TecnocraziaA sinistra: nel romanzo di George Orwell1984 una pesante dittatura controlla ilpopolo in ogni istante della sua vita. Nellapagina precedente: un particolare di unponte in acciaio.Foto: iStockphoto/BrianAJaksonzioni più diffuse ai giorni nostri, quella delNuovo Ordine Mondiale. Secondo questateoria, infatti, esisterebbe un’oligarchia dieconomisti, banchieri e politici che lavoranell’ombra per assumere il controllo diogni organizzazione statale del mondo, inmodo da instaurare un governo totalitario.Gli echi di questa teoria cospirazionistapervadono il mondo del cinema, della letteratura,ma in essi si può certamente ravvisareun richiamo all’inquietudine risuscitatada governi tecnocratici e totalitari.Da questi scenari ipotizzati, sognati,creati e temuti non emerge una grande fiducianelle tecnocrazie. Eppure almeno unesempio positivo esiste e ci viene fornitoda una serie televisiva, Star Trek, del 1966.Essa ruota attorno alle avventure dell’equipaggiodi una nave spaziale, l’Enterprise,il cui motto è “alla ricerca di nuove formedi vita e di civiltà, fino ad arrivare là doveLa tecnocrazia vienerappresentata anche nel cinemadi fantascienza: Star Wars, Matrixe Star Trek.nessuno è mai giunto prima”. In significativaconcordanza con lo slogan è il sistemadi governo fittizio creato nella serie: la Federazionedei Pianeti Uniti, organizzazioneinterplanetaria e sovranazionale che raccogliein sé <strong>numero</strong>si pianeti abitati da umanio extraterresti umanoidi. Lasciatasi allespalle le spinte individualistiche proprie diciascun pianeta, la Federazione governa ilcosmo con una nuova “supercultura” cheunifica tutte quelle indipendenti, all’insegnadella logica, della tecnologia e dellascienza. Sorvolando su quanto possa essereinquietante l’abolizione dei particolarismiculturali in favore di un’unica sovracultura(meccanismo che ricorda assai da vicinole soppressioni culturali attuate dai regimitotalitari), ci sono aspetti che danno un’immaginepositiva della Federazione dei PianetiUniti, come, per esempio, l’inutilità el’inesistenza del denaro. Per citare il personaggiodel capitano Picard: “L’economiadel futuro è piuttosto diversa: il denaro nonesiste nel XXIV secolo, l’acquisizione dellaricchezza non è più la forza motrice dellenostre vite. Noi lavoriamo per migliorarenoi stessi e il resto dell’umanità.”Una situazione che a prima vista sembrerebbequindi idilliaca, che sembra quasirichiamare la canzone Imagine di JohnLennon (diffusa nel 1971, ben cinque annidopo la messa in onda della fiction): “Imaginethere’s no countries, it isn’t hard todo, nothing to killor die for and noreligion too, imagineall the peopleliving life in peace...[…]Imagineno possessionsI wonder if you can, no need for greed orhunger, a brotherhood of man, imagine allthe people sharing all the world...” (Immaginache non ci siano paesi, non è difficileda fare, niente per cui uccidere o morire,immagina tutte le persone che vivono laloro vita in pace […] Immagina che non cisiano proprietà, mi chiedo se tu possa, nessunbisogno di avidità o fame, una fratellanzadi uomini, immagina tutte le personeche si dividono tutto il mondo).Abbiamo così attraversato anni di let-teratura, cinema, televisione e fumetti,per vedere che della tecnocrazia, portataai suoi estremi, in generale, non si ha unagrandissima opinione. Vista per lo piùcome un mezzo dispotico per soggiogarel’umanità al progresso, dimenticando i dirittifondamentali di libertà, la tecnocrazianon appare in una buona luce.Esisterà mai una via di mezzo tra lepiù fosche visioni di oppressione e la paceintergalattica e perenne? Sarà mai l’uomoin grado di bilanciare progresso e libertà?Certamente questo dipende dagli individui.Quale potrebbe mai essere un banco di provadella tecnocrazia? Ancora una volta la rispostaci viene fornita dalla tecnologia, seppurenon di ultimissima generazione. Esisteinfatti un videogioco per personal computerdiffuso nel 1999, Sid Meier’s Alpha Centauri,in cui il giocatore si trova a dover gestireuna colonia di terrestri su un pianeta delsistema solare. Il gioco è strutturato comeun gioco di strategia, nel quale si devonoprogrammare le azioni dei coloni, stabilireregole ed una forma di governo a scelta, tracui, appunto, una tecnocrazia. Dalla schedadel gioco apprendiamo che questa è unaforma di governo che genera miglioramentinell’economia, nella ricerca scientifica e nelrapporto con l’ecosistema, ma genera scontentonelle classi lavoratrici. Dalla schedanon si ricavano ulteriori spiegazioni.Proprio dalla sintetica spiegazione fornitada questo videogioco possiamo trarrele nostre conclusioni: la tecnocrazia non ècerto un sistema perfetto, come del restotutti gli altri sistemi di governo ipotizzatie messi in atto dall’alba dei tempi. Forse,però, non va neppure demonizzato. Dopotutto, da quando l’uomo ha cominciato avivere in gruppi organizzati ha rinunciato aun po’ della sua assoluta libertà in cambiodi un po’ di sicurezza: questo ragionamento,nelle sue varie gradazioni e sfumature,concerne tutti i tipi di governo. E anchenelle opere di fantasia che abbiamo analizzatoil tema è appunto quello del grado dilibertà o identità concesso all’individuo innome di un ideale, di un progetto o del progresso.La ricerca del punto di equilibrio èaperta per ogni individuo e per ogni generazione,a patto di rispettare alcuni vincoliminimi nel campo dei diritti umani.38 • n. 2, maggio-agosto 2010
post scripta“La carità non esclude il sapere”: riflessioni sulla tecnocrazia“La carità non esclude il sapere, anzi lo richiede,lo promuove e lo anima dall’interno. Il saperenon è mai solo opera dell’intelligenza. Può certamenteessere ridotto a calcolo e ad esperimento,ma se vuole essere sapienza capace di orientare l’uomo allaluce dei principi primi e dei suoi fini ultimi, deve essere ‘condito’con il «sale» della carità. Il fare è cieco senza il sapere e il sapereè sterile senza l’amore.”“La carità non è un’aggiunta posteriore, quasi un’appendicea lavoro ormai concluso delle varie discipline, bensì dialoga conesse fin dall’inizio. Le esigenze dell’amore non contraddiconoquelle della ragione. Il sapere umano è insufficiente e le conclusionidelle scienze non potranno indicare da sole la via verso losviluppo integrale dell’uomo. C’è sempre bisogno di spingersipiù in là: lo richiede la carità nella verità.”Lettera Enciclica Caritas in veritate, Benedetto XVI, 29 giugno 2009Che il nostro mondo sia giunto a una resa dei conti con unagrave crisi, è fatto ormai riconosciuto. Non sto parlando, però,del susseguirsi di shock sui mercati finanziari che stanno colpendoai fianchi il modello attuale di economie capitaliste, ma di unacrisi più profonda, quella del pensiero. Pensiero positivista, incui il progresso e lo sviluppo sono stati sempre interpretati comeconcetti paralleli, portatori di evoluzione lineare e di benessereper il genere umano.Si fa risalire la potentissima metafora alla base di questo equivocoalla fine della Seconda Guerra Mondiale, durante il Discorsodi Apertura al Congresso del 20 gennaio 1949 tenuto da HarryTruman. In questa occasione, per la prima volta, l’emisfero Suddel mondo venne definito “area sottosviluppata” dando origine,per contrapposizione all’epoca dello sviluppo. Una definizioneche colpì nel segno: era naturale, per Truman, affermare che gliStati Uniti e altri stati occidentali industrializzati si trovasseroall’apice della scala evolutiva, e che la tecnologia rappresentassela promessa di “redenzione” dalla fatica del genere umano. Loera per lui, e lo fu per tutti.L’utilizzo della metafora dello sviluppo e la sua applicazione,da allora a oggi, hanno creato un senso di frustrazione nell’uomo,che nello sviluppo “positivo” ancora crede e ha creduto,nonostante le promesse non mantenute. Anzi, è stata la giustificazioneperfetta per spiegare come l’uomo possa consumare inun anno ciò che la natura produce in un milione di anni, senzariflettere sulle conseguenze.Inutile dire che questa metafora non regge più, così come erastata creata, anche se è stata forse sostituita da un’altra specie difiducia. Oggi l’uomo comune percepisce di vivere in un universocomplesso e ne sente il peso sulle proprie spalle, perché le suecondizioni di vita sono peggiorate, le speranze per il futuro incrinate,le aspettative profondamente deluse. Eppure viviamo inun mondo in cui dominano la tecnica e il pensiero scientifico, dicui possediamo tutti i mezzi, ma forse ne abbiamo smarrito i fini.La fiducia nel sapere dei tecnici, l’abbandono della politicain favore della tecnocrazia, può essere interpretata come una reazionea tanta complessità: per non affrontare il cambiamento, pernon intaccare il proprio e l’altrui sistema di valori e di regole, sipreferisce lasciare la responsabilità ai tecnici, con una fiduciaforse ingenua nella loro capacità di sciogliere il complesso inun insieme decodificabile di problemi semplici. Cosa non possibile,perché la complessità è irriducibile pragmaticamente auna somma di parti, proprio perché essa non è né semplice, néprevedibile.Una premessa non breve, per motivare l’apertura di questomio post scriptum con le parole della Lettera Enciclica Caritasin veritate e per riflettere su come questa crisi di pensiero e divalori possa compromettere l’andamento del sistema economicoin generale e delle stesse imprese, private o pubbliche.Più che una crisi, forse, è un paradosso: mi sono formato inuna cultura in cui i governi ritenevano la politica industriale unmomento strategico di grande importanza, per orientare le sceltedi lungo periodo di un Paese e della sua economia, nel bene e nelmale. Ne sono seguiti lunghi anni di assenza di politica industriale,in cui si è persa prima di tutto la consapevolezza dei problemi,e di conseguenza la capacità di trovare delle soluzioni. Anni incui la politica ha cominciato ad abdicare al proprio ruolo, e incui l’economia – l’impresa stessa – si è semplicemente adattataal mainstream.Nel mondo di oggi, il sistema economico capitalista si evolvecon una rapidità stupefacente generando modelli – capitalismi –differenti, a seconda non solo dei livelli di progresso tecnico, dicapacità produttiva, ma anche della specificità delle diverse storienazionali, politiche, sociali, economiche, valoriali e culturali.Per molte grandi imprese e per la finanza, più che per l’economiareale, è stato facile cavalcare il vuoto di regole, le differenzenormative tra i diversi mercati e raggiungere risultati di breveperiodo con tattiche economicamente molto gratificanti ma distruttive,di cui tutti stiamo pagando un prezzo elevatissimo.Non possiamo stupirci ora del fatto che la politica abbia persoruolo e credibilità, e ricorrere ai tecnici quando si è giunti sull’orlodel baratro. Forse bisogna ritornare a pensare, come dice il Pontefice,“allo sviluppo integrale dell’uomo”. Il paradosso è che, invece,dopo tanto tempo nel nostro Paese, le decisioni strategiche edi lungo periodo vengono prese proprio da un governo tecnico “atempo” – in realtà politico nel senso aristotelico del termine – chesta cercando proprio di ricostruire un’idea di futuro, di stabilitànon solo nazionale, ma in un’Europa più forte e coesa.La tecnocrazia non ci può esimere dall’affrontare la complessità,anche se ci può aiutare: bisogna però restituire dignità eruolo alla politica, anche quando è “mascherata” da tecnocrazia.Non possiamo lasciarci abbagliare dall’efficacia immediata,spesso assolutamente irrilevante se non dannosa, ma dobbiamoguardare a obiettivi più lontani: la globalizzazione non riguardasolo i mercati o la geopolitica, ma è soprattutto cultura. Un nuovopensiero, nuovi valori, nuove regole potrebbero farci usciredalla crisi, restituendo un senso a un concetto importante comequello di bene comune, di umanità.Luigi Rothpanorama per i giovani • 39