Foto: iStockphoto.com/SpiderstockSopra: la radio prima e la televisionedopo sono stati importanti strumentidi diffusione dell’italiano. Nella paginaprecedente: definizione di “italiano” in undizionario del 1902.zamento dell’unità nazionale e linguistica,ma è dopo la Seconda Guerra Mondialeche arriva la spinta decisiva e definitivain questa direzione. Riprende in manieracospicua l’emigrazione verso l’estero ec’è un massiccio aumento dell’immigrazione“interna” dai paesi del Sud alle cittàindustriali del Nord. Entrambi questi tipidi immigrazione hanno diretti effetti sullalingua italiana. Chi emigra all’estero prendecoscienza dell’importanza dell’educazione,quindi aumenta in maniera notevoleil numero di figli di emigranti che frequentanole scuole. Per quanto riguarda ilprocesso di immigrazione interna, invece,si tratta di perdita e variazione dell’italianoe dei dialetti. Si parla, infatti, di urbanizzazionedi due tipi: inter-regionale oprovinciale ed extra-regionale. Nel primocaso il diretto effetto è l’indebolimentoAi tempi di Manzoni il dialettoveniva usato anche dalle classicolte, come dimostra il “parlarfinito” milanese.del dialetto, ovvero l’affiancamento a untermine dialettale di un altro di derivazioneitaliana, ma che risente degli stessieffetti fonetici del dialetto. Nel dialettobarese, ad esempio, per indicare il macellaiosi hanno due termini: uno più arcaico,(wcc’ir) e uno subentrato negli anniCinquanta, di cui prima non è attestataalcuna testimonianza, (mw’cellar); la formaitalianizzata non è certamente ugualeal termine in italiano, ma rende più facilecapire di cosa si stia parlando, rendendolocomprensibile anche a chi non è avvezzoal dialetto. Nel secondo caso (urbanizzazioneextra-regionale), invece, si ha unaprogressiva perdita del dialetto e l’acquisizionedel dialetto urbano del luogo.Parte importante nel processo di unificazionedella lingua la ebbero anche radio,televisione e cinema. Specialmentequesti ultimi due mezzi di comunicazionefurono pietre miliari: basti pensare a programmidell’immediato dopoguerra, comeper esempio Non è mai troppo tardi, chepromovevano l’apprendimento dei fondamentidella lingua e della grammaticaitaliane; un ruolo determinante fu svoltodal divismo: la gente imitava gli idoli chevedeva sul grande e sul piccolo schermo,usava le parole delle canzonette della radio,abbandonava il dialetto dei nonni perinseguire i mitidella televisione edi Cinecittà.Conseguenzadi questi fenomeniè la formazionedei vari italianiregionali, che altro non sono che i direttidiscendenti del “parlar finito” manzoniano,ovvero un parlare italiano inserendolocuzioni regionali tipiche, termini dialettaliitalianizzati, costruzioni sintatticheproprie del dialetto (per rimanerenell’ambito pugliese, l’utilizzo di alcuniverbi intransitivi come salire e scenderein maniera transitiva) e l’utilizzo della cadenzae della pronuncia tipici del posto.Questi processi non hanno coinvoltosolamente l’italiano. Nel corso dei secolitutte le lingue hanno subito variazioni,basti pensare alle varietà di francese,diverse da distretto a distretto o alle numerosevarietà di inglese derivanti dallosgretolarsi dell’impero coloniale. Si puòdire allora che queste lingue siano uniche?Nel caso dell’italiano si può parlare,quindi, di un’unica lingua italiana? Si puòdire che a 150 anni dall’Unità d’Italia siè giunti a un’unità linguistica, nonostanteche sussistano ancora i dialetti e le varietàregionali di italiano? La risposta nonpuò essere altro che positiva. La prova?Ripensiamo alla domanda posta all’iniziodell’articolo, alla quale a tutti sarebbevenuto spontaneo rispondere che stavoscrivendo in italiano: è proprio questonon avvertire come altra lingua i vari tipidi italiano regionale che ci conferma chel’italiano è ormai concepito come corpounico; le teste della nostra Idra sonovisibili chiaramente solo “agli addetti ailavori”, avvezzi a questi studi. Per il restodi noi l’italiano è uno e solo, il resto sonomere variazioni sul tema. Rimaniamocosì, allora, a osservare l’italiano cristallizzatoper un momento almeno, primache, come tutte le lingue vive e vitali,riprenda a fluire e a modificarsi, anchementre io sto scrivendo e voi state leggendo.Il momento è passato, l’italiano ègià cambiato.20 • n. 3, settembre-dicembre 2010
150 anni di Unità d’ItaliaFoto: iStockphoto.com/tirc83Non è mai troppo tardiDalla legge Casati alla riforma Gelmini, la scuola italiana non ha maismesso di cambiare volto. Non sempre è bene intervenire e non sempresi interviene dove si dovrebbe.di Nicola LattanziDai tre mesi fino ai tre anni è l’asilo nido.Poi tre anni di scuola materna. Poi bentredici anni di scuola primaria e secondaria(quanto ci piacciono gli anglismi! Saròrétro, ma preferivo di gran lunga una scuolaelementare e una scuola media, seguitedalle superiori). E poi ancora, variamentecombinati, cinque anni di università. Epoi... Insomma, se va bene – molto bene –ci schiaffano diretti dalla sala parto davantia un banco per ventiquattro anni circa. Enaturalmente non passerà una settimanadella nostra carriera scolastica senza chequalcuno ci dica che “non si finisce mai diimparare” e che “gli esami non finisconomai”. Per che cosa? Ci si batte e ci si ribatte,si riforma e si controriforma: progetti,sperimentazioni, maxi sperimentazioni deiprogetti. E nel frattempo, mentre siamo lì astudiare, subendopiù o meno passivamente(in questigiorni direi moltomeno che più) lafuria normativadei variamente nominatiMinistri dell’Istruzione, Universitàe Ricerca (?), non v’è chi ci assicuri chetutta questa fatica verrà ripagata con un postodi lavoro almeno parzialmente rispondentealle nostre aspirazioni e conformealla nostra preparazione. Oltre a ciò, cosaavrebbe dovuto essere la scuola? Scambiod’idee, luogo di integrazione e crescita spiritualedel paese. Invece, la meritocrazianon esiste, si vogliono fare classi separateper gli stranieri, si insegue il mito della privatizzazione-a-tutti-i-costi(a nostre spese,in tutti i sensi), alcune materie improvvisamentescompaiono e l’italiano non si sapiù dove sia finito – ma chi se ne importa:meglio salvare i dialetti! Mi chiedo: comesiamo arrivati a questo punto?Al momento dell’unificazione del paese,nel 1861, la percentuale di analfabetiera a dir poco sconvolgente. Vittorio EmanueleII si sarebbe apprestato a governareun regno in cui il 78% della popolazionenon sapeva né leggere né scrivere (rectius,non sapeva nemmeno scrivere il proprionome), con addirittura picchi del 91% inSardegna e del 90% in Calabria e Sicilia.La situazione del suo Piemonte era, secosì possiamo dire, migliore: 57%. E laquestione era che non solo c’era la quasitotalità della popolazione da alfabetizzare,ma che si doveva far loro imparareuna lingua. Sì, fatta l’Italia, sottolineavaD’Azeglio, si dovevano fare gli Italiani.E l’obiettivo, tutt’oggi, non mi sembra siastato pienamente raggiunto. Anzi. Arrivatial censimento generale del 1951 la situazioneera migliorata, indubbiamente invirtù del ruolo che il regime fascista avevariconosciuto all’istruzione: si passava,difatti, dall’1% del Trentino-Alto Adige al32% della Calabria. Nei decenni a seguirele cifre continuano ad assottigliarsi. Magarianche grazie ad Alberto Manzi, che,dal 1960 al 1968, fu il “caro maestro” permolti italiani con la sua trasmissione Nonè mai troppo tardi, che si proponeva come“Corso d’istruzione popolare per il recuperodell’adulto analfabeta”. Un programmache fa parte della memoria collettiva e chedimostra che, se si vuole, certi mezzi dicomunicazione di massa possono essereSolo il 20% degli italiani adultipossiede gli strumenti minimidi lettura, scrittura e calcolo perorientarsi nella nostra società.utilizzati come strumento di promozionesocio-culturale. D’accordo che era un’altratelevisione, d’accordo che era un’altraItalia…ma insomma. Come ha scritto ilpanorama per i giovani • 21