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numero 1/2010 - Collegio Universitario Lamaro Pozzani numero 1/2010 - Collegio Universitario Lamaro Pozzani

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Collegio Universitario “Lamaro Pozzani” - Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoropanoramaper i giovaniCollegio Universitario “Lamaro Pozzani” - Via Saredo 74 - Roma - Quadrimestrale - POSTA TARGET CREATIVE Aut. n. S/SA0188/2008 valida dal 01/07/2008 - anno XLIII - n. 1 - gennaio-aprile 2010AFRICAENERGIAGeneratoriautocostruitiin MadagascarSPECIALEUn ricordodi Giovanni CavinaCOLLEGIOIl viaggioin TurchiaLe speranze di un continente

Collegio <strong>Universitario</strong> “Lamaro Pozzani” - Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoropanoramaper i giovaniCollegio <strong>Universitario</strong> “Lamaro Pozzani” - Via Saredo 74 - Roma - Quadrimestrale - POSTA TARGET CREATIVE Aut. n. S/SA0188/2008 valida dal 01/07/2008 - anno XLIII - n. 1 - gennaio-aprile 2010AFRICAENERGIAGeneratoriautocostruitiin MadagascarSPECIALEUn ricordodi Giovanni CavinaCOLLEGIOIl viaggioin TurchiaLe speranze di un continente


Eccellenza negli studiIl Collegio “Lamaro Pozzani” ospita a Romagratuitamente studenti, di tutte le facoltà e ditutte le regioni, che hanno superato una selezioneseria e accurata, in cui contano solo lapreparazione e le capacità. A loro chiediamo difrequentare con successo l’università, laureandosiin corso e con il massimo dei voti, maanche di partecipare alle attività del Collegio.Più che una laureaI nostri studenti sono diventati docenti e ricercatori, imprenditorie dirigenti d’azienda, professionisti, funzionari della pubblicaamministrazione. Lavorano in Italia e all’estero in posizioni diresponsabilità. Questi risultati sono stati raggiunti anche perchéin Collegio hanno frequentato corsi di economia, diritto, informatica.Hanno viaggiato e imparato a parlare correntemente l’inglesee altre lingue straniere. E hanno incontrato e conosciuto personalitàpolitiche, grandi studiosi, manager di successo.Le iscrizioni al concorso di ammissione per il Collegio <strong>Universitario</strong>“Lamaro Pozzani” possono essere inviate dal 19 aprile al 23 agosto.Leggi il bando e tutte le indicazioni sul sito del Collegio.Un impegno da vivere insiemeVi troverete a fianco di settanta ragazze eragazzi che saranno fra i vostri migliori amici evi aiuteranno a considerare il Collegio la vostra“casa”. Il tempo dello studio, per un giovaneuniversitario, non può che integrarsi con iltempo della vita: un’esperienza di libertà eresponsabilità decisiva per il futuro umano, professionalee culturale di ciascuno.Collegio <strong>Universitario</strong> “Lamaro Pozzani”Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavorowww.collegiocavalieri.it


Sommariopanorama per i giovanin. 1, gennaio-aprile 2010Un bambinoafricano facapolino dietrouna porta(Foto:iStockphoto/poco_bw).42639463. Editorialedi Stefano SempliciLa speranza dell’Africa4. Le cifre della differenzaLa condizione drammatica dell’Africa subsahariana.di Andrea Traficante ed Elisa Giacalone8. Tra golpe e unità nazionale lospiraglio del buongovernoSomalia, Zimbabwe, Botswana,Mozambico: la speranza di unRisorgimento politico.di Gabriele Rosana12. Esiste una dimensione politicaafricana?Dall’Unione Africana alla ComunitàEconomica Africana: sforzi e speranzeper un continente migliore.di Carlotta Orlando15. Studiare in AfricaIntervista a Claudio Procesi,vicepresidente dell’InternationalMathematical Union.a cura di Carmelo Di Natale16. Si può fermare il brain drain?Quando l’istruzione non basta: fuga dicervelli e sottosviluppo.di Beatrice Poles18. Con l’orecchio sul cuore dell’AfricaIntervista a Damião Cardoso e AnnalisaRosselli.a cura di Claudia Macaluso20. Gli standard africani dell’attività diimpresaDanni all’ambiente, sfruttamento deilavoratori, sigarette ai bambini. È veroche le regole non sono uguali per tutti?di Noemi Nocera22. L’Italia che qualche volta cooperaLe iniziative della Cooperazione italianain favore dell’Africa sub-sahariana.di Henri Ibi24. Il land grabbingStati con forte liquidità affittano alunghissimo termine terreni agricoli: è il“furto della terra”.di Donato Andrea Sambugaro26. L’energia dell’AfricaPossono metodi di costruzione efficaci ereplicabili aiutare i paesi in via di sviluppo?di Maurizio Manenti30. Il Mondiale arcobalenoAspettando il Mondiale 2010 in Sud Africa.di Elena Martini e Selene Favuzzi32. Perché la medicina occidentalenon è esportabileLa medicina non è solo questione dibiologia, ma anche di cultura e tradizioni.di Sofia Toniolo34. Africa has a DreamIl programma Dream per la cura dell’Aids.di Carmelo Di Natale36. Arte: pilastro di qualsiasi ponte fracultureIntervista a Daniela Giordano, attrice,regista e direttrice artistica della Festad’Africa.a cura di Selene Favuzzi38. Post scriptadi Carlo LottiSpeciale39. Ricordo di Giovanni CavinaIl Direttore della Residenza nellatestimonianza di quattro laureati.Dal Collegio46. Racconti dalla porta fra Oriente eOccidenteIl viaggio in Turchia del Collegio.di Selene Favuzzi48. IncontriGli incontri del Collegio <strong>Universitario</strong>“Lamaro Pozzani”.PANORAMA PER I GIOVANIPeriodico della Federazione Nazionaledei Cavalieri del Lavoro - RomaAnno XLIII - n. 1 - gennaio-aprile 2010Direttore responsabileMario SarcinelliDirettore editorialeStefano SempliciSegretario di redazione e impaginazionePiero PolidoroRedazione: Carmelo Di Natale, SeleneFavuzzi, Elisa Giacalone, ClaudiaMacaluso, Beatrice Poles, Maria TeresaRachetta, Gabriele Rosana, DonatoSambugaro, Sara Simone, AndreaTraficante.Direzione: presso il Collegio <strong>Universitario</strong>“Lamaro Pozzani” - Via Saredo 74 -00173 Roma, tel. 0672.971.322 - fax0672.971.326Internet: www.collegiocavalieri.itE-mail: segreteria@collegiocavalieri.itAgli autori spetta la responsabilità degliarticoli, alla direzione l’orientamento scientificoe culturale della Rivista. Né gli uni, nél’altra impegnano la Federazione Nazionaledei Cavalieri del Lavoro.Potete leggere tutti gli articoli della rivistasul sito: www.collegiocavalieri.itAutorizzazione:Tribunale di Roma n. 361/2008 del13/10/2008.ScriveteciPer commenti o per contattare gli autori degliarticoli, potete inviare una e-mail all’indirizzo:panoramagiovani@cavalieridellavoro.it


INTEGRAZIONEINDUSTRIASCIENZA INTERVISTEBucciarelli, Gentili,Morcellini, Masini e PesciaCONFRONTIL’istruzione superiorenei paesi europei e in CinaDATI, DUBBI E DIBATTITI SUL “3+2” IMMIGRAZIONEp a n o r a m ap e r g i o v a n iInterviste a Marcella Lucidie Alfredo MantovanoLa storia dell’Iri raccontatada Antonio ZurzoloDai misteri della matematica...alla pentola a pressioneLa città di tuttiCollegio <strong>Universitario</strong> “Lamaro Pozzani” - Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoropanoramaper i giovaniCollegio <strong>Universitario</strong> “Lamaro Pozzani” - Via Saredo 74 - Roma - Quadrimestrale - Tariffa R.O.C.: “Poste italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 N° 46) art. 1 comma 1, DCB Modena” - anno XLII - n. 3 - settembre-dicembre 2009AMBIENTEECONOMIAIl mercatoelettricoin ItaliaECOLOGIACosa fare perconsumare menoMARCONIL’inventoreimprenditoreEnergia da risparmiarep a n o r a m ap e g r i o v a n iLa riforma universitariaSul sito del Collegio <strong>Universitario</strong> “Lamaro Pozzani”puoi leggere e scaricare tutti i numeri e gli articolidi Panorama per i giovaniwww.collegiocavalieri.it


EditorialeLa sezione “Scienze umane e sociali” dell’Unesco, l’organizzazionedelle Nazioni Unite alla quale è affidatoil compito di promuovere la collaborazione fra i popolinel campo dell’educazione, della scienza e della cultura,ha lanciato un bando per la selezione di 10 “idee” sul futurodell’Africa. L’iniziativa, che culminerà a Parigi nel prossimomese di giugno con la presentazione delle proposte selezionateda una giuria internazionale, vuole sottolineare la ricorrenzadel cinquantesimo anniversario dell’indipendenza di gran partedegli stati del continente e mette a fuoco appunto 10 direttricifondamentali lungo le quali orientare attenzione e interventi.Nell’ordine: 1) economia e sviluppo; 2) governance, politiche,istituzioni, leadership; 3) integrazione regionale, popolazione,migrazione, urbanizzazione; 4) identità culturale (lingue, religioni…);5) giovani; 6) diritti umani, questioni di genere e giustizia;7) diaspora; 8) pace, sicurezza e conflitti; 9) salute, educazione esviluppo sociale; 10) relazioni internazionali.Gli articoli che proponiamo in questo numero cercano diprendere sul serio la sollecitazione ad allargare lo sguardo rispettoalla tendenza a far coincidere i problemi dell’Africa e inparticolare dell’Africa sub-sahariana con il problema del rapportofra paesi ricchi e paesi poveri. È evidente,purtroppo, che resta questa l’area del mondopiù direttamente coinvolta dall’impegno che icapi di stato e di governo si erano assunti nel2000 con la Dichiarazione del Millennio delleNazioni Unite. Così come è ormai chiaro chegli otto obiettivi ricavati da quel patto e peri quali era stata indicata l’ambiziosa scadenzadel 2015 saranno in larga misura mancati.Il segretario generale dell’Onu, in vista di unsummit convocato per fare il punto su quel cheè stato fatto e quel che si potrà ancora fare, hapubblicato un rapporto che proprio nell’Africasub-sahariana individua la principale pietra diparagone dei risultati ottenuti. Non mancanoalcune luci, come l’incremento da 58 a 74, fra il 2000 e il 2007,della percentuale dei bambini che accedono all’educazione primaria.Sembrano però prevalere decisamente le ombre: rimangonoquesti i paesi dei “poveri da 1 dollaro al giorno”; l’Aids,ma anche la malaria o la semplice mancanza di acqua potabilestringono le giovani generazioni e dunque il futuro di questi popolinella morsa della morte per molti e della paura per tutti; lacrisi economica e finanziaria ha divorato o comunque minaccia iprogressi nel tasso di crescita e di occupazione “dignitosa” che sicominciavano a registrare, sia pure con un andamento a macchiadi leopardo. Ma è proprio là dove questi progressi ci sono che lasemplice polarità ricco/povero si dimostra inadeguata come segnaviadi un cambiamento reale, profondo, duraturo.I Millennium Goals si sovrappongono in buona parte – enon potrebbe essere diversamente – ai grandi temi ora proposti“Le crisi, in Africapiù che altrove,cambiano,si modificano con ilpassare del tempo erichiedono capacitàdi adattamentoanche a chi tenta dirisolverle”.(L. Angeloni)dall’Unesco. Il loro approccio “minimalista” poteva facilmenteapparire la concessione a un inevitabile realismo accettata comecondizione di una maggiore efficacia. Non si chiedeva il benessereper tutti, ma semplicemente di sradicare la povertà estremae la fame. Si sperava di arrivare a garantire a tutti la scuola elementaree non l’università. I tre obiettivi direttamente legati allatutela della salute non puntavano a offrire una speranza di vita diottanta anni, ma solo a ridurre la mortalità infantile, migliorare lasalute materna, assicurare i farmaci per l’Aids. Il tutto promuovendol’eguaglianza di genere, la sostenibilità ambientale e una“partnership globale per lo sviluppo”. Oggi, probabilmente, dobbiamoprendere atto che la stessa sfida sui minimi si potrà vinceresolo agendo con successo sui fattori che possono innescare e poisostenere la spinta verso l’eccellenza: la qualità delle istituzionie dei processi politici in un orizzonte di pace e stabilità; un capitaleumano che, insieme al capitale fisico, cresca e soprattuttoresti in questi paesi, facendoli diventare soggetti attivi e non piùsemplici beneficiari (a piccole dosi) del progresso scientifico etecnologico; la valorizzazione delle specificità storiche e culturalisenza le quali continueremo a constatare che le ricette dellosviluppo non si esportano automaticamente, non più di quantociò sia possibile per la democrazia. LorenzoAngeloni, che è stato ambasciatore d’Italiain Sudan dal 2003 al 2007, ha affidato a unromanzo (In Darfur) il senso della sua esperienzae nella postfazione sottolinea la commozionee la gioia con le quali accompagnò larealizzazione del Salam Centre di Khartoum,centro cardiochirurgico di eccellenza che operagratuitamente, ogni anno, migliaia di pazienti.Il protagonista del suo racconto è unesperto di peacekeeping delle Nazioni Unite,che di fronte agli orrori della guerra maturalentamente la consapevolezza che “le crisi, inAfrica più che altrove, cambiano, si modificanocol passare del tempo, si trasformano erichiedono capacità di adattamento anche da parte di chi tentadi risolverle”. La capacità di adattamento non è una strategia diriduzione dei diritti e degli obiettivi, necessaria perché “non sipuò fare di più”. Corrisponde piuttosto al metodo indicato daMuhammad Yunus, il “banchiere dei poveri”, per dare concretezzaall’antica intuizione che l’elemosina non è mai un modo“per risolvere definitivamente il problema”. Il punto di sopravvivenzasi può e ovviamente si deve raggiungere. Ma non si vaoltre cercando di stipare la creatività e l’energia delle persone “ingabbie di nostra invenzione”. La strada più sicura è quella piùfaticosa. Ci vogliono un’istruzione capillare, un buon sistema sanitario,una rete di comunicazione e di informazione efficiente.Senza queste strutture, senza questo “sistema di supporto”, ogniprogresso sarà fatalmente bloccato e riassorbito.Stefano Semplicipanorama per i giovani • 5


Le cifre della differenzaAlcuni dati spesso conosciuti superficialmente o, peggio, ignorati. Lacondizione drammatica dell’Africa sub-sahariana.di Andrea Traficante ed Elisa Giacalone“Non credo nell’uguaglianza delle persone.Nasciamo uguali, ma l’uguaglianzacessa dopo cinque minuti: dipende dallaruvidezza del panno in cui siamo avvolti[...] dalla qualità del latte che beviamoe dalla gentilezza della donna che ciprende in braccio”. Così affermava Mankiewicze se identifichiamo quella donnacon il destino non si può certo dire chesia gentile quella che culla gli abitantiUn bambino nato in un paesepovero ha fino a 14 volte piùprobabilità di morire di uno natoin un paese sviluppato.dell’Africa sub-sahariana. Secondo lestime di Save the Children ogni 3 secondiun bambino muore nel mondo. Nel 2008i bambini deceduti prima di compiere 5anni sono stati 8,8 milioni, di cui quasi 2milioni lo stesso giorno della nascita e laBanca Mondiale ha previsto che la crisifinanziaria potrebbe causare il decesso dialtri 400.000 bambini. È un’emergenzasenza pari.Le nazioni che da sole totalizzano piùdella metà di questo triste primato sonosolo 6, di cui 3 africane: Nigeria, RepubblicaDemocratica del Congo ed Etiopia;le altre sono India, Pakistan e Cina. Perfare un paragone con i paesi industrializzati,si stima che un bambino nato inuno dei paesi cheoccupano gli ultimiposti dellegraduatorie dellosviluppo abbiafino a 14 voltepiù probabilità dimorire di un bambino nato in una zonapiù fortunata del mondo.Le patologie principali sono l’Aids,la malaria, la polmonite, il morbillo, ladiarrea, a cui si associano una serie dicomplicazioni che si verificano durante lagravidanza e durante, o immediatamentedopo, la nascita, incidendo in manierasignificativa sui decessi dei neonati. Inquasi tutti i casi, tali malattie e complicazionisono prevenibili e curabili coninterventi la cui efficacia è stata provata,ma che purtroppo sono inaccessibili permolti dei bambini più poveri. Secondol’Oms, 57 paesi nel mondo soffrono perla scarsità di personale sanitario e 36 diquesti sono africani. Questi dati, oltre arappresentare una perdita inaccettabiledal punto di vista morale, rappresentanoun enorme ostacolo alla crescita economica.La commissione su Macroeconomiae Salute di Save the children hastimato che l’impatto globale dei decessidei neonati e delle madri si traduce inuna perdita di produttività annuale paria 15 miliardi di dollari. Alla riduzione di5 punti percentuali dei tassi di mortalitàinfantile corrisponde un incremento economicopari a 1 punto percentuale neldecennio successivo. Sarebbe auspicabile,dunque, che i governi decidesserodi investire in maniera massiccia per migliorarele condizioni di vita dei bambiniassicurando, indirettamente, un futuropiù roseo alla propria economia.E proprio riguardo all’economiac’è davvero molto da dire (e da fare).Nell’ultimo decennio l’Africa ha sperimentatoun costante aumento (circail 5% secondo le stime del Fmi) nellaFoto: iStockphoto (duncan1890; Sean_Warren; poco_bw)4 • n. 1, gennaio-aprile 2010


La salute nel mondoIn questa pagina: una madre con il figlio euna donna che trasporta acqua verso il suovillaggio nell’Africa sub-sahariana.crescita, grazie anche a buone politicheeconomiche. Questi miglioramenti, però,non hanno favorito la riduzione della povertàe la recente crisi non fa di certoben sperare per il futuro. Queste pauresono confermate da Louis Kasekende,capo economista della Banca africana diSviluppo (Adb), il quale non ha esitatoa confessare i suoi timori su un possibilecrollo del Pil procapite rispetto allacrescita demografica. Uno scenario che,se si realizzasse, farebbe peggiorare ulteriormentele condizioni di vita dellapopolazione. Secondo la Banca Mondialeil 50% della popolazione dell’Africasub-sahariana vive in una condizione diestrema povertà, intendendo con questoche più della metà degli abitanti vive conmeno di un dollaro al giorno. Una percentualeche potrebbe essere destinataad aumentare.Il Pil dell’Africa sub-sahariana è stimatoin circa 761 miliardi di dollari nel2007; nello stesso anno il Pil del nostropaese era vicino ai 2.000 miliardi di dollari.La crisi globale potrebbe praticamenteazzerare i pochi e sofferti miglioramentiarrivati negli ultimi anni e l’aumento delprezzo del cibo e dei carburanti del 2008andrebbe ad aumentare un divario giàconsistente.A peggiorare una situazione già criticasi aggiunge il fatto che una larga partedella popolazione non ha accesso aforme minime di protezione sociale o diassistenza sanitaria. Un dato su tutti apparesignificativo: il numero di operatorisanitari dovrebbe essere incrementato del140% per raggiungere la copertura sufficiente!Un altro ostacolo importante per lacrescita dell’Africa è sicuramente legatoal basso livello di scolarizzazione eistruzione: non a caso l’innalzamentodi quest’ultimo è uno dei millenium developmentgoals, ovvero degli obiettivi– tra cui anche la lotta contro la povertàestrema e la sostenibilità ambientale – chel’Onu aveva proposto per il 2015 con unadichiarazione firmata da 191 stati nel settembre2000.Sempre i dati raccolti dalla BancaMondiale ci dicono che in tutto il mondoil numero di bambini che non hanno accessoall’istruzione primaria è pari a 75milioni: di questi il 70% viene individuatonella zona sub-sahariana e nell’Asiadel Sud. Nella zona sub-sahariana, inoltre,il tasso di studenti che riesce a raggiungerel’ultimo livello della scuolaprimaria, ovvero quello in cui si posseggonoabilità base quali la lettura, la scritturae le prime nozioni di matematica, èpari al 67% (contro l’80% dei paesi invia di sviluppo). Il livello d’istruzione ècomunque legato a più fattori, come adesempio la malnutrizione, che affliggeun bambino su 3 sotto i 5 anni e minafortemente il processo d’apprendimento;inoltre, dal punto di vista economico,è interessante notare come i paesi delNord America e dell’Europa Occidentalespendano in media 5.500 dollaril’anno per studente, mentre nell’Africasub-sahariana la cifra è di 167 dollari,cioè circa 33 volte inferiore. La campagna“Scuole per l’Africa” dell’Unicefpanorama per i giovani • 5


La speranza dell’AfricaLINEE TELEFONICHE PER 100 ABITANTI3,53,13,02,52,0 1,8africa1,51,0 africa sub-sahariana1,00,50,50,4nigeria0,80,0 95 96 97 98 99 00 01 02 03 04sono destinati alla pensione o comunquea lasciare il proprio posto: queste cifreimpressionanti sono alla base di tutti iprogetti, a partire da quelli organizzati eportati avanti dall’Adea (Association forthe Development of Education in Africa),che hanno come scopo quello di ridurresignificativamente il gap d’istruzione,che è uno dei fattori che più seriamentetarpa le ali allo sviluppo dell’intero continenteafricano.Un altro problema impossibile daignorare è il digital divide, ovvero queldivario che esiste tra chi può accederedirettamente alle nuove tecnologie, qualiInternet e personal computer, e chi,parzialmente o totalmente, ne è escluso.Questo discorso è centrale nello studiodella condizione del Terzo Mondo, edell’Africa in particolare: non a caso,il World Summit of the Information Society,l’ente delle Nazioni Unite specializzatonelle telecomunicazioni, presentasul proprio sito (http://www.itu.int/wsis/tunis/newsroom/stats/) un’analisi comparativadello stato della penetrazione,dell’accesso e dell’uso delle nuove tecnologietra l’Africa e il resto del globo,dalla quale si possono ricavare alcunidati interessanti. L’intero continenteafricano, comprendente più di 50 stati,ha per esempio lo stesso numero di utentiInternet della sola Francia e, rispettoall’Europa, ha un tasso di penetrazionedella rete 11 volte inferiore, pari circa al3% (anche se va detto che la situazioneappare in rapida evoluzione).Un ragionamento analogo può esserfatto analizzando i dati interni, ovverofacendo un raffronto tra le varie zonedell’Africa: dal grafico che riporta il numerodi linee telefoniche ogni 100 abitantisi nota una generale crescita pressochécostante, ma lasituazione dellaparte sub-saharianarimane moltodistante dalla mediacontinentale,attestandosi su unvalore inferiore a un terzo del dato africano.È innegabile che lo sviluppo di un paesepassi anche per il web, soprattutto inun’epoca come questa dove l’essere presentiin rete è una condicio sine qua nonper qualsiasi attività. Sebbene tale fenomenosia diminuito negli ultimi 10 anni,risultano totalmente privi di qualsiasi tecnologiadi comunicazione e informazionecirca 800.000 centri abitati (perlopiùvillaggi), corrispondenti a 1 miliardo dipersone.Esistono numerosi progetti atti ad “avvicinare”l’Africa al resto del mondo: unesempio particolarmente virtuoso è quelloproposto negli ultimi anni dall’azienda(africana) Seacom che è riuscita, attraversoun cavo sottomarino di 17.000 km,Secondo la Banca Mondiale il50% della popolazione dell’Africasub-sahariana vive con meno diun dollaro al giorno.a collegare il Sud Africa, la Tanzania, ilKenya, l’Uganda e il Mozambico conEuropa e Asia. I benefici di questo investimento(pari a 650 milioni di dollari)sono andati, in prima battuta, alla Tanesco(compagnia elettrica), alla Ttcl (settoredelle telecomunicazioni), alla TanzaniaRailways (compagnia ferroviaria) e alleuniversità di Dar er Salaam e di Dodoma,con prezzi per l’accesso ridotti a un quinto(da 6000 dollari al mese a 300): conl’attivazione di reti interne ci si aspettaun’ulteriore riduzione dei costi, oltre alvantaggio di rendere accessibili anchepiccoli villaggi ora pressoché isolati.Sono proprio dati come questi a dimostrareche una svolta è possibile. Vogliamoallora concludere citando tre paesi almenoparzialmente in controtendenza. La citazionedel Sudafrica appare scontata: questopaese rappresenta infatti il 20% del Pilafricano e ha operato una stabilizzazioneeconomica e politica che ha favorito losviluppo degli investimenti e la creazionedi un mercato finanziario che rappresentail 10% del Pil. Ma anche l’Angola ha registratonegli ultimi tre anni un tasso di crescitadel 20%, guadagnandosi un posto trai paesi più dinamici del pianeta (va dettoperò che la parte del leone la fa il settorepetrolifero che rappresenta il 58% del Pil,e che il 68% della popolazione vive tuttorain condizioni di povertà). L’Uganda èriuscita a ridurre il tasso della povertà dal56% del 1992 al 31% nel 2006.Il destino di questa parte del mondopuò cambiare! Il cambiamento è possibilein primis grazie all’operato dei governi, iquali devono attuare politiche economicheatte a favorire gli investimenti (sia domesticisia esteri) e a stimolare la domandainterna. Allo stesso tempo bisogna lavorareper ridurre i deficit strutturali e instaurareun clima di stabilità politica che aprala strada verso i mercati mondiali in manieraautonoma, riducendo la dipendenzadagli aiuti dei paesi Ocse. Anche la comunitàinternazionale ovviamente dovrà farela sua parte, continuando a investire e arafforzare i rapporti (di tipo commercialee non di assistenza!) con l’Africa.panorama per i giovani • 7


La speranza dell’AfricaFoto: iStockphoto (narvikk; Gerald_Mashonga)Tra golpe e unità nazionalelo spiraglio del buongovernoDalla Somalia allo Zimbabwe, la speranza di un Risorgimento politico. Eintanto Botswana e Mozambico finiscono “in cattedra”.di Gabriele RosanaBuon compleanno, continente nero. Il2010 porta con sé, per diciassette paesiafricani, il giro di boa dei cinquant’annidi indipendenza dalle potenze europee.Mezzo secolo dalla fine dell’età coloniale,ma anche 125 anni dalla conferenzadi Berlino che, convocata dal cancellieretedesco Otto von Bismarck, inaugurò laspartizione del continente. Insomma, tragioghi imposti e catene spezzate, l’Africane ha fatta di strada. Se ai quadri dirigentidel Vecchio Continente si sonogradualmente sostituiti nell’appalto dellamacchina statale ora le famiglie più influenti,ora le etnie in perenne piede diguerra l’una contro l’altra, è pur vero chenel frattempo – come sostengono a pièfermo le classifiche internazionali – autorevolipersonalità politiche hanno messoin campo interventi per definire in sensooccidentale il profilo delle proprie leadership.Il Sudafrica di Nelson Mandelae di Thabo Mbeki ha offerto notevoliesempi, salvo poi precipitare nel baratro(perlomeno a livello di reputazione internazionale)con l’avvento di Jacob Zuma,il discusso leader dell’African NationalCongress e attuale presidente della Repubblica.La questione della governance,l’identikit della classe politica di uncontinente complesso, vasto, vario,multicolore come l’Africa parla unamiriade di dialettilocali, presentaun ampioventaglio di storieda raccontare;storie che siintrecciano conil passato coloniale, si inerpicano suitronchi dell’autonomia gridata a pienipolmoni, si appigliano agli animi accesidalla religione e votati alla jihad, siaggrappano alle tappezzerie dei palazzidel potere, come fossero ingemmateIn buona parte dell’Africa èun’ardua impresa selezionarepolitici non invischiati nelleguerriglie interne dei loro paesi.corone, per poi sprofondare nel baratrodei fucili puntati sulla scia di scontrifratricidi a bordo di jeep scorazzantiper strade sterrate, sino a tuffarsi nelleurne elettorali (laddove ancora venganotenute in piedi) a rinfocolare le accusedi brogli. L’Africa politica è questo, emolto di più.Un po’ come per l’attuale classe dirigentedell’Irlanda del Nord, a variotitolo coinvolta nella resistenza armatadegli anni Settanta e Ottanta, e oggiseduta sulle poltrone (inevitabilmentelottizzate) del potere, così anche in buonaparte dell’Africa è un’ardua impresaselezionare qualche esponente politiconon invischiato nelle logiche della guerrigliainterna al paese. Appese le armi aun chiodo, i combattenti si reinventanopadri dello Stato. Accreditandosi pressole maggiori cancellerie occidentali,straordinariamente vocate al dialogo e alcambio di campo quando si tratta di tesserenuovi rapporti diplomatici con chi,fino a poco prima, veniva segnalato nelleblack lists.8 • n. 1, gennaio-aprile 2010


La speranza dell’AfricaNel dipingere il quadro politico africano,le vivaci tinte che infondono speranzacontinuano inevitabilmente adaccompagnarsi a tratti più foschi. Se inOccidente, salvo i casi più controversi,lo slogan dei brogli viene perlopiù sbandieratosenza troppa cura e a fini propagandistici,in Africa, come attestano idati dell’Osce (l’Organizzazione per lasicurezza e la cooperazione in Europache vigila sul corretto svolgimento delleelezioni), la questione è cruciale. Lacorruzione nei palazzi del potere impera,spesso testimoniata dai picchi di astensionismouna volta che i cittadini vengonochiamati alle urne. E se da un latola stabilità politica raggiunta da moltedelle 53 nazioni del continente nell’ultimotriennio è un indice interessanteper leggere nel suo complesso il timidosviluppo socioeconomico della regione,dall’altro “la lotta per contrastare la cattivagestione della cosa pubblica – sottolineal’Osce in un suo rapporto, redattoinsieme alla Banca Africana – resta fondamentale”,come continuano a testimoniarei sanguinosi conflitti in diverse areee certe elezioni giudicate “poco credibili”dagli osservatori internazionali.Luci e ombreNon è certo un caso se nel 2009 il Premioper il successo della leadership in Africa,il riconoscimento per il buon governodestinato agli ex leader africani, non haavuto alcun vincitore. I cinque milioni didollari (più il successivo e ulteriore vitaliziodi 200.000 dollari annui), premioindividuale più ricco del mondo, che datre anni il magnate sudanese della telefoniamobile Mo Ibrahim mette in palio perpremiare i governi più virtuosi, stavoltasono rimasti nelle tasche del patron diCelnet. Dopo le due passate edizioni andateagli ex leader del Botswana FestusMogae e del Mozambico Joaquim Chissano,in lizza nei mesi scorsi c’erano expresidenti come il sudafricano ThaboMbeki e il ghanese John Kufour (il fattostesso di non usurpare la carica dopo lanaturale scadenza del mandato è condottavirtuosa). Severo il commento dell’expresidente irlandese e Alto commissarioOnu per i diritti umani Mary Robinson,membro della giuria: “Se esistesse unpremio analogo per i dirigenti europeisarebbe stato ugualmente arduo scegliereun degno vincitore”. I due uomini politiciche hanno incassatoil premiodi Ibrahim nel2007 e nel 2008sono, effettivamente,i padri nobilidelle due nazioniunanimemente riconosciute comesaldi baluardi di democrazia in Africa. IlMozambico con Chissano ha conosciutoprima l’esperienza dei movimenti di liberazionenazionale, gli accordi di pacedel 1992 (firmati a Roma con l’essenzialeconcorso della Comunità di Sant’Egidioe del governo italiano) che poserofine alla guerra civile, sino ad assumereil ruolo di interlocutore diplomatico trai più affidabili e punto di riferimentodell’Onu e dei grandi per la stabilità e lapace nella regione. La stabilità politicadel Botswana, consacrata dal decennioche ha visto Mogae al potere, ora continuacon il successore Ian Khama (figliodel primo capo dello stato) che haconsentito al paese di crescere economicamentesfruttando le ricche risorse mineralidel sottosuolo e combattendo strenuamentel’Aids. La crisi economica nonha tuttavia risparmiato neanche questapiccola isola felice, colpendo soprattuttoil settore della produzione di diamanti, il75% delle esportazioni.Il 2009 non avrà visto alcun vincitoreprimeggiare, però l’Ibrahim IndexDa tre anni il magnate dellatelefonia sudanese Mo Ibrahimmette in palio 5 milioni di dollariper i leader africani più virtuosi.of African Governance rivela un nettoprimato delle isole nel buon andamentodella macchina statale: Mauritius, CapoVerde e Seychelles (con Botswana e SudAfrica rispettivamente al quarto e quintoposto). I parametri presi in considerazionedall’indice della Fondazione riguardanolo sviluppo umano, la partecipazionepolitica, i diritti umani, la creazione diopportunità economiche sostenibili, la sicurezzae lo stato di diritto. A rappresentarela costa occidentale del continenteresiste solo il Ghana, settimo in graduatoria,che ha dapprima (era la fine deglianni Cinquanta) inaugurato l’indipendenzadegli stati dell’Africa nera, sottola guida del padre della nazione KwameNkrumah, sprofondando poi anch’essonella guerriglia e nel controllo da partedei militari. Il 2000 segnò la dissoluzionedel dominio del Consiglio nazionaleNella pagina precedente: un carro armatodistrutto al confine fra Somalia ed Etiopia.A destra: nei suoi dieci anni di governo,Festus Mogae ha assicurato stabilità alBotswana (nella foto la piazza del mercatonella capitale Gaborone).panorama per i giovani • 9


La speranza dell’AfricaFra i paesi meglio governati dell’Africa cisono le Mauritius (a sinistra la capitale PortLouis) e le Seychelles (in basso, una tipicaimmagine di una spiaggia delle isole).i conti con i tremila chilometri di costainfestati dai pirati, a fronte di una marinamilitare a picco come il resto dellamacchina statale. L’ultima speranza perMogadiscio, come sempre, sta proprionella mano tesa dell’Occidente.Foto: iStockphoto (PeJo29; Wolfgang_Steiner)di Difesa e l’elezione di Kufour (NationalDemocratic Congress), il quale l’annoscorso, in seguito a libere elezioni, hapassato la guida del paese a John AttaMills, leader del partito d’opposizione(New Patriotic Party). Un sereno passaggiodi consegne decretato da appena40.000 voti (lo 0,46% del totale), che hafatto entrare a pieno titolo il Ghana nelcerchio delle democrazie stabili.Il cinquantatreesimo posto, ultimo edeloquente, va alla Somalia, che dal 1991vive nell’anarchia e nell’effettiva assenzadi un’amministrazione statale. Laguerra civile, l’occupazione delle truppeL’Ibrahim Index of AfricanGovernance prende inconsiderazione sviluppo umano,diritti, sostenibilità e sicurezza.etiopi, le infiltrazioni del terrorismo dimatrice islamica, la nascita dei gruppiguerriglieri: a Mogadiscio la situazionesembra stia acquistando una sagoma dicertezza soltanto adesso, quando ormaila Somalia è stata unanimemente dichiaratalo stato più fallito del mondo. Dopo17 anni di guerra civile, il paese ex coloniaitaliana si affida ora a Sharif Ahmed,il cavallo su cui l’Occidente non avrebbemai scommesso a inizio corsa, ma sucui s’è visto costretto a convergere, peridentità del comune avversario. A MogadiscioAhmed è stato l’anima delle cor-ti islamiche, milizie armate che hannocombattuto, difeso l’identità musulmanadel paese, ponendosi come alternativa aisignori della guerra spalleggiati dall’Occidente.La svolta politica di Ahmed indirezione dell’Islam moderato e di unnuovo governo all’insegna della cooperazioneha avuto un duplice effetto: daun lato fare terra bruciata attorno agliesponenti fondamentalisti (che hannofondato il movimento combattente AlShabaab, legato ad Al Qaeda), dall’altrolegittimare una inedita leadership agliocchi dell’Occidente. In origine, infatti,le corti raggruppavano i tribunali localifondati sullasharia, pur avendoben prestodisposto la cancellazionedellajihad, la guerrasanta, dallo statuto.C’è di più: Sharif Ahmed, smentendole riserve dei commentatori, ha stretto lamano del segretario di stato Usa HillaryClinton e ha pontificato: “L’Islam è tollerante.Ormai i somali si sono accortiche Al Shabaab e Al Qaeda hanno sfruttatola loro fede”. La visita del capo delladiplomazia a stelle e strisce lo conferma:il mondo occidentale è convinto che, sefallisse il governo di Sharif, la Somaliafinirebbe nelle mani delle frange estremistelegate a Bin Laden. Ma la ricostruzionedel paese, oltre alle frazioni internetra i diversi gruppi, deve fare ancheDai brogli agli accordiAccanto ai graffi, che spesso si tramutanoin lacerazioni dell’ordinamento costituitoda parte di gruppi ribelli, anche i colpi distato vantano una consolidata tradizionenel continente africano.Spulciando la cronaca dei giornaliche lascia ancora i segni d’inchiostrofresco sui polpastrelli, l’ultimo in ordinedi tempo risale a febbraio, e sta tuttoraanimando la situazione politica inNiger. Gli osservatori internazionali e icooperanti occidentali presenti nel paese,nelle scorse settimane si dicevanotutto sommato pronti ad assistere alladeposizione del presidente MamadouTandja da parte delle gerarchie militari.Un golpe “atteso e tranquillo”. Tandjaaveva infatti da poco stravolto la Costituzioneper garantirsi un prolungamentodel mandato fino al 2012 (nonostanteche Ue e Usa avessero prontamente10 • n. 1, gennaio-aprile 2010


La speranza dell’Africacongelato gli aiuti): un colpo di mano acui i colonnelli hanno risposto istituendonella capitale Niamey un triumviratomilitare che traghetterà il Niger versoil ripristino dell’ordine costituzionale everso nuove elezioni.Le onnipresenti querelles sui broglielettorali restano però un altro indicedella difficoltà di consolidare pratichee modelli democratici di governance.Il Kenya che ha festeggiato in piazzal’elezione del “figlio” Barack Obamaalla Casa Bianca (celebrazione prontamentericambiata con il tour africanodel presidente), per esempio, inquest’ultimo periodo non ha avuto vitafacile. Anzi, la coabitazione siglata trail primo ministro Raila Odinga (di etnialuo) e il presidente Mwai Kibaki (dietnia kikuyu) con l’Accordo nazionalekeniano, che ha appena compiuto dueanni, ha alle spalle i tumulti sollevati (eil sangue versato) all’indomani dell’esitodelle elezioni presidenziali del dicembre2007. Una storia che, cambiati inomi dei protagonisti e ritoccate appenale percentuali, vestirebbe bene le paginedi cronaca politica interna di gran partedegli Stati africani. Le accuse di brogli(il distacco in favore di Kibaki, presidenteuscente, era di 230.000 voti) sonoun leit motiv nel cuore del continente. Ele dichiarazioni con le quali si commentanoa caldo gli esiti delle urne hannospesso armato molte braccia, estremizzandoil dibattito. Salvo, complice ilconcorso di “lungimiranti” presidenti distati limitrofi, trovare la quadratura delcerchio, l’accordo nel nome della nazione.E l’accordo consente la coabitazionea chi fino a poco prima aveva duellato asuon di schede elettorali (e di machete).Ammontarono a 1.300 le vittime sparsesul selciato keniano e a 600.000 glisfollati in seguito agli scontri prima chearrivasse, sul finire del febbraio 2008,la ricetta dellapacificazione“per superare ledivisioni e riunireil paese”: laGrosse Koalitiondi Nairobi natasotto l’egida dell’ex segretario generaledell’Onu, il ghanese Kofi Annan.Destino simile è toccato appena qualchemese dopo a quello che, all’indomanidella fine dell’esperienza coloniale (quandoera noto come Rhodesia del Sud) in poi,è divenuto il regno personale di RobertMugabe: lo Zimbabwe. Nonostante le accusedi gravi violazioni dei diritti umanipendenti sul suo capo (dalla persecuzionedegli avversari politici all’appropriazionedegli aiuti umanitari), Mugabe ha dominatoincontrastato il paese dall’iniziodegli anni Ottanta, accentrando su di sésempre maggiori poteri, sino a giungerealla deriva dittatoriale denunciata dallacomunità internazionale e sanzionata invari modi (esclusione dello Zimbabwedal Commonwealth, divieto di ingressoin Unione Europea e negli Stati Uniti senon per summit dell’Onu). Tra il 2008 eil 2009 anche per questo discusso statodel sud del continente è scoccata l’ora deltavolo di concertazione, con un governodi unità nazionale presieduto da MorganTsvangirai, leader del Movimento per ilcambiamento democratico (Mdc), partitostoricamente avversario dello Zanu-Pfdi Mugabe. Eppure quest’ultimo, in vistadelle elezioni, aveva messo in campo unastrategia di propaganda tale da smantellarel’opposizione presente nei maggioricentri. L’escamotage trovato da Mugabeper uscire dall’isolamento internazionaleha coinvolto in prima persona proprioTsvangirai, che s’è messo subito allavoro, finendo per diventare in un annoo poco più, da co-timoniere dello Zimbabwe,il candidato che maggiormenteha insidiato l’assegnazione del Nobel perla Pace a Obama. Le casse dello stato,che – stando alle dichiarazione del primoministro – erano ridotte ad appena 4milioni di dollari, stanno rimpinguandosi(nonostante l’80% della popolazione siasotto la soglia di povertà e la disoccupazionetocchi il 90%), consentendo di finanziaregli investimenti infrastrutturali einfondendo speranza nel board del FondoMonetario Internazionale, che ha riammessolo Zimbabwe tra i paesi con dirittoA Mogadiscio Sharif Ahmedè stato l’anima delle cortiislamiche, ma oggi è il cavallo sucui punta l’Occidente.di voto (subordinando, però, l’erogazionedi nuovi prestiti all’estinzione dei debitiprecedentemente contratti). L’ultraottantenneMugabe, però, continua ad essereun partner di punta del regime cinese, acui le inestimabili riserve minerali dell’exRhodesia del Sud fanno gola.Se il problema maggiore di Mugabe èil tempo che corre inclemente, suoi autorevolicolleghi hanno trovato come beffareanche il divino Kronos. Le allusionidella stampa estera alle “repubbliche ereditarie”come Gabon e Togo non hannoevidentemente bisogno di spiegazioni.Rivolte popolari, prontamente sedate,sono seguite al serafico avvicendamentotra Omar Bongo (al governo del Gabondal 1967) e il figlio Ali, suggellato anchedal responso delle urne dopo la scomparsadel presidente, come anche nella RepubblicaTogolese tra Gnassimbé senior ejunior.In questo contesto l’Europa fatica atrovare una strategia comune e dà spessol’impressione di continuare a presentarsiframmentata da singoli interessi e preoccupazioninazionali: mentre nelle imbottitesedi Ue si duellava sul nome di Mister/Miss Pesc (l’Alto rappresentante per lapolitica estera) e sulla composizione con ilbilancino del corpo diplomatico dell’Unione,gli stati-monoliti battevano strada e facevanoaccordi per conto proprio.Chissà se il vento di Risorgimento che,frutto dell’autodeterminazione dei popoli,presto spirerà per tutta l’Africa, riuscirà anchea metter d’accordo le ex potenze coloniali.Convincendole che il giardino “sottocasa” è, per tutte, davvero perduto.panorama per i giovani • 11


La speranza dell’AfricaEsiste una dimensionepolitica africana?Dall’Unione Africana alla Comunità Economica Africana: sforzi esperanze per un continente migliore.di Carlotta Orlandomilioni di dollari, circa il 50% in più rispettoal budget del 2009. È insensato fareun paragone con l’Unione Europea, organizzazionecertamente più costosa, ma soprattuttopiù radicata e collocata in una realtàsocio-economica completamente diversarispetto a quella africana. Quel checonta rilevare è piuttosto l’aumento dellaspesa per l’Au, il che dimostra una fiduciaFoto: iStockphoto/grajte“We all want a united Africa, […] unitedin our common desire to move forwardtogether in dealing with all the problemsthat can best be solved only on a continentalbasis”. Così Kwame Nkrumah,primo presidente del Ghana, concludevanel 1965 un suo discorso rivolto ai capidi stato dei paesi dell’Africa. Il progettodi Nkrumah – la creazione di una federazioneafricana – era a dir poco ambizioso,forse irrealizzabile, ma resta l’importanzadella sua intuizione: era necessario perl’Africa intensificare i rapporti tra gli statie favorirne la collaborazione in un’otticapanafricana. In questi anni qualcosa èstato fatto, in particolare grazie all’UnioneAfricana e alla Comunità EconomicaAfricana, ma il sogno di Nkrumah e diquanti altri come lui credevano in un’Africaunita come unico mezzo per garantirela libertà, lo sviluppo e il progresso delcontinente è rimasto tale e probabilmentetale è destinato a rimanere, almeno per unlungo periodo.L’Unione AfricanaUn ruolo di prim’ordine tra le varie organizzazionisovranazionali è sicuramenterivestito dall’Unione Africana (AfricanUnion). Di recente costituzione, natanel 2002 in sostituzione e su iniziativadell’Oau (Organization of African Unity),Nata nel 2002, l’Unione Africanaha come obiettivo quello digarantire pace, sicurezza estabilità.l’Unione Africana è volta a promuoverel’integrazione socio-economica del continente,incrementando l’unità e la solidarietàtra i paesi e i popoli d’Africa eincentivando una collaborazione tra i governie i vari segmenti della società civile.L’obiettivo principale è quello di garantirepace, sicurezza e stabilità, prerequisitiessenziali per la realizzazionedella propria missione.Ne fanno parte tutti glistati dell’Africa tranneil Marocco (a causa didissapori nati intornoallo status contesodella RepubblicaDemocraticaAraba deiSAHARA OCC.Sahrawi) e laCAPO VERDEMAROCCOMAURITANIAALGERIASENEGALCHADsede èGAMBIABURKINAA d d i s GUINEA BISSAUFASOGUINEAA b e b a ,BENINNIGERIAin Etiopia.Dall’at-D’AVORIO RSIERRA LEONE COSTA TOGOto costitutivo,LIBERIA GANA CENTROCAMERUNfirmato nel 2000 dai53 stati allora aderentinell’istituzioneGUINEA EQ.eall’Oau, emergono alcuni punti di rotturaSAO TOMEdell’Unione Africana rispetto all’organismosuo predecessore. In particolare l’Au crescita.una suaGABONsi propone di promuovere la cooperazioneinternazionale (art. 3 lettera e dell’Attocostitutivo), promuovere e proteggerei diritti umani (art. 3 lettera h) e coordinarele politiche economiche tra le variecomunità economicheTutti gli statimembri sono tenuti acontribuire al budget dell’Au,come risulta ai sensi dell’art.23 dell’atto costitutivo, che prevedeche siano comminate san-CONGOregionali zioni agli stati che manchino ANGOLA(art. 3 lettera l).Viene inoltre riconosciutoper laprima volta a unorganismo sovranazionaleil potere di intervenire all’internodegli stati membri in situazionidi eccezionale gravità, come crimini diguerra, genocidi e crimini contro l’umanità(art. 4 lettera h).Per quanto riguarda il finanziamentodell’organizzazione, la spesa prevista nel2010 per l’Unione Africana è pari a 250di versare il proprio contributo.La carenza di fondi è statae rimane tuttavia uno dei problemiche attanaglia l’Au: benun quarto del budget viene conferitodal Sud Africa e molti aiutivengono chiesti a organizzazioniestere. Soprattutto l’Unione Europeasi è sempre dimostrata dispostaa sostenere la “collega” africana,in particolare dal 2004 attraverso lostrumento dell’African Peace Facility(Apf), che permette di devolvere fondiNAMIBIASUDMALINIGERLIBIA12 • n. 1, gennaio-aprile 2010


La speranza dell’AfricaEP.AFRICANABOTSWANALESOTHOAFRICAtratti dal Fondo europeo per lo sviluppo,escludendo dai beneficiari gli statidel Nord Africa e il Sudafrica e impedendoche siano impiegati per spesemilitari. Senza dubbio l’Apf ha contribuitoa intensificare il partenariatotra Ue e Au, ma è chiaro che questasituazione non può continuare a lungoe che l’Au deve riuscire ad autofinanziarsi.EGITTOZAMBIASUDANRWANDAREP. DEM.DELCONGOZIMBABWESWAZILANDUGANDABURUNDITANZANIAMALAWIKENIAMOZAMBICOERITREAETIOPIAGIBUTICOMORESOMALIAria, Senegal eSudafrica il compitodi elaborare un pianoper lo sviluppo socio-SEYCHELLESMADAGASCARIl NepadIl Nepad (New Partnershipfor Africa’sDevelopment) ènato nel 2001come progettodell’allora Oau,che aveva assegnatoaicapi di statodi Algeria,E g i t t o ,Nigeeconomicodel continente, “fermandol’emarginazione dell’Africa nel processodi globalizzazione” e focalizzandosi inparticolare sulla sconfitta della povertà,sull’utilizzo delle risorse africane a vantaggiodell’Africa stessa in un’ottica didifesa degli assetti ambientali, sull’intensificazionedel contributo dell’Africa ascienza, tecnologia e cultura, sul miglioramentodella condizione della donna.Anche il Nepad riconosce come condizioniper quello che viene definito “unosviluppo sostenibile” la pace, la sicurezzae la democrazia.I singoli puntidel programma sioccupano poi dienergia, acqua,sanità, povertà,istruzione, agricoltura,ambiente, istruzione, scienza etecnologia. Altro elemento su cui il progettoinsiste con forza è “l’opportunitàper i paesi sviluppati di intraprendereun rapporto genuino di partnershipcon l’Africa, basatosu interesse reciproco, impegnicomuni e accordi vincolanti”.MAURIZIOLa Comunità EconomicaAfricanaL’Aec (African Economic Community)è un’organizzazione prettamenteeconomica, nata nel 1994, cui prendonoparte tutti gli stati dell’Au(benché Algeria, Tunisia,Repubblica DemocraticaAraba dei Sahrawie Mauritania non partecipinoad alcuna Comunità EconomicaRegionale) e avente come fineultimo la creazione di un’unioneeconomica e monetaria degli statiafricani. Il programma dell’Aecè di notevole chiarezzae minuziosità e siarticola in sei stadi, lacui realizzazione complessivaè prevista peril 2034. Allo stato attualesiamo all’attuazione del terzostadio, riguardante la realizzazione diun’area di libero scambio e di un’unionedoganale. Per quanto riguarda i rapportitra le varie Comunità EconomicheRegionali (Rec) e tra queste e l’Aec vasegnalato un protocollo aggiuntivo al trattatocostitutivo dell’Aec, secondo il qualeoccorre promuovere l’armonizzazione, lacooperazione e l’integrazione tra i variRec sino all’integrazione in un mercatocomune africano.Un importante traguardo è stato l’annuncionel 2008 dell’istituzione dell’Aftz(African Free Trade Zone), un’area di liberomercato fra tre blocchi economici:la Sadc (Southern African DevelopmentCommunity), l’Eac (East African Community)e il Comesa (Common MarketLa spesa prevista nel 2010 perl’Unione Africana è pari a 250milioni di dollari, circa il 50% inpiù rispetto al budget del 2009.for Eastern and Southern Africa). Questoaccordo sarà poi probabilmente il trampolinodi lancio per la costruzione di infrastrutturee la formulazione di programmienergetici comuni ai 26 stati membri deitre blocchi, che nell’immediato, secondoquanto dichiarato dal presidente KgalemaMotlanthe, sudafricano, potranno avanzarea gran voce le loro istanze sulla scenainternazionale.Sviluppi recentiSi è tenuta tra il 31 gennaio e il 2 febbraio2010 la quattordicesima sessione ordinariadell’assemblea dell’Unione Africana.I risultati più rimarchevoli si registranoessenzialmente su tre fronti. Al presidentedel Madagascar Andry Rajoelina e ai suoicollaboratori era stato intimato di risolverela crisi politica in cui versa il paese,formando un governo con gli esponentidelle tre principali forze politiche a unanno dal colpo di stato. In mancanza diogni tentativo in tal senso, nel pieno rispettodell’atto costitutivo che riconosceall’Au il potere di infliggere sanzioni aglistati membri che non rispettino decisionie politiche dell’Unione, lo scorso 21 marzosono state imposte misure restrittive(rifiuto di garantire visti, congelamentodei beni e isolamento diplomatico) al presidentedel Madagascar e a un centinaio diesponenti politici.In secondo luogo è stata varata unarisoluzione sull’energia solare nel desertodel Sahara, che chiede agli stati chesorgono sul Sahara di prendere in considerazionelo sfruttamento dell’energiapanorama per i giovani • 13


La speranza dell’AfricaFoto: iStockphoto (RollingEarth; FrankvandenBergh)Sopra: l’Africa è ancora attraversata daguerre e lotte intestine; la pace e la stabilitàsono fra gli obiettivi principali dell’UnioneAfricana. In basso: Addis Abeba, capitaledell’Etiopia, è stata scelta come sededell’Ua. Nella pagina a fianco: un giovaneuniversitario che studia.solare a beneficio dell’intero continente eprevede che vengano compiuti degli studiche permettano di riferire alla prossimaassemblea in merito alle implicazionieconomiche relative alla realizzazione ditale risoluzione.Infine – ed è forse questo il tema di piùscottante attualità e vivo interesse – è stataannunciata la creazione di una commissionespeciale controla corruzione. Ilvicepresidentedella Commissionedell’UnioneAfricana ErastusMwencha ha affermatoche “recenti studi dimostrano chela corruzione fa perdere all’Africa il 10%delle sue risorse”. Grazie alla neonatacommissione, l’Unione Africana cercheràdi promuovere la nascita di legislazionianti-corruzione nei vari stati membri.L’Unione Africana harecentemente annunciato lacreazione di una commissionespeciale contro la corruzione.Decisioni, risoluzioni e dichiarazionisono abbondanti e riguardano le piùdisparate questioni in tutte le sessioni dilavoro dell’Assemblea e del Consigliodell’Unione. Resta però il problema dellaloro efficacia. A ciò si aggiunge il fattoche i documenti dell’Unione Africana, delNepad e della Comunità Economica Africanaaffermano pressoché tutti gli stessiprincipi, rendendo labile il confine tra leloro missioni. I buoni intenti non mancano,ma la strada perché queste organizzazionisovranazionali possano diventarequalcosa di simile a quello che è l’UnioneEuropea per l’Europa è ancora lunga. Dipenderàsoprattutto dall’autodisciplina deisingoli stati membri la più o meno facilerealizzazione dei loro obiettivi. Tuttavianon si può non esprimere l’auspicio chein particolare le ultime decisioni assuntein seno all’assemblea dell’Au possano nelprossimo futuro sortire i sospirati effettidi cui l’Africa ha tanto bisogno.14 • n. 1, gennaio-aprile 2010


La speranza dell’AfricaStudiare in AfricaClaudio Procesi, professore ordinario di Matematica all’Università di Roma“La Sapienza” e vicepresidente della International Mathematical Union, èimpegnato dal 2002 in importanti progetti di collaborazione con l’Africa.Gli abbiamo chiesto quali sono i problemi e le prospettive legati allavalorizzazione del capitale umano e, in particolare, al ruolo delle università.dove spesso gli stipendi sono inadeguatie le condizioni di lavoro difficili.Come valuta, in generale, l’attenzionedei governi verso l’università e la ricerca?In che modo i paesi industrializzati(e in particolare le loro istituzioni culturali)possono contribuire al rilanciodell’università in Africa?Foto: iStockphoto/MShep2a cura di Carmelo Di NataleProfessor Procesi, lei ha lanciato unprogetto di summer school in Africa. Inche cosa consiste e quali sono i paesi incui lo sta portando avanti?Si tratta di un progetto nell’ambito delleattività dell’Ictp (International Centre forTheoretical Physics) di Trieste. L’Ictp èuna istituzione internazionale che lavoraprincipalmente nel campo della Fisica,ma anche in quello della Matematica, conlo scopo di sviluppare queste disciplinenei paesi emergenti.Noi organizziamo delle scuole di circadue settimane presso università africane,in cui cerchiamo allo stesso tempo di colmarealcune lacune del loro insegnamentoe di dare un’idea della ricerca scientificacorrente. Cerchiamo anche di selezionarealcuni giovani promettenti che possonopassare un periodo di studio a Trieste o inaltre istituzioni (spesso in Svezia) associatea questi progetti. Queste attività sono partedi uno sforzo fatto da varie organizzazioni(non solo l’Ictp), specialmente europee,per sviluppare programmi di collaborazionecon istituzioni africane. Il Cimpa (CentreInternational de Mathématiques Pureset Appliquées), ad esempio, è molto attivonell’ambito della Matematica.Qual è il livello medio delle universitàcon cui ha collaborato e che prospettivevede per la crescita e lo sviluppo delleuniversità africane nel medio termine?Il livello è molto variabile, il problema maggiorespesso è una scarsa attenzione dei governiai problemi dell’eccellenza scientifica.L’Africa è una realtà molto disomogenea,con tutte le sue eredità coloniali e linguistico-tribalie con le difficoltà geografiche dicomunicazioni. La situazione è nettamentemigliore in Sud Africa e in alcuni paesi delMagreb che hanno un rapporto abbastanzastretto con la Francia. In alcuni paesi nonvi sono investimenti per l’educazione superioree quindi è difficile formare una classedocente adeguata. Le prospettive di sviluppoci sono, i rischi anche, specialmente neipaesi con instabilità politica in cui il lavorodi anni può essere distrutto in pochi mesi.In che modo la sua iniziativa – o progettianaloghi – possono contribuire amigliorare la situazione?In molti modi, ma credo che il punto principalesia di far sentire i colleghi africaniparte di una comunità internazionale enon totalmente isolati ed emarginati.Ha trovato punte di eccellenza nel sistemaaccademico africano?Alcune, ma devono essere commensurate alleenormi difficoltà di lavoro in questi paesi.Quanto incide l’annosa questione della“fuga dei cervelli” sulla costruzione diun’élite culturale nei paesi che ha visitato?Non sono in grado di valutarlo; a me sembrache spesso il problema sia un altro. Ungiovane brillante in Africa trova immediatamenteprospettive infinitamente superioriin politica o in attività economichepiuttosto che in un mondo accademicoCapire la politica africana non è facile enon vorrei dare giudizi superficiali. Unacosa è chiara: i politici africani hannomolto bisogno della tecnologia e delle conoscenzedei paesi industrializzati e questihanno bisogno delle ricchezze dell’Africa.In teoria gli europei dovrebbero esserein una buona posizione per uno scambioragionevole, ma il passato ci dà ancheesempi pessimi, come gli interventi italianiin Somalia, in cui alla fine anche il lavorodi tanti professori universitari è statovanificato dalla pessima politica. I cinesihanno capito bene questo e stanno investendo,anche in collaborazione.Un’ultima domanda. Lei è il vicepresidentedell’Imu ed è universalmenteconsiderato uno dei maggiori algebristiviventi. Come valuta la qualità dellaricerca matematica in questi paesi? Haconosciuto giovani “promesse” tra i ricercatoriafricani?Ho conosciuto giovani con molta voglia diimparare ed entusiasmo. Alcuni sono oraa Trieste, altri in Sud Africa. Al momentol’obiettivo è di formare persone professionalmentequalificate: bisogna arrivarea una massa critica di docenti qualificatiper far decollare l’istruzione superiore inmodo competitivo con i paesi sviluppatie siamo ancora piuttosto lontani daglistandard di altri paesi emergenti con unatradizione più solida nella scienza.L’International Centre for MathematicalPhysics (www.ictp.it) è stato fondatonel 1964 dall’incontro di tre istituzioni:il governo italiano, l’Unesco e laIaea, l’agenzia delle Nazioni Uniteche promuove la ricerca nel settorenucleare. Da allora più di 100.000scienziati di circa 170 nazionalitàdiverse hanno preso parte alle attivitàdell’Ictp (in media 5.000 l’anno). Circail 50% di essi proviene da paesi in viadi sviluppo e il 20% è africano.panorama per i giovani • 15


La speranza dell’AfricaA sinistra: la “fuga dei cervelli” dall’Africacolpisce tutti i settori, ma in particolarequello sanitario.Si può fermare il brain drain?Quando l’istruzione non basta: fuga dei cervelli e sottosviluppo. Unabreve analisi e possibili soluzioni.di Beatrice Polestipologia dei migranti internazionali. Ipaesi di origine, infatti, non hanno a disposizionedati che evidenzino le caratteristichedegli emigranti.Uno dei primi studi in grado di fornireuna determinazione quantitativa generaledel brain drain è una ricerca di Carringtone Detragiache (1998). Gli autori hannoricostruito e stimato i flussi migratoridi 61 paesi in via di sviluppo per livelloeducativo (istruzione primaria, secondariae terziaria), mostrando che esiste untrend generale per cui i tassi di emigrazionerisultano più alti per i livelli di abilitàpiù elevati. Si pensi al caso del Ghana,dove ogni anno il 26% degli individui inpossesso di un’istruzione terziaria lasciail paese alla volta degli Stati Uniti.Evidenziano inoltre come le areescientifico-tecnologiche e sanitarie sianoquelle maggiormente afflitte dalla fugadei talenti. I sistemi sanitari di vari paesi,in Africa e nel Centro America, risentonodrammaticamente dell’esodo di medici,infermieri e tecnici, con la conseguenza dideficit strutturali di personale qualificato.L’evoluzione della letteraturaI primi lavori sulla questione del braindrain risalgono agli anni Sessanta (Grubele Scott, 1966; Johnson, 1967). All’epocasi riteneva che il fenomeno non fosse affattonocivo per il paese d’origine. Si sostenevainfatti che le perdite economicheFoto: iStockphoto.com/nmaxfieldUna delle questioni più dibattute dell’economiaè perché alcuni paesi siano ricchie altri poveri. Secondo gli studiosi, ciòche contribuisce maggiormente a crearee alimentare la crescita di una regione èil livello di istruzione della popolazioneche vi risiede. Ma non sempre a elevatiinvestimenti nel sistema educativo corrispondeun miglioramento del benesseredella nazione.È il caso dei paesi in via di sviluppo,in cui il fenomeno del brain drain rendevani molti degli sforzi effettuati per trarrevantaggio dagli investimenti in formazionee innescare una veloce crescita economicain loco.Il brain drain o “fuga dei cervelli”, infatti,è la migrazione di lavoratori altamentequalificati dal proprio paese verso unaltro maggiormente sviluppato. Scienziati,ingegneri, fisici, medici africani, asiaticio sudamericani, emigrano verso gli StatiUniti, il Canada e l’Europa per trovare unambiente di lavoro più favorevole e stimolante.L’instabilità del panorama politico, ipregiudizi etnici, le insoddisfazioni professionali,l’isolamento, la mancanza di supporto,la preoccupazione per i propri figli:sono questi i fattori che spingono i professionistia lasciare il proprio paese d’originementre il mero calcolo economico costituiscesolo uno stimolo marginale.Estensione e caratteri del fenomenoÈ molto difficile dar conto dell’estensionedi queste “fughe di lavoratori” in quantomanca, incredibilmente, un sistema uniformedi statistiche sul numero e sullabibliografiaJ. Bhagwati, K. Hamada, “The braindrain, international integration of marketsfor professionals and unemployment”,Journal of Development Economics, 1,1974.W.J. Carrington, E. Detragiache, “How big isthe brain drain?”, IMF Working paper, 201,1998.F. Docquier, H. Rapoport, “Quantifyingthe Impact of Highly-SkilledEmigration on Developing Countries”,CEPR project, Fondazione RodolfoDebenedetti, 2009.H. Grubel, A. Scott, “The international flow ofhuman capital”, American Economic Review,56, 1966.16 • n. 1, gennaio-aprile 2010


La speranza dell’Africacausate dalla migrazione di agenti qualificatisi limitavano al breve periodo e siesaurivano una volta sostituiti i lavoratorimancanti con nuove intelligenze: perditetutto sommato poco rilevanti.Negli anni Settanta (Bhagwati e Hamada,1974) la letteratura iniziò a considerareanche gli effetti negativi del brain drain:in questi anni la diaspora dei talenti venivaadditata come una delle cause maggioridell’aumento del gap tra paesi poveri e ricchi.Dagli anni Ottanta in poi (Lucas 1988),si cominciò a studiare la questione in manierasistematica e a comprendere l’importanzarivestita dalla qualità del tessuto socialee umano per la crescita di un paese. Attraversol’analisi dei flussi di capitale umanotra le varie aree del globo, si spiegavano idifferenti tassi di crescita registrati. I primilavori di questo filone si concentravano ancorasugli effetti negativi della migrazione,sottolineando la gravità del danno provocatodalla mancanza di ritorni sugli investimentiin capitale umano dovuta alla migrazione.Altri autori (Mountford 1997, Vidal 1998,Docquier e Rapoport 2009), affermandoche le qualità degli individui istruiti vengonoesaltate nei paesi più sviluppati e quindigenerano in questi ultimi una produttivitàmaggiore ed esternalità positive più consistenti,hanno giudicato invece il fenomenodel brain drain positivo.Questa opinione positiva del fenomenocontraddistingue anche un altro filone dellaletteratura, quello che tiene in considerazionela migrazione di ritorno. Non sempreinfatti la migrazione è permanente. Moltospesso i soggetti che emigrano, dopo unH. Johnson, “Some economic aspects of thebrain drain”, Pakistan Development Review,7, 1967.R.E. Lucas, “On the mechanics of economicdevelopment”, Journal of MonetaryEconomics, 93, 1988.A. Mountford, “Can a brain drain be good forgrowth in the source economy?”, Journal ofDevelopment Economics, 53, 1997.J.P. Vidal, “The effect of emigration onhuman capital formation”, Journal of PublicEconomics, 11, 1998.IL BRAIN DRAIN NELLE PROFESSIONI SANITARIELe risorse umane rappresentano il cuore dei sistemi sanitari di tutto il mondo ecostituiscono la risorsa più preziosa e dispendiosa dei sistemi knowledge based.Secondo le stime della Joint Learning Initiative mancano circa quattro milioni dioperatori sanitari nel mondo, di cui un milione solo nell’Africa sub-sahariana. L’Omsha voluto dare risalto al problema dedicando il World Health Report 2006 alla crisi diprofessionisti della salute.Negli Stati Uniti il 23% della classe medica ha una laurea presa all’estero (ancheper la politica restrittiva perseguita dall’American Medical Association); nel RegnoUnito quasi il 20% dei medici è asiatico. Dei 1.200 medici formati nello Zimbabwedurante gli anni Novanta, soltanto 360 lavoravano nel loro paese nel 2000; lametà dei medici formati in Etiopia, Ghana e Zambia sono emigrati. Attualmente siformano in Etiopia meno di 200 medici all’anno in solo cinque università e circa i 2/3abbandonano il paese.periodo trascorso all’estero, fanno ritornoa casa, apportando al paese d’origine il capitaleumano accumulato e quindi aumentandola produttività del paese stesso.È possibile porre rimedio?Le posizioni contrastanti assunte in letteraturain merito al brain drain sono in largaparte imputabili alla difficoltà di stimarel’ampiezza del fenomeno e di valutare l’impattodel trasferimento dei professionistisul sistema economico. Tuttavia, se si tieneconto che la formazione di un medico nonspecialista in un paese in via di sviluppo costacirca 60.000 dollari, si può avere un’ideadegli investimenti in formazione che vannoperduti quando un professionista emigra.Si sono ipotizzate diverse soluzioniper arginare questa emorragia di intelligenze.La prima proposta consiste in una compensazioneeconomica che i paesi di arrivodovrebbero versare a quelli che si sono fatticarico delle spese di formazione dei migranti.Un simile progetto presupporrebbeperò, per la sua attuazione, l’esistenza diaccordi internazionali vincolanti. Senza diquesti sarebbe difficile pretendere pagamentie rimborsi e l’intero disegno perderebbedi qualsiasi significatività.Una via differente potrebbe essere quelladi rendere l’emigrazione più difficile oppuredi differirla, attraverso la previsione diun periodo di prestazioni obbligatorie nelproprio paese. Alcuni hanno addirittura propostoil blocco nel rilascio di certificati necessariall’espatrio o l’introduzione di meccanismidi contratto obbligatorio. Tuttavia,vietare l’emigrazione e limitare la libertà dicircolazione degli individui appare oggi, altempo della globalizzazione, una scelta nonsolo anacronistica ma addirittura nociva.Una terza ipotesi, l’unica che nel lungoperiodo può davvero innescare meccanismipositivi di crescita, è quella ditrovare il modo di trattenere sul territorioil personale qualificato, attraverso la suarivalutazione culturale e sociale e la creazionedi un ambiente fertile tutto attorno.Lo sviluppo delle nuove tecnologie,in particolare dell’informazione e dellacomunicazione, offre diverse possibilitàin tal senso. Per esempio, la costituzionedi reti interattive che stimolino collaborazioniNord-Sud, valorizzando sulla scenainternazionale le attività svolte nei paesiin via di sviluppo, oppure che mantenganolegami con gli espatriati per favorireil loro ritorno o permettere loro di contribuireda lontano a progetti nel paesed’origine.In ogni caso, qualsiasi tipo di supportoo di strategia si scelga di adottare, nonsi può prescindere dalla valutazione dellepeculiarità locali e da un’attenta analisidelle condizioni contingenti.Peraltro, a causa dei flussi transnazionalinel mercato del lavoro, nelle conoscenze,nei finanziamenti internazionali,il successo delle singole strategie nazionalidipende fortemente dal rafforzamentodella cooperazione internazionale edall’adozione di politiche comuni a livelloglobale.Il brain drain, almeno nel breve periodo,non potrà essere fermato. È tuttavianecessario che i paesi di emigrazione e diimmigrazione cooperino per implementareassieme misure volte a gestire e arginare ilproblema. Solo attraverso adeguate politichesarà possibile trattenere in loco quellerisorse umane senza cui è impossibile pensarelo sviluppo di un paese, né tantomenoil suo affrancamento dalla povertà.panorama per i giovani • 17


La La speranza salute nel dell’Africa mondoFoto: iStockphoto.com (EcoPic; wildacad)Con l’orecchio sul cuoredell’AfricaIl Mozambico attraverso le voci di Damião Cardoso, dottorando di ricercaall’Università di Roma “Tor Vergata” e di Annalisa Rosselli, professoressaordinaria di Storia del pensiero economico dello stesso ateneo.a cura di Claudia Macaluso“Io sono decisamente afro-ottimista. Nonsolo penso che l’Africa ce la farà, ma sonoanche fiducioso nell’azione dei nostri governie negli aiuti internazionali. Certo, cisono stati degli errori e nel mio paese gliaiuti costituiscono ancora circa il 50% delbilancio del governo, ma qualcosa si muove.Si costruiscono ponti e strade e si allargasempre più la rete ferroviaria ed elettrica:lo sviluppo non potrà tardare molto”.Così esordisce Damião Cardoso, dottorandodi ricerca in Economia dello Sviluppodell’Università di “Tor Vergata”, che continua:“Vorrei tornare in Mozambico permetter su una piccola azienda, magari nelsettore turistico. Ci sono molte opportunitàoggi in Mozambico. Quando sono tornatodue anni fa, ho notato che il paese stalentamente fiorendo. Nasce il ceto medio ela nuova borghesia ha nuovi bisogni, va invacanza in estate e si aspetta servizi per ilturismo, collegamenti, divertimento. Moltimiei amici mi dicono ‘vogliamo finalmentevedere il nostro paese’ e sentono il bisognodi conoscere, di viaggiare. Io penso chequesto sia un segnale di sviluppo genuino”.Non è tutto oro quel che luccica, tuttavia.“Un’altra cosa che mi ha colpito è stato ilgrande numero di imprese cinesi che lavoranoadesso in Mozambico. E quanto velocementetagliano gli alberi!”. Gli chiedose è vero che i cinesi stanno comprandol’Africa, come a volte si sente dire. “Haidimenticato che sono un economista?”, mirisponde ridendo. “Gli investimenti esteri,l’immigrazione di capitali e di uomini sonouna ricchezza. I cinesi comprano la terra, èvero, ma costruiscono strade, ponti e fabbriche.Portano l’elettricità nei villaggi.Lo stesso governodel Mozambicoincentiva gli investimentiesteri,a patto, certo, cherispettino certecondizioni per lo sviluppo della regione”.Ma qual è il clima sociale del paese? Sisentono ancora gli strascichi della guerracivile, finita nel 1992? Cardoso ci tiene aprecisare, a questo proposito, che “la guerracivile in Mozambico non è stata una guerraetnica o religiosa, è stata un conflitto deltutto politico. Nelle famiglie un fratello erasocialista, l’altro era per il mercato. Un amicoappoggiava il governo comunista, l’altrovoleva la liberalizzazione. E c’era la guerra.Per le feste religiose, però, le chiese, adesempio, restano aperte e inondano le stradedi luce e tutti possono partecipare. Lo stessovale per le festività di altre religioni. In Mozambicoc’è un 60% di animisti, un 30% dicristiani e un 10% di musulmani e se c’è dafesteggiare si festeggia tutti insieme, comeuna grande famiglia. Il conflitto civile, infatti,si è sgonfiato quando i militanti hannodeposto le armi, anche in seguito al cambiodi regime in Sudafrica e nello Zimbabwe”.Un paese, insomma, dalle grandi speranze,oltre che dalle grandi sfide. “Non c’è odiorazziale in Mozambico. E adesso vogliamotutti solo lavorare per il bene della nostranazione”.Annalisa Rosselli, dal canto suo, èprofessoressa ordinaria di Storia del pensieroeconomico e ha lavorato per quasi10 anni a un progetto all’Università“Eduardo Mondlane” di Maputo. “La miaesperienza in Mozambico è cominciataquando il paese era ancora distrutto dallaguerra civile, che è durata 16 anni, ha fattocentinaia di migliaia di morti e portatoil paese letteralmente alla fame. Il progettoa cui partecipavo è continuato fino allesoglie del 2000 e, inizialmente finanziatodalla Cooperazione italiana e poi dallaBanca Mondiale, consisteva nel rimetterein piedi la facoltà di Economia di quellache allora era l’unica università del paese.Si trattava di capacity building perchélo scopo del progetto non era soltanto farfunzionare la facoltà, cioè fare lezione,tesi e tutte le normali attività, ma ancheformare il personale locale in modo chepotesse andare avanti senza l’aiuto internazionale.Bisogna ricordare, infatti, chel’università era stata istituita dai portoghesie la popolazione locale ne era rimasta“Il Mozambico è stato un paesesfortunato: ha sempre preso ilpeggio di tutti i regimi”.esclusa fino all’indipendenza, raggiuntanel 1975, dopo la quale quasi tutti i docentise ne erano andati e i finanziamentierano cessati. Per un paese giovane mapovero come il Mozambico un’universitàera un lusso insostenibile ma al medesimotempo necessario!”.18 • n. 1, gennaio-aprile 2010


La speranza dell’AfricaMOZAMBICOSopra: il lago di Ndumo al tramonto. Nellapagina a fianco: alcuni pescatori.“L’analfabetismo è una vera e propriapiaga sociale in Mozambico”, aggiungeCardoso. “Pochissimi hanno accessoall’istruzione superiore. La situazione hacominciato a migliorare dal 1995, quandoil governo ha permesso la costituzione diuniversità private e ne sono nate diversein tutto il paese, oltre alle due pubblichedi Maputo. Il problema maggiore per iragazzi, infatti, sono gli spostamenti, chesono lunghi e molto costosi. Raggiungerel’università può non essere semplice. IlMozambico ha un’estensione territorialepressappoco doppia di quella dell’Italia e leinfrastrutture sono ancora molto scarse”.“Il Mozambico è stato un paese sfortunato:ha sempre preso il peggio di tutti iregimi”, continua la professoressa Rosselli.“Ha avuto la dominazione coloniale delPortogallo, un paese arretrato che esportavain Africa solo i suoi disoccupati. Poiha avuto gli aiuti dell’Unione Sovietica e,insieme agli aiuti, l’ideologia della pianificazione.Poi è intervenuto l’Occidente el’Fmi con una politica di liberalizzazioneselvaggia. Un vero disastro!”. Anche ildottor Cardoso si unisce a queste critiche ericorda quante fabbriche ha visto chiuderein seguito alle politiche dell’Fmi. “Questepolitiche hanno provocato non pochi problemiai governi, che dovevano sceglieretra il consenso dei cittadini e i fondi dellacomunità internazionale”, aggiunge. Ilruolo degli aiuti resta controverso e, comeci dice la professoressa Rosselli, “c’è anchechi sostiene che hanno fatto più danniche altro. È difficile generalizzare e ionon sosterrei una posizione così estrema.Dal mio minuscolo osservatorio, però, hovisto un grande spreco nella cooperazioneitaliana, non posso negarlo. Noi docentiitaliani, ad esempio, certamente abbiamoavuto una funzione positiva a Maputo,perché gli studenti che sono venuti allenostre lezioni hanno imparato di più chese non ci fossimo andati. Ma ci sono volutianni prima di riuscire a portare a Maputouno stock decente di libri in portoghesesu cui i nostri studenti potessero studiare,con la perdita di efficacia dei nostri sforziche è facilmente immaginabile. Come hogià detto, poi, il personale meglio qualificatopreferiva lavorare per la cooperazione,instaurando così un circolo vizioso:più l’amministrazione che avrebbe dovutomandare avanti il paese era sguarnita,più il paese era in crisi e più bisogno c’eradi aiuti e di organizzazioni internazionaliche avevano bisogno di più personale localee così via”.Per il futuro del Mozambico, la professoressaRosselli è piuttosto cauta: “Hosempre pensato che in Mozambico tuttii paesi mandano i loro peggiori funzionari.C’è malaria, Aids, crimine, chi maici vuole andare? Ora so che il paese stacrescendo, ma il capitale sociale è a pezzi.Resta, certo, un paese giovane e riccodi risorse. Se devo dirla tutta, però, pensoche la partita dell’Africa sub-sahariana siNome completo: Repubblica diMozambicoPopolazione: 22,9 milioni, con unacrescita del 2% annuo, di cui 44,2%sotto i 14 anniAttesa di vita alla nascita: 42 anni(uomini), 41 anni (donne)Figli per donna: 5,1Mortalità infantile: 9,6%Moneta: metical (al 10 aprile 2010 ilcambio è 1 metical=0,02 euro)Esportazioni 2007: $2.412.100Importazioni 2007: $3.049.700Principali partner commerciali (%):Sud Africa (31,8), Olanda (14,7), India(4,0)PIL pro capite: $370 (World Bank,2008)Giornali per 100 ab.: 0,3 (UN, 2007)Connessioni Internet per 100 ab.:0,9 (UN, 2007)Telefoni per 100 ab.: 11,9 (UN, 2006)Forza Lavoro: 88% (donne), 77%(uomini) (UN, 2007)Presenze turistiche: 664.000 (UN,2006)Rifugiati UNHCR: 6.929Spesa per istruzione: 5% del PILStudenti universitari/Pop. Totale:33,1% (donne), 66,9% (uomini)Seggi in Parlamento: 35% (donne),65% (uomini)Fonte: BBCNews, UN, World Bank (anno2009, se non indicato diversamente)giochi nella Repubblica del Sud Africa.È l’unico paese che ha capitali, imprenditori,conoscenza del territorio, culturae strutture per guidare lo sviluppo dellaregione. Se il Sud Africa riesce a reggeree a salvarsi dalla corruzione e dall’odiorazziale ed etnico, aumentano le speranzeper tutti. Dobbiamo davvero fare il tifoper loro”.panorama per i giovani • 19


La speranza dell’AfricaA sinistra: una miniera d’oro abbandonata.zioni astratte in merito al dibattito dottrinalesull’etica d’impresa, tantomeno unavalutazione dei meccanismi di responsabilità(legali e non) che ricadono sulle imprese.È l’invito, partendo da alcuni esempiconcreti, a una riflessione da attuare nelnostro piccolo: come ci comporteremmose certi standard dell’attività di impresadenunciati come “africani” venissero applicatiin casa nostra?Foto: iStockphoto.com/bucky_zaGli standard africanidell’attività di impresaDanni all’ambiente, sfruttamento dei lavoratori, sigarette ai bambini. Èvero che le regole non sono uguali per tutti?di Noemi NoceraLe imprese – e ancor più quelle operantiin diversi stati – devono risolvere moltepliciproblemi quando affrontano processidecisionali che possono riguardare lacosiddetta business ethics, o “etica d’impresa”.Gli argomenti oggetto di tali processispaziano da questioni pratiche e piùchiaramente circoscritte, come l’obbligoper l’impresa di essere onesta con i propriclienti/consumatori, ad altre di più ampiorespiro e portata, come la responsabilitàdi preservare il territorio o di proteggere idiritti di comunità sociali.L’espansione di imprese multinazionaliin Africa è stata sempre accompagnatadalla speranza di uno sviluppo ben impostatoe sostenibile sul continente. Spesso,tuttavia, le comunità locali dei paesi ospitantinon beneficiano degli investimentimultinazionali e le pratiche d’impresasembrano addirittura contribuire ad accentuarele distanze fra le traiettorie diuno sviluppo diseguale.I più noti abusi contestati alle multinazionaliavvengono nei paesi sottosviluppatio in via di sviluppo, includendo, adesempio, il supporto o la complicità neiconfronti della politica di regimi dittatoriali,l’utilizzo e lo sfruttamento di manodoperaminorile, la soppressione dei dirittidi libertà, di associazione e di espressione.Tutte accuse dalle quali, ovviamente,le imprese si difendono.Il fatto che, attualmente, 33 paesiafricani appartengano alla classifica dei49 paesi meno sviluppati del mondo (secondola lista stilata dalle Nazioni Unite eaggiornata al 29 gennaio 2009) ci spingea maggior ragione a non sottovalutare ilproblema. Non è la premessa a considera-L’industria petrolifera“Le compagnie petrolifere, in particolarmodo la Shell Petroleum, hanno operatoper più di 30 anni senza che un controlloserio o delle regole ambientali guidasserole loro attività” (Programma delle NazioniUnite per lo sviluppo-Undp, Niger DeltaHuman Developement Report, 2006).Come evidenziato all’inizio del documento,tale rapporto è stato realizzato con ilcontributo finanziario della stessa Shell,nell’ambito di una partnership di sviluppodella regione del Delta del Niger tra loUndp e la Shell Petroleum DevelopmentCompany of Nigeria Limited.Il rapporto di Amnesty Internationaldel giugno 2009 (Amnesty International,Nigeria: Petroleum, Pollution and Povertyin the Niger Delta – Report, 2009)analizza l’impatto dell’inquinamento edei danni ambientali causati dall’industriapetrolifera sui diritti umani delle personeche abitano sul Delta del Niger. Secondoil rapporto, l’estrazione del petrolio daparte delle multinazionali e del governonigeriano in questa zona “ha generato unguadagno stimato intorno ai 600 miliardidi dollari dagli anni Sessanta”. La maggiorparte della popolazione nigeriana,tuttavia, vive ancora in povertà. “Le maggioriprove raccolte da Amnesty Internationalsull’inquinamento e sui danniambientali – leggiamo nel rapporto – fannoriferimento alla joint venture operatadalla Shell Petroleum Development Company(Spcd). Ciò non sorprende, dato chel’azienda è il maggior operatore sul campo”.Gli enormi danni ecologici nella regionesono connessi in particolar modo afuoriuscite di petrolio, a scarichi di rifiutie alla pratica del gas flaring. Visto che piùdel 60% della popolazione locale dipendedallo sfruttamento della terra, ciò ha privatomolte famiglie della loro unica fontedi sostentamento.20 • n. 1, gennaio-aprile 2010


La speranza dell’AfricaAnche l’Eni, operante in Congo Brazzavilleattraverso la subsidiary Eni CongoS.A., è stata oggetto di critiche nel rapportointitolato Energy futures? Eni’s investmentin tar sands and palm oil in theCongo basin (2009), realizzato dalla FondazioneHeinrich Boell e dalla Campagnaper la Riforma della Banca Mondiale(Crbm). Le critiche riguardano in particolarele pratiche di sfruttamento del giacimentodi M’Boundi e il nuovo progettodi estrazione del petrolio dalle sabbie bituminosenelle foreste del sud-ovest delpaese. Eni ha concesso un incontro tra isuoi rappresentanti e quelli di FondazioneResponsabilità Etica, Campagna Riformadella Banca Mondiale e Boell Foundatione ha dichiarato di dare la sua “disponibilitàper una continuazione del dialogo”.L’industria farmaceuticaNon si sa molto di un settore scarsamenteregolato quale quello delle sperimentazionicondotte dalle multinazionali farmaceutichee dei possibili abusi.Il caso certamente più emblematicodivenuto oggetto dell’attenzione dei mediaè quello della Pfizer.Nel 2009 la Pfizer e lo stato di Kanohanno accettato di definire una causa giudiziariamulti-milionaria con un accordostragiudiziale. Questo e ciò che segue èquanto riportato dalla Bbc e dal New YorkTimes sulla vicenda. Nel 1996 a Kano,Nigeria, scoppia un’epidemia di meningite.In tale contesto la Pfizer conduce unasperimentazione su circa 200 bambini pertestare un nuovo farmaco, il Trovan, nelcorso della quale 11 bambini (questo il numeroindicato dalla Pfizer) perdono la vita.Nel 2007 il governo dello stato di Kanodecide di intentare causa alla Pfizer, chiedendoil risarcimento per le famiglie deibambini che presumibilmente morironoo subirono effetti collaterali dopo la somministrazionedel Trovan. Il governo e lefamiglie delle vittime accusavano la Pfizerdi aver condotto la sperimentazione senzaun’approvazione da parte delle autorità,senza un parere del comitato etico e senzasul webwww.amnesty.orgwww.business-humanrights.orgwww.greenpeace.orgwww.undp.orgil consenso informato da parte dei pazientie delle famiglie, ma la Pfizer ha comunquesempre respinto le accuse. Come riportatodalla US Food and Drug Administration,l’utilizzo del Trovan, approvato dalla Fdaamericana nel 1997, venne poi ristrettonel 1999 su raccomandazione della stessa,dopo il riscontro di gravi complicanzeepatiche riconducibili al farmaco.Le controversie suscitate dall’attivitàdell’industria farmaceutica in Africafanno temere a molti che alcune multinazionalidel farmaco abbiano condotto,almeno in passato, sperimentazioni basatesull’assunzione di un double standard(cioè di regole e garanzie differenziate)eticamente assai problematico. La ricerca“transnazionale” nel campo della salute –leggiamo nella Dichiarazione universalesulla bioetica e i diritti umani approvataper acclamazione nel 2005 dalla Conferenzagenerale dell’Unesco – deve andareincontro ai bisogni dei paesi nei quali sisvolge e, in ogni caso, prevedere “un livelloappropriato di valutazione etica”.L’industria minerariaIn Africa si trova il 30% delle riservemondiali di risorse minerarie. Ci limitiamoquindi a trattare un caso tra i tanti: loZambia per il rame.La popolazione dello Zambia sembranon trarre il dovuto vantaggio dallo sfruttamentodelle sue enormi riserve di rame.Le preoccupazioni a tal riguardo sono stateespresse in un rapporto realizzato da treOng (Undermining development? Coppermining in Zambia, A joint report by Actasa,Christian Aid, Sciaf, 2007), il quale sifocalizza sull’attività della Konkola CopperMines (Kcm), la più grande compagniamineraria di estrazione del rame delpaese, controllata dalla britannica VedantaResources. Nel rapporto si fa riferimentoalle condizioni di impiego, all’impatto ambientalesulle comunità locali dell’attivitàdi estrazione, ai ricavi spettanti al governodello Zambia. Va comunque detto cheVedanta ha dato e continua a dare rilievoall’obiettivo dello “sviluppo sostenibile”,così come, più in particolare, alle iniziativee ai progetti avviati in questa direzionenello Zambia e in altri paesi.Più in generale, l’industria minerariaresta in ogni modo un settore in cui è difficileavere una visione chiara della situazione,in quanto pesantemente influenzatodalle fluttuazioni di borsa dovute agli andamentidella domanda e dell’offerta e aigiochi degli speculatori.Altri tristi esempiConcludiamo la rassegna con tre ultimicasi segnalati da organizzazioni internazionalie media.Greenpeace ha denunciato (Uraniummines in Niger – Radioactivity in thestreets of Akokan, Greenpeace, Briefing,2009) la contaminazione da uranio dovutaalle attività di estrazione delle subsidiariesdella compagnia nucleare franceseAreva nella regione del Niger, in particolarenei distretti delle città minerariedi Arlit e Akokan. Secondo i dati raccoltida Greenpeace in alcuni siti, una personache passa meno di un’ora della propriagiornata in questi luoghi assorbe, ai livellidi radioattività misurati, il massimoammesso della dose annua raccomandatadalla Commissione internazionale per laRadioprotezione.La nippo-americana Bridgestone Firestone,produttrice di pneumatici, è stata denunciatadall’IRAdvocates (Ong promossadall’International Labor Rights Forum)per lo sfruttamento di manodopera minorilenelle piantagioni di caucciù in Liberia.La Firestone Rubber Plantation Companyè stata considerata anche responsabile diaver provocato l’inquinamento delle risorseidriche locali, secondo quanto riportatodalla Bbc a seguito di un’indagine condottadal governo di Monrovia.La British American Tobacco (Bat) èstata accusata (in una inchiesta della Bbc,realizzata da Duncan Bannatyne, per ilprogramma This world) di aver violato lestesse norme autoimpostesi in materia dimarketing, assumendo quale proprio nuovotarget privilegiato i minori residenti inpaesi sottosviluppati e diffondendo la praticadella vendita di singole sigarette perriuscire a raggiungere i consumatori piùpoveri. In Africa, soprattutto in Nigeria,la pratica sarebbe particolarmente diffusa.Va detto – a onor del vero – che sino apochi decenni fa anche in Italia i tabaccaierano autorizzati a vendere le sigarette sfuse.Con il miglioramento delle condizionieconomiche e la conseguente possibilitàdel consumatore-fumatore di acquistareun intero pacchetto quella prassi fu vietata.Ma questo non significa che si possa contranquilla coscienza continuare a fare daun’altra parte quel che non è più possibilea casa propria.panorama per i giovani • 21


L’Italia che qualche volta cooperaLe iniziative della Cooperazione italiana allo sviluppo per favorire lacrescita economica e sociale dei paesi dell’area sub-sahariana. Moltosi può e, soprattutto, si deve ancora fare, ma alcuni dei risultati ottenutisono soddisfacenti.di Henri IbiMolti si sono meravigliati quando BillGates, patron di Microsoft, nella letteraannuale della benefica Bill andMelinda Gates Foundation, ha accusatol’Italia di fare troppo poco, praticamentenulla, per i paesi poveri, eLa Farnesina ha stanziato 70milioni di euro per realizzare unaserie di iniziative a favore deipaesi in via di sviluppo.di aver disatteso gli impegni presi inprecedenza: stanziare lo 0,7% del Pil afavore di quegli stessi paesi. A causa diquesto comportamento, l’Italia è statainserita nella “lista della vergogna”.Stando a quanto afferma il fondatoredi Microsoft il nostro paese avrebberidotto in modo drastico gli aiuti allosviluppo negli ultimi anni, ma il fenomenoè molto complesso ed è beneguardarsi, in questo come in tanti altricasi, da facili generalizzazioni.Partendo dalpresupposto chemolto si può e sideve ancora fare,e che a volte allepromesse, effettivamente, non sono seguitii fatti, vanno posti in rilievo anchegli sforzi compiuti in questi anni dall’Italiaper alleviare la povertà e assicurarela crescita sociale ed economica di granparte dei paesi dell’Africa sub-sahariana.Il 15 marzo scorso la Farnesina, inseguito alla delibera del Comitato direzionaleper la Cooperazione allo sviluppo,composto da esponenti del MinisteroAffari esteri e del Ministero dell’Economiae delle finanze (il soggetto erogatoredei crediti d’aiuto) e presieduto dal MinistroFranco Frattini, ha stanziato 70milioni di euro per la realizzazione diuna serie di iniziative riguardanti i paesiin via di sviluppo. Si tratta dell’ultimo dinumerosi progetti promossi e attuati dallaCooperazione italiana allo Sviluppoa partire dagli anni Cinquanta. Il coordinamentodelle attività di cooperazioneallo sviluppo, in attuazione dalla leggen. 49 del 1987, è oggi demandato allaDirezione generale per la Cooperazioneallo Sviluppo (Dgcs). Tra le prerogativedi quest’ultima vi è principalmente l’elaborazionee l’applicazione degli indirizzidella politica di cooperazione verso ipaesi in via di sviluppo, ma talvolta essaattua anche interventi di emergenza. Unanotevole percentuale della somma stanziatadal comitato, il 18,21%, è andataa favore dell’Africa sub-sahariana, areageografica dove, secondo le linee guidaFoto: iStockphoto.com (Claudiad; MShep2)22 • n. 1, gennaio-aprile 2010


La speranza dell’Africae gli indirizzi di programmazione redattiper il 2009-2011 in un recente documento,sono concentrate le più importantiiniziative.Per renderci meglio conto degli interventidell’Italia può essere utile riportarequalche esempio concreto diprogetti in atto in alcuni dei maggioripaesi dell’Africa sub-sahariana. La Cooperazioneitaliana ha confermato il suoimpegno in Angola finanziando 23 interventiin settori considerati prioritaridal governo del paese nell’attuale fasedi ricostruzione nazionale, ovvero: sanità,giustizia minorile, sviluppo rurale,telecomunicazioni ed educazione. InKenya, dove il 54% della popolazionevive ancora al di sotto della sogliadi povertà, si sono stipulati importantiaccordi intergovernativi concretizzatisipoi all’inizio del 2007, come l’accordoper la concessione del credito d’aiuto alprogetto di sviluppo agro-idraulico diSigro, quello per il trasferimento di fondial governo keniano per la realizzazionedel progetto di sviluppo integratodi Ngomeni e infine quello per la Conversionedel Debito. La Cooperazioneitaliana in Kenya ha infine partecipatoattivamente e regolarmente ai vari tavolidi concertazione del Coordinamentodonatori. Numerose azioni si sono concentratepoi a favore di bambini e adolescentivulnerabili e a rischio, sulla prevenzionedell’Aids e su miglioramentidel settore agricolo e idrico. Anche inCosta d’Avorio, che per molto tempo èstata modello di sviluppo economico estabilità politica, ma che da diversi annivive una grave crisi politico-sociale,la Cooperazione italiana opera tramitedue canali: uno bilaterale di emergenzain accordo con le autorità locali e unomultilaterale nel settore sanitario, affidatoad un’organizzazione internazionale.L’intervento, del valore di 182.700euro, a sostegno del Centro anti-ulceradi Buruli di Angré-Abidjan gestito daipadri cappuccini, ha permesso il rafforzamentodel laboratorio di analisi,nonché il completamento della salaoperatoria e dei servizi essenziali. Unostanziamento di 400.000 euro è stato finalizzatoal rafforzamento della rispostanazionale alla diffusione dell’Aids,tramite il sostegno all’elaborazione dipolitiche e piani strategici nazionali e laformazione del personale sanitario.Altre iniziative sono state sviluppatenella regione del Corno d’Africa, cometestimonia l’attuale programma di cooperazioneitalo-etiopico, che prevedeinterventi per un totale complessivo dicirca 322 milioni di euro, tra donazionie crediti di aiuto.L’Etiopia èda considerarsiuno dei partnerprivilegiati dellaCooperazioneitaliana allosviluppo anche per le numerose Ongitaliane impegnate soprattutto nei settoridella formazione professionale,della sanità, della prevenzione e lottaall’Aids, della protezione dell’infanzia.Diversa è la situazione per la Somalia,paese tra i più poveri al mondo e pergiunta falcidiato da diversi anni da unasanguinosa guerra civile, dove l’Italiasi è limitata alla formulazione dei duedocumenti strategico-programmaticisu cui si baseranno i futuri interventi,ovvero il Reconstrution DevelopmentFramework (Rdf) preparato dalla comunitàinternazionale e il CountryStrategy Paper (Csp), documento strategicodella Unione Europea e dellaOltre all’emergenza sanitariadelle grandi malattie, il nemicoda combattere in questi paesiresta ancora la fame.Norvegia, attualmente in fase finale dielaborazione.Gli interventi sono equamente distribuitiin settori strategici quali la sanità,l’educazione, l’ambiente, l’agricolturabiologica o convenzionale, la ricercadi fonti alternative e rinnovabili, le politichedi genere e in particolare l’empowermentdelle donne. Oltre all’emergenzasanitaria delle grandi malattie(Aids, tubercolosi e malaria), il nemicoda combattere in questi paesi resta ancorala fame: il 34% della popolazioneè denutrita e ciò comporta conseguenzenon solo sulla salute della popolazione,ma anche sullo sviluppo sociale edeconomico. Alcuni dei risultati ottenutipossono dirsi soddisfacenti, a dispettodelle modeste cifre stanziate. Certamente,però, il governo italiano, se nonvorrà essere etichettato ancora comepaese “mancatore di parola”, dovrà tenerefede agli impegni presi con le altrepotenze mondiali. Lo impone il drammache da troppo tempo vive il continenteafricano.A destra: un medico occidentale visita unabambina in Africa.panorama per i giovani • 23


La speranza dell’AfricaFoto: iStockphoto.com (Claudiad; guenterguni; stevenallan)Il land grabbingStati con forte liquidità affittano a lunghissimo termine terreni agricoli,così da ottenere la sicurezza alimentare: è il “furto di terra”.di Donato Andrea SambugaroQuanto valeva la terra? 24 dollari. Valeva24 dollari di perline e specchietti l’“isoladalle molte colline”. È il 1626, l’isola èManhattan e la leggenda vuole che tantofosse il valore degli ornamenti con cui gliolandesi pagarono agli indiani che lo abitavanoil terreno: Manhattan appunto, in linguamenape. Quanto vale la terra? 3 dollaria ettaro. Partono dai 3 dollari ad ettaro gliaffitti dei terreni che molti paesi del Terzomondo stanno stipulando, affitti che vannodai 50 ai 99 anni, rinnovabili. Contratticapestro che sanciscono la vera ricchezzadel terzo millennio: il cibo. Cibo e acqua.A vendere sono alcuni fra i più poveri paesidel mondo: stati dell’Africa sub-sahariana,Pakistan, Kazakistan... Gli acquirenti nonsono i paesi occidentali bensì quelli congrande disponibilità di liquidi: Cina, Corea,Arabia Saudita ed Emirati. È il Secondomondo che divora, letteralmente, ilTerzo. Si tratta di una lotta fra poveri, fracani idrofobi e spaventati dalla possibilitàdi vedersi sottrarre un solo osso.Nel novembre scorso, il vertice romanoè servito alla Fao per lanciare l’allarmeed esporre le dimensioni del problema. Lochiamano land grabbing: ma chi sono questi“grassatori di terre”? Cerchiamo dunquedi delineare un quadro possibilmente completoe coerente di quanto sta avvenendo,specie in Africa. Fondamentale risulta lostudio approntato dalla Fao sulla base deidati sui passaggi di terreni in Etiopia, Ghana,Madagascar, Mali e Sudan. Si trattadunque di una ricerca che coinvolge paesigeograficamente rappresentativi e concondizioni economiche e sociali piuttostodifferenti tra di loro; tale studio, ancorchénon possa ritenersi esaustivo dell’intera situazioneafricana, pure ne rappresenta uninteressante e articolato scorcio.Si sono rilevate, nei paesi studiati, acquisizioniapprovate di terreni dal 2004 perun totale di oltre 2 milioni di ettari. Conseguentemente,cresce la pressione a vendere,specie per quelle terre di valore piùalto (potenzialmente irrigue, o situate in posizioneprivilegiata): questo genera un circolovizioso che impoverisce situazioni giàcritiche. Come si diceva, paesi che rappresentanole emergenze umanitarie del pianetasono privati della prima e più basilaredelle risorse: la terra. Ponendo allo studiogli investimenti, si è notato come dominiil settore privato, sebbene i soggetti investitorisiano spesso fortemente supportati(finanziariamente e politicamente) dai pro-24 • n. 1, gennaio-aprile 2010


La speranza dell’AfricaSopra: un cargo nel porto di Durban, inSud Africa. In alto: una piantagione di tèin Ruanda. Nella pagina precedente: ungermoglio in un campo africano.pri governi, che operano anche con investimentidiretti. Tra gli agenti una posizionedominante (e proprio per le sue dimensioni,ancora più preoccupante) spetta alla Cina.La strategia del gigante asiatico è nota e, atratti, piuttosto lineare: tramite l’offerta nonsolo di liquidi, ma anche di infrastrutture, laCina ha ottenuto che i prodotti agricoli deiterreni su cui ha messo le mani siano indirizzatinon al mercato internazionale, ma aquello cinese. Parimenti avviene per altrematerie prime di cui il continente africano èricco, specie le risorse minerarie.È necessario ricercare le cause di questanuova e vertiginosamente rapida e rapacecorsa alla terra. Prima fra tutte, necessariamente,vi è la sicurezza alimentare: aumentaprogressivamente la domanda mondialedi cibo, diventando tale domanda più estesaquantitativamente e più articolata qualitativamente:i paesi emergenti cambianole proprie abitudinialimentari (laCina, ad esempio,è passata in 20anni, nel consumopro-capite annuodi carne, da 20 aoltre 60 kg). È naturale dunque che i maggioriattori di questa crescita si muovanoper procurarsi risorse certe per il futuro. Il2007-2008 ha poi visto il sorgere di unapesante inflazione dei prezzi dei prodottiagricoli, una vera e propria crisi alimentareche ha generato un aumento incontrollatoper prodotti primari, quali riso e cereali.Ciò ha provocato un collasso o una contrazionedei mercati, contribuendo a una ancorpiù veloce corsa ad accaparrarsi risorsealimentari. Causa indiretta è anche la crisienergetica mondiale, che ha fatto aumentarela richiesta di biocarburanti; negli ultimianni si è dunque vista crescere esponenzialmentela percentuale di terreno, potenzialmenteproduttivo in senso alimentare,dedicata alla produzione di biocarburanti(richiesti in gran parte dai paesi Ue).Secondo la Fao, una situazione comequella sopra descritta presenta notevolirischi, pur offrendo qualche opportunità.Il land grab sottolineato dai media è solouna parte dell’equazione: vi sono veri epropri “pacchetti di investimenti”, cheoltre ai contratti sui terreni riguardano infrastrutture,supporti tecnici ecc. È quindiessenziale domandarsi cosa fare per gestireal meglio la situazione, limitando idanni e cogliendone le possibilità. Sullacarta esistono leggi volte a favorire progressivamentele forze produttive locali,ma la realtà è, come spesso accade, bendiversa. Sarebbe auspicabile rafforzare imeccanismi di controllo sulle transazioni(leases di terre su tempi molto lunghi sonoinsostenibili se non generano progressolocale) e massimizzare i guadagni dei paesiinteressati, chiarendone la distribuzione.Altro problema riguarda il fatto che spessoi soggetti investitori tendono ad averemaggior competenza in campo finanziarioche non in quello agricolo. È dunque indispensabileprima di tutto che si creinoprogetti coerenti per gestire una coltivazionesu così larga scala. Certo, se postain questi termini la questione può appariretroppo “europea” e poco “africana” ed èquindi necessario verificare anche aspettipiù semplici e pragmatici: se, ad esempio,contadini e allevatori locali mantenganoFra le cause del land grabbing cisono la sicurezza alimentare, lacrisi dei prezzi agricoli del2007-2008 e i biocarburanti.la possibilità di lavorare e acquisire appezzamentidi terra in proprio, affinché gliinvestimenti stranieri non diventino un’ulteriorepiaga per gli africani, costretti a unfuturo di bracciantato. Si dovrebbe favorirel’impiego di manodopera locale (fattotroppo spesso trascurato), permettendo unincremento del know-how tecnico-agricoloe affiancare, alle vaste proprietà sfruttate dagoverni stranieri e da multinazionali, realtàmedio-piccole gestite a livello locale.Per riassumere e concludere, tutto dipendedalle condizioni, dalle offerte e dalmodello economico che si intende perseguire.È necessario promuovere un businessmodel che, massimizzando i beneficilocali e garantendo la trasparenza (sia almomento dell’acquisizione da parte disoggetti terzi, sia al momento della gestionee della distribuzione della ricchezzagenerata) faccia divenire l’investimentostraniero in una risorsa fondamentalecome il territorio una fonte di sviluppo,senza dimenticare le reali possibilità di lavoroe sostentamento di chi in quelle terrevive. Non land grabbing ma investimentoproduttivo, dunque. Non un Moloch economico,ma una risorsa.panorama per i giovani • 25


La speranza dell’AfricaL’energia dell’AfricaPossono metodi di costruzione semplici, efficaci e replicabili aiutare arisolvere alcuni dei principali problemi dei paesi in via di sviluppo?di Maurizio ManentiFoto e disegni: Maurizio ManentiAcqua è sinonimo di vita e la gestione sostenibiledi questa vitale risorsa vuol direcrescita, sviluppo economico e progressosociale.In Africa più di un milione e mezzodi bambini all’anno muoiono per malattielegate all’uso di acqua non potabile.Ogni anno oltre 40 milioni di oreusate nel trasporto dell’acqua vengonosottratte al lavoro e allo studio: milionidi donne percorrono ogni giorno untragitto lungo chilometri per approvvigionarsid’acquae numerosibambini e bambine,impossibilitatiad andarea scuola, aiutanoi loro genitoriin questa attività quotidiana.Acqua, energia, sviluppo.Problemi che si possonoridurre con l’uso di soluzionienergetiche auto-costruibili.Ma l’acqua è solo uno dei problemidell’Africa. Aids, guerre, alimentazione,energia sono altre piaghe endemiche.Riflettendo su alcuni di questi problemiabbiamo cercato di pensare a soluzioniche fossero al contempo semplici, economichee replicabili, ma soprattuttoefficaci. Lo studio dei metodi di autocostruzioneper sistemi di produzione dienergia da fonti rinnovabili va in questadirezione.Il Madagascar è il primo paese in cuistiamo sperimentando la validità di talimetodi.In questo lontano paese africano diacqua ce n’è tanta! Quello che mancaè un uso responsabile delle risorse idriche.Fonti e sorgenti di acqua potabilesono presenti sul territorio e potrebberoessere utilizzate tramite lo sfruttamentodi pozzi comunitari. Ma per tirare sul’acqua dai pozzi serve energia e il Madagascarda questo punto di vista è messomale. Nonostante i miglioramenti degliultimi anni, il Madagascar rimane tra26 • n. 1, gennaio-aprile 2010


La speranza dell’AfricaSotto il titolo: Maurizio Manenti e altrivolontari costruiscono con mezzi limitatiuna pala eolica, provando le procedureche poi porteranno nei villaggi africani. Asinistra: una delle fasi di costruzione.A destra: lo schema dell’alternatoreautocostruito. In basso: lo schema delgeneratore microeolico e il profilo di unadelle sue pale.i paesi a più bassa copertura elettricadel mondo; su 18 milioni (stimati) diabitanti, circa il 10% è collegato allarete elettrica, che copre solo i centriurbani e non le zone rurali. Il 68%dell’energia elettrica deriva da centraliidroelettriche, che non riescono a coprireil pur scarso consumo del paese.I costi legati alla creazione, espansionee sistemazione di una rete elettrica checopra il territorio nazionale sono insostenibili,dato il quadro economico delpaese.L’unica soluzione a breve termineè la costruzione in loco di apparecchiatureche utilizzino fonti di energiarinnovabili – eolica, solare e idrica soprattutto– per rifornire piccole realtàlocali.Soluzioni auto-costruiteLa nostra prima esigenza è stata l’individuazionedi soluzioni tecnologicheche avessero determinati requisiti: essere,oltre che utili ed efficienti, realmentenecessarie agli utenti finali; essere adattee in armonia con il contesto ambientalein cui si sarebbero dovute integrare;essere economiche, aperte e capaci dicreare una reale forma di autonomia.Prima di passare a una descrizionechiarificatrice del nostro progetto vorreisoffermarmi sui termini “aperta” e“autonomia”. Peraperta si inten-Tecnologie aperte, in termini didettagli tecnici e di proprietàintellettuale, in modo da rendereautonome le comunità locali.de una tecnologiadisponibilea tutti in terminidi know-how tecnico,facile dareplicare e che non abbia componenti opassaggi costruttivi coperti da brevetti oda qualche forma di protezione della proprietàintellettuale che ne renda illegalela replicabilità stessa. Per autonomia siintende la capacità di una tecnologia dipermettere alla comunità o agli individuiche la usano di rendersi indipendenti daforniture o concessioni di terzi (si pensiall’approvvigionamento idrico, energetico,di gas naturale ecc.) e nella realizzazionee replicazione. In particolare l’autonomiava ricercata anche per quanto riguardala reperibilità delle materie primenecessarie.Il progetto prevede la realizzazionedi differenti costruzioni: generatorimicroeolici; impianti solari termici ofotovoltaici; sistemi di generazione dibiogas; sistemi microidrici per l’energiaelettrica o l’approvvigionamentodi acqua ecc. Si tratta di sistemi dallapotenza limitata a pochi kW (kilo-panorama per i giovani • 27


La speranza dell’AfricaFoto e disegni: Maurizio Manentiwatt) e che generano qualche migliaiodi kWh (kilowattora) l’anno di energia.Ma partiamo dall’inizio: che cos’è unkW? E che cos’è un kWh?Il primo indica una potenza, il secondouna quantità di energia.Per costruire un generatoreeolico che fornisca fino a 2.000kWh l’anno bastano quattrogiorni di lavoro.Per capire: con 1 kWh di energia si puòalimentare l’illuminazione di una casa peruna giornata. Ma se pensiamo alle capanneche si trovano in Madagascar, 1 kWhha la forza di alimentare l’illuminazionedi diverse “abitazioni” per un paio di giorni.Potremmo ricaricare inoltre centinaiadi telefoni cellulari (si rimane stupiti nelvedere quanti masai in Tanzania, anchenei più sperduti villaggi, abbiano il cel-lulare!) o di radioline (ed è grande l’importanzadella radio nel contesto africano).Potremmo procurare centinaia di litridi acqua all’ora con 1 kWh e questa è lacosa forse più importante in determinaticontesti ambientali.Sempre per capire di quali quantitàparliamo: 1 kW di potenza,in un anno, puòprodurre fino a 2.000kWh di energia (adesempio con un impiantomicroeolico inuna zona ben ventilatao con un impianto fotovoltaico in unazona soleggiata). Ma come è possibilefornire 1 kW che produce tanti kWh?Una prima soluzione che ho sperimentatoe realizzato è un impianto microeolicointeramente auto-costruito conmateriale di scarto o di facile reperibilità.Generatore microeolico autocostruitoAssi di legno per realizzare le pale;tubi di alluminio(di tipo idraulico,ad esempio), per lastruttura portante;filo di rame, magneti,un mozzo diun’automobile rottamatae resistenza perfrigoriferi per l’alternatore.Certo, nontutto è a portata dimano, ma quasi tuttoè disponibile anchenei paesi più poveri.Con questo materialein quattro giorni esenza esperienza, masotto la guida di uningegnere esperto,abbiamo realizzatoun generatore dipotenza pari a 1 kWche, se ben mantenuto,potrebbe fornireenergia per 10 anni!Generatori di biogasEsiste un certo numerodi metodi perprocurarsi, con unSopra: la realizzazione di una cellulafotovoltaica organica autocostruita (primedue immagini) e la cellula finita (terza equarta immagine).bio-digestore, gas metano per cucinare,servendosi solo di un opportuno sacconedi plastica, tubi di alluminio edescrementi animali. Un bio-digestoreutilizza un processo di decomposizioneoxygen-free di rifiuti animali e vegetaliper la produzione di gas metano e altrigas. Un tale generatore, dimensionatoper una famiglia, potrebbe fornire quattroore al giorno di gas per cucinare eilluminare.L’idea che si sta portando avanti,come anche per il generatore minieolicoe le altre soluzioni, è quello di fornirekit completi di tutto il necessario perla realizzazione di bio-digestori, per lafornitura di gas metano per utenze domestiche,a bassissimo costo e di facilerealizzazione. Lo scopo primario di tuttiquesti progetti sarà creare micro-attivitàlocali autosufficienti.Fotovoltaico organico autocostruitoImparare a installare un sistema fotovoltaicoè una cosa relativamente facile anchese, nonostante una certa disponibilitàdi moduli anche nei paesi più poveri, nonè la soluzione più economica. Con un brevecorso di formazione, l’installazione e lamanutenzione potrebbe essere effettuatada tecnici locali. C’è però un’interessantesoluzione che si sta considerando perl’autocostruzione di sistemi fotovoltaicie che riguarda la tecnologia del solareorganico, sviluppata dal Dipartimento diIngegneria dell’Università di Tor VergataA sinistra: un altro momento della costruzione del generatoremicroeolico. A destra, nella pagina a fianco: schema delle fasirealizzative di una cellula fotovoltaica organica.28 • n. 1, gennaio-aprile 2010


La speranza dell’Africadi Roma. Si tratta di una tecnologia cheprevede l’utilizzo di molecole organiche(nel più semplice dei casi si parla di unestratto di particolari frutti, quali ad esempioi mirtilli) al posto del silicio. Questopermette di realizzare celle fotovoltaichecon materiali economici e processi realizzativisemplici e veloci. Sono state messea punto tecniche di costruzione che permettonola realizzazione delle celle fotovoltaichein pochi minuti e al di fuori deilaboratori.Officina da campo per lo start upNel progetto si prevede inoltre la fornituradi un kit chiamato “officina da campo”,che contiene tutta la strumentazione dibase per la costruzione dei sistemi di generazione.In pratica trapani, seghe, cacciaviti,materiale di consumo ecc., nonchéun sistema dialimentazione eaccumulo a energiarinnovabile(un piccolo sistemafotovoltaicoin silicio amorfoflessibile e un generatore microeolico autocostruito)per alimentare gli strumentielettrici come la saldatrice.La fornitura di questo kit è accompagnatada corsi di formazione rivolti ai futuritecnici locali per l’apprendimento delletecniche di autocostruzione, dei principiteorici alla base del funzionamento, delleIl progetto prevede lo studio ela realizzazione di appositi kit,completi di tutto il necessarioper costruire i diversi sistemi.pratiche di manutenzione per mantenerein efficienza i sistemi negli anni, nonchédi norme di sicurezza del lavoro.panorama per i giovani • 29


La speranza dell’AfricaA sinistra: la bandiera del Sud Africa su unpallone da calcio.Foto: iStockphoto.com/AndrewJohnsonIl Mondiale arcobalenoLa storia, le vicende e i luoghi del Sud Africa raccontano problemi,speranze e realtà del più europeo dei paesi africani. Nel frattemposalgono le aspettative per i Mondiali di calcio 2010.di Elena Martini e Selene FavuzziCome solennemente proclama il preambolodella sua Costituzione, il popolo sudafricanoriconosce oggi le ingiustizie del suopassato, onora coloro che hanno soffertoper la giustizia e la libertà della sua terra,rispetta coloro che hanno lavorato per costruiree sviluppare il loro paese, crede cheil Sud Africa appartenga a tutti coloro checi vivono, uniti nella diversità.Nel 2010, vent’anni dopo la finedell’apartheid, il Sud Africa si prepara aospitare i Mondiali di calcio. Si tratta diuna sfida per un paese dalla storia davverounica, che vuole guardare al futuro conentusiasmo.Politica e società in transizioneLa Costituzione della Repubblica del SudAfrica entra in vigore nel 1997, al terminedel lungo processo che porta il paese a trasformarsida statobianco segregazionistaa democraziamulticulturale.Con la liberazionedi NelsonMandela nel 1990tramonta il regime dell’apartheid e iniziaa sorgere il nuovo Sud Africa, la “nazionearcobaleno”. L’African National Congressguidato dallo stesso Mandela sale algoverno nel 1994 e grazie a lui la società el’economia nazionali ricevono una spintadecisiva.L’elezione di Madiba, come lo chiamanoi più affezionati, simboleggia unasvolta storica, tanto da trasformare il paesein un modello ammirato da molte parti.Altrettanto non si può dire per l’elezionedel successore Thabo Mbeki, membrodell’Anc imbevuto di idee rivoluzionarie.Dopo aver contribuito attivamente al rilasciodi Mandela ed esserne stato uno deicollaboratori, Mbeki sviluppa un odio neiconfronti del predecessore. La sua ossessioneper i complotti lo porta a governarein maniera contraddittoria, puntando sullosviluppo economico, ma senza far moltoper sanare le piaghe ancora aperte: la forbicesociale, le ideologie razziste ancorain circolo, la criminalità, la sieropositivitàsempre più diffusa. L’ideale del multiculturalismopacifico sembra sbiadire conl’innalzarsi del tasso di criminalità, collegatoa episodi di violenza xenofoba chericordano tristemente il fantasma della“minaccia nera” a fondamento dell’apartheid.Il governo di Mbeki dura un decennio.Al potere nel 2009 va Jakob Zuma, il piùcontroverso tra gli esponenti dell’Anc, e ilnuovo governo sta cercando di affrontarele vecchie problematiche in modo più efficace.Tuttavia Zuma, accusato in passatodi corruzione ma anche di stupro, incarnalo stereotipo del leader africano che faparlare di sé più per la sua poligamia (haormai contratto quattro matrimoni, tutticon rito tribale) che per la sua politicaintraprendente. Nel frattempo, alla vigiliadei Mondiali di calcio, i problemi socialipesano ancora.La situazione di insicurezzalascia molti ancora perplessisulla decisione di organizzare ilMondiale in Sud Africa.L’attesa per i mondialiCon le migliori infrastrutture e l’economiapiù forte del continente, il Sud Africasi presenta in testa ai candidati africaniall’organizzazione dei mondiali dicalcio 2010. Nel maggio 2004 il sogno30 • n. 1, gennaio-aprile 2010


La speranza dell’Africadiventa realtà e il paese deve dimostraredi essere pronto a ospitare un evento ditale portata.Ultimata la costruzione di stadi edinfrastrutture pubbliche per prepararsi almondiale, il presidente Zuma sottolineacome questi investimenti svolgano unruolo di impulso alla ripresa economicadopo la recessione (con una crescita delPil prevista del 2,3%) e di potenziamentodella produttività futura grazie alla maggiorevisibilità e alla creazione di occupazione.Le polemiche connesse all’organizzazione,però, sono molte.In primo luogo, il calcio in Sud Africaè sempre stato lo sport “nero” per eccellenza(mentre lo sport nazionale bianco èil rugby). Come si spiega, allora, il fattoche la costruzione degli stadi abbia privilegiatoi più appetibili quartieri residenzialibianchi, invece di essere sfruttata perriqualificare i sobborghi abitati in prevalenzada neri?In secondo luogo, imposizioni dellaFifa e necessità di immagine hanno portatoalla costruzione di stadi enormi, maci si chiede quale sarà la loro destinazionepost-torneo e come verranno coperti iloro costi di manutenzione. Il problemadimensionale riguarda anche lo svolgimentodei mondiali stessi, dal momentoche si teme un drastico calo dell’affluenzaagli stadi se i bafana bafana (i“ragazzi” della nazionale Sud Africana)verranno eliminati nelle prime fasi dellacompetizione.In terzo luogo, la situazione di insicurezzadel paese lascia molti ancora perplessisull’opportunità di un Mondiale inSud Africa, dove ogni giorno vengonodenunciati 50 omicidi, 100 stupri, 500aggressioni e 700 scippi. L’omicidio diEugene TerreBlanche, leader del nazionalismoboero, da parte di due suoi dipendentineri, ha spinto qualcuno dellaminoranza bianca a proporre il boicottaggiodei Mondiali. L’organizzazionedell’evento, poi, provoca una straordinariaconcentrazione di capitali e interessiintorno all’area. Il timore al riguardo èche imbrogli, violenza e corruzione possanonon solo dilagare nel sistema politicoe tra i vincitori dei vari appalti, matoccare anche lo svolgimento delle partitee l’arbitraggio.Nel quadro arcobaleno della societàSud Africana, nonostante le ombre gettatedalla storia passata e più recente, nonostantele difficoltà e i dubbi sull’organizzazione,il grande evento dei mondiali dicalcio 2010 si inserisce come momentosignificativo da più punti di vista. L’attesaper il fischio d’inizio sale e la nazioneguarda avanti. Anche noi guardiamo alsuccesso dei giochi.Esattamente quindici anni dopo laCoppa del mondo di rugby del 1995, ilSud Africa torna a essere il cuore di ungrande evento sportivo. Tutti gli occhisaranno ancora una volta puntati suisuoi stadi, sulla sua sicurezza, sullesue scommesse per il futuro. Ancorauna volta poche ore fungeranno dapalcoscenico per un intero stato, coni potenziali rischi e i vantaggi che nepossono derivare. Condensare in cosìpoco tempo le proposte e le energiedi un paese in grandissima crescitadi sicuro non è facile, ma potrebbeessere la manifestazione di unamatura capacità realizzativa raggiuntaormai dallo stato africano. Le paure ele incertezze non avranno spazio dimostrarsi in questo mondiale, divenutogià simbolo prima ancora di esserestato giocato.Quindici anni fa un uomo aveva capitoquanto fosse importante unire le dueanime del suo paese anche attraversolo sport. Allora, in Africa, lo sport era“quello dei bianchi”, il rugby, a cosìpoca distanza dalla fine dell’apartheid;oggi è “quello dei neri”, il football, inun mondo che cambia sempre piùrapidamente. Quell’uomo era NelsonMandela. E non era solo un calcolopolitico, perché, come recita una suabattuta nel film di Clint Eastwood alui dedicato (Invictus), “cosa c’è di piùumano delle passioni”?I LUOGHI DEL CAMPIONATOCittà del CapoRustemburgJohannesburgBloemfonteinPolokwaneNelspruitPretoriaPorth ElizabethDurban“Abbiamo fatto moltissima strada dalla prima ispezione deglistadi effettuata nel 2005. In ogni ispezione abbiamo vistogli stadi svilupparsi da un’idea su un pezzo di carta nellostudio d’un architetto alle maestose arene del football checi ritroviamo di fronte agli occhi oggi”, ha detto il direttoregenerale del Comitato organizzatore Danny Jordaan.In effetti le nove città ospiti del campionato e i rispettivi stadisono degni di grandi speranze.Port Elizabeth, città di mare simbolo della lotta di Mandela, hadedicato a lui lo stadio costruito per la Fifa World Cup 2010, ilNelson Mandela Bay.Pretoria, capitale del Sud Africa e luogo d’incontro fra vecchioe nuovo, ospita invece uno degli stadi più antichi dello stato, ilLoftus Versfeld.A Nelspruit, città circondata dal Kruger National Park eamante del calcio, è stato costruito il Mbombela; Rustemburg,annidata ai piedi del Monte Magaliesburg, ha intitolato il suonuovo Royal Bafokeng Stadium al popolo che vi risiedevain tempi antichi, il cosiddetto “popolo della rugiada”, ePolokwane, terra dei baobab, ha dedicato il suo stadio, ilPeter Mokaba, a uno degli eroi della lotta all’apartheid.Nel porto vivissimo e cosmopolita di Durban è appena “sorto” ilMoses Mabhida, che trae ispirazione dalla bandiera sudafricana.A Bloemfontein, luogo d’arte dove la passione per il calciodiviene quasi febbrile, i tifosi si riverseranno con le loro grandiaspettative nel Free State Stadium.Città del Capo infine, la “città madre”, luogo di storia eincontro fra mare e terra e culture diverse, che affiderà al suoGreen Point Stadium le speranze per una buona semifinale.A Johannesburg, la “città d’oro”, molto verde e ricca di cultura,si apriranno e chiuderanno questi mondiali così attesi, nei duestadi Soccer City ed Ellis Park, carichi d’una storia profondadelle passioni sportive africane e mondiali, avendo il secondoospitato il celeberrimo campionato del mondo di rugby del 1995.panorama per i giovani • 31


La La speranza salute nel dell’Africa mondoFoto: iStockphoto.com (Sean_Warren; MShep2)Perché la medicinaoccidentale non è esportabileLa medicina non è solo una questione biologica. Anche la cultura,le condizioni di vita e le tradizioni devono essere considerate, in unprocesso di cura che non può essere inteso come in Occidente.di Sofia TonioloPasteur ci ha proprio rovinati! Grazie aisuoi studi sul colera dei polli, noi tuttisiamo caduti vittime della fascinazionedella microbiologia, sedotti dall’assiomaun germe = una malattia. Ma la medicinaè tutt’altro che lineare, assiomatica. È ormaiuniversalmente riconosciuto che i fattoridi rischio sociali, ambientali, socioeconomici,di genere o semplicemente legatiall’età del soggetto svolgono un ruolodeterminante nello sviluppo della malattia(oltre che del tipo di malattia). L’equazionesopracitata è falsa e fuorviante ancheperché presuppone, se riletta al contrario,di poter curare una malattia eliminando ilgerme, la causa. Qui entra in campo, prepotentemente,la medicina occidentale,con la sua santificazione del farmaco, dellaevidence based medicine. Ma non tuttii corpi sono uguali: così come reagisconoin modo differente all’aggressione daparte di un agente patogeno, presentanoanche elevate differenze nell’assorbimentoe nella metabolizzazionedi unfarmaco.Parlando diun altro corpo,o meglio di corpusdi abitudini epratiche (la cultura!), ci imbattiamo nelsecondo ordine di problemi: la ricezionedella medicina da parte di una cultura altra.Ciò che consideriamo maggiormenteSopra: vaccinazioni in un villaggio africano.Nella pagina a fianco: un medico visita unbambino accompagnato dal padre.valido ed efficiente secondo i nostri standardoccidentali può rivelarsi totalmenteinadeguato se trapiantato in un altrocontesto. Il fallimento della prevenzioneprimaria della trasmissione dell’Hiv inAfrica con l’uso del preservativo, determinatadallo scarsissimo potere contrattualedella donna all’interno del nucleofamiliare, è un chiaro esempio di comeuna politica sanitaria basata su pianificazionidi stampo occidentale abbia portatoa un enorme spreco di risorse economiche,oltre che alla mancanza di risultati.Siamo tutti caduti nellafascinazione della microbiologia,sedotti dall’assioma“un germe = una malattia”.Un altro ordine di problemi è costituitodalle esternalità negative prodotte dallamedicina occidentale. Il fenomeno dellaresistenza agli antibiotici è ormai talmen-32 • n. 1, gennaio-aprile 2010


La La speranza salute nel dell’Africa mondote diffuso che farmaci sia di prima sia diseconda generazione non hanno più alcunaefficacia. L’esempio più preoccupante,più eclatante degli errori/orrori commessidalla biomedicina occidentale in Africa èdato dalla nascita dei ceppi di tubercolosiMdr e Xdr, ovvero ad altissima resistenza.La virulenza del microrganismoè aumentata a dismisura soprattutto graziea una politica sbagliata di assistenza“monofarmaco”, che agendo su un unicomeccanismo d’azione, spesso controun’unica chinasi o enzima, ha favoritole mutazioni del micobatterio, che al finedi garantire la sua sopravvivenza ha acquisitomutazioni in modo da aggirarel’ostacolo e poter infettare ancora. Questistessi ceppi terrorizzano ora i nostri centrioccidentali perché non esiste alcun tipodi cura. Altro grande scoglio, sbaglio: laperdita dei saperi tradizionali. “L’incontrodella medicina come attività curativacon la biologia come scienza dei viventie risposta alle domande causali sui loroprocessi è un evento storico verificatosinell’ambito della cultura europea, e nonun tratto intrinseco della medicina. Nonogni medicina è fondata sulla biologiascientifica” (Parodi).BIBLIOGRAFIAA. Colajanni, Problemi di antropologiadei processi di sviluppo, Ed. Issco,Varese 1994.L. de Heusch, Con gli spiriti in corpo,Bollati Boringhieri, Torino 2009.A. Parodi, Storia della medicina,Edizioni di Comunità, Torino 2002.Spesso le teorie dello sviluppo ricalcanoesplicitamente lo schema narrativodel mito dello sviluppo: un remoto e povero“non sviluppo” prelude a una fase digrandi pericoli e rischi di esposizione allecrudeli sfide della natura, per giungere infinealla fase nella quale interviene l’aiutocostituito dalla scienza e dalla tecnica.In realtà, quando si guarda alla medicinapopolare si commette un errore logico nelpassare da assenza di trasmissione scrittaad assenza di teoria. Le popolazioni conmedicine tradizionali, infatti, unisconosolitamente al trattamentomaterialedelle malattie unavisione animisticao magica o demoniaco-religiosa.Le stesse terapie,di solito a base di vegetali, uniscono altratto empirico della ripetuta osservazionedell’efficacia altri caratteri, analogicisu piani diversi, provenienti da visionidel macro e microcosmo, che colleganoad esempio alla forma della pianta la formadell’organo da trattare. Molto spessola scoperta di proprietà farmaceutiche diuna determinata pianta, o fungo, precededi gran lunga la scoperta e caratterizzazionedel suo principio attivo.In Africa il discorso si complica perchéci troviamo di fronte a una realtà dominatadal fenomeno della “possessione”.La malattia è vista come l’intrusione deldio nel corpo del malato. Il malato si trovadi fronte a una scelta: rifiutare la possessione,o esorcismo, o accettarla, o adorcismo.Come possiamo noi pretendere diinserirci in un contesto culturale in cui siala concezione di malattia che ancor più dicura sono diverse e stravolgerlo medianteinoculazione di semplici preparati di laboratorio?Pur essendo efficaci dal punto divista teorico, non partecipano al processodello healing, ma solo del curing. L’atteggiamentorecalcitrante e miope di noioccidentali verso le altre forme di saperemedico ci ha portato a ignorare del tuttoquesta dicotomia e ci sentiamo persino orgogliosiquando affermiamo di voler portareospedali d’avanguardia, con standardoccidentali nel Terzo Mondo (pensandosolo in termini di curing).Facciamo un esempio puramente teorico.Adediwura soffre di una cardiopatiacongenita lieve. Secondo i nostri standardoccidentali andrebbe operato, perchécosì il soffio al cuore scomparirebbee avrebbe meno problemi di complicanzecardiovascolari, specie in tarda età.Come se poi un infarto fosse il problemaprincipale di un paziente in Africa: avendoun’aspettativa di vita media che equivalealla metà di un cittadino europeo onordamericano è già molto fortunato searriva al cut-off dei 50 anni, quando siha aumento del rischio cardiovascolare.Decidiamo comunque di operarlo, dopo2 o 3 giorni torna a casa o, meglio, nellasua capanna di fango e sterco e muoreLa malattia è vista comel’intrusione del dio nel corpodel malato, che può rifiutare lapossessione o accettarla.per una sepsi generalizzata. Un avvenimentoraro? Tutt’altro. E con quali soldisi potrà pensare di dare il via a una campagnaper seguire i pazienti che hannoeseguito un intervento cardiochirurgico?Byron J. Good e Arthur Kleinman tenevanogiustamente separati i tre piani diillness, sickness e disease. Per diseaseintendiamo la malattia sotto il profilostrettamente biomedico, in quanto associazionedi sintomi clinici, mentre illnesse sickness rappresentano rispettivamentela percezione soggettiva della malattiada parte del malato e il significato cheassume la malattia nel contesto sociale incui si trova il paziente. La biomedicinain Africa si limita a cercare di curare ildisease, ma se non si agisce sui determinantidella salute, non si arriverà mai aguarire il paziente.panorama per i giovani • 33


Energia La salute da nel risparmiare mondoAfrica has aDREAMIl programma Dream per la cura dell’Aids: un sogno di gratuità,amicizia ed eccellenza.di Carmelo Di NataleLa storia è costellata di grandi epidemie,che a volte hanno messo in ginocchio popolie civiltà fiorenti, ma fino alla secondametà del Novecento l’umanità non avevamai conosciuto una pandemia veramenteglobale. Il primo terribile morbo in gradodi mietere vittime in tutto il mondo èstata la Sindrome da immuno-deficienzaacquisita. I numeri parlano chiaro: dal1981, la data in cui è stata diagnosticataper la prima volta la malattia, più di 40milioni di persone sono morte di Aids,mentre nel solo 2009 sono stati accertatipiù di 30 milioni di sieropositivi. Inoltreil dato dei nuovi contagi, circa 2,5milioni l’anno, non sembra diminuiresignificativamente. Questi numeri, paragonabilia quelli di una guerra mondiale,sono resi ancora più impressionanti dallaconstatazione che circa due terzi dellepersone infettate dal virus Hiv risiedononell’Africa sub-sahariana; inoltre il rapportotra vittime totali e vittime africaneè ancora più spaventoso.È chiaro dai dati quali siano le dimensionidel morbo; ciò che essi rischianodi non rivelare, se non dopo una letturaattenta e profonda, sono le conseguenzeeconomiche, sociali e culturali del drammaAids per l’Africa e in particolare perl’Africa sub-sahariana. La malattia uccideinfatti soprattutto uomini e donne inetà lavorativa (professori, tecnici, mediciecc...) e rende quindi sempre più arduala formazione di un’élite in grado di pilotareil rilancio culturale ed economicodell’area. L’Aids colpisce duramente anchei bambini: direttamente, perché contagiatidalle madri sieropositive in etàfetale o nel primo anno di vita, o indirettamente(ma non meno tragicamente)perché resi orfani dal morbo. Purtroppoin Africa un bambino senza genitori(specie se non registrato all’anagrafe) èun piccolo cadavere che cammina: nelmigliore dei casi entrerà in una ganggiovanile, nel peggiore verrà ucciso perl’espianto degli organi.Il virus Hiv non è però uno spettroinvincibile: oggi in Europa e negli StatiUniti non si muore quasi più di Aids.Esiste infatti un trattamento, la terapiaHaart (Highly Active Anti-RetroviralTherapy), che grazie all’uso dei cosiddettifarmaci antiretrovirali è in grado diA sinistra: un bambino africano in unvillaggio sub-sahariano.34 • n. 1, gennaio-aprile 2010


La speranza dell’AfricaFoto: iStockphoto.com/Hibiscusabbattere la carica virale della malattia,fino a “congelarne” gli agenti patogeniper tempi molto lunghi, impensabili solodieci anni fa. Nell’attesa che la scienzamedica riesca a trovare terapie e trattamentiper curare pienamente l’Aids (cioèdistruggere il virus nell’organismo ospite),disponiamo adesso di farmaci capacidi inibirla in modo talmente efficace dacronicizzarla. Purtroppo la terapia Haartè piuttosto complessa, lunga e richiedeuna precisione straordinaria nella somministrazione;perciò è molto costosa.Per queste ragioni l’Organizzazionemondiale della Sanità (Oms) ha ritenutoper lungo tempo che la lotta all’Aids inAfrica dovesse ridursi alla sola opera diinformazione e prevenzione, escludendodunque l’utilizzo di Haart e degli antiretrovirali.C’era infatti l’idea che unasimile terapia fosse incompatibile con icostumi sociali e culturali delle popolazionidell’Africa nera.Tuttavia le tante campagne di prevenzioneposte in essere dalle varie organizzazioni,seppur lodevoli negli intenti,non hanno dato – ahimè – alcun risultatosignificativo: non vi è stata infatti alcunariduzione apprezzabile del numero deicontagi, né di quello delle vittime dellamalattia. D’altra parte, se è evidente lafondamentale importanza dell’attivitàpreventiva, è altrettanto chiaro che essanon può essere sufficiente se non vieneaffiancata dalla terapia clinica: vi sonopiù di 20 milioni di malati per i quali i discorsisulle prevenzione dell’Aids sonopoco più che chiacchiere... La Comunitàdi Sant’Egidio ha ritenuto invece cheil pessimismo e la rassegnazione circal’attuabilità di un programma efficace dicura della malattia in Africa fossero infondatie che quindi sieropositivi e malatiafricani, se opportunamente seguiti einformati, non avrebbero avuto difficoltàad adattarsi a terapie e comportamentiche, anche se (forse) lontani dalla propriacultura, avrebbero potuto ridare speranzae dignità alla loro vita e a quella dei lorofigli. Il ragionamento di Sant’Egidio è ilseguente: se, come è giusto, un europeodesidera una vita lunga e dignitosa anchedi fronte alla malattia ed è disposto a sottoporsia trattamenti complessi e costosiper sconfiggerla, non c’è motivo perchéqueste non debbano essere le intenzionidi un malato di Aids in Angola o in Malawi.La Comunità ha avviato quindi unodei suoi progetti più ambiziosi, il programmaDream (Drug Resource Enhancementagainst Aids and Malnutrition),un piano molto articolato il cui fineprincipale è offrire ai malati africani diAids la terapia Haart allo stesso livellodi eccellenza presente in Occidente.L’apertura nel gennaio 2002 del primolaboratorio di biologia molecolare a Maputo,capitale del Mozambico (paese perpiù ragioni particolarmentecaroa Sant’Egidio),sanciva ufficialmentel’inizio diquella che sarebbediventata unadelle attività di maggior successo dellaComunità. Tre sono i pilastri su cui è costruitoDream: l’eccellenza, la gratuità el’accessibilità delle cure.I centri Dream (attualmente 31 dislocatiin dieci paesi dell’Africa subsahariana)sono equipaggiati con lemigliori tecnologie disponibili oggi,sia per quanto riguarda gli strumentidiagnostici, sia per quanto concerne itrattamenti clinici e terapeutici. Vi lavoranomedici, ricercatori e infermieriafricani formati da colleghi europei: ilpersonale medico, paramedico e amministrativoeuropeo coinvolto in Dreamè tutto volontario, al contrario del personalelocale, che viene pagato. Dream,quindi, oltre a garantire le migliori cureai propri pazienti, contribuisce a generarericchezza economica e progressoscientifico-culturale. Tutti i trattamentie le prestazioni di Dream sono gratuiti:dalle visite mediche alla diagnostica,dai farmaci all’integrazione alimentare,tutto è offerto gratuitamente a chi li richiede.La gratuità è un elemento imprescindibiledel programma: è difficileche un malato di Aids, già di per séfacilmente emarginato, possa pagare lecure, visto che il più delle volte non hai soldi per mangiare. Dream, non essendosponsorizzato, si regge interamentesul lavoro dei volontari e sui contributidi persone di buona volontà... Il terzocardine del programma è l’accessibilitàdelle terapie: i centri si trovano in grandicittà, ma i volontari e gli attivisti diDream (in prevalenza donne salvate, senon proprio resuscitate, dalle cure delprogramma) vanno nei villaggi a cercarei malati, somministrare i test di sieropositività,distribuire cibo e farmaci,fare educazione sanitaria ecc... Senzaquesto tipo di attività, assai dispendiosae faticosa, Dream raggiungerebbe pochissimepersone, data la difficoltà deglispostamenti e la lunghezza delle distanze.Dream ha dimostrato inoltre come laterapia, unita all’integrazione alimentaree all’educazione igienica e sanitaria,abbia anche effetto preventivo. I datiDream è un progetto di cura enon solo di prevenzione. I suoipilastri sono l’eccellenza, lagratuità e l’accessibilità.mostrano come la cura con gli antiretroviralidi donne in gravidanza riduca alminimo la probabilità di contagio dei figli:dal 2002 sono quasi 9000 i bambininati sani nel programma di prevenzioneverticale. La terapia inoltre, abbattendola carica virale, riduce anche la possibilitàdi contagio orizzontale.La storia di Dream è quindi lastoria di un successo straordinario,nato dall’amicizia della Comunità diSant’Egidio con il popolo africano, dallavoglia di contribuire concretamentealla soluzione di uno dei problemi piùdevastanti per l’Africa, specie sub-sahariana,e dalla fiducia nella voglia diriscatto e di vita degli africani control’afro-pessimismo di tanti. Il sogno diSant’Egidio si è tramutato in un modellodi intervento umanitario capacedi salvare tante vite e generare processidi crescita sociale ed economica. Oggi,grazie anche all’esperienza di Dream,varie associazioni, come ad esempioSafaids e Cesvi, pongono la somministrazionedella terapia antiretroviraleal centro dei loro programmi di lottaall’Aids; la stessa Organizzazionemondiale della Sanità ha recentementericonosciuto insufficienti le sole campagnedi prevenzione, inserendo la terapiaantiretrovirale nelle linee guida annualisulle metodologie per la lotta alla malattianel continente africano. Certo, l’Aidsin Africa continua a essere un abisso didolore e di morte, ma i numeri mostranoche è con progetti come Dream che larésurrection pour l’Afrique, come recitaun canto con cui la Comunità è solitapregare, può davvero realizzarsi.panorama per i giovani • 35


La La speranza salute nel dell’Africa mondoIl Festival è partito nel 2001, proprioquando le paure xenofobe hanno ricevutonuova paglia da bruciare, dopo gliattentati dell’11 settembre. Quanto puòcambiare il contatto fra culture?Ogni uomo ha un diritto inalienabile allapropria evoluzione spirituale. Contro l’induzionedi paure e angosce. Soprattutto intempi di crisi c’è molta demagogia, che alimentafobie generate spesso da informazioniambigue. Ogni artista comunica invece atutto il globo, in modo libero e senza barriere,per spazzare via i fantasmi dell’irrazionalità.Oggi è un lavoro molto difficile.Ogni nome reca con sé un inscindibilesignificato: perché proprio “Festa”d’Africa?Foto: Claudio PapiniArte: pilastro di qualsiasiponte fra cultureIntervista a Daniela Giordano: attrice, regista e direttrice artistica della Festad’Africa, luogo d’incontro fra due continenti che si tiene ogni anno a Roma.a cura di Selene FavuzziAttrice, regista teatrale, direttrice d’unacompagnia, organizzatrice di “Festad’Africa”, presidente della giuria in festivalinternazionali di teatro, come al Cairo,o membro della giuria a Damasco, ma soprattuttodonna dal sorriso radioso e dal fortecarisma, la Giordano vive fra le morbidecolline di Sacrofano, in provincia di Roma.Da una grande finestra vetrata si vede unpanorama verde a perdita d’occhio. Dopoavermi mostrato due vestiti provenienti dalSenegal, iniziamo l’intervista...Ormai nove anni fa ha avuto inizio ilprogetto del Festival. Con quali obiettiviè nato?Uno dei primi obiettivi è stato quello diporre la nostra cultura e quella africanasullo stesso piano, mostrarle di pari dignità.Ben pochi incontri infatti si rivolgonoal continente africano con uno sguardo chenon sia paternalista o consolatorio, centratosu infiniti problemi e piaghe secolari.Non esistevano eventi del genere quandoè stata concepita l’idea d’un incontrocreativo che desse possibilità di realizzareun confronto pacifico tra differenze, fecondodi novità e grandi potenzialità, almenoin Italia. Dalla Francia infatti, maestra discambio culturale, sono sempre venuti segnalimolto evidenti di ricerca di novità,d’investimento culturale, di progresso. Segnaliche mostravano il passaggio del trenoche rischiavamo (e siamo ancora sul punto)di perdere: quello d’uno sviluppo dinamicoe innovativo delle culture del mondo,che parte dal sentimento di esser parte diun tutto e dal particolare va all’universale.Solo questo tipo di mentalità aperta puòessere foriera di sviluppo economico edevoluzione spirituale. Per tutti.Poiché la confutazione degli stereotipi avvienesolo attraverso la cultura, il terminesuggerisce l’idea di un’offerta, uno scambioprofondo da cui tutti hanno da guadagnare;la dimensione migliore in cui porsiè quella del doppio significato di “ospiti”:organizzatori e soprattutto entusiasti spettatori,invitati appunto a una festa! Ogninome ha una forte carica d’energia data dalsuono, dai significati che vi si associano.Oltre a occuparsi del Festival, lei è anchedirettrice d’una compagnia teatrale:Crt ScenaMadre. Quant’è sentito ilriferimento alla dimensione femminilesuggerito dal nome e quanto essa puòcontribuire a portare una diversa prospettivanella gestione della cultura,dell’arte, della società?Alla donna è spesso “concesso” di accedereal mondo dell’arte, peraltro neppurein tutti gli ambiti; sto pensando ad esempioal primo Oscar alla regia assegnato aduna donna, arrivato solo quest’anno.Viene in mente anche una targa presentenel Centre Pompidou a Parigi, che recitacome solo il 4% degli artisti presenti frale sue sale siano donne e quasi per il 90%debbano usare la propria nudità, stilizzatain forme artistiche, per entrarvi!La mia posizione di “imprenditrice culturale”è infatti ancora più rara. Mentre neicentri dove si produce l’arte le segreteriepullulano di donne, ai ruoli dirigenzialisono spesso uomini che stabiliscono le36 • n. 1, gennaio-aprile 2010


La speranza dell’Africapolitiche da adottare. Le poche donne cheoccupano posizioni direzionali si trovanonell’incapacità di far rete, legarsi per unosviluppo e un cambiamento duraturo. Unadelle cose più importanti che possiamoapprendere dal confronto col continenteafricano è proprio questa: l’importanzafondamentale della donna nella società. Unmodo di lavorare e concepire le cose nonfemminista, ma femminile. Alcuni paesiafricani dichiaratamente “maschilisti” siaffidano infatti alla guida politica di donne,in certi casi in percentuale maggiore che inItalia: è un dato che fa riflettere.L’esperimento del microcredito si inserisceesattamente in questa direzione dipensiero.Ogni madre africana svolge un ruolo fondamentalenell’economia familiare e del paese.Cose che nei corsi universitari non insegnano:un’esperienza reale sofferta e vissutagiorno per giorno, come creare il futuro deipropri numerosissimi figli con l’equivalentedi pochi euro al mese. Le donne, soprattuttoquando riescono a creare quella rete di cui siparlava prima, creano e producono ricchezzae futuro. La scelta degli artisti del festivalè avvenuta non solo in base ad aspettifolkloristici, ma soprattutto a quelli che mostranotutto il potenziale innovativo e contemporaneoche sta sorgendo dall’Africa inquesto momento. Molte sono donne.A destra: Daniela Giordano. Nella paginaprecedente: un momento dello spettacoloOrpheus.distanze percorribili a piedi delle suestrade, proprio perché permettevano,più che in altri continenti, lo scambiofecondo (e spesso anche lo scontro) diidee, credenze, fermenti culturali.E anche in questo l’Africa ci può insegnaremolto: fra due elementi opposti non c’èper forza contraddizione, ma è più importanteil dialogo che vi può nascere: lo sviluppodialettico. Guai all’omologazione!L’arricchimento che porta anche al medesimorisultato sta proprio nel processo. Avolte un messaggio più è particolare, più èin grado di tendere all’universale. Inoltrel’arte è in grado di percepire molto primai cambiamenti che sono nell’aria, ciò chesta per venire.Viene in mente la Repubblica di Weimar,la cui arte già maturava i tormentie le tensioni dell’espressionismo tedesco;in un’atmosfera di grande apertura democraticavediamo pellicole come Il gabinettodel dottor Caligaris o Nosferatu.Esattamente. Creazione: l’arte è sempreavanti; persino quando si guarda al passatolo si carica di nuove istanze. InfattiORPHEUS. EMOZIONI DAL FESTIVALil djembé, il tamburo tradizionale africano,è sempre lo stesso dall’alba dei tempi;ma il suo linguaggio viene costantementerinnovato, inserendo un sapere atavico inuna modernissima riflessione culturale.Cosa possiamo imparare noi dal loromodo di sentire e vivere?A seconda del ritmo del tamburo ogniafricano conosce i passi della danzache vi si abbina. Loro sanno sempre chisono. Siamo noi che abbiamo il problemadell’identità culturale; loro non hannomai perso (anche con l’emarginazione, ladiaspora, la piaga profonda dell’emigrazione)il senso della radice. È una bellalezione.Futuro, che ruolo ha l’arte nella società?Lo spirito critico può essere suscitato?Quanto importa la cultura nellacreazione del nostro tempo?Penso che l’equazione realtà-arte sia equilibrata.Spesso si tende a credere che il pesodella prima sia maggiore nell’influenzare laseconda, ma io non credo che siano “solocanzonette”. Il messaggio artistico è in gradodi trasformare le cose, proprio perchésciolto (non indipendente, ma libero) daivincoli sociali, politici, economici. Non stodicendo che l’arte sia in grado di fare rivoluzioniin un giorno, ma di sicuro può unirecon un linguaggio comune persino personeche parlano lingue diverse, quando i mezziusuali di comunicazione sono insufficienti.E non è solo un linguaggio intellettuale,ma profondamente emotivo.Steiner ha scritto che l’idea d’Europae la sua florida cultura sono nate sulleSilenzio e buio. Poi una voce: quella della Musa classica che intreccia le storie più antiche.Quella remota dell’eco del tempo che narra leggende. È colma di riflessi, come l’acqua di cuispesso parla: un fiume che scivola impetuoso e senza meta.Narra la storia di Orfeo, il mitico Orfeo nato dalle recondite memorie d’una grecità classicache gli attribuiva la dote d’una voce tale da commuovere persino i sassi col suo dolce canto.Quante volte il nostro Occidente ha raccontato questa storia; quante volte il suo dolore nelperdere Euridice.Eppure questa volta qualcosa è diverso: la leggenda è quella tramandata dalle terre d’Africa,sebbene simile, molto diversa dalla nostra: Orfeo ha la pelle scura; non canta parole; nonsuona armoniche note; ma fa del suo corpo il teatro del sentimento: è uno straordinarioballerino e coreografo senegalese, Lamine Dabo, che raccoglie il dolore e la speranza. Ecommuove anche i sassi; senza una sola parola.La Giordano (autrice, regista e interprete) narra, ride, scivola e improvvisamente cambiacome la corrente del ruscello, che con la voce delle onde porta allo sposo la notizia funesta.Piange e singhiozza con lui, scavando nel più profondo dolore; ne accompagna il battito delcuore (salire furioso) e la folle idea: sfidare il cielo e gli inferi.Il ritmo che scandisce il suo viaggio e ne accompagna il passo incerto verso le profonditàpiù remote è quello suonato dai compositori Ismaila Mbaye e Djibril Gningue con strumentitradizionali come il djembè (tamburo) e la kora (arpa). E sale, sale sempre più forte, in unvortice stretto che travolge come una danza africana, che porta via come una storia lontana.Salgono i brividi nel vedere due continenti, separati dal mare e da tante, troppe parole,riuniti nell’abbraccio finale d’un Orfeo dalla pelle scura, che, dopo aver scavato fra paure epassioni ed essere arrivato alla consapevolezza di sé (in una discesa che era in realtà unascala in salita), riesce ad abbracciare e stringere, questa volta per sempre, la sua Euridicedalla pelle chiara.panorama per i giovani • 37


post scriptaAfrica, continente dimenticato, anzi ignorato: non certoa parole, ma nei fatti.Conferenze internazionali, convegni, commissioni distudio non sono mancate: sono mancati i fatti.Così mentre altri continenti progrediscono – ed in essi qualchepaese a ritmo vertiginoso – l’Africa – fatta una semi-eccezioneper il Sud Africa e per quella mediterranea – resta in condizionidi povertà fino all’emergenza alimentare.Lodevole è quindi il fatto che la nostra rivista abbia volutodedicare un importante numero a questo tema.E lo ha fatto attraverso una serie (ben quattordici) di contributi,ben documentati e di ampio respiro, che hanno affrontatopraticamente tutti i problemi dell’intero scenario: dalla mortalità,specie infantile (cause preminenti l’Aids e la diarrea, dovuta ovviamenteal mancato accesso ad acqua non inquinata), alla evoluzionepolitica, con difficoltà fra carenza di leader e pessimi governi;dalle rapine territoriali (land grabbing) effettuate da moltipaesi terzi, alle difficoltà di studio in Africa e alla conseguenteemigrazione dei pochi cervelli validi (brain drain); dai problemienergetici e dallo sviluppo di energie alternative come il solare el’eolico, alle estreme difficoltà di reperimento di medicinali. Undiscorso particolare relativo alla cooperazione italiana che – adeccezione di qualche flash, come in appresso dirò – si comportain modo tale da essere inserita tra i reprobi; ed infine uno sguardoalle espressioni dell’arte, che costituiscono elemento distintivoed importante per quelle popolazioni.Da tutti i contenuti traspare un sommesso pessimismo; eppurequel continente ha risorse umane e naturali che potrebberogarantirne un adeguato sviluppo. E se ne sono accorti i cinesiche, pur essendo l’area lontana dalla madre patria, ne stanno facendouna specie di colonia commerciale attraverso investimentiindustriali e territoriali in cambio di materie prime.Ben poco fa il mondo occidentale ed in particolare l’Europa,che in quel continente – in una specie di Euroafrica – potrebbetrovare il suo compimento politico ed economico.Ancor meno fa il nostro paese, che pure avrebbe il massimointeresse ad occuparsi di Africa.Un ricordo personale: mi trovavo a Yaoundé, la capitale delCamerun, per una missione delle Nazioni Unite, ad occuparmidi un loro fiume (il Logone); erano con me quali esperti FrancescoForte, futuro ministro, e Sandro Petriccione, vicepresidentedella Cassa per il Mezzogiorno. Ad un piccolo ricevimento cheorganizzammo nella nostra sede avemmo il privilegio di averecon noi il nunzio apostolico, mons. Poggi, il nostro ambasciatoree ben quattro ministri del governo camerunese. Conversandocon loro venimmo a parlare di Europa ed Africa e di quanto altripaesi (Francia e Regno Unito per consolidata consuetudine, maanche altri quali Germania, Svizzera ecc.) andavano facendo nelquadro di una cooperazione. Fu allora che uno dei ministri ebbea dire: ma non sarebbe il momento dell’Italia? E gli altri ne convennerocon convinzione e simpatia.Queste parole mi rimasero a lungo in testa, anche ricordandocon quanta affabilità eravamo accolti nel poco che facevamo.Quindi con grande soddisfazione vidi negli anni Ottanta una intensaattività della cooperazione dedicata all’Africa; ma fu unsemplice flash, perché dopo qualche anno tutto è rientrato ed ilnostro paese – malgrado le affermazioni che ogni governo ripete– considera la cooperazione un optional e vi contribuiscecosì minimamente da essere inserita – come ricordato in uno deicontributi – in una “lista della vergogna”.Non tutto, però, deve ricadere sulle manchevolezze delle istituzionioccidentali; qualche colpa l’hanno anche gli africani equanti da fuori con loro collaborano.In altra occasione, trattando di acqua – istanza irrisolta nelsud del mondo – prendendo volentieri da E. Zola il famoso “j’accuse”,ebbi a scrivere che comunque erano verità da me toccatecon mano: a) le scarse capacità, accoppiate ad una abbastanzadiffusa corruzione, delle classi dirigenti che trasferiscono a personalevantaggio gran parte degli aiuti internazionali; b) l’aviditàtalvolta anche cinica di tanti operatori terzi che, ovunque hannopotuto, hanno tagliato a loro vantaggio buona parte degli aiutio li hanno stornati su iniziative inutili e talvolta dannose; c)la frenetica spinta al “consumismo”, micidiale sintesi di quantosopra.Benedetto XVI, nella sua Caritas in veritate, a proposito diacqua (e cita questa risorsa per ben tre volte) dice che per affrontarequesto tema occorre avere “coscienza solidale”.Se vi è un esempio di mancanza di coscienza solidale a livelloglobale – e non solo per l’acqua – questa è l’Africa: e questoè tutto.Il fascicolo contiene un ricordo di Giovanni Cavina, che perlunghi anni fu direttore della “Residenza”; al ricordo hanno contribuitolaureati e studenti.Vorrei qui associarmi con commosso sentimento nel ricordodel suo rigoroso ed affettuoso impegno, dedicato ad una “creatura”che aveva visto nascere e che considerava “sua” e di cuiansiosamente osservava il promettente sviluppo.Carlo Lotti38 • n. 1, gennaio-aprile 2010


Ricordo di Giovanni CavinaQuesta pubblicazione fu fondata 42 anni fa, in pieno’68, da Giovanni Cavina, a sostegno delle attività diorientamento e formazione svolte dal Centro per leattività sociali dell’Ente Palazzo della Civiltà del lavoro,che egli dirigeva. La Federazione Nazionale dei Cavalieridel Lavoro era una delle tre componenti dell’ente, cui facevanocapo anche i lavoratori dipendenti benemeriti (Maestri del Lavoroe Anziani d’Azienda). Ma era la Federazione che dava maggioreimpulso – economico e non solo – a progetti che gli scettici potevanoritenere visionari, quando non pericolosi; come gli Incontricol mondo del lavoro, che Cavina portava in giro già da alcunianni per le scuole di tutta l’Italia, per offrire ai giovani criteri divalutazione e di scelta di lavoro o di studi superiori. Prima e anchedurante gli anni della contestazione, gli incontri prevedevano perfinola visita di stabilimenti industriali, spesso occupati o in sciopero.La pubblicazione era ciclostilata: un sistema archeologico diriproduzione, del cui significato molti lettori attuali cercherannotraccia su wikipedia. Nella periferia di Roma era già in costruzionela Residenza Universitaria “Lamaro Pozzani” della FederazioneNazionale dei Cavalieri del Lavoro, inaugurata nel 1971, cheCavina avrebbe diretto dal 1973 al 1995 quando, a 71 anni e già inpensione, accettò di smettere di lavorare.Per questo, un anno fa, la notizia della sua morte colpì soprattuttoi laureati non più giovani della Residenza, l’attualeCollegio. L’Associazione Alumni del Collegio universitario deiCavalieri del lavoro ha perciò ritenuto giusto e naturale, primaancora che doveroso, dedicare al ricordo del “dottor Cavina” unmomento importante dell’incontro di apertura dell’anno associativo,che si è svolto a Bologna sabato 6 febbraio 2010, nellaSala del Trecento di Palazzo Re Enzo. Il momento “del ricordo edella commozione”, come lo ha definito Marco Magnani, presidentedell’Associazione Alumni, è stato preceduto (alla presenzadel presidente della Federazione, Benito Benedini) dalla relazionedel Cavaliere del Lavoro Luca Cordero di Montezemolo,presidente della Fiat e della Ferrari, sul tema “La meritocraziain Italia”, che molto sarebbe piaciuto a Giovanni Cavina, ma dalquale nulla avrebbe avuto da imparare, egli che la meritocrazial’ha sostenuta e insegnata, non sempre ascoltato, per decenni.Il ricordo si è svolto, dopo una breve introduzione, attraversoquattro testimonianze di ex-residenti, seguite da alcuni interventi“liberi”. Da angolazioni e con sensibilità diverse – attraverso la rievocazionedi episodi e alcune scene di vita quotidiana – la figura diGiovanni Cavina non soltanto è stata riconosciuta da chi lo ha incontratoin anni importanti per la propria formazione, ma è stata perla prima volta intravista da quanti (laureati più giovani, Alfieri dellavoro, un gruppo di ospiti attuali del Collegio presenti a Bologna)non hanno avuto l’occasione e la fortuna di conoscerlo, di apprezzarnela forza morale e le molte doti umane e intellettuali. Perciòl’Associazione Alumni e Panorama per i giovani hanno voluto chele testimonianze e le parole di quel giorno non andassero disperse ead altri giovani universitari e meno giovani laureati assenti a Bolognafosse possibile “incontrare” o ricordare Giovanni Cavina.


Ricordo del “dottor Cavina”Il direttore della Residenza nella testimonianza dei laureati.Bologna, Palazzo Re Enzo, sabato 6 febbraio 2009Giovanni Cavina è morto il 4 aprile 2009. Aveva compiuto 85anni una settimana prima, il 27 marzo. La signora Bianca, compagnadi un’intera esistenza e di 60 anni di matrimonio, vivedella sua memoria e oggi ha il pensiero rivolto a questa sala: adalcuni presenti e ad altri assenti, che rappresentano per lei il filodi molti tra i ricordi più intensi della maturità.Romagnolo di Faenza, uomo dalla forte personalità, “Gianni”Cavina aveva perciò anche un brutto carattere. Finita laguerra, partecipa attivamente agli anni della rinascita della democraziae del rinnovamento ecclesiale, militando nell’Azionecattolica e nella Democrazia cristiana. In Romagna collaboracon uomini come Benigno Zaccagnini, ma la provincia gli vastretta e nel 1948 approda a Roma, dove prosegue gli studi einizia a lavorare con la presidenza dell’Azione cattolica. Non sisottrae all’attività dei Comitati civici del professor Gedda, ma isuoi riferimenti sono altri: Lazzati, Dossetti; attraverso loro conosceJacques Maritain e persegue la via del Concilio (e comeMaritain, sarà molto più cauto sul post-Concilio).Dopo la riforma agraria del 1950 lascia per qualche anno Roma.Ad Avezzano collabora con il senatore e professore Giuseppe Medici,presidente dell’Ente Fucino del quale diviene presto direttoregenerale. Un romagnolo di carattere tra i cafoni di Silone e la cortedel principe Torlonia, il cui potere solo parzialmente e forse apparentementeera stato ridimensionato? Non poteva durare!Torna a Roma. Gianni Letta – suo fiero avversario ad Avezzano,poi grande amico di una vita – lo presenta a Enrico Pozzani,presidente dei Cavalieri del Lavoro e dell’Ente Palazzodella Civiltà del lavoro, uomo munifico e già sensibile al temadell’orientamento giovanile, al quale propone un Centro perl’informazione e la formazione delle nuove generazioni, per faremergere i talenti, premiare il merito e contribuire alla selezionedelle nuove classi dirigenti, quale che fosse l’origine socialeed economica di ciascuno. La meritocrazia della quale molto siparla, non sempre a proposito, Cavina la intuisce e la applicacon decenni di anticipo, alla sola (ma fondamentale) condizioneche a tutti fossero offerte analoghe opportunità di partenza.Nasce il Centro per l’elevazione sociale, che promuove larivista Panorama per i giovani (prima ciclostilata, poi stampatain bianco e nero, oggi patinata a colori) e gli Incontri deigiovani con il mondo del lavoro. L’acronimo del Centro nongli piace, così lo trasforma in Centro per le attività sociali (el’acronimo gli pare meno inopportuno).Con Furio Cicogna presidente dei Cavalieri del Lavoro,imprenditore dell’industria e della cultura, uomo generoso edi ancor più larghe vedute del predecessore, l’attività del Centrodiretto da Cavina si rafforza e si estende. Grazie al legatodi Pozzani, alla generosità di Antonio Lamaro e all’operositàdegli eredi dell’omonima impresa edile, all’inizio degli AnniSettanta nasce la Residenza Universitaria “Lamaro Pozzani”,che offre soggiorno gratuito e tante opportunità culturali a 70studenti dell’Università di Roma “La Sapienza” (allora unicoateneo pubblico della capitale), con la supervisione del “dottorCavina” e la direzione affidata a un altro. E anche questasoluzione non poteva durare! Due anni dopo, e fino al 1995, nediventa direttore, padre, anche “padrone”.In famiglia fu equanime, generò sei figli, tre maschi e trefemmine. In Residenza solo “figli” maschi. Neppure questopoteva durare! Vent’anni dopo accoglie le prime ragazze: alloggianoperò in una vicina struttura esterna (che i “residenti”avevano già battezzato, per altre ragioni, Gulag), poi conquistanoil primo piano della Residenza. E al direttore 71enne paredavvero giunto il momento di passare il testimone.La salute lo sottopone a molte prove, negli anni dell’attivitàe poi in quelli del riposo; la fede e la signora Bianca lo aiutanoa superarle bene e ad accettarle tutte, come momento preparatoriodella pienezza sulla quale non aveva dubbi e che oggicertamente gode (non essendo consentito ad alcun residente,credente o no, di dubitarne).a.cia.Il primo testimone è Luciano Azzolini, primogenito dellaResidenza, trentino di Ala, laureato in Scienze politiche nel1976, giornalista, moroteo della prima e – purtroppo – dell’ultimaora. Politico onesto e riformatore, nell’XI legislatura èstato il primo deputato tra gli ex-residenti, il primo componentedel governo come sottosegretario al Lavoro e alla Sanitànei governi Ciampi e Amato (esperienza e competenza cheoggi – fresco pensionato – continua a regalare ai suoi colleghigiornalisti come presidente del collegio sindacale della Casagit,l’assistenza sanitaria integrativa da risanare dopo anni disprechi).La seconda testimonianza è di Nunzio Tenore, Alfiere dellavoro, ingegnere meccanico laureato nel 1982, direttore delleTecnologie informatiche per multinazionali americane, francesi,svedesi e dal 2000 professionista indipendente come consulentedi direzione e interim manager; fa il pendolare tra Roma e ilBrasile.Quella di Stefano Semplici non è solo la testimonianzadell’ex residente, dell’Alfiere del Lavoro laureato in Filosofianel 1983, oggi professore ordinario di Etica sociale all’Universitàdi Roma “Tor Vergata”: Stefano è il collaboratore e poi,dal 1995, il successore di Cavina nella Residenza universitaria(dal 2004 Collegio universitario) del quale è tuttora direttorescientifico.L’ultima testimonianza (seguita da alcuni brevissimi ricordi“non programmati”) è di Achille De Nitto, laureato in Giurisprudenzanel 1977, professore associato di Diritto pubblicoall’Università di Lecce, assistente di studio del giudice costituzionalePaolo Grossi e, prima, di altri giudici e presidenti dellaCorte costituzionale.(a.cia)di Luciano AzzoliniUn minuto di silenzio. Si farà vedere e sentire in ciascuno dinoi. In modo diverso. Ma lo farà.Ho conosciuto il dottor Cavina 40 anni fa sul marciapiededella stazione di Foggia. Parlammo per ore in attesa di un trenoin ritardo che non arrivava mai. Sono quegli incontri che ti40 • n. 1, gennaio-aprile 2010


cambiano la vita. Per me è stato così. E mi chiedo ancora checosa avrà trovato di interessante in questo grezzo montanaro.Giovanni Cavina è stato l’autentico fondatore, direi l’anima,della Residenza Universitaria “Lamaro Pozzani”. Certo iCavalieri del Lavoro, alcuni in particolare, hanno messo a disposizionei terreni necessari; altri – penso al presidente Velanie al vicepresidente Bazzocchi – gli hanno garantito il pienoappoggio nel condurre avanti un progetto non sempre condivisoall’interno della stessa Federazione. La sua è stata un’intuizione,un’idea elaborata già negli anni Sessanta, quando avevacominciato i suoi tour regionali per incontrare i giovani dellemedie superiori nel tentativo di creare un “canale”, un “rapporto”tra scuola e mondo del lavoro: convegni che sono stati importantioccasioni di circolazione di idee, di incontro, aperturadi nuovi orizzonti, presa di coscienza del cambiamento in attonella società italiana.Sono gli anni delle guardie rosse di Mao, di Ernesto Guevaradetto “Che”, di Indira Gandhi, della Cecoslovacchia diDubček, degli assassini di Martin Luther King e Robert Kennedy,dell’elezione di Nixon e dell’avvento al potere di Gheddafi.Ma sono anche gli anni in cui esplodono il “fenomeno hippy” eil complesso dei Beatles.Gli effetti del ’68 e dell’invasione di Praga portano, in Italia,alla rottura del blocco costituito attorno al Pci e nasce «ilManifesto»; un anno dopo vengono istituite le regioni a statutoordinario e il parlamento approva lo Statuto dei lavoratori.Berlinguer, all’inizio degli anni Settanta, lancia la teoria delcompromesso storico; il referendum per l’abrogazione dellalegge sul divorzio viene bocciato; a Brescia il 28 maggio 1974otto persone vengono uccise da un’esplosione in Piazza dellaLoggia; la maggiore età viene abbassata a 18 anni.È questo, a grandi linee, il contesto in cui opera GiovanniCavina. Egli, che si era formato nell’Azione cattolica, si trovaa dover dare un indirizzo e una prospettiva politica ai Cavalieridel Lavoro. Intuisce che l’unico modo per dare senso alla Federazioneè quello di entrare a pieno titolo nei processi di cambiamentodel paese e cercare di dare a essi un contributo.Lo fa sposando la causa giovani e tenta di congiungere idue estremi: da una parte i grandi dell’industria, dall’altra ilmondo giovanile. Mondi lontanissimi tra loro, mai forse comea cavallo tra anni Sessanta e Settanta. Avverte che un dialogonuovo, fondato su contenuti e presupposti politici comuni,non serve solo ai Cavalieri del Lavoro e ai giovani studenti cheparteciperanno alla vita della Residenza. In prospettiva, queldialogo può essere un arricchimento per il paese stesso. E nel1971 si aprono le porte della Residenza Universitaria “LamaroPozzani”.Nell’atrio, un po’ tutti spaesati, eravamo in 43. Una residenza,non un collegio. Un luogo di libertà, voleva essere; unincontro tra esperienze e culture diverse, un collegamento tra lediverse regioni e sensibilità d’Italia, un’occasione per metterea disposizione di ciascuno e di tutti intelligenze, entusiasmi,speranze, professionalità, interessi. Senza alcun “pregiudizio”di carattere politico, religioso, culturale o di reddito. Tra noinon c’erano solo i primi della classe, ma anche ragazzi “normali”innamorati del gioco del calcio. Le ragazze inizialmenteerano escluse, per la difficoltà di allestire una struttura abitativaseparata.Il primo anno è stato durissimo. Aleggiava tra noi un dubbio,una domanda che rimaneva senza risposta: i Cavalieri delLavoro non ci possono dare vitto e alloggio gratis senza volerenulla in cambio. Dove sta il trucco? Le discussioni erano quotidianee le assemblee duravano anche fino all’alba. Le rispostenon arrivavano e così, tra scontri e tensioni, il primo direttoredella Residenza, Giovanni Cannata, decise di lasciare. E a quelpunto Cavina, che non voleva affatto saperne di fare anche ildirettore della Residenza, fu obbligato a scendere in trincea e aessere artefice e “garante” del progetto. E così fu. Ogni giornoera lì, a rinnovare e dare senso a quella impresa.Se alcuni Cavalieri del lavoro vedevano nella Residenza lafabbrica dei futuri manager per le loro aziende, Cavina voleva“solamente” formare laureati che sapessero interpretare il nuovoalla luce di criteri economici, competenze, professionalitàinnovative. Se poi potevano trovare sbocco in qualche aziendadei Cavalieri del Lavoro, tanto meglio.Il suo carisma si fondava principalmente sulla inesauribilecapacità di produrre idee, distribuite generosamente in tutti icampi. E sarebbe interessante ripercorrere il suo percorso “politico”,nel senso più ampio del termine, attraverso gli editorialidi Panorama per i giovani: credo che troveremmo spunti e occasionidi riflessione, ancora oggi interessanti. Avviare un lavorodi ricognizione dei semi e delle tracce che egli ha lasciato alsuo passaggio è un compito doveroso soprattutto per chi l’haconosciuto più da vicino. In quegli scritti sicuramente si ritroverannoalcune linee che hanno caratterizzato il suo pensiero ela sua opera:- L’attenzione e l’interesse al nuovo era una qualità iscrittanel suo Dna politico: si è sempre impegnato a cogliere i segnidei tempi che mutano in campo sociale ed economico, sforzandosidi tradurli in precise indicazioni e strategie di lavoro.Aborriva la politica ad horas: quell’appiattimento sul presenteche costituisce oggi la patologia più diffusa della politica. PerCavina governare significava avere la capacità di incidere sugliuomini e sulla realtà; nel senso di guidarla e modificarla, nondi esserne guidati.- Un secondo tratto del suo pensiero era costituito dalla nettadistinzione tra politica ed economia. Separazione che trovavauna giustificazione nella sua convinta adesione al mercatoe al capitalismo. Credeva quindi nel valore etico della concorrenzae del perseguimento dell’efficienza, ma alla condizionetassativa che tali fattori fossero inquadrati in un sistema di regoledefinite dallo Stato. La stabilità e l’efficienza del sistemaerano da lui viste come ragione di giustizia sociale; lo stessorisanamento dei conti gli appariva prima di tutto come un’istanzadi ordine sociale e morale. Il consolidarsi dello stesso Statosociale doveva avvenire nel rispetto di precisi parametri, conun’equa distribuzione dei vantaggi e dei sacrifici nelle situazionidi crisi. Sullo sfondo c’era sempre il grande tema dellaresponsabilità dei singoli: dagli operatori agli imprenditori, daipolitici ai sindacati.- L’altro tratto inconfondibile di Cavina era la laicità. Uncristiano dalla fede robusta, mai esibita. I valori del cattolicesimoinformavano le sue scelte e i suoi comportamenti, siaprivati sia pubblici; nel contempo avvertiva che ciascuno attingealla Sapienza e alla Parola cercando di tradurle in azione,ma senza l’infausta intenzione di coinvolgere ogni volta Diopanorama per i giovani • 41


nelle proprie scelte. La coerenza di questa impostazione, ossiala conciliazione della sua fede religiosa (segnata sicuramentedal Concilio Vaticano II) con il rigore dell’uomo impegnatonell’istituzione, lo ha sempre accompagnato e per tutti noi, credentio no, è sempre stato un costante punto di confronto e diriferimento.Se oggi ci chiediamo il perché del permanere di tanta gratitudinenei confronti di Giovanni Cavina, credo si possa diredi lui quel che vale per tutte le persone che alla loro scomparsalasciano una profonda scia di affetto: uomini e donne che sisono spesi per gli altri più che per se stessi, che hanno seguitouna vocazione di impegno ideale e in un certo senso universale,più che dedicarsi a coltivare e soddisfare appetiti e ambizionipersonali. Persone per le quali “dare” rappresenta il frutto quasispontaneo di risorse innate. Rare erano infatti la qualità e ladelicatezza della sua sensibilità, la disponibilità all’ascolto e alconsiglio, per chiunque si avvicinasse a lui.di Nunzio TenorePellegrino Artusi, primo sistematore scientifico della cucina nazionale,romagnolo di Forlimpopoli ai tempi del Passatore, diceche certi cibi, “per la di loro gravità”, si possono assumere solose si viva in un’aria particolarmente frizzante, quale quella delleRomagne. Riportai questa frase paradossale a Cavina: tuttoimpettito e distogliendo lo sguardo con l’aria con cui era solitoasseverare le certezze storiche, commentò: “Ah, non c’è dubbio!”.In quei momenti in lui sobbolliva la romagnolitas, che eral’acchito della sua personalità, la chiave per entrare in contatto eauspicabilmente in relazione con lui.Una sera che i signori Cavina erano di passaggio a Milano,a metà degli anni ’90, fu organizzata una cena da I Valtellina,un noto ristorante vicino all’aeroporto di Linate, dove servonola carne arrotolata su stecconi a punta, nonostante che da secolisiano state inventate le posate. Cavina parlò di un certo filone diromagnoli che andavano nel mondo e vivevano – come dire? – ilgusto pieno della vita: bere, fumare, giocare d’azzardo per vero eper metafora; giunti alla disfatta finale si tiravano un colpo di pistolae ciao. Non era facile capirli, i romagnoli, soprattutto capireperché la Residenza ne pullulasse e poi, magari, perché il Direttoreproprio con loro andasse meno d’accordo; nell’anno che hotrascorso per lavoro a Forlì ho visto gente barattare un premiodi produzione per una pubblica ammissione di torto da parte dichi a suo tempo non aveva dato loro retta. Non c’era nemmenobisogno che l’Albana o il Pagadebit scaldassero le orecchie, perrimediare una geremiade o un’invettiva di boia.Ognuno ha, con il Direttore, stabilito un proprio tipo di rapporto,tirato una riga di confine che mediamente si collocavapiù in dentro, poco o tanto, di quella dell’istituzione. Personalmenteho sempre avuto una suggezione, direbbe Manzoni,dell’autorità costituita, foss’anche il postino, figuriamoci il Direttore.Al tempo stesso, così come la Residenza era men chemai il luogo dove ero andato per laurearmi gratis, Cavina eramen che meno l’autorità fiscale che la reggeva. Appartengo allaschiatta di quanti ebbero con lui un rapporto personale, fattodi alti e bassi paterno-filiali e, alla base, di un profondissimoaffetto. A 40 anni mi capitò di scrivergli per dirgli che la nottenon dormivo per paura che entrassero i ladri e che quandoandavo dai miei, invece, mi appisolavo rassicurato come unangioletto.Così, quando sentivo il rintocco del coltello sul bicchiere,alla fine della cena, provavo sempre un misto di brivido e diineluttabilità. Il Direttore si alzava, apriva le cateratte sulleresponsabilità di ciascuno in una comunità, specie se abbazialaica, Berkeley del Tuscolano; poi magari, stringi stringi, ilproblema del giorno era smetterla di tirarsi le palline di pane,che si infilavano nelle fughe del pavimento e non si riusciva piùa ramazzarle.Aveva una dote enorme, solo in parte “professionale” e allabase, invece, fortemente umana e se vogliamo morale: era ilriconoscere a colpo, ad nutum, il talento delle persone. Nellelunghe giornate di decisione sulle ammissioni (ho fatto tre selezioni,due da “pretoriano del Direttore” e una già lavoratore),in cui si stava nel suo ufficio da mattina a sera, Clarissa, suastorica segretaria, veniva chiamata ogni tre minuti, per il generaletorcicollo di noi scomodamente seduti: collere biblichecassavano e riabilitavano fortune e destini di poveracci ignari;purghe zdanoviane e perdoni borromaici, e alla fine il redderationem caviniano restituiva i talenti con un’esattezza solo raramentepoi smentita dalla Residenza e dalla vita.Il comarismo di quelle situazioni (eravamo tutti venuti dallaprovincia, alla fin fine) aveva un suo alibi nella realistica eticadell’oggi a me, domani a te: di alcuni che vedo qui presentiricordo bene il profilo; altri qui presenti forse hanno letto ilmio. Erano quelli i momenti in cui Cavina e noi stavamo tuttisullo stesso, goliardico piano. Una risata di cuore ce la siamofatta tutti insieme, quando l’illustre professor Franco Bonacina,uomo di grandissima cultura, per fotografare un candidatodi scarse qualità scrisse: «Bassa tensione, con frequenti blackout».Non era, il malcapitato (che ovviamente non fu preso), untalento di quelli che il Direttore amava.Di questo amore per il talento gli ho sempre portato riconoscenzae ammirazione. Mi accadde di vederlo al “SanCamillo” di Roma, dove nella seconda metà degli anni Settantalo trassero le sue tante vicissitudini di salute. Ricordobenissimo gli occhi preoccupati della signora Bianca. Per la(irrilevante) cronaca, dovevo sciogliere delle riserve relativeal mio ingresso in Via Saredo, cosa della quale egli, pur inquel letto post-operatorio, mi chiese subito. E io le sciolsi positivamente,sentendomi rimproverare: “Potevi aspettare unaltro po’ e non mi trovavi”.E invece ci sono voluti altri 30 anni e più, durante i qualiabbiamo corso la nostra cavallina; generazioni sono passate, altrefacce, altri talenti, altri tempi. Lo spettro dell’ “immediocrimento”,del quale parlava con repulsione e timore, il mutamentodello scenario valoriale, dapprima insinuatosi con il riflusso nelprivato, poi esploso con il culto smaccato della carriera e deldenaro. L’istituzione è andata poi avanti senza di lui, e tuttoraprospera, cosa che ai nostri tempi nessuno avrebbe nemmenoposto nel novero delle possibilità, non dico delle probabilità. Epoiché il talento rifiuta recinti e briglie, in quella sua istituzionesi leggeva e si pensava di tutto. Un piccolo sondaggio internorivelò che, all’inizio degli anni Ottanta, il partito più votato eraDemocrazia Proletaria. Cavina in persona mi consigliò la lettura42 • n. 1, gennaio-aprile 2010


dell’Etica Protestante di Max Weber, uno dei libri meno ortodossie più affascinanti che abbia avuto tra le mani.Anche la nostra età declina, anche il nostro sole – per usurparela famosa espressione di Paolo VI – inesorabilmente tramonta(nessuno si perda in scongiuri, è un noi di maestà). Vorremmoseguitare il discorso pontificale, dicendo che Gianni lorivedremo: ci raffrena la prudenza relativa a tante incertezzeteologiche e alla qualità del nostro operato terreno. Dove chesia, lo abbracciamo con l’affetto con il quale abbracceremmonostro padre.di Stefano SempliciHo riletto l’ultimo editoriale del direttore Cavina su Panoramaper i giovani, che aveva fondato nel 1968. Era un articolosull’orientamento – l’impegno di una vita – e non mi sono dunquemeravigliato di ritrovare, a distanza ormai di molti anni,l’originalità e la freschezza di un modello educativo per moltiversi in anticipo sui tempi e per questo destinato a durare.Come la Residenza Universitaria, diventata grazie a lui il “fioreall’occhiello” dei Cavalieri del Lavoro. Sono tre i fattori dispinta di questo modello, che credo abbiano scavato una tracciapiù profonda e duratura nei tanti giovani che lo hanno incontrato,che con lui si sono confrontati e – perché no – scontrati,imparando proprio in questo modo a volergli bene.Il primo è il tratto metodologico di una pedagogia impressionista,che sfruttava il “colore” della parola o, per meglio dire,dell’esperienza condensata in parola per sollecitare uno sguardoin profondità sulla realtà, la capacità di osservarla da puntidi vista diversi per farne l’orizzonte di un’identità più consapevole,matura, riflessa. Cavina non usava la tavolozza delleemozioni facili per entrare in sintonia con il suo interlocutore,soprattutto quando si trattava dei giovani, ma proponeva uno opiù spunti apparentemente aforistici per aprire una discussionee lasciare che nel tempo lungo di quest’ultima prendessero formaun argomento, la risposta a una domanda sui valori, le coordinatedi un dissenso dal quale ripartire il giorno dopo. Ognivolta con la consapevolezza che entrare nel suo ufficio potevasignificare l’inizio di un corpo a corpo che sarebbe durato ore.“Noi non dobbiamo prepararci a cambiare una volta pertutte – suggerisce la citazione di Louis Armand, riquadrata inquell’editoriale di fine 1995 – ma imparare a trasformarci continuamenteper essere sempre alla pari con la realtà. Le difficoltànon stanno nel saper essere grandi, ma nel saper crescere”.Questo tipo di apprendimento è faticoso e non ha bisogno solodi libri. Richiede la curiosità che diffida della cultura “ciclopica”,tanto imponente quanto limitata, appunto perché cresciuta“con un occhio solo”. Invita a quella irrequietezza moderatadall’intelligenza, che il direttore amava riassumere nella ricercabergsoniana di un supplemento d’anima. Ci impone lo sforzodella convivenza con le differenze, da incanalare verso la convivialitàdella cena in comune e da coltivare nella passione peril viaggio e i viaggi, realtà immediata dell’incontro con l’altro emetafora di un sapere aperto, consapevole di sé e senza paura.Non c’è dubbio – in secondo luogo – che Giovanni Cavinasia stato un militante dell’eccellenza e del merito, già in tempiin cui questa scelta era tutt’altro che il refrain della retoricapubblica e fastidiosamente ipocrita alla quale ci siamo poiabituati. L’uguaglianza delle opportunità è sempre stata per luiun dovere morale, prima ancora che politico. Chi ha avuto lafortuna di condividere con il Direttore l’esperienza delle provedi selezione delle matricole della Residenza sa che cosa questo,concretamente, implicasse. Ha imparato, ne sono convinto, cheun investimento disinteressato sui talenti è possibile. Ha sperimentatoproprio in questo investimento la frontiera decisivadella responsabilità sociale dell’impresa, con la fortuna di poterlofare al livello più alto, quello dei Cavalieri del Lavoro.Si tratta però di accettare, con la sfida del merito, il coraggiodella selezione, che non è un cuneo per allargare le faglie delladisuguaglianza, ma uno strumento indispensabile per la costruzionedel bene comune. “L’educazione e con essa l’istruzione– scriveva Cavina – fa emergere, coltiva, organizza, esalta erende più efficienti le doti di cui un uomo è corredato, ma nonè in grado di crearne e non può inventarne”. La preparazionedi una classe dirigente pronta “a operare con lucida consapevolezzadei problemi e delle migliori soluzioni”, così come lapensava Ortega y Gasset, ha davvero bisogno della serenità edella severità di questo discernimento, che è in realtà una formadi profondo rispetto per la dignità di tutti e di ciascuno.Mi è capitato, qualche anno fa, di approfondire insieme aglistudenti della Residenza, nel frattempo divenuta Collegio, lafigura di Adriano Olivetti. Ci siamo fermati su un passaggio diun suo celebre discorso ai lavoratori di Ivrea, nel quale sottolineavaquel che oggi appare scontato, e cioè la scelta di nonchiedere mai a nessuno in quale religione credesse, in qualepartito militasse o da quale regione d’Italia egli e la sua famigliaprovenissero. Chi è stato studente di Cavina sa come fosseimpossibile evitare di discutere con lui di religione e di politica,e quanto profonde egli sentisse le sue radici nella “piccolapatria” romagnola. Ciò accadeva però, ancora una volta, per laconsapevolezza che la vera qualità dell’intelligenza si costruiscenel meticciato virtuoso, perché inclusivo, delle differenze.Mettendo in conto che può capitare, talvolta, che le differenzesi urtino e si produca qualche scintilla. Anche questo aiuta acrescere. Così come aiuta – e molto – la curiosità che piantal’eccellenza nel corso di studi scelto da ciascuno, nel terreno diuna conoscenza almeno di primo livello di quel che accade neicampi vicini. Fa piacere poter evidenziare come l’interdisciplinaritàsia diventata in questi decenni il percorso quasi obbligatodei collegi che cercano, in Italia, gli studenti più bravi.In questa riflessione di Cavina sull’orientamento colpiscemolto, infine, l’insistenza sul rispetto per le attitudini e le aspirazionidei giovani che devono prendere una decisione così importantecome quella della facoltà nella quale proseguire i lorostudi. C’è la saggezza di una lunga esperienza, nell’osservazioneche scegliere “solo nella presunzione di procurarsi maggioriopportunità di lavoro” può essere molto rischioso: la fatica,l’insoddisfazione, l’incapacità di adattarsi ad alcune materiegenerano facilmente fallimenti universitari e delusioni esistenziali.Ma c’è, soprattutto, la matrice “umanistica” della circolaritàinscindibile di cultura e libertà, della certezza che solo “inlibertà” si può davvero fare cultura. Ciò vale in particolare nellesocietà tecnologicamente più avanzate e opulente, nelle qualila rapidità del cambiamento e lo sviluppo imprevedibile dellepanorama per i giovani • 43


eti della complessità premiano e non possono che premiare lacompetenza, ma solo se adeguatamente supportata da creatività,intuizione, attitudine a intercettare e governare il nuovo.La Residenza è sempre stata, in questo senso, una scuoladi libertà. Lo è stata perché ha ospitato e continua a ospitarestudenti di tutte le facoltà e di tutti i corsi di laurea. Lo è stataperché fin dall’inizio ha considerato artificiosa e fuorviantela polarizzazione del sapere scientifico e di quello umanistico,valorizzando i nodi cruciali della loro necessaria integrazionee quelle che oggi chiamiamo soft skills. Ma lo è stata – anchee soprattutto – perché ha inteso il rapporto privilegiato con ilmondo del lavoro e con l’impresa come un’opportunità, educandoappunto alla libertà e a un futuro professionale e civile dilibertà. I nostri laureati hanno avuto tutti la possibilità di cercarela loro strada, di provare a essere quel che volevano essere.E sono oggi nelle aziende, nelle professioni, nella pubblica amministrazione,nell’università e nella ricerca, forti di uno stile edi un’amicizia che attraversano ormai molte generazioni.Per il Direttore Cavina, il sapere era sempre sapere dell’uomoe dell’uomo tutto intero. Per questo concludeva che “lacomplessità delle società moderne si affronta soltanto con unagrande flessibilità, legata a una formazione culturale spinta aimassimi livelli, con una notevole dose di fantasia e creativitàche preservi dallo scoraggiamento e dallo smarrimento di fronteal nuovo che incombe, e con una grande fede nell’uomo che, seancorato a valori forti, resta sempre e comunque il protagonistaindiscusso di ogni progresso tecnologico e sociale”. È la lezionefondamentale che abbiamo imparato nella “sua” Residenza.di Achille De NittoPotevi capire abbastanza in fretta, volendo anche sùbito, che lapreparazione scolastica, pur apprezzata e considerata come sideve, non ti sarebbe, nel colloquio, servita a gran che: non tiavrebbe messo al riparo, se non occasionalmente, dalla benevolainsidia delle Sue provocazioni, di quei Suoi improvvisi rilanci.Che ti avrebbero via via stanato, e poi inseguito, e poi incalzato:sguardi, gesti, movimenti del capo. Silenzi, non solo parole.Osservazioni, non già rilievi. Talvolta solo accennati rimbrotti,vaghi borbottii. Evidenti impazienze, evidenti accoglienze.D’accordo, siete bravi; ma, adesso, abbiate pazienza, ditemiun po’. Non parliamo solo di cose, parliamo di qualità delle cose.Non solo di contenuti, ma di modi di rappresentarli e di valutarli.Di dati, ma di possibilità. Di nessi, di riflessi, di rimbalzi, di echi,rifrazioni, rilevanze. Le cose si toccano, si interessano, si implicanoanche reciprocamente: non stanno chiuse nei recinti. Delleclassificazioni. Degli schemi. Delle discipline. E le culture nonfanno che aprire solchi nell’esperienza, nell’intelligenza. Varchi,ponti, frontiere. Ci sembra che tutto, nella conoscenza, sia semprepiù grande di noi e che tutto, però, non si sa come, ci riguardi piùo meno direttamente. Se studiate a fondo geografia, vi sembrerà,infine, di occuparvi di storia. E così pure se studiate economia.O letteratura. O fisica o ingegneria. Come se i saperi tecnici, glispecialismi, non fossero altro che strumenti specifici per mettersiin contatto, sotto specifici profili, con questa modesta immensitàche chiamiamo esperienza, uomini e donne di innumerevoli spazie tempi. Questa – l’esperienza – non perdetela di vista: nellamolteplicità dei bisogni, degli interessi, dei modi per soddisfarli.Nel loro sovrapporsi, nel loro indeterminato intersecarsi.E tu, a diciannove anni, che ne potevi sapere, pur credendodi sapere, con tutti quei voti eccellenti e quei magnifici pedigree?O anche a ventidue, ben dopo il severo, inerte collaudodei tuoi illustri, solenni professori? Spiazzato, come senza mezzinel mezzo di un’arena: paesaggi essenziali, esposti, desolatimai. Ma riconosciuto: con la tua cadenza di provincia, il rumoredella tua lontana sconosciuta provenienza, esportato, taloragoffamente, come fosse cosa di tutti, o nota a tutti; poi, talvolta,re-importato come cosa propria, o di cui modestamente riappropriarsi.O poi con le tue esposte fragilità, anche se ostentatecome splendide sicurezze. Diciamolo sottovoce: potevamo, indefinitiva, scoprire cosa significa dignità.Cavina ti lasciava parlare, per un po’. Poche domande.Ascoltava, partecipe comunque. Aspettava, se poteva. Se no, no.Ti scrutava, senza troppa discrezione, i Suoi occhi luminosi eattenti. Guardingo, non sospettoso. Curioso. Intuiva, ma volevasapere. Ti sceglieva, senza troppi infingimenti. O non ti sceglieva,senza infingimenti lo stesso. Rischiava, secondo il Suo fiuto.Decidere, aveva magari già deciso. Poteva sbagliare, ma non peraver evitato di prender posizione. Sentivi che aveva colto i tuoitempi, i tuoi modi, le tue sintassi, quelle che non conoscevi. Potevaperfino rispettarli. Magari controvoglia, ma disposto a farlo,sapendo farlo. Non importava che fossi uno come lui, uno delleSue parti, che parlassi la Sua lingua. E men che meno che fossid’accordo con Lui: non te l’avrebbe chiesto e, naturalmente,non ci avrebbe creduto. I discorsi non erano alla pari, nessuno ciavrebbe pensato. Ma ciascuno avrebbe potuto farli a modo suo,diciamo liberamente. La democrazia non c’entra niente: è un algoritmo,non una formula. Le cose hanno un costo, com’è ovvio,anche lì. E neppure l’eguaglianza: sembra sottile - potremmo approfondire- ma diciamo che ci teniamo le nostre differenze, senza,con ciò, discriminare nessuno. Tu sei tu; nel mio piccolo, ioio. Parla pure la lingua che vuoi: l’importante che dica qualcosa,però. E abbia voglia di farti capire. E magari tu volessi stupire.E metterti alla prova. Pensaci, ma bùttati. E, soprattutto, fìdati.Lascia perdere l’ovvietà: di un qualsiasi conformismo. Andiamoin cerca di quelli che sanno guardare lontano, un po’ più lontano:ma non ci basta, per questo, che portino l’eskimo o poi il piercingo, invece, le intramontabili regimental. Occhio, ragazzi: mentretenete lo sguardo all’orizzonte, sappiate dove mettere i piedi. Eattenti, però, a non sbattere davanti, il capo troppo chino.Nonostante qualche apparenza, non era l’elogio dell’eroeo del condottiero a tutti i costi. E neppure, com’è ovvio, l’innoa sorella mansuetudine o a madonna povertà. Fuori dal mitodel combattimento o dall’ideale irenico, si sentivano risonanze,più che di scàlpiti o di ruggiti, o di volti ispirati alla purezza, diattendibili personali custodite “verità”. Prezzi pagati. Sacrifici.Conquiste. Rinunce. Ansie. Aspettative. Speranze. Accolte,accudite, coltivate, qualche volta come perle. Le lotte si combattonoanche senza sfoggi o senza clamori, i segni, se mai, teli ritrovi sulla pelle: non trattandosi di rose e fiori, può capitareche ti faccia male veramente. Non è detto che se ne accorganoe che ti preparino le ricompense. Anche se, alla fine, in qualchemodo, chissà come, meriti o no, è probabile ti arrivino lo stesso.E se no, fa lo stesso.44 • n. 1, gennaio-aprile 2010


Potremmo dire, se non sembrasse eccessivo, nonostantela minuscola, etica del lavoro. Dura. Selettiva. Abituata achiamare le cose con il proprio nome. E però spontaneamentefiduciosa. Aperta. Feconda. Le cose, con la fatica, possonocambiare. Come si dischiudessero incessantemente. Come simoltiplicassero. Ci interessano certo i risultati, i prodotti finiti,ma soprattutto le attività, i processi del produrre: gli interi svolgimenti,gli itinerari, non solo i singoli segmenti, o gli approdi.Vorremmo occuparci del vivere, non solo del fare.Nell’abbazia laica si sarebbe voluto - così sembrava - checiascuno riuscisse a trovare, come per caso, un posto suo. Dipassaggio: pellegrini, non sprovveduti viandanti. Ma liberi,senza guinzaglio. La mèta non era quella, si sapeva e si speravache ciascuno ne trovasse una per conto suo. Ti si offrivanosolo energie perché tu non la smarrissi. O non la sacrificassi,sull’onda dell’equivoco o di calcoli fasulli. Una scuola di rigore,che sviluppasse la fantasia. Di silenzio, che consentisse diimparare a parlare. Di confronto, che valorizzasse la solitudine.Molte informazioni, che generassero capacità di comunicare.Molte occasioni, quelle giuste trovatele voi.Non si facevano discorsi astratti o addottrinati sulla scuola. Nésperimentazioni didattiche, strampalate empirìe. Si cercava, percome si può, di fare scuola veramente: luogo dove si esprimonoil piacere e la tranquillità del prendersi il proprio tempo. Di occuparlo.Di coltivarlo. Di farlo fruttare. Guardate che finisce, maun po’ ce n’è. Luogo dove si apprende, ma dove, possibilmente,si comprende. Dove il circuito comunicativo è continuo, non siinterrompe: alunni e maestri si implicano, e si giustificano, soloreciprocamente. Dove acquisire regole, ma percepire stili, atteggiamenti,timbri. Sviluppare sensibilità. Dove si capisca, non soloa tavolino, che occorre imparare ad accelerare, ma anche rallentare.Possibilmente a trovare il ritmo. Affrettandosi lentamente.Certo, il “potere”, i suoi volti innumerevoli, le sue formecangianti. Le sue logiche, le sue regole, i suoi meccanismi. Lesue rigidità, diciamo i suoi gusti. Scarse propensioni a far complimenti.O sconti. A non aver dei ritorni. Scarse attitudini adesaltare le complessità. Lo sappiamo – sarà consentito –, uominidi questo mondo. Possiamo, volendo, più o meno falsamente,anche dolercene. O, se volete, più o meno falsamente, ancherallegrarcene. Più o meno: in fondo, è esattamente lo stesso.Ricompare, da lontano, come l’immagine, logora per niente,di un uomo che probabilmente non ha affatto disdegnato. QuelSuo sorriso ammiccante, intelligente, la Sua indomabile immediatezza:signori, Eminenze, Eccellenze, non finirà mica tutto lì.di Tommaso BuffonDel dottor Cavina conservo tre immagini, del tutto personali.La prima è del settembre 1983, durante il concorso di ammissioneal collegio, quando il direttore mi comunicò il giudiziodello psicologo. Ricordo il suo compiacimento per l’esito positivo,ma anche la sua arguzia e incisività nel riferirmi luci eombre di quel ritratto interiore, con il suo stile franco e diretto,ma sempre discreto; ricordo il mio disappunto, l’assenza di argomenti,ma anche la sua affettuosa saggezza nell’esortarmi avedere.Il secondo ricordo è dell’ottobre 1984. Gli chiesi aiuto perpoter conoscere un cardiochirurgo, il più bravo di Houston,che di lì a poco avrebbe operato mio padre. Ero angosciato.Il dottor Cavina - che nei giorni a seguire mi fu vicino, coninformazioni e autorevoli rassicurazioni - a caldo replicò allamia richiesta: «Ma figliolo, chi credi che io sia?», quasi a volerridimensionare la mia immagine del direttore “che tutto può”.Il dottor Cavina - padre di tre figli e tre figlie, il quale raccontavaanche sue disillusioni, con affetto e intensità che talora potevanolasciare disorientati - anche in questa seconda occasioneaveva colto nel segno.La terza immagine è dell’estate 1998 (o forse 1999), a bendieci anni di distanza dalla mia frequentazione del Collegio: unincontro del tutto casuale con il dottor Cavina e la signora Biancaal lago di Nemi, sui colli dei Castelli Romani. Lì abitavo conla famiglia. Era una mattina assolata.Ricordo la mia impressione nel vederlo molto dimagrito,il golfino sulle scapole, le gambe sottili, il bastone d’appoggio.L’apprensione della signora Bianca nel cautelare il marito.Lì, alla piazzetta del borgo per gustare le fragoline di bosco, ildottor Cavina al vedermi esclamò «Tommaso!», con due occhipuntuti e brillanti come due “capocchie di spillo”. Ricordo lasua gioia intensa, il sorriso che si allargava sulle gote scavate,come un abbraccio oltre ogni timore.di Antonio SacchettaSono entrato in Collegio nell’anno dell’inaugurazione, il 1971,attratto dalla personalità di un uomo che sarebbe stato poi, neglianni, per me un vero Maestro, con la emme maiuscola. Grazie alui, gli anni con gli amici della Residenza - permettetemi di chiamarlaancora così, mi è più facile - sono stati una scuola di vita.Ho conosciuto il dottor Cavina partecipando agli incontri cheorganizzava, come direttore del Centro per le attività sociali dellaFederazione, con i giovani del penultimo anno della scuola mediasuperiore. Incontri che poi avremmo contribuito a continuare- ed era un’occasione per stargli particolarmente vicini per unasettimana - durante gli anni trascorsi alla “Lamaro Pozzani”. Ilprogetto formativo che con forza lanciava mi ha sempre affascinato:buoni specialisti, ma ottimi uomini a tutto tondo.Col tempo il rapporto con Cavina è diventato di amicizia,pur rimanendo lui sempre “il Direttore” ed io lo studente, direiil discepolo; così come la frequentazione della sua numerosafamiglia, l’affetto della signora Bianca, sono diventati per me eper la mia ragazza, ora mia moglie da 32 anni, un modello.Sono medico, e nelle sue vicissitudini di salute mi ha onoratodi volermi al suo fianco, in quelle situazioni critiche dellavita ove, credetemi, e lo dico con la consapevolezza di chi vivenelle corsie di ospedali da più di trent’anni, viene fuori lo spessoredella persona, con i tormenti e le preoccupazioni che ci afferrano,ma la voglia di vivere e di vincere che tanto ci aiutanoa superare l’impasse del momento.Grazie Cavina per le gioie e le preoccupazioni che abbiamocondiviso, per l’entusiasmo con cui mi hai trascinato, per la tuaumanità con cui mi hai coinvolto: un dono che porterò sempre,prezioso, nel profondo di me stesso.panorama per i giovani • 45


Dal CollegioFoto: iSelene FavuzziRacconti dalla portafra Oriente e OccidenteImpressioni e ricordi dal viaggio in Turchia del Collegio <strong>Universitario</strong>“Lamaro Pozzani”. Sapori e colori che recano con sé la voglia di nonpartire così presto, per dar risposta a interrogativi ancora non sopitinella mente.di Selene FavuzziOgni luogo di passaggio è quasi perdefinizione terra di scambio e unione,fusione e scontro: la “Porta fra Orientee Occidente” non poteva che contenereprofonde ambiguità nel sottile spazio frai suoi cardini, che hanno visto passare secolidi storia.Tentare di ricostruire un’immagineunitaria del paese che abbiamo visitatosarebbe come cercare di fermare fra ledita l’acqua che scorre: così inafferrabileè l’essenza d’un popolo come quello turcoe della regione da esso abitata. Si può solotentare di trattenere nella memoria quan-ti più frammenti si riesce: volti e aspettiche spesso creano contrasti fra loro, perricostruire un quadro che sia il più fedelepossibile. E questo quadro somiglia moltoa un’opera impressionista: tanto piùs’avvicina alla realtà, quanto più la dividee scompone in minuscole pennellate dalcolore diverso, spesso contrastante: ognipittore sa che i chiari risaltano grazie agliscuri, e il semplice nero su bianco già diper sé crea la tela più famosa del Fontana.Il nostro itinerario parte dalla Cittàdella Scienza dell’Università di Hacettepe,ad Ankara. Nelle aule luminose manon troppo affollate che scorgiamo percorrendoi suoi corridoi e parlando conprofessori e rappresentanti degli studenti,sembra di respirare la profonda sete dimodernità e tecnologie dei giovani turchi:è la forte spinta propulsiva d’un paesecarico d’energie, che cerca canali semprenuovi attraverso cui esprimersi.La visita al Mausoleo di Ataturk (cheper certi versi ricorda l’Hotel des Invalidesa Parigi con la tomba di Napoleone),ci svela molte cose sulla Turchia odierna esulle profonde contraddizioni che vigonoancora oggi fra le sue strade. È difficilenon restare impressionati infatti dalla percezionedella svolta improvvisa del paeseverso la laicità e la modernità, pur con uncarico di retaggi millenari impossibili dacancellare da un giorno all’altro.Poi la Cappadocia e i suoi “Caminidelle Fate” (formazioni geologiche di tufod’origine vulcanica) erosi dal vento paionodavvero aver gettato un incantesimo sumolti di noi.Una giornata stupenda e gli alberid’una primavera in fiore ci accolgonoall’uscita delle moltissime chiese rupestrie paleocristiane scavate in questa roccia46 • n. 1, gennaio-aprile 2010


Dal Collegiomorbida, che per secoli hanno ospitatoraccoglimenti e preghiere in un luogo giàdi per sé mistico e solitario. La città sotterraneae i suoi corridoi così stretti e bassi,il castello di Uchisar, la città incantevoledi Göreme e le valli puntellate di camini aperdita d’occhio sono uno spettacolo difficileda dimenticare. Il turismo si riversa suquesti luoghi come l’onda di piena, eppuresi riesce ancora a cogliere molto bene ilsapore rurale, autentico del posto.Di passaggio per Konya visitiamo ilMausoleo di Mevlana, il fondatore dellasetta dei famosi Dervisci Rotanti. Per moltedi noi ragazze è la prima volta che cicopriamo il capo con un velo nell’entrarein un luogo di culto; eppure vedendo le fedeliche fanno le consuete abluzioni primadi entrare, camminano per strada, fumano,sentono la musica, o aspettano l’autobus,A sinistra: mosaico di Cristo Pantocratenella Basilica di Chora. In alto (dalla paginaprecedente): la suprema Moschea Bluammirata dal Ponte di Galata; venditricenel Bazaar delle Spezie; veduta di Istanbulattraverso il Corno d’Oro.il tutto sempre col velo indosso, il gesto cisembra almeno un po’ più naturale.La strada prosegue per la cosiddettaCascata di Neve di Pamukkale e per i restidi Hierapolis, la fiorente città termaleromana “costruita” sulle sue acque.Il sole cessa per un pomeriggio di seguirei nostri autobus mentre attraversano lestrade della Turchia e ci abbandona proprioa Efeso; ma la bellezza del luogo e le suggestioniche rievoca forse bastano a compensarela pioggia che scivola lungo i marmibianchi e le tele colorate dei nostri ombrelli.Un’altra tappa è la piccola Casa di Maria:secondo i Vangeli l’ultima dimora della Vergine,dove abitò vegliata da San Giovanni.Ci colpisce molto la presenza di vari militariarmati a presidiare il luogo sacro, oltrealla semplicità estrema delle piccole muracostruite sui resti dell’antica casa. Silenzio enebbia; una candela accesa… si riparte.Le maestose rovine di Pergamo ci accolgonocon un vento impetuoso e la vistadel mare lontano. Il sole e le magnifichecolonne e rovine in piedi da secoli gareggianoin splendore col teatro più ripidodell’antichità, la cui scena mobile si affacciasul vuoto d’un dirupo.Dopo una visita alle presunte rovinedella città di Troia, che rievocano epichememorie, attraversiamo lo Stretto deiDardanelli in aliscafo e il sole rosso affoganel mare, mentre ci avviciniamo semprepiù all’Europa; e già s’inizia a sentiresapore di ritorno.Istanbul. Città divisa, come il paese, inparte Occidentale e Orientale. Il Corno d’Oroche riluce al sole; l’inaspettata bellezza dellaBasilica di Chora; i meravigliosi mosaici delCristo Pantocrate e della Madonna in AyaSofia, così pieni di sentimento e tanto perfettida sembrare affreschi per la resa del pathos;i motivi floreali e decorativi nella MoscheaBlu; le ceramiche e le sale riccamente decoratedel Palazzo Topkapi sono solo alcunedelle meraviglie che ci affascinano.Il tempo vola senza accorgersene.Quando si fa buio le strade vicino a İstiklalCaddesi (via dell’Indipendenza), s’animanodi musica proveniente da ogni angoloe molti giovani vivono questa serale atmosferafrizzante. L’aroma del tabaccoalla menta esce dai locali dove si fuma ilnarghilè e quello della carne d’un kebabs’unisce ai profumi dei negozi che vendonodolciumi; come le piccole baklava,dolci di pasta sfoglia al pistacchio, o le“delizie turche”. I negozi aperti sino a tardie le luminarie natalizie a marzo, aggiungonoil tocco finale che suscita il sorriso,in un’atmosfera per certi versi surreale.Eppure è difficile trovare luogo in tuttala città, che sia più surreale della sotterraneaCisterna Basilica del VI secolo,con le sue colonne alte oltre 9 metri, l’illuminazionefioca e i pesci che nuotanonell’acqua bassa.L’incontro col Console italiano aIstanbul è uno dei momenti di dialogo piùinteressanti del viaggio: si parla di econo-panorama per i giovani • 47


Dal CollegioincontriTutti gli incontri del Collegio <strong>Universitario</strong>“Lamaro Pozzani” di questo periodo. Permaggiori informazioni:www.collegiocavalieri.itSopra: Camini delle Fate nella città diGöreme. Sotto: rovine dell’antica Pergamo.mia, sviluppo e prospettive nuove da trovareper il dialogo fra i nostri paesi; dellastoria del loro rapporto, a partire dallaprima ambasciata veneziana. Attraverso ilegami intessuti nel tempo infatti, si possonocostruire nuove impalcature su cuibasare quelli futuri.Abbiamo anche la possibilità di parlarecon il Vicario Apostolico della città,che ci racconta delle difficoltà e delle piccolevittorie quotidiane del Cristianesimo,visto come una religione di minoranza. Dicome a volte debba rimanere più “nascosto”,della bella solidarietà fra cristianicattolici, armeni, stranieri; della faticaperfino ad avere una lingua comune percelebrare la messa.Prima di salutare la Turchia vorremmoperderci nel Gran Bazar, o in quello delleSpezie; non per comprare, ma soprattuttoper riempire gli occhi e le narici di profumie colori forti, brillanti e carichi d’unsapere e d’una cultura così differenti dainostri, legati a qualcos’altro, d’ancora piùlontano, a Est, ma che qui ad Istanbul forsepercepiamo come più familiare. Forseper i secoli d’avvicinamento che sono trascorsifra i nostri paesi; o per l’odore delMare Nostrum che ne bagna le sponde,sebbene unito ai cristalli d’altri tre maridiversi.14.01.10. Aldo Moro.Miguel Gotor, storico e ricercatorepresso l’Università di Torino, haripercorso i momenti più importanti dellavita di Aldo Moro e del suo rapimento.18.01.10. Il pensiero di Adriano Olivetti.L’avv. Sergio Ristuccia, presidente delConsiglio Italiano per le Scienze Sociali,ha ricordato i punti salienti del pensiero diAdriano Olivetti.21.01.10. Nuove regole per la finanza.Il prof. Stefano Micossi, insieme al prof.Gian Luigi Tosato e ai nostri studenti,ha analizzato le cause dell’attuale crisieconomica.25.01.10. Incontro con Giuseppe MarzanoIl prof. Giuseppe Marzano, laureatodel Collegio, ha illustrato la situazioneeconomica dell’America Latina, una terrache presenta profonde discrepanze.01.02.10. Il Progetto Dream.Il dott. Stefano Orlando ha presentato ilprogetto DREAM, un programma dellaComunità di Sant’Egidio per la prevenzionee la cura dell’Aids nell’Africa sub-sahariana.11.02.10. I problemi dell’energia.L’avv. Leonardo Bellodi, accompagnatodal prof. Gian Luigi Tosato, ha illustrato leproblematiche geo-politiche relative all’energia.15.02.10. Incontro con Nicola Zingaretti.Nicola Zingaretti, Presidente dellaProvincia di Roma, ha presentato i puntiprincipali del suo programma politico.16.02.10. Incontro con Raffaele Calabrò.Il senatore Raffaele Calabrò ha illustrato i principiispiratori, le motivazioni e gli intenti del ddl sulleDichiarazioni Anticipate di Trattamento.04.04.10. Il disarmo nucleare.Filippo Formica, Ministro plenipotenziarioe laureato del Collegio, ha discusso con inostri studenti sulle possibilità del disarmo.22.03.10. Un’alternativa alla laicità.Luca Diotallevi, professore di Sociologia, haaffrontato il tema “Un’alternativa alla laicità”,prendendo spunto dal suo omonimo libro.08.04.10. Incontro con Alberto PigliaOspite del Collegio Alberto Piglia, globalmarketing planner di Nokia.15.04.10. Incontro con Giovanni Maria FlickMagistrato, avvocato, docente universitario,ministro di Grazia e Giustizia e infinepresidente della Corte Costituzionale: unincontro con Giovanni Maria Flick.48 • n. 1, gennaio-aprile 2010


www.cavalieridellavoro.itNotizie e informazioni aggiornate settimanalmenteI CavalieriUn archivio con l’elenco di tutti i Cavalieri del Lavoronominati dal 1901 a oggi e più di 550 schede biografichecostantemente aggiornateLa FederazioneChe cos’è la Federazione Nazionale dei Cavalieri delLavoro, la composizione degli organi, lo statuto e leschede di tutti i presidentiI GruppiLe pagine dei Gruppi regionali, con news, eventi e tuttele informazioni più richiesteLe attivitàGli obiettivi della Federazione, la tutela dell’ordine, ipremi per gli studenti e i convegniIl CollegioIl Collegio <strong>Universitario</strong> “Lamaro-Pozzani” di Roma e inostri studenti di eccellenzaLe pubblicazioniI volumi e le collane pubblicati dalla Federazione, larivista “Panorama per i Giovani” e tutti gli indici di“Civiltà del Lavoro”L’onorificenzaLa nascita e l’evoluzione dell’Ordine al Merito del Lavoro,le leggi e le procedure di selezioneLa StoriaTutte le informazioni su più di cento anni di storia...e inoltre news e gallerie fotografiche sulla vita dellaFederazione.


È QUANDO TI SENTI PICCOLO CHE SAI DI ESSERE DIVENTATO GRANDE.A volte gli uomini riescono a creare qualcosa più grande di loro. Qualcosa che prima non c’era. È questo che noi intendiamo per innovazioneed è in questo che noi crediamo.Una visione che ci ha fatto investire nel cambiamento tecnologico sempre e solo con l’obiettivo di migliorare il valore di ogni nostra singolaproduzione.È questo pensiero che ci ha fatto acquistare per primi in Italia impianti come la rotativa Heidelberg M600 B24. O che oggi, per primi in Europa,ci ha fatto introdurre 2 rotative da 32 pagine Roto-Offset Komori, 64 pagine-versione duplex, così da poter soddisfare ancora più puntualmenteogni necessità di stampa di bassa, media e alta tiratura.Se crediamo nell’importanza dell’innovazione, infatti, è perché pensiamo che non ci siano piccole cose di poca importanza.L’etichetta di una lattina di pomodori pelati, quella di un cibo per gatti o quella di un’acqua minerale, un catalogo o un quotidiano, un magazineo un volantone con le offerte della settimana del supermercato, tutto va pensato in grande.È come conseguenza di questa visione che i nostri prodotti sono arrivati in 10 paesi nel mondo, che il livello di fidelizzazione dei nostri clientiè al 90% o che il nostro fatturato si è triplicato.Perché la grandezza è qualcosa che si crea guardando verso l’alto. Mai dall’alto in basso.

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