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numero 3/2010 - Collegio Universitario Lamaro Pozzani

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Collegio <strong>Universitario</strong> “Lamaro Pozzani” - Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoropanoramaper i giovaniCollegio <strong>Universitario</strong> “Lamaro Pozzani” - Via Saredo 74 - Roma - Quadrimestrale - POSTA TARGET CREATIVE Aut. n. S/SA0188/2008 valida dal 01/07/2008 - anno XLIII - n. 3 - settembre-dicembre 20101861-2011NASCITA DI UNA NAZIONEForma di Stato, lingua,scuola, infrastruttureLA PATRIA OGGIIntervista aGian Antonio StellaSTORIAIl Risorgimento,la Chiesa, la Massoneria150 anni di Unità d’Italia


Sommariopanorama per i giovanin. 3, settembre-dicembre 20103. Editorialedi Stefano Semplici150 anni di Unità d’Italia33. La Società siciliana di storia patriaBreve storia di una delle più importantiistituzioni culturali della Sicilia.di Carmelo Di NataleUn bersaglieree altri patriotidifendono laRepubblicaRomana nel 1849(monumento delGianicolo a Roma;Foto:iStockphoto/PaoloGaetano).4. Come fare l’Italia?Il dibattito piemontese sulle “forme delloStato” durante il Risorgimento.di Donato Andrea Sambugaro8. Il prestigio di vecchie capitali e ilsogno unitarioDopo l’Unità le vecchie capitali sonodestinate a una lenta involuzione.di Marianna Meriani11. Italiani, popolo di poeti, santi edemigrantiIl fenomeno emigratorio italiano.di Livio Ghilardi14. “L’Italia è lunga”Viaggio nella rete stradale e autostradaleitaliana dal 1860 ad oggi.di Claudia Macaluso18. Fatta l’Italia, bisogna fare l’italianoLe varietà regionali dell’italianoprolungano la tradizione dei dialetti.di Francesca Parlati21. Non è mai troppo tardiLa scuola italiana non ha mai smesso dicambiare volto.di Nicola Lattanzi24. I Lincei di SellaLa cultura risorta nella neonata Italia.di Angela Rita Provenzano25. I Nobel scientifici italianidi Damiano Ricceri25. Fratelli d’Italia, fratelli di criminiDal brigantaggio alla mafi a. Intervista adAntonio Nicaso.a cura di Chiara Curia28. Se le coccarde sono appuntatesulle prime pagine dei quotidiani“Corriere della Sera” e “Stampa”celebrano l’Unità d’Italia.di Gabriele Rosana29. Leggere, studiare e ricordareIntervista a Gian Antonio Stella.a cura di Gabriele Rosana31. Deputazioni di storia patria esocietà storicheCome preservare la storia delle regioni.di Giuseppe Grazioso34. Risorgimento e ResurrezioneIl rapporto tra Stato italiano e Chiesa.di Martina Zollo37. La massoneria che fece l’ItaliaLa storia delle logge si intreccia conquella del Risorgimento.di Donato Andrea Sambugaro38. Gli alpinisti tridentiniLa lotta per l’identità e la montagna.di Aleksandra Arsova39. Solferino e la Croce RossaLe origini del Corpo nella SecondaGuerra d’Indipendenza.di Angelo Filippi40. O’ mare canta...Libero Bovio e la poesia in musica.di Selene Favuzzi41. Tra Dolce Vita e geopoliticaLe Olimpiadi di Roma 1960.di Carmelo Di Natale42. Sa vida pro patriaStoria della Brigata Sassari.di Fabrizio Grussu43. Le tavolozze del Risorgimento1861. I pittori del Risorgimento alleScuderie del Quirinale.di Francesca Parlati e Aleksandra Arsova44. Ritratto di una nazione unitaLa mostra “Gioventù Ribelle” al Vittoriano.di Elena Martini45. Una sfida per il futuroL’Expo Milano 2015.di Elena Gambaro46. Petrolio e assenzioUn’interessante raccolta di autori ottocenteschi.di Giuseppe Fasanella46. Il mio paesedi Selene Favuzzi47. Post scriptadi Mario SarcinelliDal Collegio48. IncontriGli incontri del Collegio “Lamaro Pozzani”.PANORAMA PER I GIOVANIPeriodico della Federazione Nazionaledei Cavalieri del Lavoro - RomaAnno XLIII - n. 3 - settembre-dicembre 2010Direttore responsabileMario SarcinelliDirettore editorialeStefano SempliciSegretario di redazionePiero PolidoroRedazione: Carmelo Di Natale, SeleneFavuzzi, Elisa Giacalone, Nicola Lattanzi,Claudia Macaluso, Beatrice Poles, MariaTeresa Rachetta, Gabriele Rosana,Donato Andrea Sambugaro, Sara Simone,Andrea Traficante.Direzione: presso il Collegio <strong>Universitario</strong>“Lamaro Pozzani” - Via Saredo 74 -00173 Roma, tel. 0672.971.322 - fax0672.971.326Internet: www.collegiocavalieri.itE-mail: segreteria@collegiocavalieri.itAgli autori spetta la responsabilità degliarticoli, alla direzione l’orientamento scientifico e culturale della Rivista. Né gli uni, nél’altra impegnano la Federazione Nazionaledei Cavalieri del Lavoro.Potete leggere tutti gli articoli della rivistasul sito: www.collegiocavalieri.itAutorizzazione:Tribunale di Roma n. 361/2008 del13/10/2008ScriveteciPer commenti o per contattare gli autori degliarticoli, potete inviare una e-mail all’indirizzo:panoramagiovani@cavalieridellavoro.it


INTEGRAZIONEINDUSTRIASCIENZA INTERVISTEBucciarelli, Gentili,Morcellini, Masini ePPesciaaCONFRONTIONTIL’istruzione superiorenei ipaesiieuropei e einCinaDATI, DUBBI E DIBATTITI SUL SUL“3+2” IMMIGRAZIONEIGRApanoramaper i giovaniInterviste a Marcella LucidieAlfredo MantovanotLa storia adell’Iri i raccontatacontatada Antonio oZurzoloDai misterii t i d della matematicat tica...alla ..all apentpentola t l a pressioneiLa cittàdi tuttiCollegio <strong>Universitario</strong> “Lamaro Pozzani” - Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoropanoramaper i giovaniCollegio <strong>Universitario</strong> “Lamaro Pozzani” - Via Saredo 74 - Roma - Quadrimestrale - Tariffa R.O.C.: “Poste italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 N° 46) art. 1 comma 1, DCB Modena” - anno XLII - n. 3 - settembre-dicembre 2009AMBIENTEECONOMIAIl mercatoelettricoin ItaliaECOLOGIACosa fare perconsumare menoMARCONIL’inventoreimprenditoreEnergia da risparmiarepanoramaper i giovaniLa riforma riforma iuniversitariaiSul sito del Collegio <strong>Universitario</strong> “Lamaro Pozzani”puoi leggere e scaricare tutti i numeri e gli articolidi Panorama per i giovaniwww.collegiocavalieri.it


EditorialeLa Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro hapubblicato nel mese di novembre il Terzo Rapporto suglistudenti eccellenti. L’indagine, realizzata in collaborazionecon l’Istituto Carlo Cattaneo, ha lo scopo di verificareil profilo sociale e le scelte universitarie dei candidati al Premio“Alfieri del Lavoro”, cioè degli studenti segnalati ogni anno dallescuole italiane per il loro eccezionale curriculum. Nella ricercaè stato inserito quest’anno un capitolo dedicato al sentimentodi appartenenza e di orgoglio nazionale di questi giovani, cherappresentano idealmente i talenti, la capacità di impegno e leconcrete speranze di successo dai quali continuerà a dipendere inprimo luogo il futuro del paese. Siamo così in grado di metterea fuoco la percezione di aspetti cruciali dell’identità italiana inun segmento qualitativamente molto significativo almeno dellenuove generazioni e mi sento di proporre i risultati come premessae insieme chiave di lettura di luci e ombre del percorsoattraverso i 150 anni dell’unità nazionale al quale dedichiamoper intero questo fascicolo.Gli studenti più bravi – questo è il primo dato – non si vergognano“nel complesso” di essere italiani. Su una scala da 1a 5, solo il 6% ha optato per i due punteggipiù bassi, mentre oltre il 20 per cento si è dichiarato“molto orgoglioso” del proprio passaporto.Scomponendo questo sentimento neidiversi fattori che, per dirla con Hegel, contribuisconoal “patriottismo” come coscienzaquotidianamente vissuta che il proprio benecresce insieme a quello di tutti gli altri cittadini,la prospettiva – tuttavia – cambia. E nondi poco. Sembra inevitabile concludere che igiovani amano la storia dalla quale veniamoe le bellezze che abbiamo ricevuto, ma nonsono affatto fieri di ciò che oggi, concretamente,siamo e facciamo. Di fronte all’arte, alla natura e alla culturaitaliane si dichiara abbastanza o senz’altro molto orgogliosocirca il 90% del campione, ma siamo sotto il 25 per il benessereeconomico e la capacità di organizzarsi per il bene comune ela percentuale crolla addirittura a poco più del 10% quando sichiede ai giovani cosa pensano del trattamento degli immigrati.Sembra la fotografia di una generazione che davvero, anchequando scende in piazza per protestare contro una riforma delsistema di governance dell’università, come è accaduto in questiultimi mesi, lo fa per far sfilare davanti a tutti il proprio disagiodi figli che rischiano di avere meno dei padri e che già paganoun prezzo pesante per il basso livello di disponibilità al sacrificioper la “cosa pubblica”, troppo spesso spacciato per quella virtuosaarte d’arrangiarsi nella quale gli stessi giovani dichiaranocomunque di riconoscersi più che nella tradizione della nostraricerca scientifica e perfino dei nostri successi sportivi. TommasoI giovani dimostranodi non voler cedereall’amarezza.Sono proprio glistudenti eccellenti,insomma, che ciaiutano a sentirciun po’ più italiani.Padoa Schioppa era una delle personalità che più hanno contribuitoa tenere alto il prestigio dell’Italia all’estero. Le tasse – disseuna volta in un’intervista – sono una cosa bellissima, perchéconsentono appunto a un paese di organizzarsi per il bene comune,rendendo disponibili quei servizi che altrimenti resterebberoprivilegio di pochi e favorendo così la promozione della dignitàe delle capacità di tutti. Molti italiani sorrisero. Qualcuno riuscìperfino a scandalizzarsi...Dagli studenti “capaci e meritevoli”, secondo l’attualissimaformula dell’articolo 34 della Costituzione, non viene solo la richiestadi crescere di più. In loro è acuta anche la sensibilità perle forme delle relazioni sociali, per gli esiti della distribuzione delpotere, per i cortocircuiti di modelli e stili educativi che hannomesso quasi “fuori corso” il vocabolario del dovere, dell’integritàpersonale, della capacità di interpretare e promuovere scopi condivisi.Le differenze, in Italia, ci sono sempre state e anche gliarticoli che proponiamo cercano di non edulcorare la realtà di unpassato che in fondo solo da poco è diventato unitario. Già Danteconosceva e distingueva “l’arzanà de’ veneziani”, “la vipera che‘l melanese accampa”, il “bel paese là dove il sì suona”, il “gallodi Gallura”, anche se è altrettanto vero chepossiamo leggere e comprendere Dante ancoraquasi senza vocabolario e questa continuità èsconosciuta a popoli che pure hanno una plurisecolareesperienza di unità politica. Forti diquesta consapevolezza, non dobbiamo eluderel’evidenza delle differenze che ci sollecitanooggi a ripensare il nostro modello istituzionalee che vanno affrontate con concretezza di metodoe di prospettive. In che modo, per esempio,il federalismo potrà contribuire a ridurrela forbice, impietosamente evidenziata dalleindagini comparative svolte anche a livellointernazionale, nel reddito pro capite delle diverse regioni, nellaqualità della filiera dell’istruzione, nell’accesso ai servizi sanitari?I lamenti sui mali dell’Italia sono una consunta litania e accompagnanoogni celebrazione che si rispetti: “Tutto cade. Ogni idealesvanisce. I partiti non esistono più, ma soltanto gruppetti e clientele.Dal parlamento il triste spettacolo si ripercuote nel paese”.Questo il giudizio di Giuseppe Prezzolini alla vigilia del cinquantenariodel 1911. I giovani dell’indagine dei Cavalieri del Lavorodimostrano di non voler cedere a questa amarezza. Solo il 12%si dichiara piuttosto o completamente sfiduciato nei confronti deiconnazionali (e quasi l’80% ritiene un dovere la solidarietà fra learee più ricche del paese e quelle meno fortunate). In una ricercadel 1999, curata sempre dall’Istituto Cattaneo su un campione piùvasto, la percentuale sfiorava il 25%. Sono proprio gli studentieccellenti, insomma, che ci aiutano a sentirci un po’ più italiani.Stefano Semplicipanorama per i giovani • 3


Come fare l’Italia?Le forme dello StatoL’Italia è stata una monarchia, è una repubblica. Ma queste erano solodue delle possibilità nel momento in cui il nostro Stato si formò, 150anni fa. Analizziamo il dibattito piemontese sulle “forme dello Stato”durante il Risorgimento e il tema del federalismo.di Donato Andrea SambugaroFoto: iStockphoto/PaoloGaetano“Ogni Stato d’Italia deve rimanere sovranoe libero in sé; [non si può] conservarela libertà se il popolo non vi mette le manisopra, sì, ogni popolo in casa sua, sottola sicurezza e la vigilanza di tutti gli altri.Perché dunque l’efficacia della Costituentesi faccia sentire, è necessario cheabbiano valore popolare i Parlamenti diogni Stato [all’interno dell’Italia]. [Poi] le“Le nazioni europee devonocongiungersi... Avremo pace veraquando avremo gli Stati Unitid’Europa” (C. Cattaneo).nazioni europee devono congiungersi, colprincipio morale dell’eguaglianza e dellalibertà. Avremo pace vera quando avremogli Stati Uniti d’Europa”.Sono, queste, parole di sconcertanteattualità, che a pieno titolo potrebberoessere ascritte al dibattito presente sullequestioni nazionali e internazionali. Potrebberoessere state pronunciate, verrebbeda ipotizzare, da un ideologo leghistad’ampia cultura e vedute per quanto si dicenella prima parte, circa la necessità di unoStato italiano federalista. O potrebberoapparire le paroledi un lungimirantepolitologo, attentoalle questioni europee,per quantosi afferma nellaseconda parte. Invero,un’ipotetica Ansa che le riportasserecherebbe il nome di Carlo Cattaneo, e ladata sarebbe il 1849. Quanto ho riportatoè estratto dal testo Dell’insurrezione diMilano nel 1848 e della successiva guerra,scritto dal patriota lombardo all’indomanidel fallimento dei moti milanesi.Le riflessioni che ho portato ad esempioben evidenziano, nella pregnante attualitàche le caratterizza, il fatto che ildibattito sulle forme e sulle istituzioni politichedi uno “Stato italiano”, fosse esso,com’era allora, ipotetico, o sia, com’èoggi, realizzato compiutamente, non ècerto cosa recente, ma affonda le radici intempi ben lontani.Tenteremo qui dunque di analizzare,per sommi capi, quali correnti di pensierosi fronteggiavano in campo politico almomento di quell’Unità da cui decorronoi centocinquant’anni, osservando come lasoluzione poi realizzatasi, quella di unoStato nazionale, centralista e monarchico,fosse solo una fra le molte possibili. Sarà4 • n. 3, settembre-dicembre 2010


dunque di una qualche utilità ricostruirelo scenario storico del dibattito, che – ègiusto ricordarlo – si svolse principalmentesotto l’azione e la spinta di intellettualipiemontesi e (in parte) lombardi. Ciònon deve stupire, né si intende in questomodo affermare un presunto “predominioculturale” di questa zona d’Italia. È peròevidente che, se la parte nord-orientaled’Italia era esclusa da questo dibattito inquanto sottoposta a un dominio straniero,oltretutto oltremodo repressivo verso lespinte nazionaliste, altrettanto non potevache valere per l’Italia meridionale, lontanadalle novità culturali e dal fresco confrontodella prima parte del XIX secolo,politico quanto letterario.Nel corso degli anni Quaranta, infatti,in coincidenza con un relativo risvegliodell’economia e della società civile, il dibattitopolitico italiano si arricchì di nuovevoci, con il prepotente e fondamentaleemergere di un orientamento moderato,che si distingueva nettamente sia dal tradizionalismoconservatore sia dal radicalismorivoluzionario mazziniano, proponendosoluzioni graduali alla questioneitaliana e tentando di conciliare la causaliberale-patriottica con il fronte cattolico.Nasce così lacorrente di pensieropoi battezzataneoguelfa, il cuiprincipale esponentefu VincenzoGioberti. Nato nel1801 e ordinato sacerdote nel 1825, Giobertisi interessò alla politica del regnosabaudo pur conducendo una vita ritiratae mai (si direbbe oggi) “sotto i riflettori”;Sopra: il monumento a Goffredo Mameli,patriota e autore del testo del nostro innonazionale, presso il cimitero del Verano(Roma).Mentre il neoguelfismo, inPiemonte, conosceva il maggiorsuccesso, in Lombardia nascevail federalismo di Cattaneo.vita che lo portò però anche a dover sopportareforti contrasti per motivi politici,che lo costrinsero a vivere parte della suaesistenza come esule, ramingo per l’Europa(Parigi, Bruxelles…) e a morire insolitaria ma dignitosa povertà. Propriodurante un soggiorno a Bruxelles scrisse,nel 1843, il libro Del primato morale epanorama per i giovani • 5


150 anni di Unità d’ItaliaFoto: iStockphoto/HultonArchivecivile degli italiani. Il “primato” oggettodello studio di Gioberti era quello derivanteall’Italia dall’essere sede del papato edi averne condiviso nel corso dei secoli lamissione di civiltà. Proprio in ragione diciò Gioberti proponeva una confederazionedegli stati italiani presieduta dal Papa eun grande movimento politico, avente allabase gli antichi valori cristiani, che avrebbedovuto raccogliere varie forze partiticheper un progetto unitario: un “partito”cattolico, italiano, nazionale e moderno.Di qui i molti e diversi giudizi sulla suaprospettiva. Gioberti, viene detto da molti,è il padre dell’ideologia federalista. Giobertipredisse lucidamente l’avvento dellaDemocrazia Cristiana, si premurano di affermarealtri. Gioberti, rilanciano altri ancora,voleva un Italia decentralizzata e cheavesse il federalismo (politico? fiscale?)come nucleo fondante della sua identità.È evidente e forse superfluo far notarecome queste siano semplificazioni, talvoltafatte in buona fede, talaltra realizzatecolpevolmente per “aggiudicarsi” illustriprecedenti storici. Senz’altro, sono tutteosservazioni che, nella loro tensione allo“slogan”, si macchiano di superficialità enon osservano la teoria e il pensiero politicogiobertiano nella sua ampia e piùcompleta accezione.Partiamo prima di tutto da alcune osservazionibasilari. L’intero edificio concettualedi Gioberti(si legga questamia affermazionee quelle che seguirannocome riferiteprincipalmente allateoria politica cosìcome è espressanel Del primato) èpoco solido almenoper ciò che riguardadue aspetti, entrambidi carattere pragmaticoe fattuale.In primo luogoGioberti trascura ilproblema della presenzaaustriaca nelLombardo-Veneto– che sarebbe dunquerimasto esclusoda qualsivogliaprogetto unitario– ed è questo unproblema immensoe molto grave, sesi pensa a quantole questioni delleterre irredente peserannosulla politicasabauda primaAlcuni dei principali protagonisti delRisorgimento. Dall’alto, in senso orario:Vittorio Emanuele II, Giuseppe Mazzini eCamillo Benso, Conte di Cavour. In bassoa sinistra: Giuseppe Garibaldi a Caprera inuna foto dell’epoca.e italiana poi per lungo tempo, nel XIXsecolo come nel XX. In secondo luogoGioberti non è così chiaro (come ad alcunipotrebbe apparire) su chi debba guidare ereggere – e con che forma istituzionale –l’ipotetico stato federale italiano, soprattuttose si pensa che nel momento in cuiGioberti vergava le sue pagine infuocateera Papa Gregorio XVI, sicché sarebbedovuto essere “presidente” dello stato unPapa dichiaratamente reazionario e che,nell’enciclica Mirari Vos, condannavaogni sorta di pensiero liberale.Vincenzo Gioberti, in ultima analisi,viene visto come il “padre” del pensierofederalista in Italia. Questo è, in parte,innegabilmente vero, dato che l’elementofederalista rappresenta al contempo ilpiù netto e più innovativo della sua opera.Pure, il federalismo giobertiano è caratterizzatoda tratti marcatamente antistorici.Non è il federalismo di un nuovo stato, diuna nuova epoca storica, di un rinnovamento.Guarda al passato più che al futuro.Il nome della corrente politica chefonda e in cui ricade attinge per il nomeal repertorio medievale (“neoguelfismo”)e la sua ipotesi è in fondo quella di una restaurazionedi qualcosa (in prima istanzail primato del cattolicesimo e del papato)Foto: iStockphoto/PaoloGaetano6 • n. 3, settembre-dicembre 2010


150 anni di Unità d’Italiache è stato e che deve tornare a essere:una ri-fondazione che apparirà alla provadei fatti una prospettiva sostanzialmenteantistorica.I fermenti culturali e il dibattito politicoall’interno del regno sabaudo nonsono ovviamente ridotti al solo Gioberti.Negli stessi anni in cui il sacerdote torineserifletteva sul “primato degli italiani”un altro personaggio politico torinese, illiberale Cesare Balbo, pubblicava il testoLe speranze d’Italia, che in un certo qualmodo si poneva come “complementare”all’opera di Gioberti, affrontando conmaggior attenzione e realismo pragmaticoi due temi da lui colpevolmente tralasciatio, come si è visto, appena toccati. Balboauspicava un ritiro della presenza austriacadal Lombardo-Veneto tramite mezzidiplomatici e proponeva, come lo stessoGioberti, di puntare a un’unità d’Italiarealizzata su un modello federalista, vagheggiandouna confederazione che avessei suoi due poli nell’autorità morale delpapato e nella forza in armi del Regno diSardegna.Un’ultima figura politica di rilievo nelpanorama piemontese, che merita di essereaccennata perché attinente al discorsosvolto finora, è Massimo D’Azeglio, autoredi un opuscolo (Gli ultimi casi di Romagna,1846) in cui si criticavano aspramentesia il malgoverno pontificio sia i tentativiinsurrezionali attuati nella penisola (speciea opera delle società segrete), additaticome inutili se non addirittura controproducenti.Si proponeva viceversa una viafatta di riforme graduali, che lasciasseperò aperta la possibilità di un apporto(principalmente inteso come militare) deire sabaudi. D’Azeglio è un personaggiopiuttosto singolare: fu intellettuale romantico,pittore e scrittore prima e più che politico,autore fra l’altro del celebre EttoreFieramosca, o la disfida di Barletta. Egliben sta a significare e a segnalare come ildibattito di cui abbiamo appena cercato didelineare i contornifosse ben piùche una discussionesterilmente,astrattamente politicae a cui solisi interessavano i“politici di professione” (per usare un terminemoderno e gergale). Era, invero, untema che stimolava le corde più profondee reattive del sentire comune, abbracciandouna classe di intellettuali che andavaben oltre la mera classe politica.Possiamo tornare a questo punto a CarloCattaneo, l’acuto uomo politico meneghinoche ci ha offerto la citazione dallaquale abbiamo preso le mosse. Negli anniin cui il neoguelfismo conosceva la maggiordiffusione e il maggior successo inPiemonte, in Lombardia nasceva, da unretroterra sostanzialmente formatosi sullacultura illuminista, un “partito” federalista,democratico e repubblicano il cui capofilaera appunto Cattaneo. Egli avversavaTravagliata, complessa, precariaè stata non solo la fondazionedello Stato nazionale italiano,ma anche la sua concezione.l’ipotesi di un’unificazione guidata da unPiemonte ancora clericale e monarchicoe proponeva di puntare in prima istanzasulle riforme politiche e sullo sviluppo deisingoli Stati, uno sviluppo che interessassel’aspetto economico ma anche quello delleinfrastrutture, delle vie di comunicazione edell’istruzione pubblica. L’obbiettivo finaleche Cattaneo auspicava era invero alquantodiverso da quello della frangia politica deimoderati; egli pensava a una confederazionerepubblicana che si rifacesse al modellodella Svizzera (paese in cui Cattaneo avevasoggiornato a lungo) e degli Usa, che lasciasseampi margini di autonomia locale eche fosse premessa e base per la costituzionedegli Stati Uniti d’Europa, cui accennanel testo da noi citato con una lungimiranzalucida ed esatta, sconosciuta agli altriartefici della politica del suo tempo, comela costituzione di un’Unione Europea semprepiù ampia dimostra.Proviamo a tirare le fila di questo rapidoschizzo delle posizioni che erano incampo negli anni in cui si preparò e realizzòl’unità d’Italia. Si è tentato di mostrarequanto travagliata, complessa e precariasia stata non solo la “fondazione” di unoStato nazionale italiano, ma anche la suasemplice “concezione”. Oggi il federalismoè tra i temi politici più sentiti e affrontati.Pure, se da un lato non si parlapiù (coerentemente con il mutato contestostorico) di un primato papale, dall’altro paionouscite dal vocabolario della politicaparole come “solidarietà, sviluppo comunedelle infrastrutture e del sistema dell’istruzione”.Appaiono poco chiare le competenzerispettive; i singoli soggetti politici,nazionali e locali sembrano operare, piùche in sinergica sintonia, con dissonanteincoerenza. Il federalismo, il riconoscimentodi particolarità e autonomie sono,l’abbiamo visto, istanze vecchie quanto epiù del nostro Stato. Purché non divenganoparticolarismi, dobbiamo comprendere cheè necessario confrontarsi con esse, perchél’Italia non muoia in silenzio, proprio mentretutt’attorno si sprecano i coriandoli, lefeste e i discorsi per festeggiare il suo centocinquantesimoanniversario.panorama per i giovani • 7


150 anni di Unità d’ItaliaIl prestigio di vecchie capitalie il sogno unitarioDopo la costituzione dello Stato italiano le antiche capitali dei regnipre-unitari sono destinate a una lenta e inesorabile involuzioneprovincialista: evanescenti ombre alle periferie dell’Italia.di Marianna Meriani“Ogni collettività umana avente un riferimentocomune e una propria cultura e unapropria tradizione storica, sviluppata suun territorio geograficamente determinato[…] costituisce un popolo. Ogni popolo hadiritto d’identificarsi in quanto tale. OgniSolo il 17 marzo 1861 l’Italia puòproclamarsi uno Stato unitario eprepararsi ad affrontare le nuovesfide della modernità.popolo ha diritto di affermarsi come Nazione”.È la dichiarazione dei diritti collettividei popoli, firmata a Barcellona nelmaggio del 1990, a positivizzare il dirittonaturale dei popoli all’autodeterminazioneesterna e alla liberazione dal giogo straniero.È stata l’Italia tutta ad aver scosso lesue dolenti membra, vessate ormai da tanti,troppi secoli, dall’invasore straniero. È statoil ΧIΧ secolo il tempo dei grandi motiliberali, che hanno visto una nazione nonancora Stato in vestedi attrice sul setdella storia, nel disperatodesideriodi unire quanto erastato fino a quelmomento artificialmentediviso, non potendo più metterea tacere quello spirito di ricongiungimentoche anelava a costituire l’Italia e lanciavaun triste grido all’invasore perché liberasseuna terra che non gli apparteneva: “o stranieri,nel proprio retaggio / torna Italia, e ilsuo suolo riprende; / o stranieri strappatele tende / da una terra che madre non v’è”(Marzo 1821, A. Manzoni).Solo il 17 marzo 1861 l’Italia può proclamarsiuno Stato unitario e prepararsicosì ad affrontare le nuove sfide della modernità,dovendo però far fronte a una seriedi problematiche derivanti dal repentinomutamento istituzionale. Sicuramente nonpossono essere passate sotto silenzio lequestioni connesse all’involuzione provincialistadelle capitali dei regni pre-unitari,anche se non manca qualche eccezione percittà come Torino, che, pur spodestata nel1865 dall’elevazione di Firenze a capitaledel neonato Regno d’Italia in attesa dicedere lo scettro a Roma, vivrà comunqueun grande sviluppo futuro in quanto centropropulsore del vecchio regno sabaudo, divenutoleader nella conduzione della politicaitaliana. È principalmente Napoli, chedel vecchio Regno delle Due Sicilie erastata florida capitale, a divenire spettro dise stessa, passando da un’antica condizioneche l’aveva vista protagonista sulla scenaeconomico-culturale a testimonianzaancor viva di quella lacerazione profondatra un Nord all’avanguardia e un Sud og-Foto: iStockphoto/lrescigno8 • n. 3, settembre-dicembre 2010


150 anni di Unità d’Italiagetto di disattenzioni, ma che il trasformismorende appetibile. Non si può nasconderequesta realtà, tanto che veementi sonole accuse di intellettuali come Salvemini,che negli Scritti sulla questione meridionalearriva a sostenere che “se dall’unitàil Mezzogiorno è stato rovinato, Napoli èstata addirittura assassinata: ha perduto lacapitale, ha finito di essere il mercato delMezzogiorno, è caduta in una crisi che hatolto il pane a migliaia e migliaia di persone”.Nel saggio Nord e Sud dei primi annidel Novecento, Francesco Nitti delinea connon minore realismo le differenze tra laNapoli post-unitaria e quell’antica panaceadel meridione, che, grazie agli stabilimentiserici e ai numerosi cotonifici, potevavantare la propria condizione di principaleesportatrice di prodotti tessili del Regnodelle Due Sicilie, seguita poi dalla vicinaSalerno, che aveva così pregiati lanificida essere stata ribattezzata “la Manchesterdelle Due Sicilie”. Non meno sviluppatoera il settore dell’industria pesante grazieal polo metalmeccanico di Pietrarsa, cheproduceva materiali per navi e locomotive,divenendo col tempo la più grandefabbrica di tutta la penisola. Il Regno delleDue Sicilie aveva poi, oltre alle risorsecampane, altri importanti centri propulsoriin territorio calabrese e siciliano, dove vierano rispettivamente rinomate fonderieper la produzione della ghisa e fabbricheper la lavorazione dello zolfo. Verosimile,dunque, risulta il quadro tratteggiato daNitti, che presenta una stima precisa delcontributo portato da questo florido regnoalla ricchezza italiana, il cui patrimonioammontava a circa quattrocento milioni dilire oro, contro i novanta del Granducatodi Toscana e dello stato pontificio e i soliventisette del Regno di Sardegna. Il regnoborbonico, pur apportando la più bassapercentuale di debiti e la maggior ricchezza,deve coprire il ben più consistentedebito del regno sabaudo e sopportare laferita ancor più dolorosa della perdita dellapropria leadership economica a causa diun’industrializzazione volutamente realizzatanel Nord.Con l’Unità d’Italia Napoli (nella paginaprecedente), cuore del Regno delle DueSicilie, perse lo status di capitale; lostesso destino toccò a Firenze (a destra),ex capitale del Granducato di Toscana.Firenze, però, fu capitale del Regno d’Italiadal 1865 al 1871. Nella pagina successiva:Torino, capitale del Regno di Sardegna, fucapitale italiana dal 1861 al 1865.Non tutto però cambia, non si modificaquell’ingiusta stratificazione della società,per la quale l’essere è definito dal possederee l’acuta critica di Giuseppe Tomasidi Lampedusa, secondo la quale cambiatutto affinché nulla cambi, sicuramenterispecchia quellacristallizzazionesociale non affrancatasidal vecchiobaronaggio. Quella“Babele dellastoria” – comeusava definirla Stanislao Nievo – non riescea sottrarsi agli artigli di una storia forsetroppo rapace e poco rispettosa delle suesecolari tradizioni.Passando al caso toscano, invece, unaserie di errori caratterizza la reggenza diLeopoldo II, causando l’inesorabile declinodel Granducato, che sin dagli alboridella sua costituzione si era distinto per leesemplari novità in campo socio-politico,ma che nel decennio pre-unitario non sagestire il repentino cambiamento istituzionale.La dinastia lorenese poteva vantaretra i suoi esponenti Leopoldo I, sovranoilluminato che aveva retto le redini delGranducato nella seconda metà del ΧVIIIsecolo e dato avvio a una serie di grandi riformepolitico-economiche. Degne di notaerano state l’abolizione del datato sistemacorporativo, l’eliminazione delle elevatetariffe doganali e la loro sostituzione conmeno onerosi dazi protettivi, l’imposizionediretta dei tributi e la predisposizione diun piano per la riduzione del debito pubblico.La novità più significativa era stata,però, la rinnovata legislazione penale: nel1786 la Toscana è il primo paese europeoad abolire la pena di morte e il 30 novembre,giorno della promulgazione del nuovocodice penale, è diventata la data simbolocontro la pena capitale (attualmente sonoDopo l’Unità, Napoli, che erastata la florida capitale delRegno delle Due Sicilie, divennelo spettro di se stessa.141 i paesi che hanno stabilito, di diritto odi fatto, di non eseguirla più). Lo stesso carisma,tuttavia, non caratterizza la politicadi Leopoldo II, teso a difendere le sorti delsuo trono più che il benessere del Granducato:lega la sua politica alle sorti della dominazioneaustriaca sul Lombardo-Veneto,e, costretto ad una rovinosa fuga in seguitoalla costituzione della fragile RepubblicaToscana, proclamata il 15 febbraio 1850all’arrivo di Mazzini a Livorno e a conclusionedei moti indipendentisti, non hail coraggio di accettare l’invito sabaudo aunirsi nella lotta contro l’Austria. Inevitabileè l’abdicazione e la consegna dellapropria terra ai Savoia, che nel febbraiodel 1860 procedono alla sua annessioneal Regno di Sardegna. Anche la Toscanasi avvia a divenire solo una provincia delfuturo Regno d’Italia, a cui consegna unaricca tradizione politico-culturale. La terradi Dante e del Petrarca, la culla della linguaitaliana, la patria del riformismo illuminatonon è sottratta agli errori della politica enon esce indenne dagli inganni del potere.Foto: iStockphoto/da-kukpanorama per i giovani • 9


150 anni di Unità d’ItaliaAnche la Toscana si avviò adiventare una provincia del futuroRegno d’Italia, consegnandogliuna ricca tradizione culturale.Un’aria tutta particolare, invece, si respirain quel periodo nello Stato pontificio;un periodo di grandi e profondi cambiamenti,che coincise con il lungo pontificato(1846-1878) di Pio IX. I due scettri delpotere sono destinati a dividersi nel nuovoregno d’Italia, dove la sfera temporale puòessere gestita solo dall’autorità regia e alpontefice è riservata la guida spirituale.Questa rivoluzione non può essere accettatapassivamente dal papa, che, dopo labreccia di Porta Pia del 20 settembre del1870 e la successiva annessione dello Statopontificio al Regno d’Italia, riprende ilnon expedit del 1868 e invita i cattolici adastenersi dalla vita politica. Comincia inquesti termini la nota “questione romana”,per la quale un papa, che si dichiara ostaggiodel Regno, si ostina a non riconoscernela legittimità e a ribadire quanto già affermatonel 1850 in un accorato invito allepotenze europee a intervenire in proprioaiuto: “domandiamo che sia mantenuto ilsacro diritto del temporale dominio dellaSanta Sede, del quale gode da tanti secoliil legittimo possesso universalmente riconosciuto”.Il Regno d’Italia diviene uno“stato senz’anima” e dovranno passareanni prima che Roma divenga una capitaleeffettiva, che sappia assolvere al compitodi rappresentare la nuova istituzione e assumereil ruolo di faro dello stato-nazione.Bisogna attendere più di mezzo secolo perveder tramontare quell’ostilità resa manifestanella questione romana e giungere aun compromessoche trova nei PattiLateranensi del1929 la sua piùcompleta concretizzazione.La storia è fattadi continui sviluppi e involuzioni, ma ciòche non può essere passato sotto silenzio èil persistere dell’idea di nazione. Dopo 150anni dalla costituzione dell’Unità d’Italianon è più la questione romana a interessarele diatribe accademiche, è forse ancorala questione meridionale a far sorgerequalche interrogativo sulla gestione degliaffari statali e a essere inevitabilmentestrumentalizzata da una visione di cortoperiodo della politica, dimentica dell’idead’Italia come luogo spirituale, come terramadre, che ospita un popolo unito da unaricca eredità di lingua, tradizioni e comuniideali.10 • n. 3, settembre-dicembre 2010


150 anni di Unità d’ItaliaFoto: iStockphoto (empusa; craftvision)Italiani, popolo di poeti,santi ed emigrantiA centocinquant’anni dall’Unità, occorre una riflessione condivisa sulfenomeno emigratorio italiano, per affrontare al meglio le nuove sfidesocio-demografiche del Bel Paese.di Livio GhilardiDal 1861 ad oggi il numero dicittadini italiani che hannolasciato la loro terra d’origineha superato i 30 milioni.L’emigrazione è da sempre un elementopressoché onnipresente nella storia dell’Italiaunita. Sin dai suoi primissimi vagiti,lo stato italiano si è misurato con questofenomeno, la cui rilevanza non è legataesclusivamente all’ambito demografico,ma anche e soprattutto alle evoluzioni economichee sociali. Dal 1861 ad oggi, il numerodi cittadini italiani che hanno lasciatola loro terra d’origine verso altri paesi haabbondantemente superato i 30 milioni. Eil fenomeno, sebbene notevolmente lontanodai picchi numerici segnati nel primodecennio del XX secolo, non sembra arrestarsi.Esso assume semmai nuove formee riguarda diverse fasce della popolazioneitaliana, mentre cresce, di converso, l’immigrazioneverso l’Italia da parte, soprattutto,delle popolazioni di quei paesi che siaffacciano sul Mar Mediterraneo o la cuieconomia è ancora fortemente arretrata.Prima del 1861, gli Stati che di lì apoco sarebberostati assorbitidal Regno d’Italianon subivanoflussi migratori dilivello significativo,anche a causadelle politiche economiche da essi adottate.Sebbene si sia erroneamente portati apensare che l’emigrazione caratterizzassegià allora il Sud (all’epoca riunito sotto ilRegno delle Due Sicilie), in realtà furonosoprattutto gli stati della parte settentrionaledella penisola a essere protagonistidei primi flussi migratori, rivolti in particolareverso la Francia, la Svizzera e il nascentestato tedesco, mentre nel Meridionenon vi erano movimenti degni di nota.Con l’unificazione del Regno d’Italiatra il 1861 e il 1870, e in particolare dal1876, cominciarono i primi veri e propriflussi migratori verso il resto d’Europa ele Americhe. Ancora una volta, si trattòdi un fenomeno prevalentemente “settentrionale”:gli abitanti di Veneto, Friuli-VeneziaGiulia e Piemonte componevano il47% degli italiani che a fine Ottocento abbandonaronoil neonato regno alla ricercadi migliori fortune, cercando di lasciarsialle spalle difficilissime condizioni economiche.Anche al Sud, tuttavia, dal 1880iniziarono a profilarsi quelle dinamicheche avrebbero raggiunto livelli altissimidi lì a pochi decenni.La motivazione principale di un fenomenodi tale portata va certamente ricercatanegli sconvolgimenti economici, socialie demografici che segnarono i primianni della storia dell’Italia unita. Sebbenesi fosse ormai formato lo Stato italiano(non senza difficoltà e contrasti interni,basti pensare al fenomeno del brigantaggio),il neonato regno era tuttavia privo diunità economica. Lo sviluppo industrialeera solo agli albori e riguardava esclusiva-panorama per i giovani • 11


150 anni di Unità d’ItaliaAlla fine dell’Ottocento la metadegli emigranti era l’America,ma nel secondo dopoguerradiventò l’Europa.mente il triangolo Torino-Milano-Genova,mentre nel resto d’Italia predominava ancoraun’economia agricola, quasi sempredi sussistenza o legata alla preponderantee ingombrante presenza di latifondisti. Itimidi passi avanti fatti a livello tecnologicoe un deciso miglioramento produttivonon fecero altro che radicalizzare ledivisioni di un paese ancora poco unito,creando contrasti e differenze sostanzialifra le varie classi sociali e fra le diversearee del regno, nonché tra i diversi settoridell’economia italiana dell’epoca. Talecrescita, inoltre, era del tutto incapace disoddisfare il notevole incremento demograficoche interessò il Regno d’Italia inquegli anni. A una decisa diminuzionedella mortalità infantile non corrispose,infatti, una riduzione della natalità, cheal contrario a fine Ottocento raggiunsepicchi altissimi. Venne così a crearsi unadisoccupazione crescente e fu propriouna tale drammatica situazione, unitaalla speranza di trovare fortune miglioriall’estero, a spingere milioni di italiani adabbandonare il Bel Paese, quasi sempresenza essere accompagnati da certezze oda progetti lavorativi e di vita.Tra le destinazioni più “gettonate”dagli emigranti italiani di fine Ottocentovi furono le Americhe. I trasferimentitransoceanici furono infatti favoriti dalnotevole sviluppo che ebbe la navigazionea vapore, soprattutto nei porti italianipiù importanti, quali Napoli, Palermoe Genova. Grazie a tale crescita, siridussero abbondantemente i costi delviaggio, nonché i tempi necessari perattraversare l’Atlantico. Le Americhe,inoltre, rappresentavano una grandissimaattrattiva per i lavoratori italiani. Sianegli Stati Uniti sia in Argentina e Brasilevi era un’amplissima richiesta di manodoperaspecializzata. Ma molti furonoi nostri migranti anche verso l’Uruguaye l’America centrale, così come versoalcuni paesi dell’Africa settentrionale ele colonie italiane nel continente nero.L’emigrazione verso l’Europa, invece,era ancora numericamente circoscrittaalla Francia e di molto minore rispetto aquella americana. Quest’ultima si ridussein seguito alla Prima Guerra Mondialesoprattutto a causa delle prime normerestrittive emanate dai quei paesi chefino ad allora avevano accolto milionidi migranti, non senza difficoltà e malumori.Spesso, infatti, gli italiani nonfurono ben accetti nei paesi dove si recavanoper cercare lavoro, come ha bendimostrato Gian Antonio Stella nel suobestseller L’orda. Quando gli albanesieravamo noi, edito nel 2002 da Rizzoli.Nelle pagine di Stella è possibile ritrovareracconti di veri e propri linciaggi edi altre drammatiche esperienze di tanticonnazionali partiti alla ricerca di unfuturo migliore e vittime di soprusi o diaccuse giudiziarie ingiuste (basti pensarealla vicenda degli anarchici Sacco eVanzetti). Insomma: gli italiani hannovissuto sulla loro pelle quel vocabolariodella xenofobia che oggi, purtroppo, siaffaccia nel nostro paese nei confrontidi quei migranti che la fortuna vengonoa cercarla da noi. L’emigrazione americanagiunse quasi a esaurirsi nel secondodopoguerra, mentre quella europeaebbe un enorme sviluppo. Privilegiate inparticolare Francia, Germania, Belgio eSvizzera. È in questi paesi che si trovanotutt’oggi le più grandi comunità di italianiall’estero, spesso riunite in nutriteassociazioni.In un’analisi storico-demografica dicentocinquant’anni di storia italiana nonbisogna dimenticare i flussi migratoriinterni, che hanno visto e vedono tuttoratantissimi lavoratori e studenti lasciare leregioni del Sud per quelle settentrionali.Qui l’economia ha avuto uno sviluppomolto maggiore rispetto a quella meridionale,la cui crescita è stata rallentatada politiche assistenziali e dall’influenzanegativa della criminalitàorganizzata.Nelle cittàdel Centro-Nordoggi è possibileincontrare tantissimistudentifuorisede che lasciano la terra d’originealla ricerca di maggiore organizzazioneuniversitaria o di migliori chance lavorative.Emblematici rimangono i treni che,carichi di studenti e lavoratori, percorronol’asse Nord-Sud durante le vacanzenatalizie, quando tutti i fuorisede fannoritorno a casa per trascorrere alcuni giornicon la propria famiglia, nella propria terra,come ben descritto recentemente dalgiovane scrittore pugliese Mario Desiatinel suo libro Foto di classe. U uagnon sen’asciot, edito da Laterza.Nell’Italia del XXI secolo il dato piùinteressante a livello socio-demografico èla cosiddetta “fuga dei cervelli”, ovveroquel fenomeno che vede tanti, tantissimigiovani di talento lasciare l’Italia verso paesistranieri nei quali la ricerca è più finanziatae dove possono sentire maggiormentericompensato il proprio lavoro in terminieconomici, di prestigio e di riconoscimentosociale. In un recente articolo di RosariaAmato, pubblicato su “La Repubblica”del 30 novembre 2010, è stato riportato undato preoccupante: negli ultimi vent’annil’Italia, anche a causa di politiche universitarieche non si sono rivelate abbastanzaefficaci, ha perso circa quattro miliardi dieuro in seguito alla fuga di giovani ricercatoriall’estero (la cifra è stata calcolatadall’Icom, Istituto per la Competitività,in un’indagine commissionata dalla FondazioneLilly e dalla Fondazione Cariplo,tenendo conto di 456 brevetti a cui hannocontribuito ricercatori italiani emigrati).12 • n. 3, settembre-dicembre 2010


150 anni di Unità d’ItaliaLa percezione che si ha è che l’Italiasia un paese in vera e propria transizionedemografica, che sembra diventare semprepiù un “paese per vecchi”, se si consideral’innalzamento dell’età media e soprattuttoil crollo radicale delle nascite che da anniinteressa le giovani coppie italiane, chenon sono mai state accompagnate da adeguatepolitiche di sostegno da parte dei varigoverni che si sono succeduti. È anche perquesto che l’Italia, dopo più di un secolo diemigrazione e di sviluppo economico, haattirato negli ultimi vent’anni una massicciaimmigrazione, ormai perennemente alcentro del dibattito politico, con propostedi contenimento o di integrazione tutt’altroche condivise tra gli esponenti dei partitie tra i cittadini, spesso non adeguatamenteinformati in merito. Spesso, purtroppo, nelrapportarsi agli stranieri che si trasferiscononello stivale, gli italiani dimenticano laloro esperienza secolare di emigranti e ilinciaggi subiti all’estero, generando quelleforme di xenofobia alle quali ho già accennatoe che, sebbene espressione di unapiccola minoranza, lasciano sconcertati egenerano contraddittorie riflessioni nellasocietà civile.In centocinquant’anni il Bel Paese,terra di santi, poeti e navigatori, si è caratterizzatoanche e soprattutto cometerra di emigranti, nelle forme più svariatee con le destinazioni più varie. Recentementel’inaugurazione del Museodell’Emigrazione presso la gipsoteca delComplesso Monumentale del Vittorianoa Roma ha ulteriormente riaffermato l’attualitàdel tema, con uno sguardo a 360gradi sul secolo e mezzo di fenomeni migratoriche hanno visto l’Italia protagonista,nel bene e nel male, da una partecon le storie disuccessi lavorativi,fortune, riscattodalla povertà eorgoglio italianoe dall’altra conquelle di linciaggi,esecuzioni, razzismo e torti subiti percolpa della propria cittadinanza o delproprio aspetto fisico. La collaborazioneall’allestimento della mostra da partedella Presidenza della Repubblica, dellaPresidenza della Camera, del Ministerodei Beni Culturali e del Ministero degliEsteri è un segno tangibile di quantoSopra: Ellis Island, isola di fronte allacittà di New York, è stata fra la finedell’Ottocento e la metà del Novecento ilprincipale punto d’arrivo degli emigrantiche volevano raggiungere gli Stati Uniti.Oggi ospita il Museo dell’Immigrazione(sopra il titolo alcune delle valigie che visono esposte).Negli ultimi vent’anni l’Italiaha perso più di quattro miliardidi euro per la fuga dei giovaniricercatori all’estero.lo Stato italiano, in primis negli organiche lo rappresentano, avverta la necessitàdi svolgere una profonda retrospettivasull’esperienza emigratoria vissuta eun’analisi accurata su quella immigratoriache oggigiorno vive. Occorre, indubbiamente,un’attenta e profonda riflessionesul fenomeno migratorio, per nondimenticare chi siamo stati, cosa abbiamoprodotto nel nostro paese e all’esteroe ciò che abbiamo subito, ma soprattuttoper diventare cittadini migliori di unmondo sempre più globalizzato.Foto: iStockphot/xlh1panorama per i giovani • 13


150 anni di Unità d’ItaliaFoto: iStockphoto/labsas“L’Italia è lunga”ovvero un viaggio nella rete stradale eautostradale italiana dal 1860 ad oggiL’unità nazionale passa anche attraverso la rete sempre più fitta di strade eautostrade che, insieme con quella ferroviaria, ha accorciato le distanze frauna città e l’altra dello stivale. La prima fase fu inevitabilmente quella dellacostruzione. Oggi il problema principale è quello dell’ammodernamentoe della manutenzione.di Claudia Macaluso14 • n. 3, settembre-dicembre 2010


150 anni di Unità d’ItaliaRicordo che quando, da bambina, d’estatepassavo alcune settimane dai nonni in unpiccolo paese del centro della Sicilia, nonera raro ascoltare i racconti degli anzianiche rievocavano le loro esperienze trascorsee soprattutto i periodi passati nell’esercito,che spesso erano l’unica occasioneper loro di “vedere il mondo”. E se qualcheragazzo passava, lo zaino in spalla, l’ariaabbattuta di chi parte per la leva (allora ancoraobbligatoria), ecco fioccare gli augurie le domande, nonché l’inevitabile commentoall’udire la destinazione: “Vai, vai...ché l’Italia è lunga”. Questa “lunghezza”dell’Italia è rimasta nella mia memoria e,probabilmente accentuata dalla consapevolezzadi vivere a una delle estremità diquesta lunga penisola, mi ha sempre accompagnatanei miei viaggi.Certo lo spiccato sviluppo longitudinaledello stivale non è l’unico mito che accompagnala storia dei trasporti italiani: le vicendedi strade e autostrade, infatti, si sono intrecciatealla vita quotidiana come alla letteraturae, se non possiamo vantare leggendecome la route 66, di certo un mito nostranocome l’autostrada Salerno-Reggio Calabriafa ormai parte del patrimonio nazionale. Pernon parlare delle strade ferrate che, oltre aessere fonte di ispirazione artistica (pensiamoa canzoni come Il fischio del vapore, Lalocomotiva o a Conversazione in Sicilia diElio Vittorini, per metà ambientato in treno),hanno per anni trasportato i poveri delmeridione verso il Nord del paese, in cercadi una vita più dignitosa. Addentriamoci,dunque, in questa storia piena di fascino: lastoria delle strade italiane, che è storia delpaese e dei suoi cittadini.Le originiNel 1861, all’indomani dell’Unità d’Italia,le differenze economiche e culturali tra ilNord e il Sud del paese si fanno evidentianche nella dotazione della rete stradale.Secondo i dati dell’Anas, infatti, nel1864, mentre perla Lombardia sicontavano 6 km distrada ogni 1.000abitanti, in Campaniase ne avevano0,8 e nelle isolesolamente 0,2. Uno dei primi compiti delneonato governo italiano fu quindi quellodi riordinare la rete stradale e muovere iprimi passi per uniformare la rete dei trasportilungo la penisola: nel 1865 venneistituito il Ministero dei Lavori Pubblici, siiniziò il riordino delle strade ferrate e si stabilironole regole in materia di espropriazioneper cause di utilità pubblica. Nellostesso anno le strade vennero classificate innazionali, provinciali, comunali e vicinali.Fino al 1870, tuttavia, la realizzazione di unefficiente e vasto sistema viario passò in secondopiano rispetto allo sviluppo della reteferroviaria nazionale, più che altro a causadel pesante deficit di bilancio che non permettevainvestimenti statali adeguati; infatti,fino a quando non furono i dirigenti delleferrovie stesse a domandare un maggioresviluppo della viabilità minore per agevolarei commerci, lo Stato scaricò sugli entilocali l’onere della costruzione di nuovestrade e della manutenzione di quelle esistenti.Come possiamo immaginare, però,nel neonato stato unitario province e comuninon avevano la forza economica peradempiere a questo compito e lo sviluppodella rete stradale ne risultò compromesso,fino a una serie di provvedimenti (varati trail 1868 e il 1870) che posero le redini delsistema viario di nuovo nelle mani del governocentrale, che sempre in quegli anni,si incaricò anche dell’allacciamento dei sistemistradali preunitari.Il NovecentoDopo questi primi incerti passi, la retestradale italiana raggiunse, nei primi annidel Novecento, i 138.097 km, contro gli89.765 km del 1864. I primi anni del Novecentovidero anche l’adozione di unapolitica detta di “collegamento”: venivanoindividuati alcuni snodi principali, stazioniferroviarie, porti postali e capoluoghi,attorno ai quali costruire una rete stradalea raggiera, che li collegasse tra loro e coni comuni più isolati della penisola. Primoesempio di politica dei trasporti autenticamentenazionale furono appunto leleggi sul “collegamento” del 1904-5, cheportarono a uno sviluppo sostenuto dellaNel 1864, mentre per laLombardia si contavano 6 kmdi strada ogni 1.000 abitanti, inCampania ce n’erano 0,8.rete viaria. Quando, nel 1919, con l’annessionedella Venezia Tridentina e dellaVenezia Giulia, il patrimonio stradale italianosi accrebbe di 4.000 km, la rete necontava ormai ben 170.000.panorama per i giovani • 15


150 anni di Unità d’ItaliaFoto: iStockphoto (manichino; tommaso79)Superati i primi anni del dopoguerra,prese corpo, sull’onda di un rinnovato sviluppoeconomico, un progetto innovativo:l’autostrada, ovvero “una nuova strada riservataesclusivamente al traffico a motore”.Come riporta l’Anas nei suoi archivi,è nel 1922 che l’ing. Piero Puricelli elaboròil progetto dell’autostrada Milano-Laghi;il 21 settembre 1924 ne fu inauguratala tratta iniziale, la Milano-Varese. Conl’avvento del fascismo, lo sviluppo dellarete stradale divenne un obiettivo prioritariodel governo, anche per ragioni propagandistiche.Nel 1928 nasceva l’Aass,Azienda autonoma statale della strada(l’antenata dell’Anas, Azienda nazionaleautonoma delle strade). Lo sviluppo dellarete, invece, subiva una parziale battutad’arresto: tra il 1923 e il 1938 ci si occupapraticamente solo dell’autostrada edei suoi primi 479 km e vengono costruiti,invece, solamente 3.296 km di strademinori. Tra il 1938 e il 1941 i chilometridi autostrade estrade in eserciziorestano gli stessi el’entrata in guerranel 1940, fra le altreterribili conse-Nel primo dopoguerra nacqueuna nuova idea: l’autostrada, unastrada riservata esclusivamenteal traffico a motore.guenze, avrebbeportato nel giro di pochi anni al dissestocompleto delle reti di trasporto esistentie a un vero e proprio stato di emergenzadella rete viaria.Chi avrebbe potuto prevedere, dunque,che meno di dieci anni dopo, con la motorizzazionedi massa, gli italiani si sarebberoletteralmente riversati sulle strade?Nel 1955 la Fiat presenta la 600, la primautilitaria dal prezzo contenuto. Nel 1956la Piaggio produce il milionesimo esemplaredella Vespa. Un anno dopo, è la voltadella Fiat 500. Dal 1954 al 1964 le automobilipassano da 342.000 a 4.670.000e i motoveicoli da 700.000 a 4.300.000.Non è un caso, perciò, se è proprio in questoperiodo che si realizza un incrementodavvero epocale della rete autostradale:dai 500 km di autostrade del 1941 si passaai 5.500 del 1975. La crescita economicadel paese porta con sé anche l’esigenza di“allargare” i propri confini: l’apertura, nel1964, del Traforo del Gran San Bernandoe l’inaugurazione, nel 1965, del Traforodel Monte Bianco risolvono il problemadelle comunicazioni stradali con la Svizzerae con la Francia durante i mesi invernalie costituiscono un traguardo per ilpaese intero. Nel 1975, infine, hanno inizioanche i lavori per il Traforo del Frejus,aperto cinque anni dopo.Gli ultimi trent’anniGli anni Ottanta, iniziati con un nuovoslancio per il rilancio delle rete viaria (ilUn treno ad alta velocità Freccia rossaentra nella stazione di Milano Centrale. Inalto: un tratto autostradale in Abruzzo.16 • n. 3, settembre-dicembre 2010


150 anni di Unità d’ItaliaPiano Decennale) e il riassetto della strutturadi manutenzione (scompaiono le casecantoniere, per esempio, soppiantate danuclei operativi e da una rete organizzativatelematica) si chiudono con la tornataNel 2010 sono circa 5 milionii viaggiatori che transitanoquotidianamente sulla retenazionale di autostrade.dei lavori straordinari in vari capoluoghidi provincia per i campionati mondiali dicalcio. Gli anni Novanta, invece, vedonoil paese e molte aziende pubbliche, tra cuil’Anas, coinvolti in episodi di corruzionee in tempeste giudiziarie. Il commissariamentodell’Anas, protrattosi fino al 1994,causa un periodo di stasi nello sviluppodella rete viaria; solo eventi tragici comel’incendio della galleria del Monte Biancosembrano riportare l’attenzione sui necessariinvestimenti nei settori del controllotecnologico e di qualità e della previsionedelle condizioni di circolazione. Gli anniDuemila, infine, sono invece quelli delgrande sviluppo della tecnologia informaticae dell’inserimento di dispositiviinterattivi per la comunicazione lungo itracciati. Si avvia, tra le altre cose, il processodi regionalizzazione e privatizzazionedel settore stradale e autostradale. Tra irisultati maggiori del decennio, ricordiamol’ammodernamento del Grande RaccordoAnulare di Roma e la costruzione di nuoveautostrade in tutto il paese, la cui gestioneè in parte demandata a società controllatedall’Anas e dalle regioni, in parte alla societàper azioni Autostrade per l’Italia. Nel2010 sono circa 5 milioni i viaggiatori chetransitano quotidianamentesullarete nazionale diautostrade, che siestende ad oggiper ben per 6413,4km.Tutto perfetto, dunque? I problemidella manutenzione sono pressanti e,sebbene il paese abbia compiuto dal secondodopoguerra dei veri e propri passida gigante, la preferenza accordata altrasporto su gomma dagli anni Cinquantaha portato a ridurre il traffico merci surotaia a ben poca cosa, a intasare troppospesso le autostrade con autoarticolati ea rinforzare lobbies e gruppi di pressioneche a volte approfittano del loro potere,minacciando scioperi e serrate, senza tenerein conto il bene della collettività. Perquanto riguarda la ferrovia oggi, grazieall’alta velocità, il trasporto passeggeri èin ripresa; quello merci, invece, continuaa essere la cenerentola del settore, nonostantele promesse dell’alta capacità e ibenefici ambientali ed economici che deriverebberoda una più equa ripartizionedel trasporto di merci tra strade e ferrovie.Il dualismo strada-rotaia è stato unadelle caratteristiche del nostro sistema ditrasporto e non è stato ancora ricomposto.Se negli anni Venti era la rete stradalea soccombere a quella ferroviaria,oggi avviene il contrarioe le conseguenze sulle futuregenerazioni,soprattuttoper quanto riguarda l’inquinamentodell’aria,non potranno esseretrascurateancora alungo.LA STRADA FERRATA NELL’ITALIA UNITAMolti storici ritengono che le ferroviesiano state il settore trainante dellaseconda rivoluzione industriale. InItalia, invece, lo sviluppo della stradaferrata è stato piuttosto tardivo espinto per lo più da esigenze di “unitànazionale”. Dall’apertura della primalinea, la Napoli-Portici, nel 1839,all’Unità, l’Italia vede svilupparsisoprattutto la rete regionale: circa2.000 km di linea, di cui più dellametà in Toscana, Emilia-Romagna,Lombardia e Piemonte. Nel primoventennio post-unitario le ferroviesono al centro dell’azione di governo:6.500 chilometri di nuova linea sonomessi in esercizio, nel 1875 vienefi nalmente raggiunta anche ReggioCalabria e nel 1880 sono completatele ferrovie di Sicilia e Sardegna.Segue poi lo sviluppo delle lineeminori, in ottemperanza alle politichedi “collegamento” in auge nelprimo Novecento. Nel 1900 la reteferroviaria è davvero nazionale. AllaGrande Guerra l’Italia arriva quindicon 17.500 km di strada ferrata: unnotevole progresso per il neonatostato unitario, ma pur sempre menodella metà rispetto alle grandipotenze europee di allora.Ed oggi? La rete di alta velocitàitaliana, con i treni Freccia rossa eFreccia argento, corre da Torino aSalerno per quasi 1.000 chilometri,attraversando 6 regioni, 17 provincee 161 comuni, un territorio in cuivive e lavora oltre il 65% dellapopolazione. Insomma, come silegge sul sito di Trenitalia Spa, “lefrecce corrono veloci verso il futurodi un’Italia più unita, riducendo ledistanze con livelli di massima qualitàe sicurezza. Più velocità, più treni,più servizi: una vera rivoluzione delmodo di vivere e di viaggiare degliitaliani”. Ma cosa accade lungo lemigliaia di chilometri che sono rimastia velocità “normale”? Le periodicheproteste dei pendolari per i disservizisulle tratte che sono costretti apercorrere due volte al giorno sonoun triste richiamo alla realtà di unpaese ancora “diviso”.Per approfondimenti sui primicinquant’anni delle ferrovie italiane:S. Fenoaltea, L’economia italianadall’Unità alla Grande Guerra, Laterza,Roma-Bari 2006 (cap. 5, “Le ferrovie”).panorama per i giovani • 17


150 La anni salute di Unità nel mondo d’ItaliaFatta l’Italia,bisogna fare l’italianoDopo 150 anni l’unità linguistica del paese può considerarsi realizzata,anche se nelle varietà regionali dell’italiano si prolunga (fortunatamente)la tradizione e la ricchezza dei dialetti. La scelta del fiorentino comelingua di tutti.di Francesca ParlatiSe domandassi ai lettori in che lingua stoscrivendo in questo momento, la maggiorparte mi risponderebbe che ovviamentesto scrivendo in italiano. Certo, direi poiloro, ma in che italiano? Italiano comune,standard, letterario o regionale? Sì, carilettori, c’è n’è più d’uno e noi passiamodall’uno all’altro senza neanche accorgercidel cambiamento. La lingua italiana,come del resto tutte le lingue vive, ècome un’Idra, il mostro mitologico greco:un solo corpo e molteplici teste. Qual è ilcorpo originario, allora?All’alba dello Stato italiano, laquestione era parzialmente risolta: lalingua eletta, quella varietà d’italianoche sarebbe diventata ufficialmente lalingua italiana, era il fiorentino. EmilioBroglio, ministro della Pubblica Istruzionefra l’ottobre del 1867 e il maggiodel 1869, nel 1868 chiamò AlessandroManzoni a presiedere una commissionecol compito “di ricercare e proporretutti i provvedimenti e i modi, coi qualisi potesse aiutare e rendere più universalein tutti gli ordini del popolo la notiziadella buona lingua e della buonapronunzia”. Il Manzoni, che lavoravaQuale italiano parliamo?Italiano comune, italianostandard, italiano letterario,italiano regionale?in coppia con Ruggero Bonghi e GiulioCarcano, pubblicò i risultati dei suoilavori già nel 1868. La relazione, da luiredatta e dai colleghi sottoscritta, eraintitolata Dell’unità della lingua e deimezzi per diffonderla e risolveva unaquestione annosa e sempre argomentodi viva discussione in Italia, ovvero ladifferenza tra l’italiano letterario e l’italianonella sua totalità d’uso.Sin da quando l’italiano, in tutte lesue forme, è una lingua viva e parlata, viè sempre stata una differenza tra linguausata per fini dotti e lingua parlata ognigiorno dal popolo. Una prima forma diitaliano vero e proprio, che si differenziadal latino volgare, è la koinè (dal greco,lingua comune) delle corti rinascimentali,di base fiorentina, che si caratterizzavapoi nelle diverse zone a seconda delleinfluenze locali. La koinè era diversadalle lingue (non si può parlare ancoradi dialetti) parlate nelle varie zone, eppurel’una influenzava l’altra: la linguadel posto, infatti, integrava in sé paroleestranee al suo vocabolario e la koinè, asua volta, assumeva fenomeni foneticitipici della zona, trasformando parzialmentele parole. La comunicazione avvenivacosì su due binari, distinguendo lalingua usata per la comunicazione scrittae dotta da quella per tutti gli altri scopi,tracciando un confine invalicabile che ilManzoni abbatterà con le varie redazionidel Fermo e Lucia e dei Promessi Sposi.Nelle diverse introduzioni all’opera, dalui stesso modificate a seconda delle edizioni,troviamo tutto il percorso manzonianosulla sceltadella lingua,perfetto specchioa rovescio delpercorso che lanostra nazioneaffronterà neglianni, con l’avvicendarsi delle teorie sullalingua. Il punto di partenza, estrattodall’edizione del 1823, vede il dialettonella parte del leone: la sua perdita sarebbeuna gravissima menomazione dalpunto di vista culturale e personale, inquanto prima lingua di molti popolanie non. Il dialetto poi si riverbera anchenella cultura scritta, con parole e locuzionilocali, che danno un certo “coloremunicipale”, per voler usare le paroledel Manzoni. Nell’ultima introduzioneai Promessi Sposi, invece, il Manzoniha ormai maturato definitivamente il suopensiero e vede il futuro nella perfettalingua comune, il toscano fiorentino, cheavrebbe dovuto appianare ogni differenzalinguistica in tutta l’Italia.Questa posizione, espressa anche nellarelazione che ho già citato, è il puntodi partenza delle prime politiche delloStato unitario. Il problema diventava allorail metodo di diffusione della linguasu tutto il territorio, indicato anche questodalla relazione: le soluzioni erano lacompilazione di un vocabolario, il Novovocabolario della lingua italiana secondol’uso di Firenze (1870-1874), presente intutte le scuole e abbastanza economico dapermetterne l’acquisto anche ai privati,la revisione dei testi scolastici da parte difiorentini e la circolazione in tutta Italia dimaestri toscani. Non si trattava di un’operadi soffocamento dei dialetti, ma di promozionedel fiorentino a livello di linguanazionale non solo per gli strati dotti dellapopolazione, ma per tutto il neonato e, perla maggior parte, inconsapevole popoloitaliano.Foto: iStockphoto.com/Ugly_Mau18 • n. 3, settembre-dicembre 2010


Il futuro della terza etàSi è molto dibattuto sull’effettivo numerodi italofoni nel periodo immediatamentesuccessivo all’unificazione italiana,in quanto il numero varia notevolmente aseconda dei dati presi in considerazione.Secondo gli studi del De Mauro (1970),gli italofoni erano circa 600.000 su unapopolazione di 25 milioni di individui,ovvero appena il 2,5%. Questi dati furonoottenuti calcolando, però solo il numerodella popolazione scolarizzata, trascurandoaltri elementi importanti, consideratiinvece nei calcoli del Castellani. Egli infattiattesta come il numero di italiani conpossibilità di accesso all’istruzione e allacultura fosse più alto, aumentando così di390.000 il numero di italofoni. Inoltre ilCastellani calcola come italofoni anchetutti gli abitanti della Toscana e, dal 1871,quelli del Lazio (analfabeti e non), perchélinguisticamente prossimi al toscano. Ilconto sale così a 2.220.000, il 9,5% dellapopolazione. A queste stime bisogna ancheaggiungere chi aveva la competenzapassiva dell’italiano, ovvero lo comprendevasenza parlarlo: basti pensare che neipaesini del Sud e anche in qualcuno delNord, era indispensabile capire l’italianoper avere rapporto con i notabili del paese(il medico, il farmacista e l’avvocato), disolito gente istruita che non sempre usavail dialetto. Dialetto che, comunque, avevaancora una forte influenza e un forteutilizzo anche nelle classi più colte. Testimonianzedirette del Manzoni riportanoche esso era utilizzato anche in conversazionidi alta cultura e che comunquegià esistevano variazioni regionali diitaliano, come il “parlar finito” milanese(così chiamato perché consisteva generalmentenel concludere le parole, che per lamaggior parte neldialetto milanesevengono troncate).Il Manzonitestimonia ancheuna delle debolezzedell’italiano,ovvero la mancanza in esso di terminispecialistici e tecnici, facendone emergerel’insufficiente diffusione sul piano qualitativoe quantitativo.All’inizio del Novecento l’unità culturalee linguistica dell’Italia era ancora benlontana, nonostante i grandi progressi comunqueavvenuti. Contemporaneamente,si ha in questo periodo un grande sviluppodell’industrializzazione, con conseguenzeabbastanza rilevanti, quali una crescenteurbanizzazione (migrazione interna) euna sempre maggiore emigrazione versol’estero, con picchi di partenze annue superiorial mezzo milione.Con lo scoppiare della Prima GuerraMondiale si ha un’ulteriore spinta versola creazione di un’identità nazionale e diun’identità di lingua: si vengono a trovarea contatto uomini delle più diverse partid’Italia, obbligati a vivere esperienzetraumatiche fianco a fianco nella vita diUna prima forma di italiano veroe proprio è la koinè delle cortirinascimentali, di base fiorentinama influenzata dai vari dialetti.trincea. Questa comunione di sofferenzemette per la prima volta in contatto gentemolto distante culturalmente e geograficamente,rafforzando l’idea di essere,prima che del proprio paesino, italiani,con una lingua che non è il dialetto, mal’italiano, indispensabile per capirsi lontanoda casa.Dopo la fine della guerra, con l’avventodel fascismo, si ha un ulteriore raffor-panorama per i giovani • 19


Foto: iStockphoto.com/SpiderstockSopra: la radio prima e la televisionedopo sono stati importanti strumentidi diffusione dell’italiano. Nella paginaprecedente: definizione di “italiano” in undizionario del 1902.zamento dell’unità nazionale e linguistica,ma è dopo la Seconda Guerra Mondialeche arriva la spinta decisiva e definitivain questa direzione. Riprende in manieracospicua l’emigrazione verso l’estero ec’è un massiccio aumento dell’immigrazione“interna” dai paesi del Sud alle cittàindustriali del Nord. Entrambi questi tipidi immigrazione hanno diretti effetti sullalingua italiana. Chi emigra all’estero prendecoscienza dell’importanza dell’educazione,quindi aumenta in maniera notevoleil numero di figli di emigranti che frequentanole scuole. Per quanto riguarda ilprocesso di immigrazione interna, invece,si tratta di perdita e variazione dell’italianoe dei dialetti. Si parla, infatti, di urbanizzazionedi due tipi: inter-regionale oprovinciale ed extra-regionale. Nel primocaso il diretto effetto è l’indebolimentoAi tempi di Manzoni il dialettoveniva usato anche dalle classicolte, come dimostra il “parlarfinito” milanese.del dialetto, ovvero l’affiancamento a untermine dialettale di un altro di derivazioneitaliana, ma che risente degli stessieffetti fonetici del dialetto. Nel dialettobarese, ad esempio, per indicare il macellaiosi hanno due termini: uno più arcaico,(wcc’ir) e uno subentrato negli anniCinquanta, di cui prima non è attestataalcuna testimonianza, (mw’cellar); la formaitalianizzata non è certamente ugualeal termine in italiano, ma rende più facilecapire di cosa si stia parlando, rendendolocomprensibile anche a chi non è avvezzoal dialetto. Nel secondo caso (urbanizzazioneextra-regionale), invece, si ha unaprogressiva perdita del dialetto e l’acquisizionedel dialetto urbano del luogo.Parte importante nel processo di unificazionedella lingua la ebbero anche radio,televisione e cinema. Specialmentequesti ultimi due mezzi di comunicazionefurono pietre miliari: basti pensare a programmidell’immediato dopoguerra, comeper esempio Non è mai troppo tardi, chepromovevano l’apprendimento dei fondamentidella lingua e della grammaticaitaliane; un ruolo determinante fu svoltodal divismo: la gente imitava gli idoli chevedeva sul grande e sul piccolo schermo,usava le parole delle canzonette della radio,abbandonava il dialetto dei nonni perinseguire i mitidella televisione edi Cinecittà.Conseguenzadi questi fenomeniè la formazionedei vari italianiregionali, che altro non sono che i direttidiscendenti del “parlar finito” manzoniano,ovvero un parlare italiano inserendolocuzioni regionali tipiche, termini dialettaliitalianizzati, costruzioni sintatticheproprie del dialetto (per rimanerenell’ambito pugliese, l’utilizzo di alcuniverbi intransitivi come salire e scenderein maniera transitiva) e l’utilizzo della cadenzae della pronuncia tipici del posto.Questi processi non hanno coinvoltosolamente l’italiano. Nel corso dei secolitutte le lingue hanno subito variazioni,basti pensare alle varietà di francese,diverse da distretto a distretto o alle numerosevarietà di inglese derivanti dallosgretolarsi dell’impero coloniale. Si puòdire allora che queste lingue siano uniche?Nel caso dell’italiano si può parlare,quindi, di un’unica lingua italiana? Si puòdire che a 150 anni dall’Unità d’Italia siè giunti a un’unità linguistica, nonostanteche sussistano ancora i dialetti e le varietàregionali di italiano? La risposta nonpuò essere altro che positiva. La prova?Ripensiamo alla domanda posta all’iniziodell’articolo, alla quale a tutti sarebbevenuto spontaneo rispondere che stavoscrivendo in italiano: è proprio questonon avvertire come altra lingua i vari tipidi italiano regionale che ci conferma chel’italiano è ormai concepito come corpounico; le teste della nostra Idra sonovisibili chiaramente solo “agli addetti ailavori”, avvezzi a questi studi. Per il restodi noi l’italiano è uno e solo, il resto sonomere variazioni sul tema. Rimaniamocosì, allora, a osservare l’italiano cristallizzatoper un momento almeno, primache, come tutte le lingue vive e vitali,riprenda a fluire e a modificarsi, anchementre io sto scrivendo e voi state leggendo.Il momento è passato, l’italiano ègià cambiato.20 • n. 3, settembre-dicembre 2010


150 anni di Unità d’ItaliaFoto: iStockphoto.com/tirc83Non è mai troppo tardiDalla legge Casati alla riforma Gelmini, la scuola italiana non ha maismesso di cambiare volto. Non sempre è bene intervenire e non sempresi interviene dove si dovrebbe.di Nicola LattanziDai tre mesi fino ai tre anni è l’asilo nido.Poi tre anni di scuola materna. Poi bentredici anni di scuola primaria e secondaria(quanto ci piacciono gli anglismi! Saròrétro, ma preferivo di gran lunga una scuolaelementare e una scuola media, seguitedalle superiori). E poi ancora, variamentecombinati, cinque anni di università. Epoi... Insomma, se va bene – molto bene –ci schiaffano diretti dalla sala parto davantia un banco per ventiquattro anni circa. Enaturalmente non passerà una settimanadella nostra carriera scolastica senza chequalcuno ci dica che “non si finisce mai diimparare” e che “gli esami non finisconomai”. Per che cosa? Ci si batte e ci si ribatte,si riforma e si controriforma: progetti,sperimentazioni, maxi sperimentazioni deiprogetti. E nel frattempo, mentre siamo lì astudiare, subendopiù o meno passivamente(in questigiorni direi moltomeno che più) lafuria normativadei variamente nominatiMinistri dell’Istruzione, Universitàe Ricerca (?), non v’è chi ci assicuri chetutta questa fatica verrà ripagata con un postodi lavoro almeno parzialmente rispondentealle nostre aspirazioni e conformealla nostra preparazione. Oltre a ciò, cosaavrebbe dovuto essere la scuola? Scambiod’idee, luogo di integrazione e crescita spiritualedel paese. Invece, la meritocrazianon esiste, si vogliono fare classi separateper gli stranieri, si insegue il mito della privatizzazione-a-tutti-i-costi(a nostre spese,in tutti i sensi), alcune materie improvvisamentescompaiono e l’italiano non si sapiù dove sia finito – ma chi se ne importa:meglio salvare i dialetti! Mi chiedo: comesiamo arrivati a questo punto?Al momento dell’unificazione del paese,nel 1861, la percentuale di analfabetiera a dir poco sconvolgente. Vittorio EmanueleII si sarebbe apprestato a governareun regno in cui il 78% della popolazionenon sapeva né leggere né scrivere (rectius,non sapeva nemmeno scrivere il proprionome), con addirittura picchi del 91% inSardegna e del 90% in Calabria e Sicilia.La situazione del suo Piemonte era, secosì possiamo dire, migliore: 57%. E laquestione era che non solo c’era la quasitotalità della popolazione da alfabetizzare,ma che si doveva far loro imparareuna lingua. Sì, fatta l’Italia, sottolineavaD’Azeglio, si dovevano fare gli Italiani.E l’obiettivo, tutt’oggi, non mi sembra siastato pienamente raggiunto. Anzi. Arrivatial censimento generale del 1951 la situazioneera migliorata, indubbiamente invirtù del ruolo che il regime fascista avevariconosciuto all’istruzione: si passava,difatti, dall’1% del Trentino-Alto Adige al32% della Calabria. Nei decenni a seguirele cifre continuano ad assottigliarsi. Magarianche grazie ad Alberto Manzi, che,dal 1960 al 1968, fu il “caro maestro” permolti italiani con la sua trasmissione Nonè mai troppo tardi, che si proponeva come“Corso d’istruzione popolare per il recuperodell’adulto analfabeta”. Un programmache fa parte della memoria collettiva e chedimostra che, se si vuole, certi mezzi dicomunicazione di massa possono essereSolo il 20% degli italiani adultipossiede gli strumenti minimidi lettura, scrittura e calcolo perorientarsi nella nostra società.utilizzati come strumento di promozionesocio-culturale. D’accordo che era un’altratelevisione, d’accordo che era un’altraItalia…ma insomma. Come ha scritto ilpanorama per i giovani • 21


linguista Tullio De Mauro, che da anni sioccupa delle ricerche sull’analfabetismofunzionale, ad oggi “soltanto il 20% dellapopolazione adulta italiana possiede glistrumenti minimi indispensabili di lettura,scrittura e calcolo necessari per orientarsiin una società contemporanea”. E non bisognadimenticare che c’è un 5% che nonriesce a distinguere correttamente le letteree le cifre. A completare i tre quarti della popolazioneitaliana vi è una terza categoria,sempre individuata da De Mauro: quelladi coloro che, seppure in una condizionemigliore, trovano “oltre le loro capacitàdi lettura e scrittura un testo che riguardifatti collettivi, di rilievo anche nella vitaquotidiana e un’icona incomprensibile ungrafico con qualche percentuale”. Dati chedovrebbero notevolmente allarmare un popoloche tenta di continuare, in mancanzad’altro, a vendersi per la sua tradizionestorico-culturale, una tradizione che poi inrealtà rischia di ignorare. Cifre pericolose,dunque, che significano meno libri, menoIl recupero della lingua italiana èuno strumento fondamentale pergarantire la riuscita dei processidi integrazione.teatro, meno musei: insomma, meno cultura.Che è meno vita.La scuola italiana, però, non è da buttarevia. Viene rifatta e ritoccata anche troppospesso, ma tutta questa chirurgia non èche le faccia poi così bene. Leggere il nostrosistema d’istruzione, e conseguentementemodificarlo, sulla base di statistichee prove parametrate su categorie e modelliche sono lontani anni-luce dalla nostratradizione formativa non può che andarea distruggere quelplusvalore offertocidal nostro sistemaeducativo. Diquesto dobbiamoavere consapevolezza,del potenzialeche gli studenti italiani hanno, e chesono in grado di esportare, per un innatovantaggio dovuto alla invidiabile circostanzadi essere nati nel paese più ricco perpatrimonio storico-culturale.Troppo spesso, però, si è tentato di faredella cultura uno strumento di discriminazionee la si è vista come un privilegio adappannaggio di pochi. Così la legge Casati,che nel 1859, a ridosso dell’unificazione,istituiva una scuola elementare articolatasu due bienni eDon Milani voleva che glistudenti si costruissero unacoscienza sociale e civile; il suomotto era “I care”.obbligatoria peril primo biennio.Aldilà della positivaintroduzionedell’obbligo scolastico,seppur minimo,la legge mostrava il suo volto classistanel prevedere che dopo la scuola elementaresi potesse accedere al ginnasio solo apagamento. Altrimenti si sarebbe potutoproseguire solo con le scuole tecniche (alcunedelle quali, a ragion del vero, aprivanoall’università): l’esclusione degli studentiappartenenti alle famiglie meno agiate erala conseguenza naturale. Uno dei profili chefurono oggetto di ripetuti interventi neglianni a venire fu indubbiamente quello relativoall’obbligatorietà: ed ecco la leggeCoppino, che nel 1877 introduce l’obbligodel triennio delle elementari, dopo averleportate a 5 anni; e ancora la legge Orlando(1904) che lo prolunga fino al dodicesimoanno di età, istituendo un “corso popolare”formato dalle classi quinta e sesta; si proseguecon la legge Daneo-Credaro (1911) che,al fine di poter meglio disciplinare l’obbligo,rende la scuola elementare un serviziostatale, ponendo in questo modo a caricodello Stato il pagamento degli stipendi deimaestri. Ma il momento sicuramente piùsignificativo, per quello che sarà il successivosviluppo dell’istruzione in Italia, si ebbecon la “più fascista” delle leggi del governoMussolini: la riforma Gentile. Si trattadi una serie di atti normativi adottati tra il1922 e il 1923 su proposta dell’allora Ministrodell’Istruzione, il filosofo neoidealistaGiovanni Gentile. Egli impresse alla scuolaitaliana un’impronta che rimarrà pressochéindelebile. Fino ad oggi. L’obbligo venneFoto: iStockphoto.com (CFargo; kkgas)22 • n. 3, settembre-dicembre 2010


150 anni di Unità d’Italiaesteso ai quattordici anni, con un inizialeciclo elementare di cinque anni, uguale pertutti, al termine dei quali l’alunno potevascegliere tra il ginnasio, quinquennale e chedava possibilità di accesso ai licei (classicoe scientifico), e la scuola di avviamento professionale.Solo il liceo classico consentival’accesso a tutte le facoltà. Fu nel 1962 chesi ebbe l’unificazione della scuola media,mentre occorrerà il fermento sessantottinoper far sì che si liberalizzassero gli accessialle università. E sempre nel 1969 si modificòl’esame di maturità, dandogli quellastruttura che rimarrà quasi fino all’avventodegli anni Duemila, con due prove scritte(italiano e una specifica in funzione del tipod’istituto) e una prova orale con due materiea scelta tra una rosa di quattro, diverse perogni istituto scolastico. Nel frattempo eraintervenuta anche l’istituzione della scuolamaterna statale e di lì a poco si ebbe l’introduzionedel tempo pieno. Malgrado le continuenovità nei decenni seguenti, soprattuttodagli anni Ottanta, si registrò un aumentodella dispersione scolastica, con frequenzeirregolari, scarso apprendimento e bocciature.Probabilmente è stata proprio la difficoltàdi arrestare tale fenomeno che ha spintoil legislatore a rimaneggiare nuovamente lascuola italiana, mai soddisfatto e soprattuttoin una continua scissione con se stesso, peril succedersi di maggioranze politiche didiverso colore e diverso approccio al temain questione. Riforma Berlinguer e il nuovoesame di maturità (che sarà poi ulteriormentecesellato dal Ministro Fioroni), la RiformaMoratti e la Riforma Gelmini. Interventisempre poco ben voluti, perché magari nonsempre sentiti vicini e rispondenti alle vereesigenze che solo gli studenti, in quanto direttifruitori del servizio scolastico, possonoesprimere, sia pure confusamente.Ci vorrebbe qualcuno che scrivesseun’altra Lettera ad una professoressa. Quelladi don Milani fu una riflessione che avevasaputo intercettare il bisogno di cambiamentoavvertito non solo dagli studenti, maanche da educatori e genitori. Il bisogno direaltà, l’attenzione al milieu in cui nascono,crescono e si sviluppano i ragazzi, l’importanzadella cooperazione, l’insostituibilitàdello studio per lo sviluppo di una coscienzacritica e di un pensiero libero. Ciò chevoleva fornire don Milani erano strumenti:un’istruzione per crescere e andare avantisenza essere manipolati. Uno dei più granditimori che dobbiamo avere è proprio questo:che i programmi della scuola possanoessere strumentalizzati e le menti perversamenteriempite di nozioni che non possonoche avvilirle e renderle sterili. I care, dicevadon Milani. Non so quanti di noi riuscirebberoa pensare lo stesso di coloro che si occupanodella nostra formazione e della nostracultura. E vedere che gli studenti paionoadesso essersi destati da anni di maggiortorpore non è poiun cattivo segno,perché denota chewe care. Ci sonodue punti di straordinariapregnanzae attualità nellariflessione del parroco di Barbiana, aldilàdelle questioni di metodo. Egli insiste sullaimportanza di dare uno scopo ai ragazzi, inparticolare agli svogliati. Ecco quello di cuiabbiamo bisogno oggi: credere nella nostrascuola, nelle nostre università, potenziarlee non sottrarre a esse l’aria, dare stimoli efiducia agli studenti, affinché possano percorrerei loro anni di formazione nella convinzioneche tutto quello che si semina poisi potrà raccogliere, che le fatiche di nottiinsonni passate sui libri saranno ripagate.La prospettiva di un futuro è imprescindibileper un sistema che si possa dire funzionante.C’è poi un secondo aspetto che nonva tralasciato: la lingua. “È solo la linguache fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi eintende l’espressione altrui. Educare i ragazzia diventare sovrani”. Se preservare lapropria identità regionale può anche essereimportante, non si può tollerare una cosìscarsa conoscenza dell’italiano. Talvolta siè sottovalutato quanto esso sia alla base diun’effettiva integrazione, tra italiani ma anchetra italiani e immigrati, i quali dovrebberoessere messi in grado di apprendere laNel 1923 Giovanni Gentiledelineò, con la sua riforma,i tratti peculiari del nostrosistema scolastico.lingua del paese che li ospita. Un maestroManzi in più non farebbe male, magari alposto dell’ennesimo programma di artistituttofare. E non poco potrebbero servire imezzi di comunicazione: non solo una televisionedecente, ma anche il potenziamentodi internet e dei mezzi informatici. Le famosetre i erano cosa buona e giusta, se sifossero concretizzate appieno e se si fosseroaccompagnate a una quarta: l’italiano!Un tema come quello della scuola èsenza dubbio caldo e di scontro tra visionispesso e volentieri diametralmente opposte,ma ciò non significa che si debbanoabbandonare le speranze in un confrontocostruttivo, nel momento in cui ci si rendaconto che si può sempre imparare a farbene e che non è mai troppo tardi.panorama per i giovani • 23


150 anni di Unità d’ItaliaLa lince, simbolo dell’Accademia deiLincei, rappresenta lo sguardo acuto,metafora della ricerca scientifica.Foto: iStockphoto.com/andyworksI Lincei di SellaLa cultura risorta della neonata Italia.di Angela Rita ProvenzanoQuella dei Lincei è la più anticaaccademia scientifica delmondo e la massima istituzioneculturale italiana.Nel quadro della formazione degli statinazione,Italia e Germania godono diuna comune peculiarità: l’unità culturaleha preceduto quella politica e ha rappresentatola trama ideale sottesa ai fili dellastoria. Nonostante l’Italia sia stata finoal Risorgimento un “volgo disperso chenome non ha” (A. Manzoni, Adelchi, coroatto III), si è sempre potuta fregiare dellagrandezza della propria arte e dell’ereditàgreco-romana nel rivendicare il primatoculturale al momento della sua unificazione.In questo contesto, un ruolo importanteva riconosciuto all’Accademiadei Lincei, che ha sempre avuto come fineistituzionale la promozione e la diffusionedella scienza nell’orizzonte dell’unitàe universalità della cultura.Quella dei Lincei è la più antica accademiascientifica del mondo, nata nel 1603da un sodalizio tra il patrizio Federico Cesie tre suoi amici. Simbolo dell’Accademiaè la lince, animale dallo sguardo acuto,che ben incarna lo spirito di ricerca postoa guida della compagnia. Nella volontà delfondatore, infatti, il fulcro dell’Accademiarisiedeva in un’indagine scientifica chesapesse rapportarsi con spirito critico allatradizione aristotelica; ciò la distinse dalleaccademie italiane tardo-rinascimentali,di stampo letterario. Il sodalizio dei Linceirappresentò un fertile incontro di intellettualiitaliani e stranieri, tra cui Galileo Galilei.Purtroppo la morte del Cesi, avvenutanel 1630, coincise con un rapido declinodell’istituzione. Dei Lincei restò solo ilprestigio di un’illustre eredità storica chein molti tentarono di far rivivere.L’ultima e più importante riformadell’Accademiavenne realizzataall’indomani dellaproclamazionedi Roma a capitaledel Regnod’Italia. Essa fuvoluta dallo statista piemontese QuintinoSella, uno dei protagonisti del neonato regno(principalmente in qualità di intransigenteministro delle Finanze), uomodalla proteiforme intelligenza, ingegnere,scienziato e matematico (celebri i suoicontributi allo sviluppo dell’assonome-tria). Per il suo poliedrico profilo e perla formazione eminentemente scientifica,ma votata alla patria, Sella incarna lo spiritodi un’Italia che, a seguito dell’unificazione,nutriva la volontà di ricostruireun sapere libero da cui foggiare un’identitàculturale. Il passo più significativo,in tale direzione, fu riconoscere il valoreche l’Accademia aveva avuto nel quadrodella cultura italiana e portarla a nuovavita. Fu così che nel 1874 i Lincei tornaronoa pieno titolo sul teatro della storiad’Italia grazie alla ricostituzione dell’Accademia,ora coronata dagli attributi di“nazionale” e “regia”.I Lincei di Sella sono generalmenteritenuti i titolari ideali dell’eredità storicadel Cesi: il “Divino Amore” che ilfondatore dell’Accademia scorgeva nellalibera indagine scientifica, con Sella potérinascere e fondersi al clima risorgimentaledel neonato regno, facendo dei Linceiuno snodo cruciale del sapere laico italiano.La riforma di Sella prevedeva un allargamentodelle scienze lincee da quelletipicamente fisico-matematiche a quelleumanistiche (filosofia, economia, storia,diritto, filologia, archeologia). L’Accademiasi articolò quindi in due classi distinte:una per le scienze fisiche e l’altra perquelle “morali”. Sella profuse la sua lungimiranzae intelligenza nella restaurazionedell’Accademia per fare di quest’ultima edi Roma, sede storica dell’ordine linceo,il fulcro della vita culturale italiana. I Linceicosì rinati nel clima risorgimentalehanno superato oltre un secolo di storia,annoverando tra i loro membri personalitàdel calibro di Fermi, Righi, Castelnuovo,Pasteur, Einstein e ancora Croce, Gentile,Einaudi.Nel periodo fascista l’Accademiaconobbe un periodo di eclissi (confluìnell’Accademia d’Italia), ma poi vennericostituita, per volontà di Croce, sull’improntadi quella selliana.Nonostante le traversie storiche (eoggi anche finanziarie, data la riduzionedei trasferimenti dello Stato), l’Accademiaha saputo rinascere fortificata e orarappresenta la massima istituzione culturaleitaliana, con un prestigioso retaggioalle spalle e lo sguardo della lince puntatoverso il futuro.24 • n. 3, settembre-dicembre 2010


150 anni di Unità d’ItaliaCi sono anche gli italiani fra i grandidella scienza del Novecentodi Damiano RicceriIn un periodo in cui in Italia si (ab)usadi espressioni quali “fuga di cervelli” o“mancanza di Meritocrazia” non possiamodimenticarci di tanti italiani che hannoscritto pagine molto importanti nella storiadella scienza. Molti di loro hanno lavoratoall’estero, ma hanno cominciato o proseguitole loro ricerche in Italia, dimostrandol’importanza, soprattutto nel settore dellaricerca, dei continui scambi con altre realtà.Pensiamo ai fisici teorici che, capeggiati daEnrico Fermi (1901-1954), Premio Nobel perla Fisica nel 1938 grazie al suo lavoro sullaradioattività, hanno dato origine a Roma a unascuola di Fisica Teorica che ancora oggi è daconsiderarsi tra le migliori al mondo: studiosiquali Segre, Majorana e Rasetti (oltre al giàcitato Fermi) hanno infatti ottenuto risultati chesono pietre miliari della moderna Fisica.Gli esempi si estendono subito ad altriambiti: basti pensare – per restare ai vincitoridel Nobel – a Rita Levi Montalcini (1909-),vincitrice dell’ambito premio nel 1986per le sue importanti scoperte nel campodella Neurobiologia, animata ancora oggi(nonostante il secolo di vita) da un’incrollabilepassione scientifi ca, che si sposa colprofondo impegno civile.Un altro luminoso esempio nel campobiomedico è rappresentato da RenatoDulbecco (1914-), anch’egli insignito delNobel per la Medicina (1975) grazie ai suoistudi sugli effetti dei tumori sulle cellule. Giàquesto breve elenco (che potrebbe allungarsidi molto) mostra i contributi eccezionali datida molti italiani ai più disparati campi dellascienza: è anche da questi risultati che moltiricercatori traggono stimolo per continuare alavorare, nonostante le diffi coltà contingenti.Fratelli d’Italia,fratelli di criminiDal fenomeno del brigantaggio alla nascita della mafia: storia dell’Unitàsotto il profilo della criminalità. Una panoramica dell’Italia di ieri perconoscere l’Italia di oggi.di Chiara CuriaI NOBEL SCIENTIFICI ITALIANIChimicaGiulio Natta (1963)FisicaGuglielmo Marconi (1909)Enrico Fermi (1938)Emilio Segre (1959)Carlo Rubbia (1984)Riccardo Giacconi (2002)MedicinaCamillo Golgi (1906)Daniel Bovet (1957)Salvador Luria (1969)Renato Dulbecco (1975)Rita Levi Montalcini (1986)Nel corso di tutta la Divina CommediaDante fa spesso riferimento all’Italia delsuo tempo, apostrofandola con paroledure, graffianti, taglienti. Nel VI canto delPurgatorio, per esempio, pronuncia congrande foga una delle sue invettive più celebri:“Ahi serva Italia, di dolore ostello,/ nave sanza nocchiere in gran tempesta,/ non donna di province, ma bordello!”.Viene da chiedersi cosa ne penserebbe oraDante della sua Italia unita. Di certo, se fupossibile unire l’Italia dal punto di vistageopolitico, ci fu poca attenzione a unireil paese anche da quello culturale e sociale:conclusa l’impresa dei Mille, acquisironolo status di cittadini italiani gentiche parlavano idiomi diversi, che avevanoavuto una storia diversa e ragionavanosecondo valori e ideali diversi. Nacquein tale contesto anche la questione meridionale,con il suo carico di reciprocheaccuse e incomprensioni. Da una partec’erano coloro che lamentavano il fattoche un’economia vivace e attiva quale eraquella del Regno delle Due Sicilie fossestata rallentata, se non addirittura bloccata,dalla “piemontesizzazione”. Dall’altraquanti, al contrario, propagavano la visionedi un Mezzogiorno flagellato dalla miseriae dall’oppressione durante il regnoborbonico, terra di delinquenza, focolaiodi comportamenti asociali e antisociali,pronto a infettare anche le zone “sane”della penisola. Affrontare questo proble-Foto: iStockphoto.com/BanksPhotospanorama per i giovani • 25


150 La anni salute di Unità nel mondo d’ItaliaFoto: iStockphoto.com/onewordma significa necessariamente parlare dicriminalità, distinguendo fin dall’inizio laquestione del brigantaggio da quella dellamafia.Fra le cause del brigantaggio molti studiosisottolineano il ruolo dei soprusi cheNel 1870 il brigantaggio vennedichiarato eliminato, ma questorisultato fu raggiunto anche conleggi che violavano diritti.buona parte della popolazione contestavada un lato ai piemontesi e dall’altro ai latifondistimeridionali loro alleati. Pastori,intellettuali, contadini, ex soldati borbonicie garibaldini, addirittura rappresentantidel clero si unirono in gruppi di lotta indifesa delle proprie terre. Lo scontro portòa una vera e propria guerra civile, cheebbe conseguenze disastrose. Nell’agostodel 1861 il generale Enrico Cialdini venneinviato nel Meridione con poteri eccezionalidi luogotenenza, con l’obiettivo disconfiggere il brigantaggio. Nei fatti l’attivitàdel generale Cialdini nelle “provinceinfette” fu svolta secondo veri e propricanoni di repressione e con metodi qualiarresti in massa, esecuzioni sommarie,deportazioni, distruzioni di interi centriabitati. Nel 1870 il brigantaggio vennedichiarato eliminato e ciò anche graziealla Legge Pica, laquale, in contrastocon molte disposizionicostituzionali,colpì non solo ipresunti brigantima anche interefamiglie. Per comprendere maggiormentetale fenomeno basti pensare che il brigantaggiosi era già sviluppato precedentementein maniera sporadica prima sotto ildominio francesenel periodo delDecennio, poi durantela restaurazioneborbonica,sebbene in formaminore. E sarannoproprio i Borbone a sfruttare l’insofferenzagenerale creatasi nel Sud Italia per crearequeste milizie illegali con il solo scopodi raggiungere i loro fini politici, chesfruttò i briganti in questa commedia dairuoli non ben definiti per poi prenderne ledistanze.Collegata all’Unità d’Italia è per moltianche la crescita delle associazioni distampo mafioso, che ebbe fra le sue causela corruzione dilagante, la frammentazionedel potere e, di conseguenza, dellalegalità, nonché una scarsa fiducia nelpotere centrale. Molte corporazioni mercantili,così come esponenti della nobiltàe del clero, avevano cominciato a ingaggiaregruppi armati al fine di difendere ipropri beni e interessi, fino alla creazionedi vere milizie. Queste ultime iniziaronopoi a mettersi in proprio, organizzandosiAd avere un ruolo fondamentalenello sviluppo della mafia fuil legame con un territoriodominato dal latifondismo.in sette o cosche e dando così origine alfenomeno mafioso. Ma ad avere un ruolopredominante nello sviluppo della mafiaFoto: iStockphoto.com (PaoloGaetano; Pictore)26 • n. 3, settembre-dicembre 2010


150 anni di Unità d’Italiafu anche la storia del territorio. Nel corsodei secoli le regioni meridionali si eranocaratterizzate per la presenza massicciadei latifondi. In tale contesto si rafforzòmaggiormente un sistema gerarchico patriarcaleche permise il dominio di pochefamiglie sul territorio, spesso in lotta fradi loro. Ciò che distingueva, e distinguetuttora, gli appartenenti alle cosche mafioseda tutti gli altri criminali è il fattoche i picciotti si vantavano della proprianotorietà, continuavano a svolgere vitaattiva all’interno della società e usavanola propria immagine e i propri mezzi perfar apparire legali azioni che invece talinon erano. Per poter esercitare le loro attivitàillecite e il loro potere gli esponentidella mafia si servono tutt’ora di una fittarete di amicizie e conoscenze, senza laquale non potrebbero coprire e proteggereil loro operato criminale. Furono due ifattori che rafforzarono e svilupparono ilegami fra politica e criminalità organizzata:l’importanza dei lavori pubblici e lapossibilità, con l’ampliamento del suffragioa tutti gli uomini (1919) e poi anchealle donne (1946), di pilotare il voto dellemasse per far eleggere personaggi viciniagli interessi mafiosi.Ci siamo rivolti al professor Nicasoper approfondire il ruolo che l’unità d’Italiaha svolto nella nascita e formazionedella criminalità. Antonio Nicaso, nato inCalabria, giornalista e scrittore, è fra i piùimportanti esperti di ‘ndrangheta a livellointernazionale e autore di diversi best seller,ben noti al pubblico di tutto il mondo.Note sono le sue collaborazioni con l’attualeprocuratore aggiunto della Repubblicapresso il Tribunale di Reggio CalabriaNicola Gratteri, con il quale ha scritto libricome Fratelli di sangue e, recentemente,La malapianta. Il professore Nicaso insegnaStoria della questione meridionalee Storia delle organizzazioni criminali incorsi estivi post lauream presso il MiddleburyCollege nel Vermont (Usa).La prima domanda è d’obbligo: l’Unitàd’Italia ha favorito la nascita dellemafie e quale nesso esiste con il fenomenodel brigantaggio?Sono indispensabili innanzitutto alcuneconsiderazioni preliminari molto importantiper inquadrare gli spazi entro i qualici moviamo. Il brigantaggio e la mafiasono due cose distinte. Il primo è un movimento“partigiano” non sovrapponibilecon le organizzazioni criminali di stampomafioso, che mostra un forte attaccamentoalla cultura locale e quindi alla suavalorizzazione. Parlare di mafia vuol direparlare d’altro, perché uno dei suoi caratterifondanti principali è lo stretto rapportoche crea con la politica. Si tratta di unrapporto malato, che molto spesso portaalla sopraffazione delle cosche mafiosesulla politica, che ne diventa vittima. Giànei primi anni di vita dello stato italiano,in Sicilia si crearono contatti fra i politicie i primi gruppi mafiosi, ma andando ancorapiù indietro, fino alla spedizione deiMille, si trova che molti picciotti sicilianisi unirono alla spedizione. Possiamo direche la mafia è un fenomeno che coniugavecchio e nuovo, senza i rapporti con lapolitica non sarebbe mafia.Dal 1861 ad oggi cosa è cambiato nelmicrocosmo delle organizzazioni criminalidi stampo mafioso e quale criticapossiamo fare dal punto di vista dellalegalità?Unificare l’Italia era un gesto che indubbiamenteandava fatto, ma di certo ilprocesso fu molto discutibile e più che diunità bisogna parlare di unificazione. Lapolitica sabauda aveva l’obiettivo di piemontesizzarela penisola senza mostraresegni d’attenzione alle variegate diversitàdel paese. Un esempio su tutti: lo StatutoAlbertino, elaborato da diciassette nobili,scritto in francese, pensato in origine peruna popolazione di sei milioni di abitanti,fu esteso di colpo a un territorio che di abitantine contava circa il triplo. La culturadel Sud è stata a dir poco sottovalutata e lasua ricchezza di grandi menti e pensatoricon un forte senso di appartenenza e affettoverso il territorio – un nome su tutti:Filangeri – venne screditata e zittita.Lo scrittore Pino Aprile, nel suo librorecente Terroni, afferma che è statomolto più facile unificare la Germaniadopo il crollo del muro di Berlino indieci anni che l’Italia in centocinquanta.Quanto l’Italia è unita dal punto divista criminale e quanto dal punto divista della lotta alla mafia?La Germania, così come l’Italia, subì unprocesso di unificazione fra il 1870 e il1871. La differenza fu che lo stato tedescofu soggetto a un processo di unità graduale,è stato unificato prima dal punto divista economico, poi politico. Mettendoi due modelli a confronto, quello tedescorisulta sicuramente vincente rispettoa quello italiano, poiché in Italia si cercòda subito solo un’unità politica. Dal puntodi vista criminale c’è stato un movimentodal Sud al Nord del paese, anche se nonsemplicemente nel senso per il quale cisarebbe una zona felice e sana (il NordItalia) che è stata “contagiata” dalla vicinanzae dall’unione con la terra maledetta(il Sud Italia). La linea di palma di cuiparlava Sciascia è stata anche l’incontroterribile fra criminali senza regole del Sude pescecani della finanza privi di scrupolidel Nord.Sembra quindi che la criminalità organizzataper vivere abbia bisogno diunità, intesa sotto diversi punti di vistae a più livelli. Quanto la formazionedell’Unione Europea ha influito sulladiffusione della mafia?La formazione dell’Unione Europea hacertamente favorito la diffusione dellemafie e proprio per questo dico che cisarebbe bisogno di uno spazio giuridicocomune in tutta Europa, poiché la frammentazionegiuridica rallenta il processodi lotta alle cosche. Ad esempio, alcuneleggi previste in Italia per la lotta allacriminalità organizzata, quali il regimedi carcere duro (41 bis), non sono validein altri paesi, così come è molto difficilela confisca dei beni all’estero. Lì dove lemafie si uniscono, la giustizia internazionalesi divide.Fra altri cinquant’anni, quando l’Italiacompirà duecento anni, secondo lei siparlerà ancora di lotta alla mafia?Non si smetterà di parlare di mafie finchénon si aggredirà il rapporto mafia-politica.Se dal 1861 ad oggi la mafia è rimastaforte vuol dire che non siamo stati capacidi affrontarla a dovere. Bisogna concentrarel’attenzione sul nodo cruciale delrapporto fra il crimine organizzato e lapolitica, che costituisce la spina dorsaledi tutto il sistema. Non basta la sola lottagiuridica, bisogna parlarne nelle scuole,perché la mafia si vince non con il sacrificiodi pochi, ma con l’attenzione da partedi tutti.panorama per i giovani • 27


150 anni di Unità d’ItaliaFoto: iStockphoto.com/matteodestefanoSe le coccarde per i 150 annisono appuntate sulle primepagine dei quotidianiDai primi mesi del 2010 “Corriere della Sera” e “Stampa” celebrano coninchieste e rievocazioni l’anniversario dello Stato italiano.di Gabriele RosanaE dire che se la prendono sempre con letestate giornalistiche. Prima il comitato digaranti per le celebrazioni al centro dellapolemica politica, poi Pompei che sisgretola lanciando un non proprio icasticospot sull’Italia di oggi, quindi giù conle sforbiciate agli investimenti in culturae istruzione e via con le iniezioni di patriottismoper le belle occasioni, a mo’ dibotulino... Scattare un’istantanea del voltopiù istituzionale del paese alla vigiliadell’importante anniversario non è propriorincuorante. Eppure i drappi tricolore cheavvolgono questi 150 anni dell’Italia unita,prim’ancora che dai monumenti-iconaimbellettati a festa, pendono proprio dalleprime pagine dei principali quotidiani nazionali.Non ci sono solo biglietti d’auguri conil paese capovolto e i ministeri ridotti adecori per un albero di Natale precariogià solo a vederlo, ma pretenziosamentevaticinante; né solenni parate militaricon coccarde e present-arm. C’è soprattuttoun’Italia che con sobrietà e pacatezzaguarda indietro alla propria storia,si insinua nelle pagine buie, consapevoleche rilettura non fa rima con revisionismo,cosciente che un approccio non urlatonon cela affatto dietro di sé i germidell’antipatriottismo. C’è l’Italia dei civilservant, ideali continuatori dell’operadi chi lo Stato l’ha costruito, nelle varieepoche, attraversando periodi storici nonpoco controversi, nella centellinata trasformazionedelle nostre istituzioni. C’èla piccola Italia delle province, quell’Italiadai cento campanili, erede di una maidimenticata storia comunale. C’è l’Italiache issa il tricolore accanto al vessilloblu stellato dell’Unione Europea, fedelenella concretizzazione di un disegno giàarticolato da Mazzini. Ci sono la gloria,l’orgoglio, la consapevolezza, la fama, laragionata umiltà...I quotidiani specchio del paeseLe storie che le penne dei più illustri giornalistied esponenti della cultura italianihanno affidato alle pagine dei quotidianisnocciolano momento per momento questagrande, unica storia. Il “Corriere dellaSera” e la “Stampa” hanno puntato suicavalli di razza delle proprie scuderie perraccontare l’Italia, secondo due prospettivetra loro ben diverse.Centocinquanta date per ripercorrereinsieme gli eventi che hanno fatto l’Italia,le ricorrenze, i nomi troppe volte relegatial nozionismo e alle polverose vicende appresee lasciate sui banchi di scuola: questol’ambizioso progetto de “la Stampa”,che ogni domenica, dal 31 gennaio 2010,orna la sua ultima pagina con i racconti diuna inedita coppia, che non ha mancatodi conferire alle storie la propria caricaanticonformista. Carlo Fruttero, l’ultraottantennescrittore, e Massimo Gramellini,l’arguto vicedirettore del quotidiano torinese(quanti dei lettori non sono affezionatial suo Buongiorno sempre in puntadi penna?) hanno raccolto la scommessae dal buen retiro di Fruttero in Castigliondella Pescaia hanno intessuto le tramedei primi centocinquant’anni dell’Italiaunita: da Vittorio Emanuele II a SandroPertini, da Dorando Pietri a Lucio Battisti.“L’idea che ci ha spinto è quella dinon essere enciclopedici – si rivolge cosìai lettori il direttore de ‘la Stampa’ MarioCalabresi –, di volervi raccontare tutto,ma solo di stuzzicare la vostra curiosità,la voglia di saperne di più e provarea scalfire quel muro di disinteresse versoil nostro passato che fa di noi un paesedi smemorati”. L’iniziativa che ha presole mosse sotto la Mole è presto diventataun più ampio progetto editoriale e Mondadoriha dato alle stampe, per la collana“Strade blu”, La Patria, bene o male,raccolta di questi centocinquanta racconti.Nelle pagine del duo che non t’aspettisi va dal 17 marzo 1861, la data dellanascita dell’Italia unita sotto i vessilli sabaudi,al 10 febbraio 2006, quando il paesetornava a sentirsi uno nel capoluogopiemontese, all’arrivo della fiaccola delleOlimpiadi invernali. Ci sono i fatti diErba, grotteschi esempi di un malcostumecronachistico tutto italiano, e la vespascassata di Roberto Saviano, a fare ilpaio con l’assassinio di Carlo Casalegnoe il rivoluzionario Bakunin che fugge daBologna travestito da prete. “C’è cronacarosa e cronaca nera, sinistri figuri accantoa purissimi eroi, non manca Pavarotti maè assente la Callas, c’è il Vajont ma nonil Polesine. Primo Carnera, Enrico Cucciae Alberto Sordi non sono chiamati sulpalco, solo citati di sfuggita”, spiegano28 • n. 3, settembre-dicembre 2010


150 anni di Unità d’ItaliaFruttero e Gramellini nella prefazione.Spalmate nell’arco dei quindici decennici sono date per così dire “obbligatorie”,da cui non poter prescindere nell’affrescodell’Italia, ma altre inserite a discrezionedei narratori, che sin dalle prime battuteescludono un lavoro di cesellatura storica;Tucidide, Tacito e Machiavelli rimangonosullo sfondo, come maestri “che cihanno insegnato come la Storia obiettiva,imparziale, definitivamente veritiera nonesiste, ma può essere soltanto un’aspirazione,una meta intravista ed irraggiungibile”.Nasce così questo almanacco essenzialedell’Italia unita: la Patria, bene omale. La Patria nel bene e nel male: “unPaese irritante, fastidioso, quasi sempredilaniato da emotività contrapposte e chepotrebbe fare molto di più, come dicevanogli insegnanti alle nostre mamme”.Da Milano il “Corriere della Sera”rispolvera un progetto che aveva lanciatogià quarantacinque anni fa, con IndroMontanelli, Piero Ottone, Alberto Cavallari,Giovanni Russo e Gianfranco Piazzesi.Italia sotto inchiesta rappresentò latestimonianza di un’epoca, la fotografia diuna realtà politica, sociale ed economica.Un viaggio in lungo e in largo per la penisola,per calarsi nelle realtà locali e raccontarel’Italia di oggi. Una sfida raccoltada Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, lacoppia che ha scalato la top ten dei libripiù venduti con La Casta (Rizzoli, 2007)e ha inaugurato una serie di inchieste suimalcostumi del paese, a cominciare dallasua classe politica.Da Partinico a Curtatone, da Aosta aSanta Maria Capua Vetere, da Quarto aTrieste, da L’Aquila a Pontida, da Livornoa Teano, da Bronte a Novara, da Zaraa Melfi: le due penne di punta di via Solferino,dal febbraio scorso, attraversanoil paese e fanno tappa nelle realtà localiche in questi 150 anni hanno segnato inun modo o nell’altro la costruenda Italia(di notevole interesse il ritratto storicodel luogo che un’altra firma svolge nellapagina immediatamente seguente), coninevitabili e gustose appendici sui fattidi cronaca più recenti, sui fascicoli deitribunali che non mancano mai, sullestranezze delle nostre province, comenello stile cui Stella e Rizzo ci hannoabituati sulle colonne del “Corriere”.Uno stile che si rivolge al paese, partendoda ieri, per parlare dell’oggi, in vistadel domani.Leggere, studiare e ricordare.O il paese non andrà lontanoIntervista a Gian Antonio Stella.a cura di Gabriele RosanaLa voce di Gian Antonio Stella è tempratagià di prima mattina, all’altro capo del telefono.La firma di punta del “Corriere dellaSera” sta viaggiando su e giù per l’Italia chesi avvia a celebrare i suoi 150 anni, insiemeal collega di sempre Sergio Rizzo, per offrireai propri lettori il ritratto della penisoladi oggi. Un’operazione che al quotidiano divia Solferino mancava dagli anni Sessanta.Come nasce l’appuntamento del sabatoVisioni d’Italia?Erano anni che avevamo in mente di intraprendereun viaggio a tappeto di questotipo, ben sapendo che sarebbe stato moltofaticoso. L’ultimo risale al biennio 1963-1965, quando cinque giornalisti del “Corriere”(Montanelli, Ottone, Russo, Cavallarie Piazzesi) batterono in lungo e in largo ilpaese realizzando quello che poi sarebbe diventatoil libro Italia sotto inchiesta.Alla fine tocca ai giornalisti spesso così bistrattatitenere il polso del paese. Lei, attraversandol’Italia, quanta memoria condivisaha percepito in giro? Quanto la vogliadi ricordare trascende le commemorazioniscolastiche e gli inni (ahinoi, sempre piùscarseggianti) strimpellati nei comuni diprovincia (quando qualche amministratorenon opta per il verdiano Nabucco)?Rispetto a quella che è una vera e propriamanipolazione della storia da parte di alcunisettori, devo dire che sento un positivo fastidio.L’errore è stato iniziale, da parte dichi – storici e istituzioni scolastiche – nonha voluto riflettere sin da subito sugli erroricommessi dal Risorgimento. Ognuno ci hacosì raccontato i pezzi di storia che gli facevanocomodo, producendo storture (notevoleeccezione fu, però, il deputato milaneseGiuseppe Ferrari, che portò subito davantial neonato Parlamento italiano l’eccidio diPontelandolfo, dove per una ritorsione contro40 soldati italiani persero la vita oltre400 inermi cittadini). Pensiamo, però, allabattaglia di Sand Creek. Forse per gli erroricommessi all’epoca delle guerre indiane gliStati Uniti hanno buttato via la loro storia?Questo mi pare un costume tutto italiano.La nostra inchiesta è basata tutta sull’oggi,ma nel momento in cui andiamo in Calabria,per esempio, nei luoghi in cui la repressionedel brigantaggio è stata feroce, non possiamonon chiederci quanto ha inciso la responsabilitàdi chi non ha voluto affrontare iproblemi rispetto alle ostilità presenti ancoraoggi nei confronti dello Stato.Quante volte, nelle realtà visitate, senteparlare di patria?Il sentimento di patria è un po’ ammaccato,ma non del tutto scomparso dal cuore delpopolo italiano. Anzi, penso che sia in forterinascita, anche per reazione nei confronti dialcuni eccessi della Lega al Nord e dei neoborbonicial Sud. Insomma, abbiamo lettoscempiaggini di ogni genere!L’Italia di ieri e gli italiani domani. ConL’Orda è stato tra gli antesignani del temadell’accoglienza dello straniero. Cosa direbbesuo nonno Tony Caio, che mangiò panee disprezzo in Prussia e Ungheria, dell’Italiadi oggi che sputa a quelli come lui?Basta leggere quello che ha dichiarato qualchegiorno fa Salvini della Lega, il quale siinventa che certi reati ci sono sempre stati, mada quando ci sono gli immigrati ce ne sonodi più. Ma che statistiche ha? Oggi ci sonoun quinto dei reati degli anni Ottanta! Non èpossibile vomitare addosso agli immigrati inquesto modo! Anche perché, parliamoci chiaro:se non ci fossero gli immigrati la situazionedell’Italia sarebbe oggi molto più pesante.Non dimentichiamo che se è vero che oggi gliimmigrati sono circa il 7% della popolazionee producono, secondo le stime, addirittural’11,2% della nostra ricchezza, con una battutaparadossale potremmo dire che sono comei lombardi. Entrambe le categorie produconomolto più di quanto dovrebbero se consideriamosolo i dati percentuali.Come ha visto nei racconti della gente ilfilo rosso Risorgimento-Resistenza-Costituzione?L’Appennino è ancora venatodal sangue dei partigiani?panorama per i giovani • 29


150 La anni salute di Unità nel mondo d’ItaliaPenso che la Resistenza sia stata una fasestraordinaria della nostra storia. Dio la benedica:meno male che c’è stata! Detto questobisogna anche ammettere, purtroppo, chel’appropriazione della Resistenza per tantotempo da parte della sinistra – per cui parevache l’avessero fatta solo socialisti e comunisti– ha fatto sì che la condivisione diquesta stupenda fase della nostra storia siavenuta meno. È stato un gravissimo erroredella sinistra che non ha mancato di causaregravi danni. Credo che tutta la storia italianadebba esser riletta. E riletta in maniera diversa,senza più appropriazioni di pezzi di storiascomposti a seconda di quello che serve, percui la Lega della storia d’Italia va a prendersisolo Pontida (che è tutto fuorché leghista,peraltro: nel Ventennio era sede delle adunatefasciste, come ci rammenta l’Eco diBergamo!) o la catastrofica battaglia di Lissa(definita sui siti Internet dei venetisti comela vittoria della marina austro-veneta controla massoneria italiana!), e altri il fatto che iBorboni hanno costruito la prima ferroviad’Italia, senza tener conto di tutta la storianel suo insieme, che ci dice che nel 1861 lasproporzione fra le ferrovie costruite al Norde quelle del Regno delle Due Sicilie era assolutamenteschiacciante e persino umilianteper quest’ultimo. Per cui, se cominciassimoa studiare la storia tutta insieme, luci e ombre,forse un po’ alla volta riusciremmo aricostruire un comune sentire di cui questopaese ha drammaticamente bisogno.Il Presidente Ciampi titola amaramenteil libro Non è il paese che sognavo datoalle stampe qualche settimana fa. La suagenerazione cosa si aspettava dall’Italia?I ragazzi di destra hanno vissuto in modostrumentale il patriottismo, vedendoviun’arma da usare contro i comunisti per distinguersie fare a botte con loro. È anchevero, però, che un’altra fetta della mia generazionenon ha minimamente avvertitol’importanza dell’idea di patria, recuperatasolo in seguito. Ricordo che la stessa sinistrache adesso si scandalizza con la Legaaveva la bandiera italiana nel simbolo, peròquesta era seminascosta dietro la bandierarossa, lì ferma in primo piano. Il che non èun dettaglio da poco. Va detto che effettivamentec’è stata, sotto questo profilo, unariflessione seria da parte dei progressisti italiani,che ha portato a un cambiamento diposizione molto netto su questi temi. Oggi ilcentrosinistra italiano ha fortunatamente unaidea di Risorgimento ben diversa da quelladi Togliatti, il quale arrivò a dire che il Risorgimentoè per gli italiani come la fanfaraper gli sfaccendati. Un giudizio tremendodel tutto impossibile da condividere.Forse che la questione Nord-Sud erameno esplosiva durante la Prima Repubblica?La Prima Repubblica effettivamente ha avutotanti difetti, ma la Dc ha diritto a vedersiriconosciuto l’aver provato a tenere insiemequesto paese senza lasciare spazio agli egoismiche si vedono oggi. Ai democristianibisogna dar atto di aver contenuto le spinterazziste e questo va a loro onore. Oggi alcunigrandi partiti non si regolano così, magiocherellano col razzismo, ammiccano, diconoe non dicono per andarsi poi a prenderei voti. E questo crea danni al paese.Ma è anche vero che l’Italia non rischiadi fare la fine delle Fiandre e della Vallonia...Chi l’ha detto? Non sono così ottimista.Stiamo alla larga da paragoni che possonospaventare ed essere anche eccessivi, però,sinceramente, avevano cominciato ridendoanche dalle altre parti. In Serbia ridevanoquando Karadzic cominciò a dire che i serbisono una razza superiore perché hannoil femore più lungo d’Europa. Ridevano.Certo che c’era da ridere, poi però è finitacon le teste mozzate a Srebrenica. Insisto:non voglio fare paragoni; la situazione ècompletamente diversa, siamo in Europa.Facciamo tutti i distinguo possibili e immaginabili,però, alla fine della fiera, l’unicacosa che mi pare impossibile da sostenere èche quando una cosa fa sorridere debba perforza finir bene. Non è così: alcune cose nasconoin un certo modo e poi vanno a finiremale, anche a prescindere dalla volontà deiprotagonisti.Anche a prescindere dai sentimenti deitanti semplici cittadini che magari noncondividono gli slogan urlati?Cito uno scrittore che ho amato, Fulvio Tomizza,che nel suo libro Materada raccontala storia del paese istriano in cui era cresciuto,dove vivevano italiani e slavi. Tomizzastesso era figlio di un italiano e di una slavaed era perfettamente bilingue; si sentivaistriano, non avrebbe mai rinunciato al suopezzo di carne italiano e al suo se stesso slavo.Poi, una parola tira l’altra, si cominciacon delle minuzie e i conflitti deflagrano.“Devono ancora inventare un lievito chegonfi come gonfia l’odio”, scrive Tomizza.Una frase che io condivido totalmente: nonso come meglio spiegare il tipo di meccanismoche si genera con il razzismo e conl’odio.Come evitare un approdo così catastroficoper l’Italia?Bisogna leggere, studiare, andare a rivederela nostra storia, rivederla tutta! Riflettere suglierrori commessi dal Risorgimento, cosìda ricostruire la nostra storia andandola ariprendere filo per filo e rimetterla a posto.L’imperativo di D’Azeglio si ripercuotenella quotidianità. Bisogna fare gli italianigiorno per giorno.Certo, questo è fuori discussione. Se nonpensassi questo farei un mestiere più facile!Un imperativo a cui Gian Antonio Stellasi uniforma attraverso la sua attivitàgiornalistica.Io sono cimbro e quindi di origine tedesca,tutta la mia famiglia è di origine tedesca. Icimbri sono arrivati nell’altopiano di Asiagonel IV secolo: abbiamo uno storia che ha1.600 anni di autonomia! Ma l’idea di battermiper costituire la repubblichina dell’altopianodi Asiago mi fa ridere. Andare achiedere come alcuni indipendentisti sardiche venga denunciato un trattato del 1847mi fa ridere! Il mondo è cambiato completamente,s’è fatto più piccolo, siamo in Europa,siamo tutti interdipendenti. Anch’ioson fiero delle mie origini, ci mancherebbealtro. Ma io mi sento asiaghese, vicentino,veneto, italiano ed europeo! Guai a chi mitocca un pezzo di questa mia identità: sparo!Giù le mani dalla molteplicità di identità!Messa giù la cornetta, il pensiero non puònon correre a quanto diceva Curzio Malaparte:“Vi sono due modi di amare il proprioPaese: quello di dire apertamente la veritàsui mali, le miserie, le vergogne di cui soffriamo,e quello di nascondere la realtà sottoil mantello dell’ipocrisia, negando piaghe,miserie, e vergogne (…) Tra i due modi,preferisco il primo”. Un giornalista non puòche scegliere questo.30 • n. 3, settembre-dicembre 2010


Foto: iStockphoto.co/NikadaDeputazioni di storia patriae società storicheCome preservare la storia delle nostre regioni.di Giuseppe GraziosoRisale alla prima metà dell’Ottocento ladiffusione in tutta l’Europa occidentaledi un rinato spirito culturale teso a riscoprirela storia e le tradizioni del passato.Tale tendenza si esplicava non tantonella riscoperta della “storia classica”,quanto piuttosto nello sforzo di ricostruireil corso degli eventi dai primi secolidopo l’anno Mille. Si pensi alla nascita,nei primi decenni del XIX secolo, del romanzostorico, genere di così ampio successoda indirizzare ancor di più l’attenzionedi molti ambienti culturali europeiverso lo studio e soprattutto la diffusionedelle fonti storiche. Questo generaleorientamento finalizzato a indagare ilpassato e in particolare gli avvenimentiche avevano contribuito alla formazionedegli Stati che componevano la penisolaera un’attività dispendiosa e di difficileconduzione. Pochi, volenterosi intellettualinon avevano la possibilità di raccogliereuna mole di informazioni tale daricostruire la storia di uno Stato, anchese di piccole dimensioni. La carenza dimezzi per la diffusione di tali ricercherendeva l’attività di pubblicazione pienadi ostacoli.Ad assecondare l’amore per l’erudizionestorica intervenne anche il ReCarlo Alberto diSavoia, che medianteil RegioBrevetto del 20aprile 1833 diedevita a un istitutocon la preziosissimafunzione di raccogliere e pubblicarescritti di carattere storico e far circolareperiodici che documentassero i trascorsiNel 1833 Carlo Alberto diede vitaa un istituto con la funzione diraccogliere e pubblicare scrittidi carattere storico.del Regno di Sardegna. Nacque così laRegia Deputazione di storia patria (oggiDeputazione subalpina di storia patria),con sede a Torino e l’obiettivo di studiaree divulgare la storia del Regno. Con unacollana composta da circa una ventina divolumi pubblicati dal 1836 al 1898, daltitolo Historia Patriae Monumenta, questoistituto fu il primo a offrire una chiararaccolta dei trascorsi del regno, in specialmodo per l’antologia di fonti storichemedioevali in essa contenuta. Dal 1896cura la redazione del “Bollettino storicobibliograficosubalpino”. L’istituzione,nonostante il suo carattere prettamenteculturale, era un primo segno del ruolopreminente che il regno sabaudo avrebbeassunto durante il Risorgimento in tutta lapenisola italica. Con il decreto del 21 febbraio1860, l’operato della deputazionestessa era esteso a parte della Lombardiaannessa al regno. Anche questo era un se-panorama per i giovani • 31


150 La anni salute di Unità nel mondo d’Italiagnale di come i Savoia avrebbero volutoesportare nei territori conquistati le loroistituzioni.L’unicità di questa società storicavenne meno quando Luigi Carlo Farinifondò la Deputazione per province diRomagna. A Parma fu istituita la Deputazionedelle province parmensi (Parmae Piacenza) e a Modena quella delle provincemodenesi (Modena, Massa Carrara,Reggio Emilia), il 10 febbraio 1860. Conl’unità questa società storica pubblica la“Miscellanea di storia italiana”, un’operacon il precipuo interesse di “estenderedall’alto degli studi storici la beneficasua influenza sopra la penisola intera”.Con il neonato Stato italiano il processodi formazione di queste società a carattereregionale si intensificò, in alcuni casiper un rinvigorimento dell’amore per gliormai scomparsi stati preunitari, in altriper la volontà di consolidare i valori comunidegli italiani.Nel 1862 Giovan Pietro Vieusseuxpropose la fondazione di un’altra deputazionedi storia patria con sede a Firenze eche si interessava anche delle altre provincetoscane e dell’Umbria (Regio Decreto27 novembre 1862), cui si aggiunsero poianche quelle delle Marche (Regio Decreto19 luglio 1863).Il Re Vittorio Emanuele II decise difondare in Lombardia una società analogaa quella piemontese. Nasce nel 1873la Società storica lombarda, grazie agliindispensabili apporti di Cesare Cantù.Una deputazione che raccogliesse i trascorsidelle province venete fu istituitanel 1874, con lo scopo di promuoveregli studi sulla “storia delle regioni veneta,tridentina, giulia ed adriatica e, peril periodo del dominio veneziano, delleprovince e dei luoghi che furono soggettio formarono parte della Repubblica diVenezia”. Nel 1918, come risultato dellaCon l’Unità d’Italia il processodi formazione di societàstoriche a carattere regionale siintensificò.separazione dalla deputazione veneta,nascerà quella per il Friuli, che veniva adunirsi con la Società storica friulana, giàoperante dal 1911 a Udine grazie all’apportodi Pier Silverio Leicht. Con distaccodelle rispettive province dall’ambitodell’attività della deputazione toscana,sorgevano una deputazione marchigiana(Regio Decreto 30 marzo 1890) e unadeputazione umbra (1896). La Deputazionedi storia patria per le Marche miravaa “raccogliere, scegliere e pubblicarestorie, cronache, statuti, documenti, notizie,di ogni tempo e specialmente delMedioevo, che siano di capitale importanzaalla illustrazione della storia civile,militare, giuridica, economica, letterariae artistica”.Intanto all’iniziativa statale veniva adaggiungersi e sovrapporsi quella di naturaprivata, con la fondazione di società storiche,alcune delle quali furono successivamentetrasformate in deputazioni. È ilcaso della società abruzzese, che nacque aL’Aquila il 26 settembre 1888 come enteprivato: Società di storia patria ‘A.L. Antinori’negli Abruzzi. Con il Regio Decretodel 16 gennaio 1910 venne convertitain Regia Deputazione di storia patria. Allostesso modo, quella che diventerà la deputazionesiciliana era nata già nel 1863in forma privata, con uno sparuto gruppodi intellettuali che si riuniva nell’abitazionedello studioso palermitano AgostinoGallo.Altra societàche non poté goderedel riconoscimentoda partedel regno è statala Società romanadi storia patria (alla cui creazione diedeforte impulso il letterato Ernesto Monaci),nata il 5 dicembre 1876 con il fine di“pubblicare documenti illustrativi dellastoria della città e provincia di Roma intutti i suoi rapporti dalla caduta dell’Imperoalla fine del secolo decimottavo edun Bollettino annuale di studi e memorieconcernenti la storia medesima”.La prima Società napoletana di storiapatria risaleal 1843, ma ricevettericonoscimentostatalenel 1875. Questoistituto si distinseper una spiccatadedizione filologica e vanta tuttoraun’indubbia fama, accresciuta dallapubblicazione del periodico “ArchivioStorico per le Province Napoletane” (fucurato dal 1899 al 1932 da BenedettoCroce). Merita di essere citata la biblio-teca di questa deputazione, che contacirca 350.000 volumi, che costituisconoun’inestimabile ricchezza culturale perl’ente. In Campania sono presenti anchela Società di storia patria salernitana,istituita nel 1920 dal bibliofilo PaoloEmilio Bilotti, e quella casertana, denominataSocietà di storia patria di Terradi lavoro.Nel resto del Meridione ritroviamonumerose deputazioni: in Calabria, Basilicata(le deputazioni inerenti a questedue regioni sono state unite fra loro finoal 1956) e in Puglia (dove ci sono duesocietà). In Liguria operano una societàsavonese e un’altra genovese. Di più recenteistituzione è la Società storica pisana,nata nel maggio 1930 con la finalità di“promuovere gli studi di storia pisana ocomunque attinenti alla storia di Pisa e didare opera alla ricerca, alla conservazione,alla pubblicazione e all’illustrazionedel materiale storico relativo, di diffonderela conoscenza della storia e dell’artepisana”.A questa condizione di profonda disomogeneitàsi reagì fin dal 1878 condiversi congressi, che dovevano riunirePer ridurre la grandedisomogeneità fra le societàstoriche, nel 1883 venne fondatol’Istituto Storico Italiano.gli esponenti delle società e delle deputazioni.A cercare di assicurare il coordinamentodelle attività fu il Regio Decretodel 25 novembre 1883, che diedevita all’Istituto storico Italiano (volutoda Ernesto Monaci stesso). Questo organo,il cui vertice era composto da 15membri, 4 di nomina regia, 6 delegatidelle società e 5 rappresentanti delledeputazioni, ebbe purtroppo vita breve(scomparve a metà degli anni Trenta) escarsa efficacia.Oggigiorno le deputazioni e le societàhanno ampia autonomia. Ce ne sonouna trentina sparse per la penisola checontinuano a pubblicare bollettini, “Attie Memorie” o archivi storici. Essi rappresentanouna fondamentale fonte diricchezza, anche perché, assieme alleuniversità, sono gli unici centri di raccoltadella storia di un determinato territorio.Va quindi considerata fondamentalela loro tutela.32 • n. 3, settembre-dicembre 2010


150 anni di Unità d’ItaliaFoto: iStockphoto.com/majaivaLa Società siciliana distoria patriaBreve storia di una delle più importanti istituzioni culturali in Sicilia.di Carmelo Di Natale“L’aspetto politico della Sicilia è cangiato.Essa era serva cinta di ceppi e di catene:ora è libera per prodigio. Ella senteuna nuova vita, una gioja fin qui ignota,incommensurabile. Il suo tripudio crescequando volgendo l’occhio alle condizionipresenti del mondo, ben si accorge che ilsuo avvenire è saldo, che la sua redenzionenon può aver nemici allo straniero. LaSicilia non vorrà perder tanto bene per suacolpa od improvvidenza. Ella sarà saggiae prudente, perché ben conosce avere assaid’uopo di queste due virtù per reggersiopportunamente nella presente sua posizione.Lascerà l’entusiasmo alla guerra,ove sventura la rendesse necessaria, matratterà con maturo giudizio la politica ele leggi. Adatterà queste allo stato dellasua civiltà, ai suoi costumi, a tutti gli elementiche compongono la sua vita. Lasceràl’Inghilterra agli inglesi, la Francia aifrancesi e acconcerà se stessa ai siciliani.Così ella marcerà l’un di più che l’altroverso quella piena e larga libertà che è ilsuo bel destino, se i suoi figliuoli per troppoaffetto ed alcuno di essi per sfrenatiappetiti non lo muteranno. […]”.Questo passo tratto dal Discorso di uncittadino con sé medesimo, un interessantissimodocumento attribuito (sia pur conqualche dubbio) all’intellettuale messineseGiuseppe La Farina, ben rappresentala peculiarità del Risorgimento siciliano(cfr. S. Avveduto, Messina nell’Ottocento,Editalia).L’intellighenzia che ne fu guida era infattiben lontana dall’idea di costruzionedi uno stato italiano di cui la Sicilia costituissel’estrema periferia, ma puntavapiuttosto ad affrancare definitivamentel’isola (sede di uno dei più antichi parlamentidel mondo) dal dominio straniero,rappresentato da un lato dall’odiata dinastiaborbonica e da Napoli e dall’altrodall’indiscussa egemonia economica estrategica degli inglesi, presenti nell’isolaormai da molto tempo. “Lascerà la Franciaai francesi, l’Inghilterra agli inglesi edacconcerà se stessa ai siciliani” proclamaaulico l’autore del prezioso testo.L’accesso a siffatti documenti è difondamentale importanza per approfondirein modo critico e proficuo l’assaicomplessa storia risorgimentale siciliana;Palermo (a sinistra, la Cattedrale) è la sededella Società siciliana di storia patria (www.storiapatria.it).l’istituzione che da quasi centocinquantaanni si occupa di raccogliere, restaurare,studiare e ripubblicare testi come questo èla Società siciliana di storia patria, la costolasiciliana del sistema nazionale delleDeputazioni di storia patria. Tale istitutonasce nel 1863, appena due anni dopol’unificazione nazionale, con il nome diAssemblea di storia patria; non si trattavatuttavia di un vero e proprio organismostrutturato, ma piuttosto di un circoloinformale di studiosi di storiografia sicilianache si riuniva periodicamente a Palermo.L’Assemblea pubblicò nel 1864 ilvolume Atti e documenti inediti e rari e sisciolse subito dopo, per far posto alla piùstrutturata Nuova società per la storia diSicilia, con sede a Palermo e presidenzaaffidata al grande giurista Emerico Amari.La nuova istituzione conobbe alternefortune; ad ogni modo nel 1873, graziealla collaborazione tra stimati intellettuali– come l’archeologo Antonio Salinas e ilgrecista Giuseppe De Spuches – e l’Archiviodi Stato di Palermo, si diede avvioalla redazione del periodico “ArchivioStorico Siciliano”, un volume di elevatospessore culturale pubblicato con cadenzaannuale dal 1873 ad oggi che raccoglie articolisulle più diverse materie legate allastoria, alla cultura e al folklore dell’isola.Di lì a poco il prefetto di Palermo, su sollecitazionedel Ministero della PubblicaIstruzione, chiederà ai redattori della rivistadi costituirsi in una società storica, inconformità alle deputazioni di storia patriagià presenti in altre aree del paese. Venivainaugurata così nel 1875 la Società sicilianadi storia patria, con sede a Palermo ealcuni dei più importanti nomi dell’intellettualitàsiciliana come membri.Oggi la Società siciliana di storia patriaè sicuramente una delle più importantiistituzioni culturali in Sicilia; oltre all’“ArchivioStorico Siciliano”, il periodico concui è nata, pubblica numerose monografiee una vasta collezione di documenti storiograficioriginali. La Società ospita inoltreuna grande biblioteca, aperta al pubblico,con oltre 100.000 volumi e 1.500 riviste,e un Museo del Risorgimento siciliano; lasua opera di ricerca e divulgazione contribuiscein modo determinante a mantenereviva la memoria storica siciliana.panorama per i giovani • 33


150 La anni salute di Unità nel mondo d’ItaliaFoto: iStockphoto.com (fotoVoyager; PaoloGaetano)Risorgimentoe ResurrezioneCenni storici sul rapporto tra Stato e Chiesa dall’Unità d’Italia in poi.di Martina Zollo“I rapporti fra l’Italia e il Vaticano sonooggi davvero eccellenti”. A dichiararloè il Presidente della Repubblica GiorgioNapolitano, in occasione di un convegnoa palazzo Borromeo, sede dell’ambasciataitaliana presso lo Stato della Città delLa politica ecclesiastica delneonato Regno d’Italia eraispirata dal principio liberale dellaseparazione fra Stato e Chiasa.Vaticano, dedicato ai 150 anni dell’“OsservatoreRomano”. E pensare che tale“singolarissimo giornale” era nato “control’unità d’Italia e contro i suoi principaliartefici”, come rileva l’ambasciatored’Italia Antonio Zanardi Landi nell’introduzioneal volume edito per l’anniversariodalla fondazione della testata, con lacollaborazione dell’attuale direttore, GianMaria Vian.Alla luce della complessità storica,istituzionale e politica dei rapporti cheintercorrono tra Chiesa cattolica e Repubblicaitaliana,l’affermazione delPresidente dellaRepubblica assumeun significatodavvero particolare.Per questopuò essere utile ricordare almeno alcunimomenti principali della storia di questarelazione.Il neonato Regno d’Italia proseguì lapolitica ecclesiastica dello Stato sabaudo(che fu uno dei principali attori del processorisorgimentale dell’unificazioneitaliana), ispirata dai principi liberali delseparatismo tra corpo statale e Chiesa. Lalegislazione piemontese in merito fu estesavia via ai territori annessi, radicalizzandonelo spirito anticlericale. La Chiesa, daparte sua, utilizzò come “arma di difesa”l’enciclica Quanta cura del 1864: in essacondannava il liberalismo e ribadiva leproprie prerogative e immunità. Significativafu anche l’affermazione del dogmadell’infallibilità del Papa nel Concilio VaticanoI.Evento critico fu naturalmente la presadi Roma. Nel 1870, alcune settimanedopo la caduta di Napoleone III, che erastato garante dell’equilibrio tra Regnod’Italia e Stato Pontificio, l’esercito regioguidato dal generale Cadorna entròin Roma. Ciò segnò la caduta dello Statodella Chiesa e la sua annessione al Regnod’Italia. Il 3 febbraio 1871 Roma fu dichiaratacapitale del Regno d’Italia, comeauspicato nel famoso discorso di Cavourdel 1861 alla Camera dei Deputati (lostesso dell’affermazione del principio“Libera Chiesa in libero Stato”). Si apredunque la cosiddetta “questione romana”,controversia politica relativa al ruolo diRoma, sede del potere religioso del Papae insieme capitale d’Italia.34 • n. 3, settembre-dicembre 2010


150 anni di Unità d’ItaliaSuccessivamente, la situazione furegolata dalla legge delle Guarentigie,la quale – come dice il suo nome – stabilivaprecise garanzie per il Papa e perla Santa Sede, quali gli onori sovrani alPapa, la facoltà di conservare guardie armatee la proprietà dei palazzi apostolicie di godere dell’esenzione dalla giurisdizioneitaliana. Inoltre, lo Stato garantivala libera partecipazione dei cardinali alconclave, il diritto di rappresentanza diplomaticae la corrispondenza di una dotazioneannua per il mantenimento dellacorte pontificia. In sintesi, la legge posein atto i principi del separatismo, pur conqualche limitazione.La reazione del pontefice dell’epoca,Pio IX, fu delle più drastiche: condannòi fatti successivi alla breccia di Porta Piae rifiutò la legge delle Guarentigie. Soprattuttosi dichiarò “prigioniero nel Vaticano”e nel 1874 affermò in via ufficialeche non era conveniente per un buonfedele partecipare alle elezioni politiche(il cosiddetto non expedit, letteralmente“non conviene”). Questa presa di posizionepontificia, che mirava a indebolirele nuove istituzioni vietando ai cattolicidi essere eletti o elettori, fu confermataper un trentennio, formalmente fino al1919, senza peraltro sortire l’effetto sperato.Lo Stato reagì con norme restrittive:si esclusero gliecclesiastici daalcuni uffici e sivietò l’insegnamentodella teologianelle università,nonché la fondazionedi una libera università da partedei docenti cattolici che si erano ritiratidall’ateneo romano. Questa non è che unaminima parte dei numerosi provvedimentilegislativi con i quali, nell’ultimo ventenniodell’Ottocento, l’Italia ormai unitainflisse “colpi di spillo” a una Chiesa chemostrava di non ritenere ancora definitival’Unità.In seguito si ebbe una lenta distensionedei rapporti e un graduale riavvicinamentotra le parti, al quale contribuironoin diversa misura i successori di Pio IX:Leone XIII, ovvero il Papa che con l’enciclicaRerum novarum diede inizio nel1891 alla dottrina sociale della Chiesa,Pio X, Benedetto XV e infine Pio XI.Contemporaneamente, l’affermazionepolitica dei partiti d’ispirazione socialistafavorì l’alleanza tra cattolici e liberalimoderati in molte elezioni amministrative(il “clerico-moderatismo”). Sintomodi questi cambiamenti è l’enciclica diPio X Il fermo proposito, del 1904, che,se da un lato ribadiva il non expedit, neconsentiva tuttavia ampie eccezioni, chesi moltiplicarono col passare del tempo:fra tutte spicca il Patto Gentiloni, ossial’intesa tra Giolitti e il conte Gentiloni,presidente dell’Unione cattolica italiana,Evento critico nei rapporti fraStato e Chiesa fu la presa di Roma;il 20 settembre 1870 i bersaglieridi Cadorna entravano nella città.in occasione delle elezioni politiche del1913.Di lì a qualche tempo, i traumi cheaccompagnarono e seguirono la PrimaGuerra Mondiale influirono senza dubbiosulle vicende che stiamo considerando: icattolici, anche provenienti dai seminario dai conventi, parteciparono appieno alconflitto, dimostrando un vivo spirito patriottico.Al termine della guerra, fecero irruzionesulla scena politica i cosiddetti “partitidi massa”: tra questi il Partito PopolareItaliano, fondato nel 1919, la cui animaera un sacerdote siciliano, don Luigi Sturzo.A questo punto l’abolizione del nonexpedit fu solo una formalità, “sbrigata”da Benedetto XV.Inoltre le sedute per le trattative dipace a Parigi diedero occasione ai presidentidel consiglio dell’epoca, OrlandoSopra il titolo: San Pietro. A destra:Porta Pia a Roma; fu nei pressi di questaporta (progettata da Michelangelo) che ibersaglieri di Cadorna aprirono una breccianelle mura aureliane ed entrarono nellacittà.panorama per i giovani • 35


150 La anni salute di Unità nel mondo d’ItaliaFoto: iStockphoto.com/PaoloGaetanoNel 1919 don Sturzo fondò ilPartito Popolare, partito dimassa che subito ebbe un ruolodi primo piano.prima e Nitti poi, di aprire un dialogocon i rappresentanti della Santa Sedein vista di una soluzione concordata eamichevole della “questione romana”.Questi propositi non ebbero una concretarealizzazione a causa della tumultuosasituazione politica interna italiana.Nell’immediato dopoguerra, infatti,la fine delle restrizioni politiche e dellacensura del periodo bellico e il riemergeredelle tensioni sociali avevanoportato a un’ondata di scioperi, manifestazionie occupazioni di fabbriche; leA sinistra: il monumento in onore deibersaglieri che si trova di fronte a PortaPia.pressioni degli irredentisti e l’avventuradannunziana di Fiume erano altri sintomidi un malcontento crescente cheavrebbe, di lì a poco, favorito l’ascesaal potere del fascismo (1922), il qualeriprese e riformulò la politica legislativain materia ecclesiastica.Il programma proposto dal movimentofascista alle elezioni del 1919 prevedeva,a dire il vero, provvedimenti anticlericali:ma in quelle elezioni i fascisti non riuscironoa mandare in Parlamento alcun deputato.Avendo ottenuto il mandato parlamentarecon le elezioni anticipate del 1921,Mussolini cambiò radicalmente il proprioprogramma di politica ecclesiastica: nelsuo primo discorso alla Camera sottolineòl’importanza del papato e prospettòl’opportunità di migliorare le relazioni traesso e lo Stato, affinché quest’ultimo netraesse maggior influenza sullo scacchieremondiale. Tale cambiamento di strategiaè riconducibile alla fusione dell’ideologiafascista con quella nazionalista, che avevafatto propria l’idea che la religione cattolica,in quanto tradizione culturale delpopolo italiano, fosse un prezioso collanteper l’unità spirituale della nazione.Queste convinzioni di fondo ispiraronol’introduzione di norme come quella del1923 che dichiarava la dottrina cristiana,secondo la forma ricevuta nella tradizionecattolica, fondamento e coronamentodell’istruzione in ogni suo grado. L’annoseguente lo Stato riconosceva la prima liberauniversità italiana, l’Università Cattolicadel Sacro Cuore, fondata nel 1921da padre Agostino Gemelli a Milano. Nel1925 il governo arrivò persino a insediareuna commissionemista di laici e religiosi,infruttuosapoiché la Chiesane ritenne le propostecome assolutamentenonvincolanti. Nel frattempo, i partiti politicierano stati sciolti e con essi era stata liquidatal’opposizione legale: tragicamente,si era alla dittatura.In tale clima iniziarono nel 1926 letrattative per quegli accordi che avrebberopreso il nome di Patti Lateranensi:esse si svolsero in segreto e portarono l’11febbraio 1929 alla solenne stipula nel palazzodel Laterano dei Patti, composti daun Trattato (che risolveva la “questioneromana”, con l’accettazione da parte dellaSanta Sede dell’annessione di Roma alRegno d’Italia e il riconoscimento dellasovranità del pontefice in ambito internazionalee sul territorio dello Stato Città delVaticano); da una Convenzione finanziaria,nella quale lo Stato italiano si impegnòa risarcire la Chiesa per la perdita del patrimoniodello Stato pontificio e dei beniconfiscati in passato; da un Concordato,che assicurò alla Chiesa il libero eserciziodel potere spirituale, in tutte le sue forme.Questi tre documenti sono comunementedesignati come “conciliazione”.Queste norme segnavano un’inversionedi rotta rispetto alla politica separatistae pertanto suscitarono criticheda varie parti. Nel complesso, tuttavia,la popolazione le accolse con favore equesto contava più d’ogni altra cosa peril rafforzamento del potere personale diMussolini.I buoni rapporti tra Stato e Chiesasi incrinarono nel 1938, quando le leggirazziali provocarono il dissenso dinumerosi cattolici e un aperto conflittosull’interpretazione del Concordato. Lalegge sulla nullità dei matrimoni tra arianie ebrei fu giudicata infatti da Pio XIuna vera e propria ferita inferta ai Pattilateranensi.Come sappiamo, la Chiesa, nella temperiedegli anni tra il 1943 e il 1945, avevafatto il suo dovere, concedendo asilo aiperseguitati dai nazifascismi. I cattolici, daparte loro, contribuirono alla Resistenza: larinata Democrazia Cristiana era infatti partedel Comitato di Liberazione Nazionale.Alla caduta del regime, l’importante ruolopacificatore della Chiesa fu riconosciutoanche durante i lavori per l’AssembleaCostituente: nel 1948, i Patti Lateranensivennero recepiti nella Costituzione.Il procedimento di revisione del Concordato,lungo e faticoso, ma altrettantonecessario, terminerà solo nel 1984, con lafirma di un nuovo Concordato, più estesodel primo. Ciò fu dovuto alle numerose polemicheche coinvolgeranno Stato e Chiesaproprio negli anni più recenti, come quellache precederà l’introduzione del divorzioin Italia, terminata con il referendum abrogativodel 1974 e quella sull’aborto, di pochianni successiva. Ma questa è ormai lacronaca dei nostri giorni.36 • n. 3, settembre-dicembre 2010


150 anni di Unità d’ItaliaLa massoneriache fece l’ItaliaLe logge massoniche e il GrandeOriente d’Italia contribuironofortemente a realizzare ea mantenere l’unità dellostato italiano e la storia dellamassoneria si intreccia con lastoria d’Italia: vediamo come.di Donato SambugaroIl compasso e la squadra sono fra i simbolipiù diffusi della massoneria: ricordano lacostruzione del Tempio di Re Salomone esono la metafora della costruzione di unnuovo mondo.Per chi è nato, come chi scrive in questomomento, attorno agli anni Novanta, iltermine “massoneria” è necessariamentelegato agli avvenimenti giudiziari dellelogge deviate, alle oscure trame politichedella P2 e, recentemente, della P3, forseal “fratello” incappucciato interpretato daGuzzanti, certo non a un coerente contestostorico e al processo che ha portato la massoneriaitaliana a interagire con le più altesfere del potere politico, rendendola unadelle componenti innegabilmente essenzialinella storia della formazione dello Statoitaliano. In fondo, l’Unità d’Italia l’ha fattaun massone: Giuseppe Garibaldi.Cerchiamo allora di delineare brevemente– con l’aiuto del professore FerdinandoCordova, al quale quest’articolodeve molto più di quanto dimostra la suascarna brevità – la storia della massoneria,nelle tappe fondamentali che hannocoinciso con altrettanti passaggi decisividella storia d’Italia. I primi vagiti dellaMassoneria si ebbero a Milano nel 1805,ma si spensero con la caduta di Napoleone.È invece a Torino che nasce nel 1859il Grande Oriente Italiano, che esplicitamenteaspira a diventare punto di riferimentonazionale e che appoggia dichiaratamentel’opera diplomatica di Cavour,per schierarsi successivamente dalla partedi Crispi. Trasferita la capitale a Firenze,assunse il nome di Grande Oriente d’Italia.Gli uomini che lo compongono sonoricchi borghesi e appartenenti all’aristocraziafondiaria. Si può in effetti dire chela massoneria agisce per lungo tempo insenso suppletivo, coadiuvante e paralleloal regno prima sabaudo e poi italiano.L’anima fondamentalmente borghese elaica della massoneria è dimostrata dalfatto che fin dagli albori essa si pronunciaa favore di Roma capitale e contro ilpotere temporale del Papa, attirandosi ilunghi odi e le inimicizie della parte cattolica.Negli alti ranghi della massoneriaci si rende conto della fragilità del neonatoStato e si teme che il processo unitariopossa essere messo in discussione; di quila salda posizione in questo senso dellealte componenti della massoneria (chenel frattempo si era spostata a PalazzoGiustiniani, a Roma), che contribuironoinnegabilmente a mantenere solido un coacervodi territori e istituzioni altrimentifriabile, nonostante quest’associazionesi trovasse politicamente a dover lottareda un lato contro la componente socialistae dall’altro contro quella cattolica e,successivamente (dai primi decenni delnuovo secolo), contro la neonata correntenazionalista, che non vedeva di buon occhiol’internazionalismo massonico.In età giolittiana la massoneria siprodiga affinché i provvedimenti politicivadano nella direzione di una più nettalaicizzazione dello Stato. Allorché Giolittisi dimostra restio a perseguire questalinea, come gli stessi massoni evinconoda una scelta come quella del Patto Gentiloni,essi mirano alla creazione di unasorta di “nuovo Stato”, realizzato ancheattraverso la guerra (i massoni sono dunquesostanzialmente interventisti) che,si crede, potrebbe costituire un nuovoordine internazionale. Successivamentela massoneria asseconderà l’impresadi Fiume (salvo staccarsene per le sueultime derive politiche) e guarderà conattenzione al fascismo che, seppur nonpromosso, non è neppure ostacolato (ed èrigettato solo dal 1921-1922). Non si legge,in queste pagine della storia, un filocoerente all’interno del Grande Oriente.La massoneria, infatti, nasce come istituzioneatta a promuovere il miglioramentopersonale dell’individuo all’interno di unpercorso morale, ma ben presto si caratterizza(come le altre logge massonicheeuropee ma contrariamente allo spiritodell’originaria e contemporanea associazionemassonica inglese) attraversoevidenti connotazioni politiche, generatechiaramente dal contesto in cui viene atrovarsi.Il Grande Oriente d’Italia viene ufficialmentesciolto nel 1925 proprio inseguito alle disposizioni fasciste cheinibiscono l’attività massonica e rendonoincompatibile l’appartenenza a unaloggia massonica e al partito, colpendocosì anche l’altra grande loggia massonicaformatasi da una costola del GrandeOriente, la cosiddetta loggia “di Piazzadel Gesù”, che aveva inizialmente appoggiatocon forza Mussolini proprio inopposizione agli altri massoni e per interessipersonali.Dal 1943-44 la massoneria si ricostituiscesotto l’ala protettiva del governoamericano di Truman e in funzione anticomunista.Molti esponenti massoni dispicco confluiscono poi nei partiti liberali,formando così una “base laica” d’appoggioalla Dc.Non ripercorrerò gli eventi più recenti,molto meglio noti e forse ingiusti versouna realtà di cui è arduo dare un giudizionettamente positivo o negativo, chécerto entrambi potrebbero essere difesi abuon diritto. Mi premeva piuttosto sottolinearecome anche in questa direzionevadano cercate le spinte che hanno primareso possibile e poi sostenuto il processodi unità nazionale. Qualche pietra diquest’Italia barcollante, insomma, l’haben posta anche la massoneria.Si ringrazia il professor Ferdinando Cordova per lasua disponibilità.panorama per i giovani • 37


150 anni di Unità d’ItaliaA sinistra: la valle di Trento e le montagneche la circondano. Nella pagina seguente:Henry Dunant in una stampa ottocentesca.Foto: iStockphoto.com/morozenaGli alpinisti tridentiniDalla lotta per l’identità culturale a quella per la montagna.di Aleksandra ArsovaLa storia della Sat (Società degli AlpinistiTridentini) ha un inizio non moltodiverso da quello di altre società diepoca risorgimentale, nate in difesadella lingua e della nazionalità italiana.Quando nel 1872 i trentini NapomucenoBolognini e Prospero Marchetti deciserodi farsi promotori di una società alpinalocale, uno dei loro intenti primari eraappunto di carattere patriottico, dal momentoche si voleva rivendicare l’identitàdel Trentino e il suo legame con lacultura italiana, essendo esso ancorasotto la dominazione asburgica. Sonoinnumerevoli gli episodi riconducibiliproprio a quest’ideale patriottico. Bastiricordare, ad esempio, la scelta della SatCiò che ha distinto la Sat dallealtre società risorgimentali èstato l’interesse per la montagnae per il territorio del Trentino.di battezzare con il nome Roma una vettadel Brenta scalata nel 1875, a pochianni cioè dalla Breccia di Porta Pia. Giànel 1876, d’altronde, la Società vennesciolta dalle autorità austriache proprioa causa del suo atteggiamento filo-italiano.Né si può dimenticare, qualchedecennio più tardi, la partecipazionevolontaria dei soci della Sat alla PrimaGuerra Mondiale in favore dell’unificazionedel Trentino all’Italia.In tutto questo, però, ciò che davveroha distinto quella degli alpinisti tridentinidalle altre società risorgimentali e hafatto sì che durasse sino ad oggi è il suointeresse per la montagna e per il territoriodel Trentino. Fin dalle sue origini,la Sat si diede l’obiettivo di restituiredignità alla propria regione, studiandoneil territorio, tutelandone la flora e lafauna e cercandoanche di avvicinarel’uomo allanatura. Testimonianzaesplicitadi tale finalità èil primo statuto,risalente all’anno di fondazione: “LaSocietà si prefigge di raggiungere ilsuo scopo mediante ricerche scientifichesulle montagne, e descrizioni delle medesime,desunte da tutti i diversi punti divista, sotto i quali si presentano”. Questaattività nel settore ambientale e naturalisticoha ovviamente subito un’evoluzionenei 138 anni di vita della Società:dalla semplice conoscenza dell’ambientemontano, mediante ricerche di caratterescientifico nei più svariati campi, quali lageografia, la geologia, la limnologia (lostudio degli ecosistemi di acqua dolce) ela speleologia, si è passati all’educazionealla montagna e all’alpinismo, come dimostranola rete dei sentieri alpinistici, lacreazione di rifugi e di guide alpine, pergiungere infine all’interesse per la salvaguardiae la protezione della montagna.Riguardo a quest’ultimo punto, la Satha sempre cercato di mediare in manieralungimirante la realtà di quest’ultimae i bisogni dell’uomo, tentando di educareal rispetto del bene pubblico comepatrimonio da utilizzare con accortezzae da preservare per le generazioni future.Talvolta questo atteggiamento ha portatola Società a prendere una posizione contrariaa certe forme di sfruttamento turisticoe alla costruzione di infrastruttureche poco si conciliano con il paesaggio.Risale agli anni Sessanta, per esempio, laquestione del “Brenta da salvare”: cometestimonia un opuscolo dell’epoca, vennesollevato il problema della opportunità direalizzare una nuova funivia che avrebbedanneggiato dal punto di vista sia morfologicosia estetico la montagna forse piùcara ai Trentini. Venendo ad anni più recenti,merita di essere ricordato almenoil Congresso di Ala del 1982, dove perla prima volta, grazie all’idea di istituirei parchi non solo a livello burocraticoma con una funzione civica, si cercò diaffiancare alla difesa della natura quelladelle tradizioni dell’identità trentina.Oggi, a quasi 140 anni dalla sua fondazione,la Sat prosegue con determinazionele proprie attività, puntando nonsolo sulla valorizzazione del territoriolocale, ma mirando a collaborazioni dirilevanza nazionale e internazionale,con lo scopo principale di avvicinare igiovani all’alpinismo e di far rinascerein loro l’amore per la natura e per lamontagna.38 • n. 3, settembre-dicembre 2010


150 anni di Unità d’ItaliaFoto: iStockphoto.com/vincevoigtLa battaglia di Solferinoe la Croce RossaLa Seconda Guerra d’Indipendenza e la nascita di un corposovranazionale di soccorso dei feriti in guerra.di Angelo FilippiÈ il 24 giugno del 1859 quando a Solferinosi svolge una delle battaglie più sanguinoseche l’Europa abbia mai visto. Al terminedei combattimenti circa ventinovemila uomini,tra morti e feriti, giacciono sul campodi una battaglia che oltre a essere stata difondamentale importanza per l’unificazionedel nostro paese ha permesso che, dalle sueceneri, nascesse uno degli organi di sostegnoumanitario più importante al mondo.Nel 1859, in Italia, le delusioni e lesconfitte dal sapore amaro, legate alla PrimaGuerra d’Indipendenza, sono ormaialle spalle e un numero sempre crescentedi patrioti considera il Piemonte l’unica opportunitàper raggiungere l’unità. L’idea diun’Italia unita trova sostegno internazionalenella Francia: l’Imperatore Napoleone III interviene,schierandosi col regno subalpino. Iprimi combattimenti dei franco-piemontesicon gli austriaci si svolgono a Montebelloil 20 maggio del 1859, con la vittoria deiprimi. Il mese dopo, l’offensiva austriacasi conclude il 24 giugno a San Martinocon la vittoria piemontese e a Solferino conquella francese. Con l’armistizio voluto daNapoleone III termina la Seconda Guerrad’Indipendenza e bisognerà attendere laspedizione dei Mille per la proclamazionedel Regno d’Italia, il 17 marzo 1861.Il 24 giugno 1859 un uomo d’affarisvizzero impegnato in attività di svilupposociale, Henry Dunant, si trova casualmentecoinvolto nelle vicende della battagliadi Solferino. Quel giorno gli austriacipersero 14.000 uomini e i franco-piemontesi15.000. Vagando sconvolto per ilcampo di battaglia, egli stesso scrive nelsuo libro Un Souvenir de Solferino: “Quisi svolge una lotta corpo a corpo orribile,spaventosa, Austriaci e Alleati si calpestano,si scannano sui cadaveri sanguinanti[…] una lotta senza quartiere, un macello,un combattimento di belve […] anche iferiti si difendono sino all’ultimo: chi nonha più un’arma afferra l’avversario allagola, dilaniandola con i denti”.A sconvolgere particolarmente Dunantè la mancanza di un’adeguata e organizzataassistenza sanitaria. Mosso da umana compassioneverso un ingente numero di feritie morenti, Dunant s’improvvisa infermieree organizza la sua prima missione umanitaria.Sempre nel suo resoconto di guerraleggiamo: “i feriti muoiono di fame e sete;vi sono filacce in abbondanza ma non manisufficienti per applicarle sulle ferite. È dunqueindispensabile organizzare un serviziovolontario”. Nasce allora la necessità dicreare un’organizzazione di soccorso subase volontaria sovranazionale, in grado diintervenire in ogni paese. Dalla volontà diun singolo si diramano le radici di un progettopreciso, che prevede di portare sollievoai feriti e ai bisognosi, indifferentementedal loro schieramento in battaglia.Nel 1863 Jean Henri Dunant, più notocome Henry Dunant, con altri quattro cittadinisvizzeri realizza il Comitato ginevrinodi soccorso dei militari feriti. Solo due annidopo, il 22 agosto 1864, dodici nazioni, tracui l’Italia, sottoscrivono la prima Convenzionedi Ginevra, che diventa la basedell’attività della Croce Rossa. Nel 1991 ilprogetto umanitario creato da Dunant diventala Federazione Internazionale delleSocietà di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa.Oggi la Croce Rossa Italiana è impegnatain progetti di ampio respiro internazionale,tra i quali l’intervento ad Haiti, colpita il 12gennaio 2010 da un terremoto devastante,dove l’impegno dei volontari si è concretizzatonell’apertura di un campo base e di unascuola provvisoria a Petionville. Inoltre, acausa del sisma del 27 febbraio 2010, l’enteè presente in Cile, come anche in Indonesia,a seguito dello tsunami nelle Mentawai.La battaglia di Solferino rappresenta quindiuna “pietra miliare” non solo per l’Unitàd’Italia, ma per la storia dell’umanità. Da unevento bellico estremamente cruento emergela volontà di riscattarsi, di lottare per sradicarela sofferenza. Dalla Storia con la “S”maiuscola, fatta di uomini e guerre, si svincolaquella di un solo individuo, capace e volenteroso,che si distingue per il suo operatoe per il suo desiderio di agire affinché, anchenell’irrazionalità della violenza più nefasta, siesprima la solidarietà umana.BIBLIOH. Dunant, Un Souvenir de Solferino,Fondazione Giorgio Ronchi Editore,Firenze 2008.E. Biolcati, Storia della Croce Rossa,Gruppo Pionieri di Torino.panorama per i giovani • 39


150 anni di Unità d’ItaliaFoto: iStockphoto.com/snemO’ mare canta...Libero Bovio e l’anima popolare della poesia in musica che ha unitol’Italia.di Selene FavuzziLa voce roca di Mino Reitano che cantaItalia e l’aspro sarcasmo di Ma il cieloè sempre più blu; L’italiano di Toto Cutugnoe Viva l’Italia di Francesco De Gregori,pur essendo canzoni forti, colme dipassione e amore per il nostro paese, sonoin un certo modo prive di quell’originariaingenuità e hanno nei testi un sottile velodi retorica.Sono passati cento anni dai ritratti diLibero Bovio e della sua Italia poverama con la forza di vivere e ricominciaresempre e le sue parole sono estremamenteattuali ancora oggi: la canzone d’amorecome espressione di forza; urlo malinconico,talvolta amaro, ma sempre così intenso...il canto come filo che unisce il Paese...e il riscatto che sale dal Sud di quest’Italiache ha sempre bisogno di qualcosa che netenga assieme le multiformi coste.La canzone di Napoli è ambasciatrice dipace nel mondo.È voce d’Italia in terra straniera.È grido d’amore, ma è segno di forza:è sempre profumata di malinconia, anchequando è allegra.(Libero Bovio, Don Liberato si spassa,Prismi, Edizioni de Il Mattino, 1996)Certe volte, poche parole, appena condensatenello spazio breve d’una poesia,possono rappresentare qualcosa di benpiù vasto dei confini della pagina che lecontiene arginandone la forza espressiva.Il verso poetico ha un’enorme potenzialità:quella di legarsi a un’immagine, afferrandosistretto alla maglia dei ricordi, pervenire evocato anche solo da un suono efatto rivivere in tutto il suo splendore, accogliendoogni volta nuovo significato.Se togliessi alle parole le cadenze, ipensieri, i sospiri, le lacrime, i sorrisi, nonresterebbe null’altro che una pagina biancamacchiata d’inchiostro... priva di voce.Se invece a darle voce è il canto e unamelodia a darle corpo, allora sì che dellesemplici parole potrebbero rappresentareuna nazione intera.Questo è quello che è accaduto conl’epoca d’oro della canzone napoletanagrazie a un connubio inscindibile di grandipoeti, come Salvatore di Giacomo, FerdinandoRusso, Murolo, Giovanni Capurro estraordinari compositori, fra cui Costa, Ernestode Curtis, Gaetano Lama, VincenzoValente, Di Capua, Gambardella e De Gregorio;cantanti infine come Mario Abbate,Caruso, o Massimo Ranieri, solo per citarnealcuni, diedero a essa la loro voce, rendendole sue creazioni opere immortali.Libero Bovio (1883-1942) nacque aNapoli dal filosofo e uomo politico puglieseGiovanni Bovio e dalla pianistaBianca Nicosia e presto venne avvicinatoall’amore per la musica dalla madre, chegli suonava Beethoven, cui subito egli dimostròdi preferire Gambardella e Di Capuae la tradizione partenopea.Questo è solo uno degli elementi che loavvicinano al sentire popolare; uno dei pensieriraccolti nel suo libro di aforismi DonLiberato si spassa recita infatti: “Napoli haavuto due poeti del popolo, due grandi poeti:un povero guantaio morto di tisi a venticinqueanni e un garzone di osteria di campagna,spentosi nella più squallida miseria:l’uno si chiamava Vincenzo Russo e l’altroGiuseppe Capaldo. Ai maestri, no: a questidue popolani invidio qualche poesia”.Il rimpianto per una giovinezza perdutadi Signorinella, il sofferto canto d’amoredi Tu ca nun chiagne, Reginella e Passione,la riflessione sulla morte di Chiove,l’amarezza dell’emigrato di Lacreme napulitane,il canto alla luna capace di commuovereanche i “guagliune ‘e malavita”di Guapparia e il paesaggio napoletano diSilenzio Cantatore, sono solo alcune dellecanzoni di questo straordinario poeta chefanno parte dell’eredità d’ogni italiano.Molti cantautori dopo di lui hannoscritto musica dedicata al nostro paese,ma difficilmente hanno raggiunto livellisimili di spontaneità e freschezza.Chist’è ‘o paese d’’o soleTutto, tutto è destino…Comme putevo fà fortuna a ll’esteros’io voglio campà ccà?GIOVANNI BOVIOIl libero pensiero non vuole martiri,vuole ugualiGiovanni Bovio nacque a Trani (Bari)il 6 Febbraio 1837 nella numerosafamiglia d’un modesto impiegato.Sin da giovanissimo mostrò unastraordinaria memoria, che esercitòsu testi del mondo classico, filosofi coe giuridico; si manteneva infatti dandolezioni private di diritto, letteratura efi losofi a, quando nel 1872 ottennealla Federico II di Napoli la cattedra diStoria del Diritto e, successivamente,la libera docenza di Filosofi a.Quattro anni più tardi entrò nellaCamera dei Deputati per il collegiodi Minervino Murge e, essendouomo d’estremo rigore e rifi utandoil trasformismo, rimase tutta la vitafra i seggi dell’ala repubblicana,come deputato della sinistra storica,adoperandosi strenuamente per“costruire” l’Italia. Fu inoltre il relatoredel codice penale suo omonimo, cheprevedeva fra le altre cose l’abolizionedella pena di morte e il diritto disciopero (non contenendo articoli chelo vietavano).Giovanni Bovio, con la sua rifl essionefi losofi ca d’una vita e la straordinariaeloquenza che riusciva talvoltaa unire le frange più estreme, hacontribuito a fare dell’Italia il paese checonosciamo.40 • n. 3, settembre-dicembre 2010


150 anni di Unità d’ItaliaA sinistra: una pista di atletica. Nellapagina precedente: il golfo di Napoli.Foto: iStockphoto.com/35007Tra Dolce Vita egeopoliticaI Giochi di Roma ’60: la capitale di un’Italia bella e vincente divienearbitro della Guerra Fredda.di Carmelo Di NataleCon buona pace del romantico Pierre DeCoubertin, i Giochi Olimpici non sono maistati un evento puramente sportivo, almenonon da quando i grandi della terra si sonoaccorti di quale straordinario potenziale intermini di propaganda politica, economica,culturale sia insito in un avvenimentoin cui tutte le nazioni si confrontano vincolateal solo giudizio di tempi e misure. Lastoria insegna che le gesta di grandi atletihanno spesso rappresentato il volano pertrasformazioni sociali e politiche di eccezionaleimportanza: come non ricordarea tal proposito le quattro medaglie d’orocon cui l’afroamericano Jesse Owens calpestòil mito della superiorità ariana nelleOlimpiadi di Berlino del 1936 (il più efficienteprogramma di propaganda nazistamai posto in essere) o il guanto nero concui Tommy Smith e John Carlos, dal podiodella finale dei 200 metri piani di Città delMessico ’68, sfidarono un’America razzistache pochi mesi prima aveva glissatoindifferente sull’omicidio di Martin LutherKing? E ancora, risuonano in tutta laloro rilevanza geopolitica i boicottaggi daparte delle due superpotenze della GuerraFredda, Usa e Urss, rispettivamente diMosca ’80 e Los Angeles ’84, l’esclusionele a questa evoluzione (o involuzione, aiposteri l’ardua sentenza...) è apportatosenz’altro dalla presenza dei mezzi di comunicazionedi massa: Roma ’60 è infattila prima edizione dei Giochi trasmessaintegralmente dalla televisione, con più dicento ore di diretta della giovanissima Rai,l’emittente radiotelevisiva nazionale nataappena sei anni prima.La propaganda delle due grandi potenzeavversarie, Usa e Urss, era all’opera già daprima della cerimonia di apertura. Krusceve i gerarchi sovietici vedevano gli atleti allastregua di soldati incaricati di mostrare almondo tutti i benefici materiali e morali delsistema socialista: le loro gesta erano parteintegrante nella costruzione del prestigiodella società sovietica a fronte del nemicocapitalista, consumista e razzista. Dal cantoloro, i funzionari americani dovevano confutarel’accusa sovietica di razzismo – cheera pur fondata, ma il mondo non dovevaaccorgersene o quanto meno avere qualcheargomento per passarvi sopra – cosicché siaffrettavano a sottolineare l’armonia presentenella compagine statunitense tra atletineri e atleti bianchi; particolare rilevanzanella propaganda americana aveva quindiil fatto che, per la prima volta, il portabandieradella squadra a stelle e strisce eranero. Si trattava del grande Rafer Johnson,atleta di straordinario talento ed eccezionalecarisma destinato a imporsi, con tanto direcord del mondo, nella durissima prova didecathlon sull’amico Yang Chuan-kwang,suo compagno di studi e di allenamenti,che gareggiava però per la federazioneolimpica di Taiwan.Già, Taiwan, l’isola di Chang Kai-shekmai riconosciuta dalla Cina maoista: lo statopiù popoloso del mondo non inviò alcunatleta a Roma, bensì solamente un gruppodi funzionari i quali, durante la cerimoniadi apertura, sfilarono tenendo in mano alposto della bandiera un cartello recante lascritta In protest, in segno di protesta perl’invito della provincia ribelle. Il comitatoorganizzativo dei Giochi romani, presiedutodall’allora Ministro della Difesa GiulioAndreotti, pretese inoltre che la Germaniasi presentasse con un’unica squadra unificata:la rigidità dei criteri con i quali lefederazioni olimpiche di Germania Est eGermania Ovest selezionarono la compagineda inviare a Roma fu degna degli equidelSudafrica da molte edizioni olimpichea causa dell’apartheid, i ben noti Giochidi Pechino 2008, imponente macchina dipropaganda della potenza economica epolitica cinese su scala globale. No, decisamentele Olimpiadi non sono solo unafesta di sport...In questo quadro di simboli, gesti,scelte, significati più o meno celati, in cuil’elemento sportivo-agonistico si compenetraineluttabilmente con quello politicoe strategico, i Giochi Olimpici di Roma1960 rivestono un’importanza particolare.Già lo stesso De Coubertin aveva pensatoalla capitale italiana come sede delle Olimpiadidel 1908, ma per cause di forza maggiore(l’eruzione del Vesuvio del 1906)questi poterono tenersi nella città eterna,appunto, solo nel 1960. Quella romana fuperò un’edizione olimpica di grandissimospessore, perché segnò lo spartiacque trauna concezione fondamentalmente romanticadello sport (fatta di dilettantismo,rifiuto degli sponsor, sacralità della lealecompetizione sportiva) e una dimensionemediatica globale, in cui irrompono gli interessiprivati e si ingigantisce la rilevanzapolitica e strategica, oltre che di costume,dell’evento. Un contributo fondamenta-panorama per i giovani • 41


150 anni di Unità d’Italialibri di un trattato post bellico, tanto che gliatleti raramente potevano entrare in contattoal di fuori di allenamenti, gare e cerimonie.La bandiera della squadra tedesca unificatafu quella tradizionale della Germania, nerorosso e oro, con i cinque cerchi olimpici alcentro e l’Inno alla Gioia di Beethoven fecele veci dell’inno nazionale.Il comitato organizzativo di Romaseppe però prevedere e gestire molto benequeste difficoltà di natura extra-sportiva,mentre la magia della città eterna fece ilresto... Al loro arrivo, gli atleti si trovaronoimmersi in un clima di grande speranzae positività. Roma era infatti il fiore all’occhiellodi una nazione che viveva il momentoforse più bello di una storia che toccavaproprio allora il limite dei cento anni:quella era l’Italia del miracolo economico,con un Pil che cresceva a un ritmo paragonabilea quello dei moderni paesi Bric(Brasile, Russia, India, Cina), della DolceVita, dei grandi miti dello sport (proprionel 1960 moriva tragicamente il Campionissimo,Fausto Coppi). Il comitato organizzatoresi propose l’intento di renderei Giochi un unicum con la città; si scelsequindi come cornice delle gare di pugilatola Basilica di Massenzio – dove iniziaronoa far parlare di sé due tra i più grandiboxeur di tutti i tempi, l’italiano Nino Benvenutie l’americano Cassius Clay, aliasMuhammad Alì – mentre i fori imperialifurono teatro della maratona, con la commoventevittoria dell’etiope Abebe Bikila,capace di battere il precedente record delmondo correndo a piedi nudi sui sampietriniromani. I Giochi di Roma, inoltre,consacrarono definitivamente lo sportfemminile, grazie alle imprese nell’atleticaleggera della leggiadra Wilma Rudolph(vincitrice dell’oro nei 100, 200 e nellastaffetta 4x100) e delle altre Tigerbelles,le atlete statunitensi di colore. L’Italia, dalcanto suo, colse risultati sportivi inimmaginabili,riuscendo a classificarsi al terzoposto nel medagliere, dietro le sole Urss eUsa: spiccò su tutte l’inattesa e straordinariavittoria, con record del mondo, di LivioBerruti nei 200 metri piani. In definitiva,le Olimpiadi di Roma 1960 mostraronoal mondo uno Stato, l’Italia, che avrebbefesteggiato un secolo di vita l’anno successivo,affrancatosi definitivamente daidisastri della Seconda Guerra Mondiale epronto a svolgere un ruolo importante sulloscacchiere internazionale. E oggi, nelsesquicentenario dell’Unità?Foto: iStockphoto.com/naphtalinaSa vida pro sa PatriaDalle trincee dell’altopiano di Asiago alla sabbia dell’Afghanistan:uomini e imprese di una tra le più valorose e particolari unità dell’esercitoitaliano.di Fabrizio GrussuPrimo marzo 1915: mancano poco più ditre mesi all’entrata in guerra dell’Italianella Prima Guerra Mondiale. In Sardegnaviene fondata una brigata di fanteriadestinata a essere protagonista del conflittoe della storia dell’esercito: la “Sassari”.È composta di due reggimenti, il 151° e il152°, e ha una caratteristica unica che ladifferenzia dalle altre brigate dell’esercitosabaudo: è formata da soli sardi.All’inizio delle ostilità contro l’Imperoaustro-ungarico viene schierata lungol’Isonzo. Sarà la prima unità a essere citatanel bollettino di guerra e l’ultima a ritirarsi(per giunta in ordine) dietro il Piave,facendo saltare l’ultimo ponte e chiudendodefinitivamente l’accesso alla pianurapadana al nemico. I suoi reggimenti sonogli unici, nella storia delle forze armateitaliane, a essere stati entrambi decoratidue volte nell’arco di una sola guerracon la medaglia d’oro al valore militare.All’indomani della battaglia sul Piavecosì si esprimerà il presidente del consiglioVittorio Emanuele Orlando: “Quandovidi i valorosi della Brigata Sassarisentii l’impulso di inginocchiarmi dinanzia loro, perché vidi riassunte in Essi tutte levirtù dell’Esercito”.Al di là del coraggio individuale deidiavoli rossi (così i nemici chiamavano isassarini per via dei colori delle mostrine),altri due fattori contribuirono alla riuscitadelle imprese di cui la Sassari fu protagonista.Innanzitutto anche i non militari diprofessione sapevano sparare. Si trattavadi una rarità, poiché, a causa della frettacon cui i soldati dovevano essere inviatial fronte, non vi era tempo per addestrarele reclute prima di mandarle a combattere.I sardi però, in massima parte contadinio pastori, sapevano ben maneggiarele armi, che avevano imparato a usarefin da piccoli per difendere i raccolti e legreggi da lupi e faine. Molto importantefu anche la lingua: ogni esperto dell’artemilitare sa quanto sia importante, ai finidella vittoria, intercettare le comunicazionidel nemico. Nell’esercito austriacoesistevano sicuramente addetti alle intercettazioniche conoscevano l’italiano, manessuno che conosceva il sardo. Fu cosìche nelle trincee sull’altopiano di Asiagodove era di stanza la brigata, il comandomilitare fece esporre dei cartelli con suscritto “chi sesi italianu fuedda in sardu”(se sei italiano parla in sardo). Più i fantidella Sassari avrebbero parlato nella lorolingua d’origine, meno possibilità ci sarebberostate per gli austriaci di venire aconoscenza degli spostamenti e dei pianidel regio esercito. Non importava che sitrattasse del campidanese, del barbaricinoo di qualsiasi altro ceppo della lingua sarda:l’importante era parlare in sardo.Al temine della guerra moltissimi reduciaderiranno al Partito Sardo d’Azione.Dopo la salita al potere di Mussoliniuna parte di essi seguirà Emilio Lussu nelsuo impegno antifascista.Durante il secondo conflitto mondialela Sassari combatté in Jugoslavia, dacui fu richiamata dopo l’8 settembre perprendere parte alla difesa di Roma. Fusciolta dopo la battaglia.Il 152° fu ricostituito nel 1958, il 151°nel 1962.Dal 1992 è divenuta una brigata meccanizzata.I suoi soldati hanno partecipatoalle principali missioni all’estero cui l’Italiaha contribuito, sia nei Balcani sia inMedio Oriente.Per la partecipazione alla missione“Antica Babilonia” in Iraq entrambi ireggimenti sono stati decorati con un’ennesimamedaglia d’oro: quella al valoredell’esercito.42 • n. 3, settembre-dicembre 2010


150 anni di Unità d’ItaliaLe tavolozze delRisorgimento1861. I pittori del Risorgimento alle Scuderie del Quirinaledi Francesca Parlati e Aleksandra ArsovaInaugurata il 6 ottobre 2010, sotto l’AltoPatronato del Presidente della Repubblicae con il patrocinio del Ministero per i BeniCulturali, la mostra dal titolo 1861. I pittoridel Risorgimento è situata nello spaziomuseale delle Scuderie del Quirinale, con39 opere di 22 autori diversi. La mostra sipropone di ritrarre le passioni che infiammaronogli animi degli italiani, patrioti enon, durante questo decisivo periodo storico.Le opere esposte, infatti, non si limitanoa mostrare eserciti o atti manifestidi patriottismo monumentale, ma anche isoldati prima e dopo la battaglia, i contestidomestici e familiari, dove, pur non arrivandoil fragore della battaglia, se ne intuiscel’emozione e la partecipazione.Proprio su tale distinzione è articolatala mostra: il primo piano è dedicato, infatti,alle opere monumentali, dove si percepisceappieno il vigore dell’atto bellico,la grandiosità dell’evento storico. Pittoricome Gerolamo Induno, Federico Faruffini,Eleuterio Pagliano e Michele Cammaranofurono ardenti patrioti, che parteciparonoa molte delle battaglie che hanno fatto lastoria d’Italia, venendo poi definiti dalla criticaappunto “pittori soldati”. La battagliadi Varese del Faruffini raffigura una caricadei soldati italiani,mentre da dietro lamischia emerge,ancora seminascosto,il tricolore. Viè poi La battagliadi Magenta di Gerolamo Induno, che rappresentail culmine della battaglia, in unadescrizione minuziosa, che non per questosacrifica l’impatto emotivo suscitato nell’osservatore.Apice di questa scala di fortiemozioni è I bersaglieri alla presa di PortaPia, di Michele Cammarano. I bersaglieri siprecipitano verso chi guarda, bucando quasila gigantesca tela, in un’ambientazione nonmeglio definita, tra la polvere dello sterratoe la polvere da sparo, umani nell’inciamparee cadere durante la corsa, eroi nell’unirel’Italia. Come dimenticare, inoltre, opereSopra: Michele Cammarano, La carica deibersaglieri a Porta Pia, 1871, olio su tela(Napoli, Museo di Capodimonte).emblematiche come Spartaco di VincenzoVela o Gli abitanti di Parga che abbandonanola loro patria di Francesco Hayez, dimostrazionidi eroismo anche degli umili.Il secondo piano, invece, è dedicato alRisorgimento “privato”. Qui si succedono dipintiraffiguranti ambienti domestici, strade,osterie, botteghe, gente che non vive in primapersona le battaglie, ma ne partecipa all’ardoree si identifica con gli stessi ideali cheUna mostra in cui le opere nonsi limitano a rappresentare glieserciti, ma anche i contestidomestici.animano i soldati. Si delinea così il passaggiodalla fase risorgimentale vera e propria, conLa partenza dei coscritti nel 1866 di G. Induno(immagine simbolo della mostra), allafase storica immediatamente successiva, ovveroal famoso “Fatta l’Italia bisogna fare gliitaliani”, come si evince dal dipinto Le gioiedella buona mamma di Giuseppe Sciuti. È unpunto di vista diverso sulla storia risorgimentale,che la rende meno sacra e celebrativa epiù umana, fornendo al visitatore nuovi mezziper comprendere non solo la storia passatadel suo paese, ma anche l’attualità.panorama per i giovani • 43


150 anni di Unità d’ItaliaA sinistra: il Vittoriano, a Piazza Venezia(Roma), è uno dei simboli dell’Unità d’Italia.Nella pagina seguente: cantieri per l’Expodi Milano 2015.Foto: iStockphoto.com/PaoloGaetanoRitratto diuna nazione unitaIl Museo Centrale del Risorgimento e la mostra “Gioventù Ribelle”: nelloscrigno del Vittoriano vive la memoria della storia italiana.di Elena MartiniLe installazioni accostanocelebri frasi dei padri dellapatria a passi del diario di unosconosciuto garibaldino.Alla morte di Vittorio Emanuele II, nel1878, il Parlamento decise di costruire aRoma un monumento dedicato al primoRe dell’Italia unita, che prese il nome diVittoriano. Oggi, troneggiante su piazzaVenezia, esso ospita il Museo Centrale delRisorgimento: uno straordinario archiviodella memoria dell’epopea nazionale cheripercorre le tappe fondamentali della storiaitaliana dalla metà del Settecento allaPrima Guerra Mondiale. Scrigno perfettoper i cimeli che richiamano la nascitadell’Italia, il monumento nazionale a VittorioEmanuele II accoglie la salma delMilite Ignoto e viene oggi consideratouno dei simboli della Repubblica.Salita la scalinata bianchissima checonduce al museo, quello che più colpisceè un gigantesco monumento in gesso,commissionato allo scultore Vito Pardoper celebrare la fondamentale vittoria delgenerale Cialdini nella battaglia di Castelfidardo.Ci si imbatte poi in una serie dibusti e armi, quadri e medaglie che rievocanoi protagonisti e gli antagonisti delprocesso risorgimentale italiano: la copertadi Garibaldi ferito sull’Aspromonte,citazioni di Mazzini, Vittorio Emanuele IIe papa Pio IX, fino al volantino tricolorelanciato su Vienna da D’Annunzio. La visitaprosegue in un corridoio dove oggettie documenti nelle teche scandiscono letappe delle diverse guerre d’indipendenza,per terminare in una sala interamente dedicataal ruolo italiano nella Prima GuerraMondiale. Di particolare interesse sono ipercorsi monografici proposti lungo tuttigli spazi espositivi, su tutti un accuratoapprofondimento sulla Storia della linguanella storia d’Italiadai neoclassicialla letteratura delnuovo Stato.All’uscita delmuseo l’IstitutoLuce ha collocatouna serie di video-installazioni proiettatea rotazione nei diversi giorni della settimana,fra cui spicca il film Gloria. LaGrande Guerra 1915-1918 (1934), realizzatounendo pellicole originali a materialiprovenienti dall’archivio dell’Istituto perla Storia del Risorgimento italiano.Oltre all’esposizione permanente ealle mostre temporanee, il Museo Centraledel Risorgimento al Vittoriano propone,in occasione del centocinquantesimoanniversario dell’unità d’Italia, unpercorso dedicato ai giovani uomini edonne che hanno lottato e si sono spessosacrificati perché credevano in unapatria italiana. La mostra, intitolata GioventùRibelle. L’Italia del Risorgimento(dal 4 novembre al 18 dicembre 2010),sembra pensata in modo tale da stimolareuno spontaneo parallelismo tra i giovaniprotagonisti dell’epopea risorgimentale ei giovani italiani d’oggi. Nelle due sezioniMorire a vent’anni e Amabili resti lacolonna sonora è del maestro GiovanniAllevi, le video-installazioni accostanoattori italiani emergenti a documentaridell’Istituto Luce e celebri frasi dei padridella patria a passi del diario di uno sconosciutodurante la spedizione dei Mille.Tra biografie e fotografie di pensatori, patrioti,uomini e donne come Luciano Manara,Ippolito Nievo, Nino Bixio, CarloPisacane, Benedetto Cairoli, la Contessadi Castiglione, Colomba Antonetti e moltialtri, colpiscono molte citazioni: “Fratellid’Italia quanti siete dalle Alpi sino aSpartivento!”, “Ogni speranza sta in noi,in noi soli”, “È giunto finalmente il giornoin cui la patria deve riconoscere quantovalgono i suoi figli, in cui ogni italianodev’essere un eroe o morire dal rossore”.Sono parole coraggiose, eroiche, forsetroppo retoriche per le disincantate orecchiedi molti giovani. Ma queste parolescritte dai ventenni di centocinquantaanni fa hanno il merito di mettere noiventenni di oggi di fronte a un progettoche esisteva nelle loro menti e che ha presocorpo per diventare l’Italia.Lasciare da parte per un’ora il dibattitopolitico, la congiuntura economica e letensioni sociali odierne per cercare di comprenderee di rinvigorire il senso di quelprogetto farebbe bene a ogni italiano. Ilcentocinquantesimo anniversario dell’unitàpolitica può offrirne il destro.44 • n. 3, settembre-dicembre 2010


150 anni di Unità d’ItaliaFoto: iStockphoto.com/lucapatroneExpo a MilanoUna sfida per il futuroDopo più di cent’anni dall’Esposizione Internazionale sui trasporti,l’Expo torna a Milano. “Feeding the planet, energy for life”: ilcapoluogo lombardo ha scelto la qualità e la sicurezza alimentare cometema dell’evento.di Elena GambaroNei primi anni del secolo scorso Milanoattraversava una florida fase di sviluppo:vari istituti di credito aprirono le propriesuccursali nella città, intensificando la loroazione propulsiva nel sistema economicoe, accanto alle molte nuove imprese chesorsero, quelle già esistenti consolidaronola loro posizione. In questo clima, dal 28aprile all’11 novembre 1906 si svolse nelcapoluogo lombardo l’Esposizione internazionaleassociata al completamento deltraforo alpino del Sempione. In realtà inizialmentesi era pensato a una mostra suimezzi di trasporto per acqua; il cambiamentoda un argomento specifico al temagenerale dei trasporti fece virare ancheil carattere dell’Esposizione, che assunsetoni più universali per durata, numerodi nazioni coinvolte, estensione (l’areaespositiva copriva circa 28 ettari).“Intorno a questo formidabile centrodi attività che è l’Esposizione si muovonoa migliaia interessati, curiosi e studiosi,[…] un centinaio di congressi si svolgenella grande occasione destinata a diventareleggendaria nella vita di Milano, perla sua speciale grandiosità”. Questa frase,tratta dal volume Milano nel 1906, edito acura dell’amministrazione municipale diMilano, ben rende le grandi speranze chegli organizzatori nutrivano nei confrontidi questo eventoall’alba della suainaugurazione.Speranze quantomenofondatepoiché si calcolache i visitatoriall’epoca furono circa 10 milioni.A cento anni dall’Esposizione del1906, è nata a fine ottobre 2006 la sfida organizzativaper riportare l’Expo del 2015in Italia e a Milano. Alla presentazionedel dossier di candidatura al Bie (BureauInternational des Expositions) sono seguitemissioni all’estero per convincere altrenazioni ad appoggiare il progetto e forumtematici per approfondire l’argomentogenerale. Il Bie è il comitato, cui aderisconoattualmente 157 paesi, preposto aIl 31 marzo 2008 il BureauInternational des Expositions hascelto Milano come sede dell’Expo2015.regolare la frequenza e la qualità di tuttele esposizioni internazionali di natura noncommerciale, organizzate ufficialmenteda nazioni sovrane. Il Bie analizza tutte lecandidature, verificandone l’aderenza aigrandi valori che si intendono promuovereattraverso un Expo, come la difesa dellavita e la condivisione di una conoscenzauniversale, e decreta il paese vincitore.Il 31 marzo 2008 il Bie ha scelto Milanocome sede dell’Expo Universale del 2015con 21 voti di scarto sulla turca Smirne.L’organizzazione dell’Expo sarà un bancodi prova importantissimo per verificare lacapacità dell’Italia di tornare attrattiva inuna dimensione internazionale.Feeding the planet, energy for life:questo è il tema generale dell’Expo 2015.La sicurezza e la qualità alimentare peruno sviluppo sostenibile del pianeta sonopoi declinate secondo ulteriori sottotemi,come “Innovazione nella filiera alimentare”e “Alimentazione per migliori stili divita”.L’Italia ha un’apprezzata e conosciutatradizione alimentare; il tema scelto èperfettamente in linea con gli standardqualitativi e quantitativi che il compartoitaliano del cibo ha raggiunto.I temi di lavoro e dibattito riguarderannoanche la prevenzione delle grandimalattie sociali e la riduzione dell’altonumero di persone che ancora oggi soffrela fame, la sete e la malnutrizione, in lineacon alcuni degli obiettivi di sviluppo delmillennio promossi dalle Nazioni Unite.Da un punto di vista organizzativo,ogni Expo ha esigenze funzionali connessecon il territorio ospitante ed è fondamentaleconcretizzare senza tradire la propostaprogettuale e il valore ideale. Interessantisono le guide alle opportunità, come Expo2015 edita dal Gruppo 24 Ore, che forniscerisposte ai quesiti e alle curiosità sul progetto.Non sono mancati dubbi e dissidi,ma il 23 novembre 2010, con l’approvazionedel dossier di registrazione, Milanoè divenuta ufficialmente la sede dell’Expo2015, un evento che, se ben sfruttato, potràrafforzare la posizione del capoluogolombardo e dell’Italia nel mondo.panorama per i giovani • 45


150 anni di Unità d’ItaliaPetrolio e assenzioQuando la requisitoria si fa poetica e il dissenso è una cifra stilistica.di Giuseppe FasanellaPetrolio e assenzio. La ribellione in versi(1870-1900) è un bel libro, pubblicato dapoco da Salerno nella collana Faville, acura di Giuseppe Iannaccone, docente diLetteratura italiana contemporanea pressol’Università di Roma Tre.Si tratta di una sorprendente silloge diautori normalmente ignorati dalla criticaufficiale, esponenti di una generazione diartisti arrabbiati, nell’Italia del secondoOttocento. Normalmente nelle antologieletterarie compare soltanto l’esaltazionepiù o meno pomposa delle battaglie diquegli anni gloriosi, o tomi dall’intentopedagogico, come le pagine deamicisianedi Cuore. Ebbene, grazie alle ricerche diIannaccone, apprendiamo che non c’è soloquesto: ci troviamo infatti dinanzi una riddadi poeti che espressero una profonda insoddisfazioneper la realtà politica, socialeed economica scaturita dal Risorgimento.“Pur odio, e fortemente odio, ed anèlo/ A la riscossa e ho fretta… / Come aspiranle pie anime al cielo, / L’aspiro a te,santissima Vendetta!”, scrive per esempioGiacinto Stiavelli nella sua Invettiva.Evidentemente non è rimasto moltodello slancio di gioia sincera e immediatache illuminava la canzone del Monti Per laliberazione d’Italia: la musicalità e la compostezzaformale dei tempi passati non hannosenso per i ribelli e per il loro impeto.Dall’insofferenza contro la mediocritàdella borghesia (ma anche contro un’unificazionedel paese realizzata tenendo inpoco o nessun conto il contesto e i disagisociali) germina la rivolta di molti scrittori,che si muovono tra forme di populismoromantico alla Victor Hugo e classicismoalla maniera di Carducci. In verità la matricestorica fa semplicemente da collante aun gruppo tutt’altro che omogeneo di autori,alcuni semplici bestemmiatori, altri verseggiatoriimprovvisati o intellettuali dellaprovincia, altri ancora veri e grandi poeti.Già il titolo della raccolta, ispirato auna poesia di Domenico Milelli, lasciapresagire il contenuto: il petrolio richiamaalla memoria la leggenda delle pétroleusesdella Comune di Parigi; l’assenzioil liquore dei poeti maledetti francesi.Una letteratura, dunque, impegnata e ribelle,che annovera una copiosa schieradi poeti, dalla produzione rovente e accanita.“All’odio affilo, come lama, ilverso”, dice Guarnerio (Recto), mentreLorenzo Stecchetti tuona contro gli aguzzinidi oggi: “Non sperate pietà dunquene’l santo / giorno de l’ira eterna. / Trop-Il mio paeseIl mio paese è fatto di sassiche scivolano fra l’onde,sgretolati in sabbia a formare coste nuove.È terra rossa mischiata a neveche non si scioglie in un istante, lasciando una gocciacalda d’acqua là dove prima era il gelo.Il mio paese è fatto d’indifferenza e banalità,unite al silenzio di chi non sente il mare gemere e urlare,né il terremoto spaccare la terrasenza che i lembi si possano unire.È terra dove l’argento compra le emozionirichiudendole dietro fredde pareti,oltre le quali c’è il nulla.E nulla fa più rumore qui.Ma se a una parola o un cantose a un sasso un altrose a un’onda la sua eco nel mare s’aggiunge,nuova voce allora sfiderà l’orizzonte.Selene Favuzzipo, dinanzi a voi, troppo abbiam pianto”(Iustitia).Il canone stilistico che potremmo definiredell’“enfasi dell’invettiva” raccogliein realtà una vera e propria galleriadi poeti: dai satanici Carducci e Rapisardia Giovanni Pascoli, colto prima che inventassela sua poetica del fanciullino,passando per Filippo Turati e Ada Negri,molto prima che diventasse la sola donnadell’Accademia mussoliniana. Ricordiamoancora, tra i meno noti, gli scapigliatiAntonio Ghislanzoni, quando non scrivevalibretti d’opera, e Ferdinando Fontana,insieme ai veristi come Olindo Guerrieri.Troviamo anche, in Petrolio e assenzio,un folto gruppo di anticlericali bastardi ebestemmiatori, che scagliandosi contro laChiesa inneggiano a Satana o a Epicuro.Non si tratta – è importante sottolinearlo– di una contestazione circoscritta a pocheregioni. Troviamo infatti poeti del Nord,testimoni di una spietata società industriale,e letterati del Sud, spettatori di una crudarealtà contadina: è un vero continente sommerso,testimonianza di un’Italia asfittica edura, che poco aveva da spartire con quellasognata da Mameli e dai grandi patriotiidealisti. Nel verso non c’è spazio per ledelicatezze. Ci sono solo il risentimento e larabbia riassunti nei versi di Girolamo RagusaMoleti, che Benedetto Croce ironicamentedefinì “ribelle dei ribelli”: “Addio, fiori,acque lucenti, / Carezzevoli all’orecchio, /Addio, valli, aeree cime; / Come groppo diserpenti / Vo’ lanciar nel mondo vecchio /Nuovamente le mie rime” (Congedo).46 • n. 3, settembre-dicembre 2010


post scriptaPer l’Unità d’ItaliaIl 150° Natale della nostra Unità politica è giustificazione sufficienteper dare uno sguardo, a volo d’uccello, alle ragioni per lequali gli Italiani si sentano così poco fratelli, sebbene il canto diMameli, divenuto nell’Italia repubblicana Inno Nazionale (provvisorio…),si apra con l’invocazione: “Fratelli d’Italia”.Prima, però, vorrei rintracciare concetti come quelli di “nazione”e di “patria”, che sono fondamentali nella mistica di ognirisorgimento. Con la fine dell’era napoleonica e con la restaurazionedecretata a Vienna, l’idea di ottenere una Costituzione edi liberarsi da prìncipi stranieri fomentò moti insurrezionali nel1821, soprattutto in Piemonte e a Napoli. Ebbene, annotava ungrande poeta e pensatore, Giacomo Leopardi, nel suo Zibaldonedi pensieri il 7 novembre 1821: “l’Italia … non è neppure unanazione, né una patria”. Ed egli riteneva che emblema di unanazione fosse una civiltà, “un temperamento della natura collaragione, dove quella cioè la natura abbia la maggior parte” (7giugno 1820), ravvisando così in essa il fulcro dei caratteri identitari.“E in genere – precisava – si può dire che la tendenza dellospirito moderno è di ridurre tutto il mondo una nazione, e tuttele nazioni una sola persona”. Tanto che “[u]na volta le nazionicercavano di superar le altre, ora cercano di somigliarle, e nonsono mai così superbe come quando credono di esserci riuscite”(3 luglio 1820). La globalizzazione, apportatrice di benessere,anche se non per tutti, certamente sfuma le identità e omologa icomportamenti. Quanto alla patria, seguendo Sallustio che nellascala dei valori pone dapprima le ricchezze, quindi, in ordineascendente, l’onore, la gloria, la libertà e finalmente la patria,Leopardi annota con pessimistica tristezza che volendo usarela figura retorica della gradazione “si disporrebbero le parole alrovescio: prima la patria, che nessuno ha, ed è un puro nome”.Mentre per “le ricchezze […] onore, gloria, libertà, patria e Dio,tutto si sacrifica e s’ha per nulla” (4 febbraio 1821).Non essendo questa la sede per approfondimenti storici nonricercherò altri filoni di pensiero, ma mi limiterò a richiamareperché il Risorgimento e l’Unità politica siano ancora così controversi.A mio avviso, nessun Paese, nessuna Nazione, nessunaCiviltà, come nessuna Religione può vivere e svilupparsi senzamiti; solo questi ultimi sono in grado di creare un’identità,talvolta fantastica e non necessariamente storicamente fondata,nella quale le genti si riconoscono e alla quale contribuiscono learti, la letteratura, oggi la comunicazione con i suoi multiformicanali. E il mito, fabbrica di eroi, si rigenera sempre nel rito.Ebbene, lo spirito critico e beffardo, spesso anarchico, degli italiani– ancor pregni dell’oraziano acetum italicum – tende a sfatareil mito, a ridimensionare gli eroi, a interpretare il rito comeinutile cerimonia. Sono decine e decine le pubblicazioni – scriveErnesto Galli della Loggia – che negli ultimi tempi e in misuracrescente all’avvicinarsi del sesquicentenario hanno rivangatoepisodi non proprio commendevoli della lotta per raggiungerel’unità d’Italia, tranciando giudizi sprezzanti, inappellabili suuomini e avvenimenti.La critica al Risorgimento non è di oggi e nacque con l’Unità,poiché quest’ultima, realizzatasi nella direzione monarchicae centralista, suscitò la reazione di quanti si erano battuti perun’Italia repubblicana o l’avevano pensata federale. D’altra parte,tutte le culture politiche del Novecento che si opponevano allatradizione cavourriana e sabauda, dal socialismo al cattolicesimopolitico, dall’azionismo al comunismo gramsciano, hanno letto eriletto criticamente il Risorgimento, senza mai arrivare a metterein dubbio, però, il valore della raggiunta Unità. Ciò è avvenuto acavallo tra il vecchio e il nuovo secolo, riscoprendo e rivalutandola storica divisione tra Nord e Sud. Se il Nord è stato il primo aesprimere propositi secessionisti, temporaneamente sopiti da unlaborioso processo di federalizzazione, oggi non mancano imitatorianche nel Sud e particolarmente in Sicilia, una regione dasempre inquieta sotto questo profilo…È l’allentamento del sentimento unitario una peculiarità delnostro Paese? Ebbene, no. È una pulsione anche più forte in Belgiotra le Fiandre e la Vallonia ed è presente nel Regno Unito traScozia e Inghilterra, in Spagna tra Catalogna e resto del paese.Quali sono le ragioni che spiegano questa tendenza alla frammentazionenell’Europa occidentale? Al di là di fattori idiosincraticiin questa o quella regione, ne vedo tre: a) il lungo periododi pace che ha risvegliato antiche tensioni, sopite nei periodi diguerra per fronteggiare il nemico; b) la liberalizzazione dei commerci,che ha fatto venire meno la coincidenza del mercato conlo stato; c) l’affievolita solidarietà delle regioni ricche, non piùdisposte a sovvenire quelle povere o meno intraprendenti.Dobbiamo rassegnarci a questa deriva verso la frammentazione?Certamente no, anche perché il posto dell’Italia nei vari consessiche tentano di governare questo mondo in continua evoluzionepolitica ed economica è frutto anche della nostra dimensionedemografica e territoriale, che già si sta riducendo precipitosamentein termini relativi con l’emergere di giganti come la Cina, l’Indiao il Brasile… Tuttavia, per evitare quella deriva è necessarioche il patto tra il Nord e il Sud d’Italia venga rifondato. A ciò puòprovvedere solo una forza politica illuminata o almeno consapevoledei dilemmi esistenziali che il nostro Paese deve affrontaree risolvere. Perciò, il mio augurio di cittadino per il 2011 è chequesta palingenesi si produca senza ulteriori, pericolosi ritardi.Viva l’Italia!Mario Sarcinellipanorama per i giovani • 47


Il futuro Dal della Collegio terza etàInaugurazione dell’anno accademico del CollegioIl 24 novembre il Prof. Enrico Decleva, Rettore della Statale di Milanoe Presidente della CRUI, ha inaugurato con la sua prolusione l’annoaccademico 2010/2011 del Collegio “Lamaro Pozzani”.incontriTutti gli incontri del Collegio <strong>Universitario</strong>“Lamaro Pozzani” di questo periodo. Permaggiori informazioni:www.collegiocavalieri.it04.10.10. La riforma dell’UniversitàA colloquio con il Prof. Gian Luigi Tosato,Presidente della Commissione per leAttività di formazione dei Cavalieri delLavoro.La cerimonia del 24 novembre è stataaperta dal Presidente della FederazioneNazionale dei Cavalieri del Lavoro BenitoBenedini, che ha rivolto il suo saluto aipartecipanti all’evento e ha poi illustratole principali attività del Collegio, i criteridi selezione e le ragioni che hanno ispiratola scelta dei Cavalieri del Lavoro diinvestire nella formazione di eccellenza.Il prof. Gian Luigi Tosato, Presidentedella Commissione per le attività diformazione della Federazione, ha quindimesso in luce come il nostro Collegio sicaratterizzi per l’attenzione ai valori chesono alla base della cultura d’impresa. Ilprof. Tosato ha sottolineato anche l’importanzadei programmi di collaborazionecon università e altre istituzioni internazionali,che è intenzione della Federazionepotenziare nei prossimi anni: la sceltadi molti dei nostri giovani di trascorrerealmeno un periodo all’estero non va intesadi per sé come un fatto negativo, a condizioneche l’Italia sappia dimostrare asua volta una capacità di “attrazione” deigiovani più meritevoli degli altri paesi.La prolusione è stata tenuta dal professorEnrico Decleva, Presidente della CRUI(Conferenza dei Rettori delle UniversitàItaliane) e Rettore dell’Università degliStudi di Milano. Dopo aver analizzato lemotivazioni di base del decreto Gelmini, ilprof. Decleva ha centrato il suo interventosul percorso storico dell’università italia-Il Prof. Decleva (Presidente della CRUI),il Presidente della Federazione BenitoBenedini e il Prof. Gian Luigi Tosato(Presidente della Commissione per leAttività di formazione dei Cavalieri delLavoro) consegnano la medaglia d’oro delCollegio a Salvatore Scalzo, uno dei nuovilaureati.na, dal decennio che ha seguito l’Unificazionead oggi, individuando alcuni puntidi svolta cruciali nella definizione dell’attualesistema. In particolare, ha evidenziatocome l’abuso dell’autonomia concessaai singoli atenei e lo spreco di risorse(proliferazione di sedi distaccate e corsidi laurea) abbiano minato una struttura dibase sostanzialmente sana e produttiva. Aproposito dell’internazionalizzazione, ilPresidente della CRUI ha rimarcato comeproprio il fatto che giovani laureati italianidecidano di mettere il loro patrimonio diconoscenze e capacità al servizio di un altropaese dimostri che la nostra universitàè ancora in grado di formare personale altamentequalificato, pur non riuscendo poia offrire opportunità paragonabili a quelledegli altri paesi. Il pensiero finale è statoancora per la riforma: un testo certamenteperfettibile, ma senza il quale l’universitàitaliana si troverebbe a dover affrontareproblemi ancora maggiori.La cerimonia si è conclusa con la tradizionaleconsegna delle medaglie d’oroai laureati del Collegio e con la presentazionedelle matricole.14.10.10. Ambiente e cervelloIl prof. Lamberto Maffei, Presidentedell’Accademia dei Lincei, spiega comel’ambiente influenza la struttura cerebrale.18.10.10. Morire per le ideeRoberto Carnero, laureato del Collegio,racconta Pier Paolo Pasolini.04.11.10. Procter&GambleAlcuni laureati del Collegio e la dottoressaCinzia Angeli incontrano gli studenti,descrivendo attività e struttura diun’azienda leader.05.11.10. Visita a MontecitorioGiacomo Lasorella, laureato del Collegioe capo del servizio Assemblea dellaCamera, accompagna le matricole in visitaa Montecitorio.11.11.10. La crisi economicaAlberto Quadrio Curzio, Vicepresidentedell’Accademia dei Lincei, spiegale dinamiche della crisi economicainternazionale.15.11.10. Immigrazione (1)Incontro con Padre Giulio Cipollone(Pontificia Università Gregoriana),dedicato al tema dell’immigrazione.15.11.10. Impresa e culturaIl Cavaliere del Lavoro Paola Santarelliracconta la sua esperienza imprenditorialee l’impegno per la cultura. Il dott. PaoloVitellozzi ha chiuso con una lezione sullaglittica (cioè l’incisione di pietre dure) nelmondo antico.22.11.10. Immigrazione (2)Notevole risorsa o aumento di costi? Unincontro con l’On. Isabella Bertolini.02.12.10. Immigrazione (3)Continua il ciclo di incontri sull’immigrazionecon Qorbanali Esmaeli, Presidentedell’Associazione culturale Afghani in Italia.06.12.10. Pro e contro del nucleareEnergia e sostenibilità nell’incontro conBruno D’Onghia, Presidente di Edf Italia.14.12.10. Ricerca e innovazione nelsistema pubblicoIncontro con due laureati: Paolo Occhialini(Coordinatore delle attività del Distrettotecnologico delle Bioscienze nel Lazio) eSergio Talamo (giornalista professionista).48 • n. 3, settembre-dicembre 2010


www.cavalieridellavoro.itNotizie e informazioni aggiornate settimanalmenteI CavalieriUn archivio con l’elenco di tutti i Cavalieri del Lavoronominati dal 1901 a oggi e più di 550 schede biografichecostantemente aggiornateLa FederazioneChe cos’è la Federazione Nazionale dei Cavalieri delLavoro, la composizione degli organi, lo statuto e leschede di tutti i presidentiI GruppiLe pagine dei Gruppi regionali, con news, eventi e tuttele informazioni più richiesteLe attivitàGli obiettivi della Federazione, la tutela dell’ordine, ipremi per gli studenti e i convegniIl CollegioIl Collegio <strong>Universitario</strong> “Lamaro-Pozzani” di Roma e inostri studenti di eccellenzaLe pubblicazioniI volumi e le collane pubblicati dalla Federazione, larivista “Panorama per i Giovani” e tutti gli indici di“Civiltà del Lavoro”L’onorificenzaLa nascita e l’evoluzione dell’Ordine al Merito del Lavoro,le leggi e le procedure di selezioneLa StoriaTutte le informazioni su più di cento anni di storia...e inoltre news e gallerie fotografiche sulla vita dellaFederazione.


È QUANDO TI SENTI PICCOLO CHE SAI DI ESSERE DIVENTATO GRANDE.A volte gli uomini riescono a creare qualcosa più grande di loro. Qualcosa che prima non c’era. È questo che noi intendiamo per innovazioneed è in questo che noi crediamo.Una visione che ci ha fatto investire nel cambiamento tecnologico sempre e solo con l’obiettivo di migliorare il valore di ogni nostra singolaproduzione.È questo pensiero che ci ha fatto acquistare per primi in Italia impianti come la rotativa Heidelberg M600 B24. O che oggi, per primi in Europa,ci ha fatto introdurre 2 rotative da 32 pagine Roto-Offset Komori, 64 pagine-versione duplex, così da poter soddisfare ancora più puntualmenteogni necessità di stampa di bassa, media e alta tiratura.Se crediamo nell’importanza dell’innovazione, infatti, è perché pensiamo che non ci siano piccole cose di poca importanza.L’etichetta di una lattina di pomodori pelati, quella di un cibo per gatti o quella di un’acqua minerale, un catalogo o un quotidiano, un magazineo un volantone con le offerte della settimana del supermercato, tutto va pensato in grande.È come conseguenza di questa visione che i nostri prodotti sono arrivati in 10 paesi nel mondo, che il livello di fidelizzazione dei nostri clientiè al 90% o che il nostro fatturato si è triplicato.Perché la grandezza è qualcosa che si crea guardando verso l’alto. Mai dall’alto in basso.

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