concetto partorito dalla mente,<br />

l’attitudine alla <strong>tra</strong>scendenza viene gravemente offuscato.<br />

Non si può negare che la prevaricazione dell’anima sul resto dell’uomo appartenga a<br />

una non piccola parte della <strong>tra</strong>dizione cristiana; e non si può neppure negare che buona<br />

parte della modernità abbia prodotto quel marcato razionalismo che ha posto la mente<br />

come unica certezza, relegando tutto ciò che è esterno alla mente, compreso il <strong>corpo</strong><br />

umano, come realtà di cui si può sempre dubitare. Nell’ambito cristiano rimane<br />

l’appello alla <strong>tra</strong>scendenza divina, ma col rischio di ridurla a proiezione dell’anima e,<br />

infine, della mente. In tutto ciò si sconta il peccato di avere abbandonato la materia e il<br />

<strong>corpo</strong>. Quando <strong>tra</strong> l’anima e Dio si pretende di realizzare una relazione “troppo” diretta<br />

e immediata, si finisce per giungere a un’identificazione piuttosto ambigua. Può <strong>tra</strong>ttarsi<br />

di un’identificazione mistica, ma può anche rivelarsi come un supremo atto di ateismo,<br />

in cui l’Altro, Dio, è totalmente assorbito dall’Io. Siamo, così, vicini a quel pensiero<br />

moderno che tende a fare della res cogitans o dell’io penso il criterio unico a cui<br />

sottoporre tutte le cose. Il pensiero, qui, è concen<strong>tra</strong>to in se stesso: sicuro di se stesso,<br />

dubita di tutto il resto. Esso non è più l’atto dell’apertura massima dell’uomo ma il<br />

luogo in cui sostare prima di ogni contatto con l’esterno. Il pensiero diventa, così, la<br />

condizione della massima immanenza.<br />

In sintesi, l’insistenza sull’anima e sulla mente, intese come realtà sostanziali<br />

autonome, può, sorprendentemente, favorire l’attitudine all’immanenza. Dico<br />

3


sorprendentemente perché ciò che dovrebbe aprire l’uomo alla realtà nelle sue diverse<br />

dimensione, si <strong>tra</strong>sforma in un luogo isolato, anzi in un isolamento privo di luoghi. Il<br />

percorso è allucinante: si sospetta della materia perché opposta allo spirito; si prendono<br />

le distanze dal <strong>corpo</strong> come tentazione dell’anima; si percepiscono gli altri come<br />

potenziali invasori della propria intimità. È difficile negare che vi sia uno stretto legame<br />

<strong>tra</strong> il sospetto verso la <strong>corpo</strong>reità e l’avanzare dell’individualismo: il <strong>corpo</strong>, infatti,<br />

mantiene nell’orizzonte di quella <strong>tra</strong>scendenza che valorizza l’individuo in rapporto con<br />

gli altri.<br />

Il <strong>corpo</strong>, però, chiede che venga preso in conto l’esteriorizzarsi come qualità positiva<br />

dell’uomo. Nell’esteriorità si realizza l’attitudine alla <strong>tra</strong>scendeza. L’interiorità, invece,<br />

ha preso il sopravvento e l’attitudine all’immanenza si è fatta sempre più s<strong>tra</strong>da nel<br />

cuore dell’uomo. Indubbiamente, almeno nell’ambito della spiritualità cristiana,<br />

l’interiorità vorrebbe essere soprattutto quella del cuore, incen<strong>tra</strong>ta sull’amore e quindi<br />

aperta all’altro nelle sue diverse forme. Il cuore e l’amore, però, vengono il più delle<br />

volte ridotti alla dimensione etica che richiama l’uomo al principio di responsabilità<br />

verso gli altri. A ben vedere, tutto nasce ancora una volta dalla mente che riconoscere<br />

alcuni valori morali e li indica come norme di comportamento. Al centro è sempre l’io<br />

penso che all’occorrenza si <strong>tra</strong>sforma nell’io voglio. <strong>La</strong> spiritualità che ne nasce gravita<br />

intorno all’io anche quando vorrebbe tendere all’altro. Per questo, a mio avviso, si <strong>tra</strong>tta<br />

di una “spiritualità debole”, che porta in grembo una con<strong>tra</strong>ddizione. Il fatto è che<br />

l’interiorità dell’anima è troppo compromessa con l’autosufficienza della mente.<br />

Occorre un’anima che, alimentandosi alle provocazioni del <strong>corpo</strong>, rimane aperta<br />

all’altro e non smarrisce l’attitudine alla <strong>tra</strong>scendenza.<br />

2. LE PROVOCAZIONI DEL CORPO<br />

<strong>La</strong> spiritualità che qui definisco forte è quella che evita di privilegiare l’anima, la<br />

mente o la dimensione interiore, e volge l’attenzione al <strong>corpo</strong> e alla dimensione<br />

esteriore, per riscoprire una via più sicura alla <strong>tra</strong>scendenza, perché lontana dalle<br />

con<strong>tra</strong>pposizioni segnalate sopra, e attenta a quell’unità dell’uomo che non può smarrire<br />

la dimensione somatica. L’importanza di non smarrire tale dimensione appare con<br />

maggiore evidenza se si tiene presente che il <strong>corpo</strong>, in quanto materia, azione e<br />

linguaggio, premunisce l’uomo dall’assorbimento nell’immanenza e lo abilita alla<br />

<strong>tra</strong>scendenza.<br />

2.1. Il <strong>corpo</strong> come materia<br />

Il primato accordato alla mente ci ha abituati a un altro primato: quello della<br />

necessità logica e matematica. Se le realtà empiriche sono contingenti e mutevoli, i<br />

concetti e i numeri elaborati as<strong>tra</strong>ttamente dalla mente sono immutabili e necessari: due<br />

più due fa necessariamente quattro. Quando il mondo è letto esclusivamente in questa<br />

prospettiva logica e matematica, appare come un meccanismo che funzione secondo<br />

leggi rigide. Da ciò nasce quel meccanicismo che ha seques<strong>tra</strong>to le possibilità inedite<br />

dell’universo e la stessa libertà dell’uomo. Il primato della necessità logica ha<br />

4


impoverito le possibilità dell’esistenza. Il <strong>corpo</strong>, in quanto materia, riapre le porte a<br />

queste possibilità e, contemporaneamente, decen<strong>tra</strong> l’io inteso come mente.<br />

2.1.1. <strong>La</strong> materia come possibilità del mondo<br />

Una riflessione interessante sulla materia ci viene da E. Bloch 7 . Questo autore fa<br />

osservare che quando la materia prende una qualche forma si ha una realtà definita,<br />

come un albero, una roccia, un gatto. Un albero è una realtà definita perché non può<br />

essere altro che un albero. Ma la materia che compone l’albero “potrebbe” comporre<br />

altre cose, altre realtà. <strong>La</strong> materia è l’ambito o principio della possibilità, in cui la realtà<br />

appare come il gioco <strong>tra</strong> ciò che è e ciò che potrebbe essere. Così intesa la materia evita<br />

la chiusura in un mondo già decifrato dalla mente, e avverte l’uomo che nel mondo<br />

possono avvenire cose nuove, impreviste e imprevedibili. Grazie alla materia è data la<br />

possibilità che avvenga qualcosa di veramente “altro”, di veramente “<strong>tra</strong>scendente”,<br />

rispetto a ciò che già esiste o meglio rispetto a ciò che si conosce già. È il divenire,<br />

intrinseco alla materia, che dispone alla <strong>tra</strong>scendenza.<br />

2.1.2. <strong>La</strong> materia come decen<strong>tra</strong>mento dell’io<br />

L’uomo esperimenta tutto questo nel proprio <strong>corpo</strong>. Il <strong>corpo</strong>, infatti, subisce le<br />

dinamiche della materia, ossia è soggetto al divenire. Grazie al <strong>corpo</strong> l’uomo scopre in<br />

se stesso quella dinamica della materia che dischiude le diverse possibilità del reale. Il<br />

<strong>corpo</strong>, nel suo divenire, predispone l’uomo all’imprevedibile, e quindi a ciò che è<br />

“altro” da ciò che pensava di essere e di avere. Grazie al <strong>corpo</strong>, l’uomo scopre l’alterità<br />

in se stesso, scopre di non possedersi completamente e di non essere il centro<br />

inamovibile dell’universo. L’io, in qualche modo, viene decen<strong>tra</strong>to, perché si scorge<br />

dipendente dal divenire della materia. L’evento in cui si mos<strong>tra</strong> con più evidenza questo<br />

decen<strong>tra</strong>mento dell’ego è la morte. Nella mortalità del <strong>corpo</strong> l’uomo si trova faccia a<br />

faccia col non-essere, inteso come ciò che è radicalmente altro dall’io 8 . Non si <strong>tra</strong>tta,<br />

però, solo della morte. Qualsiasi evento che deve ancora accadere pone l’uomo nel<br />

tempo, smobilitandolo dall’eterno e immutabile mondo ideale della mente. <strong>La</strong> cosa<br />

decisiva è che in questo mondo ideale e immutabile l’uomo non potrebbe percepire il<br />

tempo e, quindi, neppure l’“altro” che deve ancora venire; grazie al <strong>corpo</strong>, invece, il<br />

tempo è reso possibile, e col tempo anche l’apertura all’altro, alla <strong>tra</strong>scendenza. Così<br />

come è reso possibile lo spazio, dato che il movimento nel tempo è sempre anche un<br />

movimento nei luoghi e <strong>tra</strong> i luoghi. Possiamo, quindi, affermare che, grazie al <strong>corpo</strong><br />

come materia, l’uomo è condotto a decen<strong>tra</strong>re il proprio io mentale e a dischiudersi a<br />

quel tempo e a quello spazio nei quali incon<strong>tra</strong> l’altro e la <strong>tra</strong>scendenza.<br />

2.2. Il <strong>corpo</strong> come azione<br />

7 Cfr. E. BLOCH, Il principio speranza, 3 vol., Garzanti, Milano 1994. È noto il debito che alcuni teologi<br />

hanno con questa prospettiva filosofica, cfr., soprattutto, J. MOLTMANN, Teologia della speranza.<br />

Ricerche sui fondamenti e sulle implicazioni di una escatologia cristiana, Queriniana, Brescia 1976; ID.,<br />

L'avvento di Dio. Escatologia cristiana, Queriniana, Brescia 1998. Si veda anche R. SCHAEFFLER,<br />

Compimento del mondo o giudizio universale. Due rappresentazioni del fine della storia in religione e in<br />

filosofia, in Apocalittica ed escatologia. Senso e fine della storia, ed. G. Canobbio, Morcelliana, Brescia<br />

1992, pp. 104-112.<br />

8 «Nella sua mortalità il <strong>corpo</strong> umano non si rapporta solo a una determinata terra e a un determinato<br />

mondo, ma si rapporta anche al non-essere», cfr. D. VALLEGA-NEU, <strong>La</strong> questione del <strong>corpo</strong> nei “Beiträge<br />

zur Philosophie”, in «Giornale di metafisica» 20 (1998) 235.<br />

5


<strong>La</strong> materia ha evidenziato l’attitudine del <strong>corpo</strong> alla <strong>tra</strong>scendenza, ma in un modo<br />

che potremmo definire passivo. Vi è anche un modo attivo, ossia legato all’agire. Il<br />

<strong>corpo</strong> percepisce la realtà che lo circonda e percepisce anche se stesso: in quanto<br />

oggetto percepito, il <strong>corpo</strong> è ancora passivo, ma in quanto soggetto che percepisce esso<br />

è, in qualche modo, già attivo. L’aspetto più rilevante, però, è che il <strong>corpo</strong> è attività in<br />

un senso molto più ampio che il semplice percepire.<br />

2.2.1. L’azione come apertura all’altro<br />

Uno degli autori che hanno approfondito maggiormente il <strong>corpo</strong> come soggetto<br />

percepente e agente è M. Merleau-Ponty 9 . Questo studioso fa osservare che il <strong>corpo</strong><br />

percepisce, non come uno strumento che riceve passivamente qualcosa della realtà, ma<br />

come un attore che si muove verso la realtà. Il <strong>corpo</strong> percepisce agendo. L’azione è il<br />

modo con cui il <strong>corpo</strong> percepisce. Fin da bambino, l’uomo è all’interno di questo<br />

intreccio <strong>tra</strong> agire e percepire. Gli esperti parlano di combinazione senso-motoria 10 che<br />

condiziona il modo stesso con cui l’uomo conosce la realtà 11 . L’uomo conosce la realtà<br />

là dove fa l’esperienza dell’apertura, intesa come movimento e azione verso l’altro da<br />

sé. Potremmo dire che nel <strong>corpo</strong>, sede del movimento e dell’azione, si consuma una<br />

“<strong>tra</strong>scendenza attiva”. Alla base di tale <strong>tra</strong>scendenza attiva sta una duplice operazione<br />

somatica.<br />

<strong>La</strong> prima operazione somatica è la mimesis, l’imitazione della realtà; come è stato<br />

osservato, «le cose vengono comprese “imitandole”, ma questo è possibile solo dopo<br />

aver compiuto gli atti del vivente» 12 . <strong>La</strong> seconda operazione somatica, è l’eros; l’amore<br />

è per sua natura <strong>tra</strong>nsitivo 13 , ossia espone l’io al rapporto con l’altro da sé. <strong>La</strong> mimesis e<br />

l’eros sono le azioni originarie con cui il <strong>corpo</strong> mos<strong>tra</strong> la propria attitudine alla<br />

<strong>tra</strong>scendenza. Un’attitudine vissuta all’insegna non solo del sapere ma anche del potere.<br />

Il <strong>corpo</strong>, agendo, svela che l’io è l’io-posso e non solo l’io-conosco: con le azioni<br />

l’uomo non si limita a sapere ciò che esiste ma fa esistere ciò che ancora non è 14 .<br />

Inoltre, il <strong>corpo</strong>, imitando e amando, svela che l’io-posso non è prepotenza, ma<br />

accoglienza e desiderio: con l’imitazione e l’amore l’uomo non manipola ciò che già<br />

esiste ma collabora alla sua fecondità. In altri termini, se con la mente l’uomo può<br />

sapere molte cose sulla vita, col <strong>corpo</strong> l’uomo può incrementare la vita.<br />

9 Sul valore attivo del <strong>corpo</strong> nell’elaborazione dei significati ha scritto in modo geniale M. MERLEAU-<br />

PONTY in Fenomenologia della percezione, Il Saggiatore, Milano 1965; <strong>La</strong> struttura del comportamento,<br />

Bompiani, Milano 1963; Senso e non senso, Il Saggiatore, Milano 1962; Segni, Il Saggiatore, Milano<br />

1967. Per una panoramica del concetto di <strong>corpo</strong> nel pensiero filosofico moderno, cfr. W. SCHULZ, Le<br />

nuove vie della filosofia contemporanea. III: Corporeità, Marietti, Genova 1988. Si vedano anche due<br />

saggi illuminanti: U. GALIMBERTI, Il <strong>corpo</strong>, Feltrinelli, Milano 1989 2 ; S. SPINSANTI, Il <strong>corpo</strong> nella cultura<br />

contemporanea, Queriniana, Brescia 1990 3 .<br />

10<br />

Cfr. M. MERLEAU-PONTY, op. cit., p. 209.<br />

11 Cfr. H. VON FOERSTER, Costruire una realtà, in <strong>La</strong> realtà inventata. Contributi al costruttivismo, ed. P.<br />

Watzlawick, Feltrinelli, Milano 1988, p. 39. Il mondo non è semplicemente contemplato (oggettivismo)<br />

né del tutto inventato (soggettivismo), ma conosciuto in una percezione attiva, ossia conosciuto in quanto<br />

prodotto. Questa teoria gnoseologica, che supererebbe il cognitivismo classico in favore dell’enazione,<br />

afferma due cose fondamentali: «(l) la percezione consiste in un’azione a sua volta guidata dalla<br />

percezione e (2) le strutture cognitive emergono dagli schemi sensomotori ricorrenti che consentono<br />

all’azione di essere guitata percettivamente», F.J. VARELA - E. THOMPSON - E. ROSCH, <strong>La</strong> via di mezzo<br />

della conoscenza. Le scienze cognitive alla prova dell’esperienza, Feltrinelli, Milano 1992, p. 206.<br />

12 A. ZHOK, Fenomenologia e genealogia della verità, Jaca Book, Milano 1998, p. 37.<br />

13 Cfr. V. MELCHIORRE, Metacritica dell’eros, Vita e Pensiero, Milano 1977, p. 10.<br />

14 Cfr. P. RICOEUR, Semantica dell’azione. Discorso e azione, Jaca Book, Milano 1986, pp. 63-64.<br />

6


2.2.2. L’azione come avvento dell’altro<br />

<strong>La</strong> <strong>tra</strong>scendenza attiva, resa possibile dal <strong>corpo</strong> e dalle sue azioni, è<br />

fondamentalmente un incontro, ossia il movimento col quale io mi faccio attivamente<br />

presente all’altro. L’altro, però, a sua volta, è attivo, ossia si muove verso di me, mi<br />

viene incontro. L’azione con cui io vado verso l’altro si congiunge con l’azione con cui<br />

l’altro viene verso di me. Si realizza, così, quella inter-azione che qualifica la<br />

<strong>tra</strong>scendenza attiva non solo dal punto di vista dell’io ma anche dal punto di vista<br />

dell’altro, come ha messo in evidenza E. Levinas 15 . <strong>La</strong> <strong>tra</strong>scendenza attiva dal punto di<br />

vista dell’altro è fondamentale, perché consente all’io di cogliere la realtà come un<br />

essere raggiunto dall’altro, come l’avvento dell’altro. L’incontro con ciò che è al di là<br />

del mio io non dipende solo dalla percezione e azione del mio <strong>corpo</strong> ma anche<br />

dall’azione del <strong>corpo</strong> dell’altro. L’esempio ormai classico è quello del volto: nel volto<br />

l’altro è libero di proporre la propria identità al di là di quello che io posso attribuirgli.<br />

Ciò porta a una conseguenza importante. Se il <strong>corpo</strong> attivo, ossia il <strong>corpo</strong> in quanto<br />

azione, di cui si è <strong>tra</strong>ttato prima, evidenziava il valore del potere rispetto al sapere, ora<br />

l’altro attivo, che viene a me con la libertà delle sue azioni, mi rivela che il potere non è<br />

l’esclusiva del mio io. Viene così esclusa ulteriormente ogni via alla pre-potenza dell’io.<br />

<strong>La</strong> pre-potenza è smentita dal fatto che l’io non pre-cede l’altro, ossia non può definire<br />

l’altro prima che l’altro stesso si sia presentato nell’originalità e singolarità del suo volto<br />

e delle sue azioni. L’azione, qui, non è solo potenza dell’io che si muove verso l’altro,<br />

ma anche l’avvento dell’altro che si svela all’io. L’azione è inter-azione, ossia en<strong>tra</strong>mbe<br />

le cose: movimento dell’io verso l’altro e movimento dell’altro verso l’io. Il <strong>corpo</strong> è il<br />

luogo di tale interazione e quindi il luogo dell’apertura e dell’avvento insieme.<br />

2.3. Il <strong>corpo</strong> come linguaggio<br />

Il <strong>corpo</strong>, agendo, si esprime, ossia produce linguaggio, anzi produce molteplici<br />

linguaggi nei quali è consegnato il significato delle azioni. All’inter-azione si<br />

accompagna, così, lo scambio linguistico, ossia la comunicazione, in cui le azioni sono<br />

portatrici di senso. Parlando, cantando, indicando, disegnando, il <strong>corpo</strong> consegna e<br />

riceve senso dall’altro, rivelando la natura profonda dell’uomo.<br />

2.3.1. Il linguaggio come comunicazione<br />

Un autore, tempo fa, ha osservato che il <strong>corpo</strong> è sempre meno affidato alla natura e<br />

sempre più alla medicina: «Più che mai, il <strong>corpo</strong> è un prodotto sociale!» 16 . Il riferimento<br />

alla medicina consente di mettere in evidenza un aspetto importante. Nei sintomi del<br />

malato il <strong>corpo</strong> manifesta dei disagi a cui la medicina tenta di porre dei rimedi. Il <strong>corpo</strong>,<br />

quindi, si esprime, invia dei segnali (dei sintomi), possiede un linguaggio; inoltre esso<br />

risponde ai segnali (alle cure), comprende il linguaggio del medico che interviene<br />

contro la malattia. Questo non stupisce se si tiene presente che qualsiasi forma<br />

espressiva, qualsiasi tipo di linguaggio, è reso possibile dal <strong>corpo</strong>. Il linguaggio, infatti,<br />

è il pensiero consegnato alla dimensione somatica dell’uomo. È questa consegna,<br />

inoltre, che redime il pensiero dall’isolamento rendendolo comunicabile agli altri. Il<br />

linguaggio, reso possibile dal <strong>corpo</strong>, costituisce l’unica via con cui i contenuti del mio<br />

15 Cfr. E. LEVINAS, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 1980.<br />

16 L.-V. THOMAS, Gestione di vita, gestione di morte, in <strong>La</strong> morte oggi, Feltrinelli, Milano 1985, p. 127.<br />

7


pensiero possono confrontarsi con i contenuti del pensiero degli altri. Ma vi è di più. Io<br />

imparo a pensare proprio perché, grazie al linguaggio, gli altri (i genitori, i parenti, gli<br />

amici, i colleghi, i mass media, ecc.) mi comunicano le <strong>tra</strong>me del pensiero, così come<br />

essi si danno in una determinata cultura e società. Il linguaggio e il <strong>corpo</strong> che lo rende<br />

possibile diventano così il luogo della condizione sociale e culturale.<br />

A questo punto, l’affermazione secondo cui il <strong>corpo</strong> è sempre più un “prodotto<br />

sociale” deve essere ridimensionato con l’affermazione secondo cui la società è un<br />

“prodotto del <strong>corpo</strong>”. Allo stesso modo, la convinzione, molto diffusa, secondo cui<br />

l’uomo comprende gli altri perché è una mente pensante deve essere corretta col fatto<br />

che l’uomo comprende perché è un <strong>corpo</strong> comunicante. E ciò non solo perché grazie al<br />

linguaggio comunica il pensiero elaborato dalla mente, ma anche perché grazie al<br />

linguaggio viene educato a pensare. In tal modo, nel linguaggio il pensiero si <strong>tra</strong>scende,<br />

e <strong>tra</strong>scendendosi si ritrova. Se ci volessimo esprimere in un altro modo, potremmo dire<br />

che il pensiero non esiste come mente solitaria, ma come comunicazione<br />

intersoggettiva, come atto di <strong>tra</strong>scendenza verso l’altro. Il linguaggio come<br />

comunicazione, reso possibile dal <strong>corpo</strong>, mos<strong>tra</strong> ancora una volta l’attitudine del <strong>corpo</strong><br />

alla <strong>tra</strong>scendenza, e la mos<strong>tra</strong> in un modo che potremmo definire policromatico. Vi<br />

sono, infatti, molti tipi di linguaggi, verbali e non verbali, grazie ai quali l’atto di<br />

<strong>tra</strong>scendenza del <strong>corpo</strong> può percorrere molteplici s<strong>tra</strong>de e con diversa intensità.<br />

2.3.2. Il linguaggio come rivelazione<br />

Il pensiero, isolato in se stesso, tende indubbiamente a ciò che lo circonda, tende<br />

all’altro da sé; ma è una tendenza incompiuta finché il <strong>corpo</strong> non gli consente di parlare,<br />

di indicare, di cantare, di disegnare. Il pensiero può desiderare di <strong>tra</strong>scendersi ma non<br />

può compiere l’atto di <strong>tra</strong>scendenza finché non si consegna al linguaggio. Il pensiero<br />

può immaginare l’altro ma non può incon<strong>tra</strong>lo come è veramente finché l’altro non gli<br />

dice se stesso. Il linguaggio, quindi, non è solo il modo con cui dire la realtà e<br />

comunicare agli altri ciò che si pensa e ciò che si sente, le idee e i sentimenti. Il<br />

linguaggio è anche ciò grazie a cui l’altro può dirsi, può svelarsi. Se con l’azione si ha<br />

l’avvento dell’altro, di cui si è detto sopra, col linguaggio si ha la rivelazione dell’altro.<br />

L’aspetto più importante, però, è dato dallo stretto legame che c’è <strong>tra</strong> l’esprimere,<br />

che è la caratteristica di ogni linguaggio, e l’esistere. “Esprimere” (ex-primere), infatti,<br />

significa “premere fuori”, manifestare ciò che è dentro portandolo all’esterno; ed<br />

“esistere” (ex-sistere) significa “stare fuori”, uscire all’aperto, abbandonando il luogo<br />

chiuso dello stare in se stesso. L’esistenza è un esodo, un <strong>tra</strong>scendimento, e il<br />

linguaggio, in quanto espressione, mi testimonia questa natura esodale dell’esistenza. Il<br />

linguaggio non è solo il luogo di comunicazione con e dell’altro, ma anche il luogo di<br />

rivelazione della natura profonda dell’esistenza. Se tutto questo è vero, il <strong>corpo</strong>,<br />

condizione inalienabile del linguaggio, è luogo di rivelazione dell’esistenza, intesa come<br />

esodo, come <strong>tra</strong>scendenza. Appare, qui, un fatto troppe volte dimenticato, soprattutto<br />

nel passato. Il fatto, cioè, che la <strong>tra</strong>scendenza, anche nella forma della rivelazione, è<br />

legata alla dimensione somatica: <strong>corpo</strong> e <strong>tra</strong>scendenza sono quanto mai uniti nell’atto di<br />

rivelazione dell’esistenza, ma anche nell’atto di rivelazione di Dio.<br />

8


3. LE PROVOCAZIONI DEL RITO<br />

L’incarnazione non è solo un contenuto della rivelazione divina ma il modo con cui<br />

questa rivelazione può avvenire. Se la rivelazione di Dio è la manifestazione di<br />

qualcuno che è “altro” da coloro a cui si manifesta, se la rivelazione di Dio è un atto di<br />

<strong>tra</strong>scendimento ossia di movimento di Dio verso l’uomo, e se, infine, la rivelazione di<br />

Dio implica la fede dell’uomo che è a sua volta un atto di <strong>tra</strong>scendimento ossia di<br />

movimento dell’uomo verso Dio, allora la rivelazione di Dio e la fede dell’uomo<br />

avvengono inevitabilmente nel <strong>corpo</strong>. Non nell’idea o nell’immagine (metaforica) del<br />

<strong>corpo</strong>, ma nel <strong>corpo</strong> fisico reale, fatto di materia, di azioni e di linguaggi. A questo<br />

punto, però, occorre fare un passo ulteriore. Il <strong>corpo</strong> è la condizione di qualsiasi<br />

possibile <strong>tra</strong>scendenza; ma perché tale <strong>tra</strong>scendenza abbia le caratteristiche religiose di<br />

una rivelazione divina, il <strong>corpo</strong> deve essere orientato. Qui interviene il rito che<br />

organizza la materia, l’azione e il linguaggio in modo da orientarli a quella <strong>tra</strong>scendenza<br />

di tipo religioso che nella fede cristiana coincide col mistero del Dio rivelatosi in Gesù<br />

di Nazaret. Lo stretto legame <strong>tra</strong> il rito e il <strong>corpo</strong>, <strong>tra</strong> la <strong>celebrazione</strong> liturgica e la<br />

dimensione somatica 17 , dischiude il cammino verso la <strong>tra</strong>scendenza di tipo religioso e<br />

cristiano. Poiché non si <strong>tra</strong>tta di una <strong>tra</strong>scendenza pensata ma vissuta, il termine, forse,<br />

più indicato per esprimerla è la “vita”: una vita ricevuta nel rito che si riferisce al <strong>corpo</strong><br />

come materia (prospettiva ecologica); una vita <strong>tra</strong>smessa nel rito che si riferisce al<br />

<strong>corpo</strong> come azione (prospettiva etologica); una vita espressa nel rito che si riferisce al<br />

<strong>corpo</strong> come linguaggio (prospettiva semiologica).<br />

3.1. Il rito e la materia: la vita ricevuta (prospettiva ecologica)<br />

<strong>La</strong> <strong>celebrazione</strong> liturgica, ricorrendo alla materia e organizzandola ritualmente, si<br />

muove sul presupposto che la fede non è, in primo luogo, un insieme di contenuti<br />

dottrinari, ma un’esperienza religiosa all’interno della quale quei contenuti hanno<br />

senso 18 . L’esperienza di fede, però, non può essere puramente interiore, perché si muove<br />

nell’orizzonte della testimonianza: l’esperienza del Dio di Gesù Cristo, l’esperienza<br />

pasquale, non è data senza una qualche condivisione di ciò che è già avvenuto in altri<br />

uomini che testimoniano la propria fede. L’interiorità della fede è inscindibile<br />

dall’esteriorità della sua testimonianza. Per questo la liturgia ricorre all’esteriorità della<br />

materia, all’esteriorità degli elementi naturali che compongono l’ambiente in cui l’uomo<br />

può vivere 19 .<br />

3.1.1. L’ambiente rituale come appartenenza alla fede<br />

Quando si parla di <strong>corpo</strong> non si può dimenticare che esso è una realtà situata in un<br />

contesto particolare, in cui gli è data la possibilità di vivere. <strong>La</strong> vita è una possibilità: la<br />

17 Cfr. J.-Y. HAMELINE, Le culte chrétien dans son espace de sensibilité, in «<strong>La</strong> Maison-Dieu» 187 (1991)<br />

7-45; P. DE CLERCK, L’intelligenza della liturgia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1999, pp.<br />

29-55.<br />

18 «“L’esperienza religiosa viva come unico metodo legittimo per conoscere i dogmi”: ecco l’intento di<br />

questo libro. [...] Solo at<strong>tra</strong>verso l’esperienza immediata è possibile scorgere e valutare i tesori spirituali<br />

della chiesa», P. FLORENSKIJ, <strong>La</strong> colonna e il fondamento della verità, Rusconi, Milano 1998, p. 35.<br />

19 Si vedano le interessanti considerazioni presenti in J. MOLTMANN, Dio nella creazione. Dottrina<br />

ecologica della creazione, Queriniana, Brescia 1986.<br />

9


possibilità di essere accolti dall’ambiente che ci circonda. Se si tiene presente che<br />

nell’universo vi sono infiniti luoghi inabitabili, appare chiaro che la vita è<br />

fondamentalmente una possibilità ambientale. L’antica <strong>tra</strong>dizione ebraica ha fatto di<br />

questa possibilità uno dei suoi temi cen<strong>tra</strong>li. Si pensi alla sua narrazione più importante<br />

che vede il popolo eletto incamminato verso la terra promessa, verso una terra fertile<br />

dove scorre latte e miele. <strong>La</strong> vita è una promessa che nasce, si sviluppa e si compie in<br />

riferimento a una terra, a un ambiente. <strong>La</strong> liturgia mantiene fede a questa prospettiva,<br />

ricorrendo ai diversi elementi naturali, all’acqua, al frumento, alla vite, al fuoco, ma<br />

anche al sole e alle stagioni. Il battesimo non esiste senza acqua e l’eucaristia non esiste<br />

senza frumento; né il natale e la pasqua esistono senza il sole e il ciclo annuale. In tal<br />

modo la fede mantiene un contatto strettissimo con ciò che l’uomo sperimenta come<br />

vita e, soprattutto, come vita garantita dall’ambiente, come vita ricevuta. Questo è<br />

l’aspetto più evidente della prospettiva ecologica della liturgia: mantenere la fede<br />

nell’orizzonte di una vita ricevuta dall’ambiente, ossia da ciò che si abita, da ciò a cui si<br />

appartiene. <strong>La</strong> vita è un appartenere a qualcosa come la fede è un appartenere a<br />

qualcuno. Il rito lega l’appartenenza vitale all’ambiente con l’appartenenza salvifica alla<br />

fede, o, meglio, al Dio della fede.<br />

3.1.2. L’ambiente rituale come presenza nella fede<br />

Se l’appartenenza all’ambiente è qualcosa di vitale per l’uomo, allora l’ambiente<br />

viene percepito come ciò che si prende cura dell’uomo, come ciò che è presente<br />

all’uomo. Questo nella liturgia è particolarmente marcato, dato che gli elementi naturali<br />

utilizzati sono tutti in funzione del bene dell’uomo. <strong>La</strong> presenza di cui qui si parla è<br />

quella esistenziale: la presenza è ciò che si oppone all’indifferenza. Il cosmo, con le sue<br />

componenti, non è indifferente all’esistenza umana; nel rito, il cosmo si occupa, si<br />

interessa dell’uomo facendogli percepire la sua presenza vitale. In questa <strong>tra</strong>ma rituale<br />

del prendersi cura e dell’essere presente l’uomo percepisce una simbologia sempre più<br />

ampia in cui finisce per cogliersi come credente che vive alla presenza di colui in cui<br />

crede. Nella <strong>celebrazione</strong> liturgica la presenza dell’ambiente all’uomo, consente al<br />

credente di sperimentare la fede come presenza di Dio, e come presenza da cui si riceve<br />

la vita. L’aspetto cen<strong>tra</strong>le è sempre quello del primato dell’esperienza sulla semplice<br />

considerazione teorica e dottrinaria. <strong>La</strong> presenza di Dio come di colui da cui si riceve la<br />

vita si mantiene nell’ordine dell’esperienza a condizione che i simboli da cui si parte per<br />

dirla siano essi stessi fondati su un’esperienza, e precisamente sull’esperienza ecologica.<br />

Potremmo affermare che il rito dischiude l’esperienza della <strong>tra</strong>scendenza divina, sotto il<br />

profilo della vita ricevuta, mantenendo il legame con la dimensione ecologica del <strong>corpo</strong>.<br />

3.2. Il rito e l’azione: la vita <strong>tra</strong>smessa (prospettiva etologica)<br />

Il <strong>corpo</strong>, nel suo processo vitale, non si limita a stare in un ambiente ma compie delle<br />

azioni con le quali <strong>tra</strong>sforma l’ambiente. <strong>La</strong> dimensione ambientale, o ecologica, si<br />

incrocia con la prospettiva comportamentale, o etologica. È l’incrocio che, più di ogni<br />

altro, è alla base dei riti religiosi e che consente ai medesimi di essere non solo luoghi in<br />

cui si riceve la vita ma anche luoghi in cui si <strong>tra</strong>smette la vita.<br />

10


3.2.1. L’azione rituale come efficacia della fede<br />

Se riflettiamo sulle caratteristiche della vita ci accorgiamo immediatamente che essa<br />

si configura come il movimento con cui il <strong>corpo</strong> passa da una condizione a un’al<strong>tra</strong>:<br />

bambino, adolescente, adulto, anziano, sono le fasi fondamentali dell’esistenza che<br />

vengono aperte e chiuse da quei momenti altamente drammatici che sono la nascita e la<br />

morte. Si <strong>tra</strong>tta di fasi e momenti che il <strong>corpo</strong> in parte subisce ma in parte realizza,<br />

perché costruisce ambienti per ripararsi, cuoce cibi per sfamarsi, procrea per non<br />

estinguersi, si cura per non soccombere. <strong>La</strong> componente attiva del suo rapporto con la<br />

vita, però, rimane sproporzionata rispetto a ciò che egli vede accadergli intorno: le sue<br />

azioni non compensano gli eventi vitali e, soprattutto, quello finale della morte. Egli<br />

ricorre, così, ad altre azioni, del tutto peculiari, che lo mettono in sintonia con gli eventi<br />

vitali di cui non può disporre. Si <strong>tra</strong>tta di azioni simboliche: in quanto azioni tendono a<br />

compiere qualcosa e in quanto simboliche rimandano a eventi e azioni che l’uomo da<br />

solo non può porre. Il rito è fatto di tali azioni simboliche. E proprio perché fatto di tali<br />

azioni simboliche, il rito partecipa a ciò che solitamente <strong>tra</strong>scende le capacità<br />

dell’uomo, ossia a quella potenza che rende possibile la vita 20 . Questa possibilità e<br />

capacità del rito è ciò che lo rende efficace.<br />

Nell’ambito del cristianesimo, la liturgia è sacramentalmente efficace. Grazie alla<br />

<strong>celebrazione</strong> liturgica, infatti, la fede, come insegna Sacrosanctum Concilium (n. 6), non<br />

è solo annuncio e condivisione degli eventi salvifici, ma anche attuazione di tali eventi.<br />

Tutto ciò sarebbe irrealizzabile se il rito non coniugasse strettamente la fede al <strong>corpo</strong>.<br />

<strong>La</strong> concen<strong>tra</strong>zione sul <strong>corpo</strong>, quindi, evidenzia in modo del tutto particolare l’efficacia<br />

rituale e sacramentaria, in cui non ci si affida solo all’“intenzione” della comunità<br />

credente ma anche all’“azione” dell’assemblea celebrante 21 . Gli eventi storico-salvifici,<br />

20 Il termine che spesso si usa per indicare questa potenza sacra è il mana, mutuato dalla religione<br />

melanesiana, cfr. K.O.L. BURRIDGE, Le religioni dell’Oceania, in Storia delle religioni. VI: I popoli senza<br />

scrittura, ed. H.-C. Puech, <strong>La</strong>terza, Roma-Bari 1978, p. 133. Per la nozione di forza o potenza sacra, cfr.<br />

anche G. VAN DER LEEUW, Fenomenologia della religione, Boringhieri, Torino 1975, p. 8; G.<br />

WIDENGREN, op. cit., p. 76; E. DAMMAN, L’Africa. Le religioni naturistiche: Mito, Totemismo, Riti di<br />

passaggio, Culture, Arti. Ebraismo, Cristianesimo e Islamismo in Africa, Jaca Book, Milano 1985, pp.<br />

10-14; S. MORENZ, Gli egizi, Jaca Book, Milano 1983, p. 15; A. HULTKRANTZ, Le religioni degli Indiani<br />

d’America, in Storia delle religioni. VI: I popoli senza scrittura, ed. H.-C. Puech, <strong>La</strong>terza, Roma-Bari<br />

1978, pp. 166-170. Il senso della potenza sacra è presente anche nelle popolazioni dell’India, cfr. J.<br />

GONDA, Le religioni dell’India. Veda e antico Induismo, Jaca Book, Milano 1981, p. 61. <strong>La</strong> religione<br />

vedica, come quella induista in genere, è tutta concen<strong>tra</strong>ta sul brahman, inteso come potenza soprannaturale<br />

e forza cosmogonica, cfr. F. VARENNE, <strong>La</strong> religione vedica, in Storia delle religioni. IV: India, Tibet<br />

e sud-est asiatico, ed. H.-C. Puech, <strong>La</strong>terza, Roma-Bari 1977, p. 43. E se il brahman è la potenza sacra<br />

dell’universo, del macrocosmo, l’atman è la potenza sacra del microcosmo, dell’uomo, cfr. id., p. 44. Il<br />

legame <strong>tra</strong> il brahman e l’atman è così stretto che i guru insegnano ai loro adepti il modo di abbandonare<br />

le vecchie divinità e riconoscere che il proprio atman è identico al brahman, cfr. F. VARENNE, L’Induismo<br />

contemporaneo, in Storia delle religioni. IV: India, Tibet e sud-est asiatico, ed. H.-C. Puech, <strong>La</strong>terza,<br />

Roma-Bari 1977, p. 173. L’antica religione cinese ci presenta il “dio del Cielo” come la potenza<br />

regolatrice dell’universo, cfr. M. KALTENMARK, Religione della Cina antica, in Storia delle religioni. V:<br />

Cina e Giappone, ed. H.-C. Puech, <strong>La</strong>terza, Roma-Bari 1978, p. 22. Si pensi anche al kami della religione<br />

giapponese più antica, cfr. H. O. ROTERMUND, Le credenze del Giappone antico, in Storia delle religioni.<br />

V: Cina e Giappone, ed. H.-C. Puech, <strong>La</strong>terza, Roma-Bari 1978, p. 248. Nelle grandi religioni monoteistiche<br />

quella potenza si identifica col Dio unico. Nel Corano, per es., Allah viene chiamato il Dio potente<br />

per più di ottanta volte, cfr. T. FAHD, Islam e sette islamiche, in Storia delle religioni. II: Giudaismo,<br />

Cristianesimo e Islam, ed. H.-C. Puech, <strong>La</strong>terza, Roma-Bari 1977, p. 887.<br />

21<br />

<strong>La</strong> controprova di questa affermazione è costituita dallo stretto legame che, nelle diverse religioni,<br />

viene stabilito <strong>tra</strong> l’effetto desiderato, ossia l’efficacia del rito, e la sua esatta esecuzione, cfr. G.R.<br />

11


e in particolare la pasqua di Cristo, sono la vita divina che oltre a essere accolta viene<br />

anche <strong>tra</strong>smessa.<br />

3.2.2. L’azione rituale come comunitarietà della fede<br />

L’efficacia rituale della liturgia e dei sacramenti non può prescindere dalle due<br />

coordinate fondamentali che caratterizzano un rito: la differenza e la relazione. Un rito<br />

non è tale se non si comporta in modo inedito rispetto agli altri comportamenti sociali:<br />

la sua prima caratteristica è la sua radicale differenza, il suo porsi come “altro” rispetto a<br />

ciò che lo circonda. Proprio perché è tanto differente da avere quasi qualcosa di s<strong>tra</strong>no<br />

rispetto al vissuto quotidiano, il rito rimane aperto e apre alla più radicale delle<br />

differenze: la differenza di Dio, che è quanto dire l’alterità, la <strong>tra</strong>scendenza di Dio.<br />

Come la parola di Dio non può essere omologata alle parole umane, così le azioni di<br />

Dio non possono essere omologate alle azioni umane. Per questo esistono una “sacra<br />

scrittura” e un’“azione rituale”, en<strong>tra</strong>mbe umane, in quanto scrittura e azione, ma<br />

en<strong>tra</strong>mbe anche più che umane in quanto sacra e rituale. Le azioni assunte nella liturgia,<br />

e quindi il <strong>corpo</strong> assunto nella liturgia, sono, così, strettamente connesse all’alterità e<br />

<strong>tra</strong>scendenza divina.<br />

A questo punto occorre precisare che le azioni rituali sono aperte alla <strong>tra</strong>scendenza<br />

non solo per la loro differenza ma anche per la relazione che instaurano. Le azioni<br />

rituali vengono compiute concretamente dai singoli membri dell’assemblea celebrante:<br />

ora dal presbitero, ora da altri ministri, ora da tutti i singoli partecipanti. Si <strong>tra</strong>tta di<br />

azioni che ognuno compie non perché è sicuro di poterne verificare l’effetto in modo<br />

tangibile: sebbene le azioni rituali siano tese all’ottenimento di un beneficio spirituale e<br />

talvolta anche materiale, esse si continuano a compiere anche quando tali benefici non<br />

vengono verificati e anche quando non sono verificabili. Nel rito, l’unica verifica<br />

dell’azione che ognuno compie è l’azione dell’altro o degli altri. Nella liturgia ognuno<br />

sa di poter contare sulla collaborazione dell’altro al di là delle verifiche sull’effetto che<br />

tali azioni possono avere. L’efficacia del rito è anzitutto quella di istituire una comunità,<br />

ossia un’assemblea di individui che misurano le proprie azioni non sugli effetti ma sulla<br />

condivisione 22 . Ed è per questo che la comunità riunita è il luogo in cui si <strong>tra</strong>smette<br />

veramente la vita divina. Così viene a istituirsi quella situazione intersoggettiva e<br />

interattiva che prende il nome di <strong>corpo</strong> mistico, di <strong>corpo</strong> di Cristo o <strong>corpo</strong> ecclesiale:<br />

l’eucaristia è l’una e l’al<strong>tra</strong> cosa insieme.<br />

3.3. Il rito e il linguaggio: la vita espressa (prospettiva semiologica)<br />

Le azioni che si compiono nella <strong>celebrazione</strong> liturgica non sono poste a caso né<br />

occasionali. Esse si inquadrano in quella che potremmo chiamare una grande semiosi,<br />

ossia una complessa rete e sequenza di segni che dischiudono un intero mondo di<br />

significati. I segni o linguaggi presenti nella liturgia sono dei più diversi tipi: la rete<br />

CASTELLINO, Introduzione, in Testi sumerici e accadici, UTET, Torino 1977, p. 25. Vedi anche J.-P.<br />

LALEYE, op. cit., pp. 290-291; G. WIDENGREN, op. cit., pp. 331-333.<br />

22 L’efficacia dei riti ha inevitabilmente una dimensione sociale, dato che essi, per lo più, declinano il<br />

passaggio degli individui da una condizione a un’al<strong>tra</strong> all’interno della comunità. Si vedano, su questo<br />

argomento, alcune ricerche di V. TURNER: <strong>La</strong> foresta dei simboli. Aspetti del rituale Ndenbu, Morcelliana,<br />

Brescia 1976, pp. 123-142; Il processo rituale. Struttura e anti-struttura, Morcelliana, Brescia 1972;<br />

Simboli e momenti della comunità. Saggio di antropologia culturale, Morcelliana, Brescia 1975.<br />

12


ituale in cui essi sono organizzati li rende disponibili a testimoniare la <strong>tra</strong>scendenza di<br />

Dio.<br />

3.3.1. Il linguaggio rituale come accoglienza della fede<br />

<strong>La</strong> prima osservazione riguarda il fatto che nella liturgia cristiana, come nei riti<br />

religiosi in genere, intervengono quasi tutti o almeno i principali linguaggi umani.<br />

Questo significa, anzitutto, che il <strong>corpo</strong> è preso in tutte le sue capacità espressive: la<br />

parola e il gesto, la musica e il canto, lo spazio e il tempo, la raffigurazione e<br />

l’abbigliamento, il tatto e l’odore. Nell’azione rituale il credente viene coinvolto in tutte<br />

le sue dimensioni umane, e, quindi, la fede viene estesa a tutto l’uomo. E l’uomo è, per<br />

così dire, colto di sorpresa: non può difendersi delegando la fede a una parte di se<br />

stesso, per es. alla parola, e rifugiarsi in tempi, spazi o gesti indifferenti o es<strong>tra</strong>nei alla<br />

fede. È tutto preso o tutto escluso dalla fede. Qui, nella liturgia, la <strong>tra</strong>scendenza divina<br />

non è negoziabile. È come descrivere una foresta ed essere nella foresta. Se elaboro<br />

delle approfondite disquisizioni sulla foresta la mia vita non è in gioco, perché è<br />

impegnata solo una parte di me: la parola. Ma se sono nella foresta, il coinvolgimento è<br />

totale, e la mia vita è veramente in gioco. Nel rito è in gioco la propria vita con Dio e<br />

non solo una forbita disquisizione su di Lui. Qui, nel rito, la fede non è argomentata o<br />

negoziata ma semplicemente accolta con tutto il proprio essere.<br />

Ritengo che questo sia un punto assolutamente nodale del rapporto dell’uomo con la<br />

<strong>tra</strong>scendenza. L’utilizzazione di uno o pochi linguaggi per esprimere la <strong>tra</strong>scendenza<br />

nasconde sempre il pericolo di ridurla a una pura rappresentazione. L’utilizzazione di<br />

tutti o dei principali linguaggi, invece, implica l’impossibilità di sot<strong>tra</strong>rsi a quanto ci<br />

<strong>tra</strong>scende, perché non rimane più nessun punto di appoggio, nessuna forma espressiva,<br />

nessun linguaggio, in cui io posso cogliermi e dirmi indipendentemente da ciò che mi<br />

<strong>tra</strong>scende. In altri termini, nel coinvolgimento globale dei linguaggi, nel coinvolgimento<br />

rituale di tutto il <strong>corpo</strong>, l’uomo è nella condizione, del tutto peculiare, non solo di<br />

rappresentare ma anche di accogliere la fede e, quindi, la <strong>tra</strong>scendenza divina.<br />

3.3.2. Il linguaggio rituale come espressione della fede<br />

<strong>La</strong> liturgia, come si è appena detto, coinvolge la complessità dei linguaggi umani.<br />

Questa è la prima caratteristica. <strong>La</strong> seconda consiste nel fatto che alla liturgia interessa<br />

soprattutto l’aspetto pragmatico dei medesimi linguaggi. Nel rito, la parola, la scrittura,<br />

il canto, il gesto, l’abbigliamento, gli oggetti, la disposizione delle persone, gli spazi<br />

architettonici, sono, direttamente o indirettamente, delle “azioni” relative allo scambio<br />

ecclesiale della fede. In altri termini, prima di essere degli strumenti at<strong>tra</strong>verso i quali<br />

comunicare dei significati più o meno teologici, i linguaggi rituali sono dei significanti,<br />

ossia degli elementi materiali e <strong>corpo</strong>rei che consentono di esprimere la fede nel<br />

momento stesso in cui se ne fa esperienza.<br />

A) <strong>La</strong> parola e la scrittura. I linguaggi verbali della liturgia, consegnati al lezionario<br />

e all’eucologia, non sono, in primo luogo, dei contenitori di concetti, di principi o di<br />

norme. Le preghiere e le letture bibliche sono dei suoni che si proclamano e si<br />

ascoltano, sono dei testi scritti che si mos<strong>tra</strong>no e si vedono. Ciò che vi è di più prezioso<br />

in loro non è di contenere dei significati teologici o la dottrina della chiesa, ma di<br />

esprimere delle esperienze teologali ed ecclesiali. Il valore delle preghiere e soprattutto<br />

del lezionario sta nel loro legame con la Parola di Dio. Ma la Parola di Dio non può<br />

essere un “contenuto” della mente umana, perché non può essere “contenuta” dall’uomo<br />

13


né da qualsiasi creatura. Per questo stesso motivo la Bibbia non può essere ridotta a un<br />

insieme di “contenuti”. Né la Scrittura, né l’uomo, né qualsiasi al<strong>tra</strong> realtà creata, può<br />

contenere la Parola di Dio, perché la principale caratteristica della Parola di Dio è<br />

proprio quella di essere incontenibile. Essa <strong>tra</strong>scende qualsiasi contenuto o recinto. Può<br />

essere, invece, espressa, indicata dalla creazione, dall’uomo e, in modo del tutto<br />

peculiare, dalla Sacra Scrittura. Può essere espressa e non contenuta. Nell’espressione<br />

non viene persa la <strong>tra</strong>scendenza perché non c’è alcuna pretesa di con-tenere.<br />

Questo non significa che non vi siano anche dei contenuti, ma implica solo che<br />

nessun contenuto, neppure tutti i contenuti della Bibbia già conosciuti possono<br />

racchiudere la Parola di Dio. Ecco perché la <strong>tra</strong>dizione, fin dall’antichità più remota, ci<br />

presenta un canone fisso dei testi biblici a cui sono state date innumerevoli<br />

interpretazioni. Ed ecco perché la liturgia non punta, innanzitutto, sui significati biblici<br />

o eucologici, ma sui significanti, ossia sulla Scrittura e la preghiera come forme<br />

espressive che non pretendono di contenere ma solo di invocare o di realizzare. Con<br />

l’invocazione si testimonia la Parola ricevuta rendendo lode per il prezioso dono di Dio.<br />

Con la realizzazione ci si dispone a lasciare che la Parola compia ciò per cui è venuta:<br />

se il pane, il vino ma anche la comunità raccolta diventano il <strong>corpo</strong> di Cristo, non è<br />

certo perché si possa comprendere tale mistero ma solo perché la Parola pronunciata<br />

può compiere anche ciò che è incomprensibile 23 .<br />

B) Lo spazio, il gesto e il tempo. Nella liturgia la parola e la scrittura sono<br />

strettamente connesse allo spazio e al gesto. Vi sono i luoghi specifici per la<br />

proclamazione della scrittura, per la predicazione e per la preghiera. <strong>La</strong> parola, orale o<br />

scritta, è sempre anche un luogo che, bene o male, interagisce con altri luoghi, per es.,<br />

con quello della mensa e del sacrificio. In tal modo, il “qui” della scrittura è legato al<br />

“qui” dell’eucaristia, il “qui” della parola al “qui” del sacramento. Vi è poi la<br />

disposizione dei membri dell’assemblea, che costituisce il “qui” della chiesa. Nello<br />

spazio rituale la parola non è indipendente dall’azione sacramentaria e dalla comunità<br />

credente: non è un libro da leggere ma la parte di un evento complesso in cui si rende<br />

presente il Signore. <strong>La</strong> parola allora è veramente la parola del Signore. Del resto,<br />

quando si dice “questo è il mio <strong>corpo</strong>” non si può <strong>tra</strong>scurare l’importanza dell’indicatore<br />

spaziale “questo”. Il valore di tale indicatore non è relativo solo al pane, ma anche a<br />

tutte le altre circostanze locali: non può esistere un qualsiasi “questo”<br />

indipendentemente da un “luogo” fatto di confini, di abitanti, di cose. L’architettura del<br />

tempio fa parte del “questo”, come pure la disposizione delle persone e degli oggetti.<br />

“Questo è il mio <strong>corpo</strong>”, ossia il <strong>corpo</strong> del Cristo risorto, <strong>tra</strong>scendente, è consegnato alla<br />

comunità concretamente riunita in un luogo, in uno spazio.<br />

Lo spazio occupato dall’uomo, però, è sempre l’esito di un gesto, e lo spazio<br />

liturgico è anzitutto il gesto liturgico. Per questo motivo il valore architettonico di un<br />

tempio è tutto relativo al gesto rituale che vi si svolge. Ma, soprattutto, per questo<br />

motivo lo spazio non è anzitutto uno stare ma un divenire, e lo spazio liturgico non è<br />

anzitutto una situazione ma una costruzione. Indubbiamente, stare in un luogo significa<br />

essere situati; ma un luogo è, prima di tutto, uno spazio abitabile, ossia uno spazio<br />

costruito in modo da essere abitabile. Lo spazio, allora, e solo allora, è connesso alla<br />

vita e ai ritmi temporali della vita. Come gesto, lo spazio è strettamente legato al tempo.<br />

23 Vi è in tutto ciò qualcosa della parola mitica che è “un suono creatore di realtà”, A. DI NOLA, Parola, in<br />

Enciclopedia delle religioni, IV, Vallecchi, Firenze 1972, 1490. Ma vi è anche la coscienza ecclesiale che<br />

la Parola di Dio non è un contenuto di pensiero, ma una persona che crea la realtà.<br />

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Come gesto, lo spazio è memoria e annuncio di chi lo abita. Come gesto, lo spazio<br />

rituale è memoria e annuncio dell’evento che lo abita. “Questo è il mio <strong>corpo</strong>” diventa<br />

“Fate questo in memoria di me”: il “questo” diventa la memoria, lo spazio diventa il<br />

tempo, il <strong>corpo</strong> situato diventa l’evento annunciato.<br />

C) <strong>La</strong> luce e l’ombra. Lo spazio viene percepito grazie al gioco cromatico della luce.<br />

E poiché il movimento nello spazio è strettamente connesso al tempo, anche il tempo<br />

dipende dal gioco cromatico della luce. Questa at<strong>tra</strong>versa il mondo facendolo apparire<br />

come spazio e tempo, come luogo e memoria. <strong>La</strong> luce è la rivelazione del mondo.<br />

Velare, svelare, e rivelare sono giochi della luce, o, più precisamente, giochi <strong>tra</strong> luce e<br />

ombra. Noi, probabilmente, non avremmo neppure l’idea di rivelazione e di<br />

<strong>tra</strong>scendenza senza l’esperienza dell’ombra, ossia di un <strong>corpo</strong> che interrompe la luce e<br />

che, nello stesso tempo, è illuminato dalla luce. Nell’interruzione c’è il nascondimento,<br />

l’essere velato tipico di una realtà che <strong>tra</strong>scende la visione; e nell’illuminazione c’è<br />

l’apparizione, l’essere svelato tipico di una realtà che viene alla visione. <strong>La</strong> rivelazione<br />

è questo gioco <strong>tra</strong> una <strong>tra</strong>scendenza nascosta e che pur rimanendo nascosta, ossia<br />

<strong>tra</strong>scendente, si manifesta all’uomo. Il Mistero divino rimane nascosto, <strong>tra</strong>scendente,<br />

anche nel momento in cui si rivela.<br />

<strong>La</strong> liturgia si mantiene in questa prospettiva, esprimendo Dio col gioco della luce,<br />

ossia con l’alternarsi del giorno e della notte, dell’alba e del <strong>tra</strong>monto. Nella liturgia<br />

delle ore l’orario è forse più importante dei salmi. In quell’orario, infatti, è già implicita<br />

una rivelazione che non si esaurisce nelle parole o nei concetti. Il Dio di Gesù Cristo<br />

non è a disposizione delle nostre parole e dei nostri concetti, non è un pacchetto di<br />

informazioni teologiche e morali con cui identificare la nos<strong>tra</strong> fede. Il Dio di Gesù<br />

Cristo sorprende l’uomo, anzi sorprende la stessa fede dell’uomo smobilitandola dal già<br />

acquisito e scontato: è luce e ombra, giorno e notte, mattino e <strong>tra</strong>monto. E la preghiera<br />

che si rivolge al Dio di Gesù Cristo è lodi e vespro, ora media e compieta. In questa<br />

<strong>tra</strong>ma oraria vissuta dal <strong>corpo</strong> è la confessione della <strong>tra</strong>scendenza del Dio rivelatosi in<br />

Gesù Cristo.<br />

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