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numero 2/2012 - Collegio Universitario Lamaro Pozzani

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EditorialeL’esigenzadi un poterecompetentenon va confusa conl’illusionedi una competenzaneutrale.La “tecnocrazia” è definita da Domenico Fisichella – nellavoce a essa dedicata nel Dizionario di politica curatoda Bobbio, Matteucci e Pasquino – una tra le nozioni“più ambigue dell’intero corpo concettuale delle scienzesociali moderne”. Un giudizio che dipende in primo luogodalla difficoltà di identificare gli attori, gli “esperti” ai quali cisi riferisce, ma anche dall’incertezza sull’ampiezza storica delfenomeno, dalla diversa interpretazione dell’essenza stessa dellatecnocrazia – oscillante fra la semplice capacità di influenzarein modo decisivo le dinamiche del potere e l’emancipazione diquest’ultimo dalla sua tradizionale natura “politica” – e, infine,dalla mancata chiarezza sull’inquadramento sociale dei tecnocrati,visti da alcuni come una categoria professionale caratterizzataal suo interno da valori e obiettivi diversi e da altri comeuna vera e propria “classe sociale”, orientata al conseguimentodi obiettivi omogenei.Ognuno di questi elementi meriterebbe naturalmente un approfondimento,a partire dalla consapevolezza che prima del problemadei “tecnici al potere” c’è sempre quello dei tecnici (degliscienziati) di fronte al potere. Il sovrano e i sovrani, fin dalle cortirinascimentali con il loro mecenatismo interessatoa vantaggio degli ingegneri oltre che degliartisti, hanno riconosciuto nell’utilità del saperee delle sue applicazioni l’instrumentum regniche avrebbe deciso i conflitti dell’epoca moderna.C’è probabilmente un po’ di esagerazione,ma senz’altro molto realismo nell’affermazioneche si poteva leggere nel 1968 in un volumettosull’università e il suo destino: nel mondo medioevaleera il Papa a decidere se una teoria eravera o falsa; in quello industriale decide il Pentagono.Anche non volendo esasperare il rilievo della constatazioneche molte delle scoperte che hanno avuto il maggiore impatto sullavita quotidiana sono venute dalla ricerca a scopi militari, è vero cheil rapporto fra la politica e la “tecnoscienza”, che si è affermata insiemeai mercati come il vero vettore della globalizzazione e dellesue asimmetrie, rimane complesso e solleva molti interrogativi: chidecide quale sapere e quali competenze meritano di essere promossie dunque finanziati? In che modo le nuove tecnologie, a partireda quelle dell’informazione e della comunicazione, ridefinisconoi meccanismi di formazione e gestione del consenso? E ancora:questo sviluppo contribuisce alla ridistribuzione o a una ulterioreconcentrazione del potere reale? Qual è lo spazio concreto dell’autonomiadegli individui in un mondo che si regge su reti di competenzee comunità di agenti sostanzialmente sottratti – si pensi soloalle caratteristiche e alle patologie della finanza internazionale – aogni tradizionale controllo “democratico”?Robert Dahl, lo studioso al quale dobbiamo pagine fra le piùchiare e incisive sulla tecnocrazia, riassume il comun denominatoredelle sue molte versioni nella tesi che la conoscenza delbene pubblico e dei mezzi per conseguirlo ha caratteristiche dioggettività “scientifica” e che questa conoscenza, a causa dellasua complessità, può essere acquisita solo da una minoranza diadulti piuttosto ristretta. Questa minoranza, alla quale attingonoi cosiddetti “governi dei tecnici”, diventa una risorsa allaquale ricorrere per alzare un argine al conflitto degli interessiparticolari, se non il migliore dei governi tout court. Quelladi garantire un potere “competente” è certamente un’esigenzadecisiva per il futuro delle nostre democrazie, di fronte all’avanzare,per dirla con Lippmann, di coloro che sanno “sedurre,mistificare, o comunque manovrare”, con la conseguenza chela considerazione decisiva “non è se una proposta sia buona,ma se sia popolare”. Essa non va tuttavia confusa con l’illusionedi una competenza neutrale e per questo capace di risolverei problemi in nome e a vantaggio di tutti, specialmente quandone va degli obiettivi per i quali le democrazie sono nate, a partiredalla costruzione di un sistema di diritti civili e sociali dicittadinanza e da un’equa partecipazione alladivisione della ricchezza.I “competenti” – a partire dagli economisti,che vengono candidati e si candidanocome espressione del sapere specializzatoche più di ogni altro sarebbe in grado di riconosceree promuovere l’interesse generale –sono divisi fra loro sui mezzi per raggiungereobiettivi universalmente condivisi, come lasciaremeno debiti e più capacità di crescita esviluppo alle generazioni future. Ma sono altrettantoe ancor più divisi sui fini, sull’idea di uomo e di societàal servizio della quale impegnare e condividere le stesse risorsemateriali. Come scriveva Max Weber, anche i risultati dell’agireeconomico sono sempre misurati dall’individuo e dalle collettivitàsulla base di esigenze etiche, politiche, di ceto, di eguaglianzao di qualsiasi altra specie e tali esigenze orientano quell’agirein modi che possono essere ugualmente “razionali” dal puntodi vista del calcolo dei mezzi e tuttavia profondamente diversinei risultati e nelle relazioni che promuovono. La democraziaè anche una scommessa sulla certezza che i tecnocrati – comeconclude Dahl – “non sono più qualificati di altri per formularele valutazioni morali essenziali”. Anche se proprio la grandezzadel loro sapere può far crescere il rischio che se ne dimentichino,mentre il mondo reale si ostina a trasgredire le regole alle qualidovrebbe adeguarsi…Stefano Semplicipanorama per i giovani • 3

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