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numero 2/2012 - Collegio Universitario Lamaro Pozzani

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post scripta“La carità non esclude il sapere”: riflessioni sulla tecnocrazia“La carità non esclude il sapere, anzi lo richiede,lo promuove e lo anima dall’interno. Il saperenon è mai solo opera dell’intelligenza. Può certamenteessere ridotto a calcolo e ad esperimento,ma se vuole essere sapienza capace di orientare l’uomo allaluce dei principi primi e dei suoi fini ultimi, deve essere ‘condito’con il «sale» della carità. Il fare è cieco senza il sapere e il sapereè sterile senza l’amore.”“La carità non è un’aggiunta posteriore, quasi un’appendicea lavoro ormai concluso delle varie discipline, bensì dialoga conesse fin dall’inizio. Le esigenze dell’amore non contraddiconoquelle della ragione. Il sapere umano è insufficiente e le conclusionidelle scienze non potranno indicare da sole la via verso losviluppo integrale dell’uomo. C’è sempre bisogno di spingersipiù in là: lo richiede la carità nella verità.”Lettera Enciclica Caritas in veritate, Benedetto XVI, 29 giugno 2009Che il nostro mondo sia giunto a una resa dei conti con unagrave crisi, è fatto ormai riconosciuto. Non sto parlando, però,del susseguirsi di shock sui mercati finanziari che stanno colpendoai fianchi il modello attuale di economie capitaliste, ma di unacrisi più profonda, quella del pensiero. Pensiero positivista, incui il progresso e lo sviluppo sono stati sempre interpretati comeconcetti paralleli, portatori di evoluzione lineare e di benessereper il genere umano.Si fa risalire la potentissima metafora alla base di questo equivocoalla fine della Seconda Guerra Mondiale, durante il Discorsodi Apertura al Congresso del 20 gennaio 1949 tenuto da HarryTruman. In questa occasione, per la prima volta, l’emisfero Suddel mondo venne definito “area sottosviluppata” dando origine,per contrapposizione all’epoca dello sviluppo. Una definizioneche colpì nel segno: era naturale, per Truman, affermare che gliStati Uniti e altri stati occidentali industrializzati si trovasseroall’apice della scala evolutiva, e che la tecnologia rappresentassela promessa di “redenzione” dalla fatica del genere umano. Loera per lui, e lo fu per tutti.L’utilizzo della metafora dello sviluppo e la sua applicazione,da allora a oggi, hanno creato un senso di frustrazione nell’uomo,che nello sviluppo “positivo” ancora crede e ha creduto,nonostante le promesse non mantenute. Anzi, è stata la giustificazioneperfetta per spiegare come l’uomo possa consumare inun anno ciò che la natura produce in un milione di anni, senzariflettere sulle conseguenze.Inutile dire che questa metafora non regge più, così come erastata creata, anche se è stata forse sostituita da un’altra specie difiducia. Oggi l’uomo comune percepisce di vivere in un universocomplesso e ne sente il peso sulle proprie spalle, perché le suecondizioni di vita sono peggiorate, le speranze per il futuro incrinate,le aspettative profondamente deluse. Eppure viviamo inun mondo in cui dominano la tecnica e il pensiero scientifico, dicui possediamo tutti i mezzi, ma forse ne abbiamo smarrito i fini.La fiducia nel sapere dei tecnici, l’abbandono della politicain favore della tecnocrazia, può essere interpretata come una reazionea tanta complessità: per non affrontare il cambiamento, pernon intaccare il proprio e l’altrui sistema di valori e di regole, sipreferisce lasciare la responsabilità ai tecnici, con una fiduciaforse ingenua nella loro capacità di sciogliere il complesso inun insieme decodificabile di problemi semplici. Cosa non possibile,perché la complessità è irriducibile pragmaticamente auna somma di parti, proprio perché essa non è né semplice, néprevedibile.Una premessa non breve, per motivare l’apertura di questomio post scriptum con le parole della Lettera Enciclica Caritasin veritate e per riflettere su come questa crisi di pensiero e divalori possa compromettere l’andamento del sistema economicoin generale e delle stesse imprese, private o pubbliche.Più che una crisi, forse, è un paradosso: mi sono formato inuna cultura in cui i governi ritenevano la politica industriale unmomento strategico di grande importanza, per orientare le sceltedi lungo periodo di un Paese e della sua economia, nel bene e nelmale. Ne sono seguiti lunghi anni di assenza di politica industriale,in cui si è persa prima di tutto la consapevolezza dei problemi,e di conseguenza la capacità di trovare delle soluzioni. Anni incui la politica ha cominciato ad abdicare al proprio ruolo, e incui l’economia – l’impresa stessa – si è semplicemente adattataal mainstream.Nel mondo di oggi, il sistema economico capitalista si evolvecon una rapidità stupefacente generando modelli – capitalismi –differenti, a seconda non solo dei livelli di progresso tecnico, dicapacità produttiva, ma anche della specificità delle diverse storienazionali, politiche, sociali, economiche, valoriali e culturali.Per molte grandi imprese e per la finanza, più che per l’economiareale, è stato facile cavalcare il vuoto di regole, le differenzenormative tra i diversi mercati e raggiungere risultati di breveperiodo con tattiche economicamente molto gratificanti ma distruttive,di cui tutti stiamo pagando un prezzo elevatissimo.Non possiamo stupirci ora del fatto che la politica abbia persoruolo e credibilità, e ricorrere ai tecnici quando si è giunti sull’orlodel baratro. Forse bisogna ritornare a pensare, come dice il Pontefice,“allo sviluppo integrale dell’uomo”. Il paradosso è che, invece,dopo tanto tempo nel nostro Paese, le decisioni strategiche edi lungo periodo vengono prese proprio da un governo tecnico “atempo” – in realtà politico nel senso aristotelico del termine – chesta cercando proprio di ricostruire un’idea di futuro, di stabilitànon solo nazionale, ma in un’Europa più forte e coesa.La tecnocrazia non ci può esimere dall’affrontare la complessità,anche se ci può aiutare: bisogna però restituire dignità eruolo alla politica, anche quando è “mascherata” da tecnocrazia.Non possiamo lasciarci abbagliare dall’efficacia immediata,spesso assolutamente irrilevante se non dannosa, ma dobbiamoguardare a obiettivi più lontani: la globalizzazione non riguardasolo i mercati o la geopolitica, ma è soprattutto cultura. Un nuovopensiero, nuovi valori, nuove regole potrebbero farci usciredalla crisi, restituendo un senso a un concetto importante comequello di bene comune, di umanità.Luigi Rothpanorama per i giovani • 39

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